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Autore Discussione: Lo scalone e il teatrino  (Letto 3381 volte)
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« inserito:: Luglio 20, 2007, 09:46:41 pm »

Lo scalone e il teatrino
Nicola Cacace


Non si conosce ancora la conclusione del “teatrino” delle pensioni. Si sa solo che la conclusione della trattativa è vicina. Che c’è accordo per sostituire lo scalone Maroni, 60 anni di età e 35 di contributi nel 2008 con uno scalino di 58 anni e 35 di contributi e che dal 2010 entreranno in funzione le “quote” a salire negli anni, quota 95, pari a 59 anni di età e 36 di contributi o quota 96 pari a 60 anni di età e 36 di contributi o 59 anni e 37 di contributi.

Quello che si può dire con certezza è che tutta la vertenza è stata connotata da un numero elevato di dati inventati.

Ma anche da una scarsa trasparenza sui costi reali e da una marea di suggerimenti da parte di media e politici con pochi riferimenti alla realtà. A cominciare dalla polemica sulle diverse età di pensionamento di donne ed uomini che, riferendosi alle pensioni di vecchiaia (65 per gli uomini e 60 per le donne) e non di anzianità, hanno scarsa o nessuna pertinenza con l’argomento oggetto dello scalone, le pensioni di anzianità.

Un altro tema mal trattato da media, da politici ed economisti ignoranti è quello dei costi, quanto pesano sul Pil le pensioni e a che anno vanno mediamente in pensione gli italiani rispetto ai loro colleghi europei.

Nel 2007 entreranno nelle casse dell’Inps 128 miliardi di euro da contributi e 73 miliardi di euro da trasferimenti dello Stato per oneri non previdenziali, oneri che lo Stato dovrebbe gestire a parte ma che dal 1988 ha chiesto all’Inps di gestire con una cassa separata, la Gias, gestione interventi assistenziali. Trattasi di interventi assistenziali per mantenimento del salario (2,5 mld), assegni a invalidi civili (13,5 mld), sgravi oneri sociali (12,7 mld), etc. Poiché almeno la metà di questi 73 mld sono meramente assistenziali, quando si obietta che l’Italia col 15% del Pil ha la più alta spesa pensionistica d’Europa, la risposta corretta è che «la nostra spesa meramente pensionistica è sulla media europea del 13%, 14%». La quota assistenziale attiene a oneri sacrosanti che uno Stato civile deve sopportare, come fa lo Stato italiano, ma senza accusare ogni giorno «l’esosità del sistema pensionistico». Complicando una vertenza già difficile in sé.

Non è vero che le pensioni italiane siano più alte e/o godute in età anticipata rispetto ad altri Paesi. L’età in cui l’italiano va in pensione è solo di qualche mese inferiore alla media europea e la spesa meramente previdenziale italiana non è diversa dalla media europea del 13,5% del Pil. Questo non significa ignorare la componente demografica negativa, un paese che invecchia, la scandalosa abitudine passata delle “pensioni baby”, ormai cancellate dalla riforme Amato e Dini e l’esigenza di spingere gli italiani tutti a lavorare più a lungo e di procrastinare l’età del pensionamento. Ma per lavorare più a lungo bisogna essere d’accordo almeno in due, padrone e dipendente. Nessuno ha esaminato quel che è successo negli ultimi dieci anni di andamento record dell’occupazione. Tre milioni di occupati in più, grazie alle leggi Treu e Biagi sulla flessibilità, hanno aperto un problema gravissimo dei cinquantenni licenziati per essere sostituiti da due giovani che in totale costano meno del cinquantenne licenziato.

Tutti, Confindustria in testa, chiedono a gran voce l’aumento dell’età pensionabile per uomini e soprattutto donne, nessuno invece si è posto il problema di come impedire che le nuove “flessibilità” contrattuali non mettano in condizione di “svantaggio competitivo” un numero crescente di padri di famiglia.

