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Autore Discussione: E invece della morte per strada bisogna parlarne, Andrea Di Consoli  (Letto 2777 volte)
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« inserito:: Luglio 19, 2007, 07:37:59 pm »

Io medico e quei ragazzi

Giuseppe R. Gristina


E invece della morte per strada bisogna parlarne, Andrea Di Consoli. Bisogna continuare a parlarne perché questo è il nostro tempo, questo ci è toccato in sorte. Tempo fatto, come lei dice (l’Unità di ieri, ndr), di troppe giovani teste vuote ma anche di altre teste ormai anch’esse imbarbarite da un cinismo forse più grave dell'ignoranza diffusa giovanile. Parlo di coloro che a questa interminabile serie di edicole “alla memoria” sorte per la città, orribili e macabre, dovrebbero in qualche modo porre fine.

Come forse saprà, esistono due fasi critiche nella storia di un trauma e specialmente di un trauma della strada.

La prima è la fase dell’impatto, dove i più muoiono per gli esiti devastanti del trauma stesso. Questa fase ha solo un metodo di prevenzione: dissuasione attuata con controlli serrati e punizione vera, dura, esemplare. E dico subito che alle campagne di sensibilizzazione non credo; non funzionano se non c’è una cultura condivisa.

Oggi con questa cultura che porta la gente ad uccidersi per un nonnulla non può esservi condivisione da parte di chi pensa che la vita sia altro da una moto potente.

Qui le domande sono: come si può pensare di prevenire gli incidenti se nel nostro Paese, con un accordo quasi mafioso, per far vendere un numero sempre crescente di auto e moto più potenti si stenta a stabilire un limite di velocità assoluto facendolo poi rispettare? Negli Stati Uniti nessuno vieta di comprare una Ferrari ma nessuno si sogna di superare le 70 miglia orarie (su per giù 120 chilometri all’ora). Ora si dice: è colpa delle strade se la gente muore! Sono vecchie! Ma perché prima, sulla strada, si moriva molto meno? Dov’è il problema a ritirare per sempre una patente o far sborsare sonori quattrini? Spiace dirlo, ma ormai sembra proprio che esista una responsabilità politica e gestionale diretta, riguardo alla devastazione culturale di questo tempo ma anche di queste morti altrettanto ciniche di chi non fa nulla per evitarle.

Poi c’è la seconda fase, quella detta “dell’ora d’oro” dove per questi sventurati qualcosa si può ancora fare: è l’ora successiva al trauma, se non sono morti sul colpo.

Se si fanno bene alcune cose in quell’ora la probabilità di sopravvivere sale di parecchio. Qui entrano in gioco altre responsabilità ed altre domande.

Ancora oggi in questo Paese e in particolare nella nostra regione, non esiste un sistema di centralizzazione di trasporto dei traumatizzati gravi: non è intuitivo il fatto che prima si arriva con un ferito grave in un posto che può garantire il miglior trattamento e meglio è? Perché non si ufficializza una rete di centri per la cura del trauma grave e non si pensa ad un’organizzazione che dal territorio afferisce con le vittime della strada direttamente a questi centri? A Roma, nella nostra città, esistono fior di ospedali con esperienza e mezzi per affrontare questi casi; perché non eleggerne due (non ne servono di più) dedicati a questa funzione? Esistono chiare ed esplicite linee di politica sanitaria regionale in proposito? Ne ho sentito parlare, ma, al dunque, quello che ho visto sono solo gli sforzi di chi cerca di fare al meglio il proprio lavoro in una situazione caotica fatta ancora di fax, telefonate senza riferimenti precisi, interventi inutili nei posti sbagliati, trasporti trafelati in ambulanze con teste fracassate che rimbalzano sulle barelle.

Anch’io, Andrea Di Consoli, odio tutti questi morti sulle strade e dirò di più: odio vederli arrivare in pronto soccorso con la pancia piena di sangue perché si è rotta la milza, le gambe disarticolate come i burattini, cianotici perché il sangue gli ha allagato i polmoni.

Odio vederli così perché rimettere insieme questi pezzi umani costa fatica, paura di sbagliare, sforzo di concentrazione micidiale; in 3 o 4 ore dai tutto quello che avevi programmato per le dodici ore del tuo turno e quando hai finito ti viene la nausea e pensi a quanto tempo lo potrai fare ancora questo lavoro. E poi magari ne arriva un altro.

Però, quando la buriana è passata, e quel ferito ti riparla e i familiari magari ti ringraziano e ti dicono che ti ricorderanno sempre per quello che hai fatto, capisci anche che in questo tempo di violenza, attraverso il dolore fisico, la sofferenza di non sapere per giorni e giorni se il figlio o il fidanzato ce la faranno, questi poveri disgraziati comprendono che la vita non è solo lamiera cromata, muscoli, abbronzatura. Allora, appaiono per quello che sono: poveri disgraziati. E capisci che bisogna aiutarli perché non è tutta colpa loro, che ci sono responsabilità più alte, talmente alte che nessuno le vede più. Allora ti rimbocchi le maniche.

Unità Operativa Shock-Trauma

Dipartimento Emergenza Accettazione

Ospedale S.Camillo-Forlanini, Roma


Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 13.02   
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