LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 08:00:58 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Marco Simoni. Una laurea nel buio  (Letto 3034 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Ottobre 18, 2008, 11:40:56 am »

Una laurea nel buio

Marco Simoni


Con quale credibilità magnifici rettori e presidi di facoltà protestano contro i tagli del governo? Dopo aver eletto, rapidamente e con una maggioranza schiacciante, Luigi Frati come proprio rettore, con quale onestà intellettuale i presidi della Sapienza sostengono che è il centrodestra ad uccidere l’università, addirittura convocando gli studenti per mobilitarli contro il governo come è accaduto ieri nella facoltà di Ingegneria?

Mi sono laureato in Scienze Politiche all’università di Roma nel 2000, la mia storia è talmente tipica della mia generazione da risultare banale.

In qualche misura, posso testimoniare direttamente di quanto fossero efficaci i corsi di base a cui ero stato esposto. Tra mille inevitabili difetti, la mia preparazione non invidiava nulla a quella dei miei colleghi che venivano da Stanford o Oxford e che seguivano il mio stesso corso di dottorato a Londra. Questa consapevolezza, tuttavia, non fa che acuire il senso di sorda rabbia che prova, come me, ogni accademico italiano all’estero davanti alla decadenza che, nella sostanziale indifferenza sociale, colpisce l’università del nostro Paese. Fuori dai confini e nelle aule universitarie siamo centinaia e centinaia, non credo esista una statistica precisa, chi dovrebbe stilarla? Siamo protagonisti, collettivamente, di una delle più serie ed ignorate tragedie nazionali. Noi ne siamo i protagonisti fortunati. La gran parte di accademici italiani all’estero che io conosco sono contenti della propria vita e del proprio lavoro. Oggi con i voli a basso costo e Internet, per chi come me viene da Roma, lavorare a Londra o Palermo è circa la stessa cosa. Si parte, sapendo tuttavia che l’opzione del ritorno non esiste. Sapendo che il patrimonio di cultura che abbiamo ereditato dalla società che ci ha fatto crescere, gli anni di scuola e di licei dall’eccellenza inimmaginabile in altri Paesi, saranno ora a disposizione di un’altra società. Tutto sarebbe diverso se fossimo capaci anche di attrarre studiosi, oltre che di lasciar partire i nostri: saremmo solo parte di un mondo più largo. Invece non viene nessuno in Italia, e la crisi dell’università diventa fatalmente una delle cause più profonde e importanti della ormai lunga e pronunciata crisi economica, sociale, culturale, del nostro Paese.

Un meritorio libro che Roberto Perotti ha scritto per Einaudi, «L’università truccata», racconta tutti i dettagli di questa storia. La sostanza è che gli accademici italiani hanno governato l’università con le regole del peggior feudalesimo meridionale. Esistono eccezioni, naturalmente, esistono isole felici. Ma chi oggi in Italia continua a fare ricerca, con uno stipendio bassissimo, in condizioni di forzato asservimento culturale nei confronti del proprio barone, un atteggiamento nei confronti della ricerca che rappresenta il più esteso accordo bipartisan della storia d’Italia, è da considerarsi un eroe.

Gli studenti, strumentalizzati in questi giorni da baroni di ogni colore politico, saranno ancora una volta coloro che pagheranno il prezzo più alto dei tagli del governo, come accade sistematicamente in Italia da ormai quasi vent’anni: meno risorse e minori opportunità per i più giovani. Ma bisogna anche aver presente, superando l’ignavia bipartisan della classe politica, che questa scure non arriva a colpire un’organizzazione sana, per quanto migliorabile, ma una struttura impermeabile ad ogni riforma profonda, un luogo che ha perso il rispetto e la stima non tanto dei colleghi di altri Paesi, ma dei cittadini che all’università non vanno, che fanno fatica a capire a cosa serva alla società mantenere in cattedra persone con zero pubblicazioni, che non scrivono nulla di significativo, che gestiscono l’università come fosse cosa loro e non un patrimonio di tutti.

