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Autore Discussione: Giovanni SPADOLINI.  (Letto 4417 volte)
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« inserito:: Ottobre 15, 2008, 05:55:50 pm »

Dizionario della politica  
 
Giovanni Spadolini e la parabola del cattolicesimo politico

Colloquio con Cosimo Ceccuti
a cura di Luca Menichetti e Vittorio V. Alberti


Il nuovo approccio storiografico, l’Opposizione cattolica, la democrazia cristiana di Romolo Murri, la questione romana, il patto Gentiloni, il clero e il laicato, l’Opera dei congressi, la concezione della laicità, il laico Sturzo e l’appello ai liberi e forti del 1919, i cattolici durante il fascismo, la Democrazia Cristiana di De Gasperi e l’incontro dei cattolici con lo Stato nazionale, gli storici steccati. Il giudizio su Amintore Fanfani e Aldo Moro.
 
Cosimo Ceccuti è professore di Storia del Risorgimento e Storia del giornalismo presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze.
Per volontà testamentaria di Giovanni Spadolini, Ceccuti è coordinatore culturale e attualmente presidente della Fondazione Spadolini - Nuova Antologia, e direttore della rivista «Nuova Antologia» diretta dallo stesso Spadolini per quarant’anni. Il 12 dicembre 1986, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, lo ha insignito, per meriti culturali, del titolo di Commendatore della Repubblica.

É autore di numerose pubblicazioni tra le quali: Il Concilio Vaticano I nella stampa italiana (1970), Un editore del Risorgimento: Felice le Monnier (1974), Il Risorgimento italiano (1977), Carteggio D’Annunzio-Ojetti (1979), Piero Fossi la lotta per la libertà (1980), Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1921-1925) (1983), La casa editrice Le Monnier dal Risorgimento alla Repubblica (1837-1987) (1987). Curatore dell’introduzione ai discorsi parlamentari di Ferruccio Parri (1990), Giovanni Conti (1991), Pasquale Villari (1992) e di Giuseppe Paratore (1994), editi dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, e di Giovanni Spadolini (2003). Nel 1992 Ceccuti pubblica una biografia di Spadolini e, nel 1996, una biografia di Girolamo Savonarola.
Nel volume Storia della civiltà toscana, L’Ottocento, a cura di L. Lotti, Firenze, 1999, ha pubblicato il saggio Dalla Restaurazione alla fine del Granducato. Ha inoltre curato l’edizione delle opere postume di Giovanni Spadolini, tra le quali i quattro volumi della Bibliografia degli scritti.

Professor Ceccuti, qual è l’importanza del celebre volume di Giovanni Spadolini L’Opposizione cattolica da Porta Pia al ’98 (Le Monnier) per comprendere la vicenda del cattolicesimo italiano dopo l’unità d’Italia?

Il libro uscì nel 1954, quando Spadolini aveva 29 anni ma si era già imposto all’attenzione del pubblico con Il Papato socialista (1950). Rispetto ai suoi lavori precedenti questo volume si caratterizzava per un maggiore ricorso alle fonti, in primo luogo quelle di tutta la pubblicistica cattolica dall’unità d’Italia alla fine del secolo scorso, mai utilizzata prima di allora in modo così sistematico ed innovativo. Attraverso gli Atti e documenti ufficiali dell’Opera dei Congressi, punto d’incontro e comitato promotore per l’attività dei cattolici intransigenti nella seconda metà dell’Ottocento, Spadolini analizzò tutto quel composito e dimenticato periodo dall’ “interno” ricostruendo le posizioni dei cattolici ultras e dei cattolici conciliatoristi, l’atteggiamento del clero e quello del laicato, le direttive del papato, il giornalismo e le prime organizzazioni giovanili. Un angolo visuale assolutamente indipendente dalle influenze o dai condizionamenti della storiografia tradizionale: tutto il filone crociano e post-crociano aveva sempre relegato in un angolo la  storia dei cattolici politici, e quasi ignorato quella  dell’intransigentismo.

La presenza della D.C. al potere non fece perdere a Spadolini la visione di un retroterra del mondo cattolico italiano diverso da quello che appariva nella visione di maniera di una certa storiografia accomodante; la ricerca dell’Italia del dissenso dopo quella del troppo facile e smaccato consenso, l’individuazione  dei filoni di protesta e di negazione della soluzione  borghese-liberale quale si era espressa nel sapiente compromesso diplomatico di Cavour. E gli interrogativi suscitati da quel libro tornarono nei dibattiti scientifici, si chiarirono e approfondirono nelle successive indagini degli altri studiosi, si precisarono al vaglio di un nuovo filone di studi.

L’eco suscitata dal volume fu, come già accennato, grandissima. Contribuivano molto in tal senso il titolo e la copertina, raffigurante Don Davide Albertario (coinvolto nei moti milanesi del 1898) in manette fra i Regi Carabinieri, sullo sfondo delle campagne di Filighera. Un libraio di Napoli, in occasione del Congresso nazionale della Democrazia Cristiana tenutosi nella città partenopea a fine giugno 1954, allestì un’intera vetrina con quella provocatoria copertina.

Quale era il giudizio di Spadolini sulla democrazia cristiana di Romolo Murri ?

Per Spadolini Murri era l’uomo che in qualche modo chiuse l’opposizione cattolica, cioè la separazione, la scissione dei cattolici dallo Stato unitario, ed era l’uomo che attraverso quella parola magica, fascinatrice, «democrazia cristiana», aveva rotto le suggestioni legittimiste, teocratiche, reazionarie, che dominavano larga parte del laicato cattolico fino alla fine del secolo.