E per finire con le donne. Tutti, media e politici disinformati, chiedono perché, vivendo cinque anni più degli uomini le donne debbano andare in pensione di vecchiaia cinque anni prima. Nessuno si è chiesto perché l’Italia sia l’unico Paese industriale dove la spesa sociale inesistente sia interamente sostenuta al 90% dalle donne che, caricandosi tutta l’attività di cura ad anziani e minori (asili nido disponibili per il 25% delle famiglie) lo fanno per lo Stato e a nostro nome. Il resto alla prossima puntata, quando si conoscerà la fine del teatrino.

Pubblicato il: 20.07.07
Modificato il: 20.07.07 alle ore 7.55   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 22, 2007, 10:45:01 pm »

Il dubbio degli operai: «Ma paghiamo noi...?»
Giampiero Rossi


«Giovedì sera sono andato a dormire con la speranza che l’accordo sulle pensioni fosse non peggio di quello che ormai tutti ci aspettavamo. Ma devo dire che venerdì mattina, man mano che mettevo insieme i pezzi dell’intesa firmata mi è cresciuta dentro la delusione: ho scoperto che per me non cambia niente rispetto allo scalone di Maroni...». Elmo Bazzana è uno di quei lavoratori rimasti intrappolati nel primo scalino introdotto dalla riforma presentata dal governo di centrosinistra ai sindacati. Lui ha 55 anni, lavora da una vita nel settore tessile, alle Manifatture Legnano, dove ha accumulato 35 anni di contributi Inps. Sperava che dalla notte tra giovedì e venerdì uscisse una soluzione che offrisse tutti quelli nella sua situazione la possibilità di lasciare la fabbrica con 57 anni di età e 37 di contributi, «ci credevo sul serio - giura - così come credevo davvero nel centrosinistra al governo come alternativa assoluta agli anni di Berlusconi». E ora, insieme alle parole e ai numeri che da giorni ripete in mille capannelli di colleghi, mastica una certa, insopprimibile delusione, composta ma evidente.

Bazzana, infatti, è uno di quelli che nessuno giuslavorista, sociologo o imprenditore confindustriale potrà mai etichettare come «fannullone». Siamo in Valcamonica, terra di lavoro, dove le valli prealpine sono tutt’uno con gli insediamenti storici dell’industria bresciana. Per intenderci: quassù il “modello cinese” delle 10 ore di lavoro è stato di routine molto prima che Den Xiao Ping dicesse che «arricchirsi è glorioso». Insomma, non è gente incline al lamento o all’ozio, quella che oggi fa i conti con le tabelle uscite da Palazzo Chigi e controfirmate dai sindacati. Il giudizio complessivo non è un mistero: il risultato della lunga ed estenuante trattativa non solo non esalta ma addirittura amareggia molti lavoratori. E non si tratta esclusivamente di quelli in dirittura d’arrivo che vedono il traguardo spostato un po’ più in là.

«A me lo scalone non piaceva affatto, sebbene non mi riguardava direttamente - spiega per esempio Filippo Gasparini, 47 anni, dipendente del gruppo Mk di Ceto, anche lui lavoratore del tessile - però adesso non vorrei che questa riforma facesse pagare il conto a quelli della mia generazione». A preoccupare Gasparini sono i coefficienti: «Hanno deciso di rinviare la discussione su questo punto - dice nel suo accento delle valli prealpine - ma intanto quelli come me continuano a non sapere se quando avranno raggiunto i quarant’anni di contributi la loro pensione sarà sufficiente per vivere o no. Io capisco che a quel tavolo, giovedì sera, il governo aveva il problema di accontentare le richieste di tutti e credo anche che questa riforma migliori le condizioni rispetto a quello che aveva lasciato il centrodestra, però mi chiedo se il governo e il centrosinistra si siano ricordati anche dei propri elettori...».