Roberto Perotti ha ricordato che Frati è il terzo rettore di seguito ad avere figli nello stesso ateneo. Mentre era preside della facoltà di Medicina, un incarico che ha conservato per 17 anni come se ne fosse, appunto, il padrone, suo figlio è stato chiamato in cattedra nella stessa istituzione. Anche sua moglie, già professoressa di lettere al liceo, ha una cattedra da ordinaria di storia della medicina nella stessa facoltà. Che cosa insegna questa università, il suo corpo docente, ai suoi studenti? Il governo di centrodestra con ogni sua politica punta ad allargare le spaccature della società italiana perchè su queste spaccature costruisce il suo consenso, come dimostrano i sondaggi e gli ultimi dieci anni di politica italiana. Non possiamo certo aspettarci un sostegno alla formazione pubblica, che per sua natura ricuce le spaccature, e rende una società più coesa. Bisogna ricordare tuttavia, e magari su questa consapevolezza costruire una politica di cambiamento, che l’università è stata già umiliata ripetutamente proprio da coloro che avevano il dovere di proteggerne e tutelarne la reputazione, la autorevolezza e la dignità.

Pubblicato il: 17.10.08
Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.35   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Ottobre 18, 2008, 10:14:37 pm »

L’istruzione malata

Benedetto Vertecchi


Qualcosa sta accadendo nel sistema educativo italiano, qualcosa che deve essere interpretato. Già da alcuni mesi si assiste al crescere del disagio di quanti, in un modo o nell’altro, sono interessati al funzionamento delle scuole e delle università. Finora tale disagio è stato riferito a ragioni occasionali, dall’obbligo dei grembiuli al ripristino dei voti decimali, alla riduzione degli organici, al taglio degli orari e via seguitando. Certamente si è trattato di decisioni che hanno suscitato reazioni, e non ci si poteva attendere altro.

Da parte governativa era scontato si affermasse che qualunque intervento incida in profondità su aspetti importanti della vita sociale produce reazioni difensive, e che tali reazioni costituiscono un segnale di atteggiamenti conservatori. Ma si tratta di una obiezione che, per quanto poco convincente, poteva essere mossa ai movimenti di protesta che si sono andati sviluppando nel Paese fin quando il malessere era prioritariamente riferibile a questo o a quel provvedimento, per esempio la riorganizzazione del lavoro nella scuola primaria (ovvero il ritorno al maestro unico) o la soppressione nelle università di quattro su cinque dei posti in organico che si libereranno per pensionamento nei prossimi anni.

Ma quelle alle quali stiamo assistendo non sono espressioni di malessere che si manifestano a livelli determinati del sistema d’istruzione o che investono strati determinati del personale. Si sta precisando una risposta d'insieme che coinvolge in un rifiuto complessivo l’intera politica governativa per la scuola e per l’università. Si direbbe che giorno dopo giorno cresca la consapevolezza della necessità di considerare il sistema d’istruzione nella sua interezza. Non ci sono interventi che investano un livello di tale sistema senza che si producano ripercussioni sugli altri. L’interpretazione del ruolo che si riconosce all’educazione nella società non può che prendere in considerazione ciò che avviene nelle scuole per l’infanzia come in quelle primarie e secondarie e nelle università. Il fatto nuovo è che va diffondendosi proprio questa consapevolezza. Nelle proteste che vanno montando non prevale più la preoccupazione riferibile a questo o a quel provvedimento, ma quella che investe le linee dell’evoluzione (ma sarebbe più esatto dire involuzione) del sistema d’istruzione.

Nessuno afferma che nelle scuole e nelle università tutto proceda nel migliore dei modi. Sarebbe irragionevole affermarlo, se non altro perché l’educazione si modifica con continuità in relazioni alle trasformazioni del contesto in cui opera. Ma un conto è introdurre nel sistema d’istruzione le modifiche che ad una riflessione consapevole, che non può non investire l’insieme del Paese, appaiano opportune, un conto ben diverso è esplorare le soffitte del sistema per trarre dalla polvere soluzioni che rispondono all'unico intento di diminuire l’impegno dello Stato nel settore. Stiamo constatando che la svolta nell’interpretazione del ruolo del sistema d’istruzione avviata con la riforma della Scuola Media del 1962 è stata profondamente interiorizzata negli atteggiamenti collettivi: quella che a gran voce si richiede, dalle scuole dell’infanzia alle università, è la realizzazione del principio dell’uguaglianza delle opportunità educative. Di fronte allo stillicidio di provvedimenti che già negli anni della gestione Moratti aveva diminuito il ruolo della scuola, agitando i simulacri di un’utilità povera di elementi identitari, si sta riaffermando la funzione democratica insostituibile del sistema d’istruzione. Lo Stato è responsabile del funzionamento e della crescita ulteriore del sistema d’istruzione, un bene collettivo che non può essere sacrificato ad altri interessi, politici o economici che siano. Ma per procedere in questa direzione occorre capacità di analisi e di progetto: siamo in entrambi i casi di fronte ad un vuoto sconfortante.

Pubblicato il: 17.10.08
Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.34   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!