È il punto politico che ricorre: il patto elettorale è stato rispettato o no? E il pensiero ritorna a quel giorno d’inverno in cui i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil ritornarono a Mirafiori, dopo 26 anni in cui ciò non avveniva, per illustrare la legge finanziaria ai lavoratori della Fiat. Un appuntamento che è passato dalla cronaca alla “storia” per «i fischi» e le «contestazioni» subite da Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Ma chi c’era poteva percepire chiaramente che mentre i fischi provenivano da una piccola parte, organizzata, dei lavoratori aderenti a sindacati autonomi e di destra, era tra i lavoratori più silenziosi, che si poteva cogliere i veri motivi del malumore operaio: «Purché non ci tocchino le pensioni», era la frase più ricorrente. E quel pensiero è rimasto alla radice di tutte le caute aperture di credito concesse al governo Prodi in questi mesi. Adesso che le carte sulla previdenza sono scoperte qualcuno di loro rompe gli indugi si lascia andare: Mario Ducoli, per esempio, metalmeccanico quarantasettenne di Breno, sempre in provincia di Brescia, che dice di aver «seguito i Democratici di sinistra soltanto fino alla scelta di dare vita al Partito». Lui fa i tre turni, quindi dovrebbe rientrare nella Tabella dei lavori usuranti, ma questo non è sufficiente a placare le sue forti perplessità: «La mia generazione rischia di pagare due volte - dice - per i padri da mandare in pensione perché è giusto e per i figli che iniziano oggi a lavorare tra i mille ostacoli della precarietà. Mi aspettavo di poter andare in pensione con 35 anni di contributi, e invece adesso sono diventati 40, ora voglio capire meglio come sarà il meccanismo applicato per riconoscere i lavoratori usuranti, e spero che venga scelto uno strumento come quello adottato per i lavoratori esposti all’amianto». Ma anche il sistema delle cosiddette “finestre” di uscita non piace: «Dopo i 40 anni di contributi che senso hanno?», si chiede tra l’approvazione in dialetto di altri lavoratori, Ezio Muratori, 42 anni, dipendente della Rivas Nautica di Sarnico, sul lago d’Iseo. «Non siamo incoscienti - aggiunge - sappiamo che i conti della previdenza devono essere in equilibrio, però davvero fa un po’ rabbia sentirsi dire quando dobbiamo smettere di lavorare da gente che con una legislatura e mezza si sistema per la vita...».

Anche Eusebio Paganelli, 39 anni, lavoratore del tubificio Tenaris-Dalmine di Costa Volpino ha qualche lamentela, da elettore di centrosinistra, da indirizzare alla politica: «Il governo è riuscito a scontentare un po’ tutti quelli di sinistra come me, togliendoci anche la soddisfazione di scaricare tutta la nostra rabbia degli anni futuri su Maroni - dice - ormai vedo che ognuno in fabbrica ragiona per conto suo, si fa i suoi conti, questo sta accadendo. Io non ci penso alla pensione, ovviamente, ma a proposito di lavori usuranti, se andiamo a vedere l’aspettativa di vita dei metalmeccanici non è che sia questa meraviglia persino nelle statistiche. ma più di tutto - conclude con amarezza - mi “ruga” che si sia persa l’occasione per una seria lotta all’evasione, perché da lì sarebbero saltati fuori i soldi per mandare tutti in pensione con 35 anni». Ma c’è anche chi dice apertamente di non essere «affatto deluso» da questo «passaggio obbligato». È Angelo Rinaldi, che con i suoi 52 anni avrebbe motivo di fare i suoi quattro conti sulla fine del suo lavoro alla Gefrar di Provaglio d’Iseo: «Penso che si tratti di un intervento che andava fatto e che comunque migliora quanto aveva lasciato Maroni - commenta - non so se con questa riforma ci rimetto o meno, ora per me il traguardo è il 2010 a seconda della finestra che avrò. Mi consola l'idea che magari così ci guadagna un giovane lavoratore, ma credo che tutti noi dobbiamo smettere di ragionare come facevamo fino a cinque anni fa».

Pubblicato il: 22.07.07
Modificato il: 22.07.07 alle ore 17.38   
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