Fu il fermento critico di una storia vivente, con pochissime forze. In questo c’era l’origine risorgimentale, perché Murri agiva esattamente come i mazziniani avevano agito 70 anni prima, con pochi seguaci ma dispersi un po’ in tutta Italia, rappresentativi di una realtà, quella dei cattolici democratici o moderni, in parte modernisti, che affiorava nei punti più diversi quasi come un sottomarino, di cui certe punte denunciano la navigazione. Per Spadolini Murri fu il “sottomarino” del movimento cattolico democratico, che agì in mezzo a mille difficoltà, di ogni genere, negli anni tra il 1896 e il 1904: incorse poi nella sospensione a divinis, più per un complesso di incomprensioni che di volontà.

Quale interpretazione ha dato Spadolini dell’evoluzione politica dei cattolici nella vita nazionale, in particolare negli anni della “questione romana” e del Patto Gentiloni ?

Giolitti, rispettoso della libertà di coscienza, non ammetteva “mezzadrie” fra Chiesa e Stato in tutto ciò che toccasse la sfera della vita civile: fedele a quel liberalismo che aveva radici e origini cavouriane, che si identificava con un “abito mentale” del vecchio Piemonte. Di conciliazione non si parlò più in quegli anni. Sembrò anzi che il liberalismo italiano considerasse la posizione fatta alla Chiesa in Roma come il non plus ultra della perfezione giuridica, in quanto contemperava tutte le libertà della Curia col margine di sicurezza dello Stato, senza impegnarsi in nessuna di quelle formule aprioristiche, dottrinarie e teologiche che ostacolano il libero movimento della storia.

Da parte vaticana, riconfermando la sua opposizione incondizionata alle Guarentigie, Pio X, succeduto a Leone XIII nel 1903, riaffermò solennemente la sua condizione di “schiavitù” nella Roma italiana, che aveva usurpato “contro ogni diritto il suo principato civile”, e quando a Roma fu innalzato il monumento a Vittorio Emanuele II il mite Pontefice dichiarò quel giorno “grave lutto per la Chiesa”.

Rotti ormai i ponti con la diplomazia europea, spente le speranze di uno sfruttamento internazionale della questione romana, Pio X si preoccupò di salvare le ragioni profonde dell'unità cattolica rivendicando l'integrità del proprio messaggio. In Italia come in Francia confusioni di sfere fra clero e laicato non furono consentite; liquidati i fasci democratici cristiani di Murri, sciolta l'Opera dei Congressi lacerata dal contrasto fra giovani e anziani, il cattolicesimo laico venne riorganizzato su nuove basi, con l'enciclica Il fermo proposito, in stretta dipendenza dall'autorità dei vescovi. Nacquero così le “Unioni”, per dirigere rispettivamente l'attività sul terreno sociale (Unione popolare), economico ed elettorale.

Sarà il presidente della Unione elettorale, Ottorino Gentiloni, a impartire le direttive alle sezioni locali, nel 1909 e nel 1913, diramando i famosi punti da sottoporre all'impegno dei candidati liberali in cambio del voto dei cattolici. Il prezzo e le modalità del loro appoggio ai candidati liberali, verranno mano a mano precisandosi nelle istruzioni dettate all'elettorato cattolico nel 1909 e nel 1913, in occasione del patto Gentiloni. Le sue conseguenze saranno profonde e durature; si sovrapporranno e si intrecceranno con quelle ancora più grandi del Primo Conflitto Mondiale, con il nuovo atteggiamento assunto dalla Santa Sede in quegli anni terribili.

Spadolini riteneva che nell’appello di Luigi Sturzo “ai liberi e forti” del 1919 fosse esaltato e ben definito il tema della laicità come intelaiatura del partito di ispirazione cristiana ?

Direi senz’altro di sì, tanto che Spadolini amava parlare del laico Sturzo. E citava spesso un episodio. Quando, il 19 gennaio 1959, cadde il quarantesimo anniversario del manifesto “ai liberi e ai forti”, Sturzo volle ricordare prima di tutto che egli si era proposto di costituire non un partito cattolico, ma un partito costituzionale nazionale che poteva anche qualificarsi “laico”, se tale aggettivo non fosse servito a indicare un anticlericalismo di fondo; in ogni caso “aconfessionale”, contro quanti si arrogavano il diritto e il compito di rappresentare la Chiesa e le autorità ecclesiastiche.

Professore, quale fu, secondo Spadolini, il ruolo dei cattolici durante il fascismo ?

Spadolini riteneva che i Patti lateranensi avessero posto fine ad un grande problema nazionale e proprio per i loro riflessi positivi sull’opinione pubblica accrebbero il consenso al regime. Negli anni seguenti le convergenze tattiche fra Vaticano e fascismo saranno larghe, le collaborazioni numerose e le sfere della Chiesa e dello Stato finiranno più di una volta per confondersi. Il pericolo per il papato era notevole e la stessa restaurazione religiosa tentata da Pio XI rischiava di essere annullata dall’identificazione della Chiesa con il fascismo.

Non mancarono però i contrasti, come quello sui compiti dell’Azione Cattolica, che il regime voleva limitare alla sola sfera religiosa, senza ricaduta alcuna sul sociale. Gradualmente la Santa Sede e i cattolici italiani riusciranno a sottrarsi alle più stringenti conseguenze politiche della Conciliazione, sfuggendo alla collusione ideologica vera e propria: a metterli in guardia saranno soprattutto l’alleanza con la Germania hitleriana e l’introduzione delle leggi razziali.

Professore, qual era il giudizio complessivo di Spadolini sul partito della Democrazia Cristiana?

Se si parla della Democrazia Cristiana di De Gasperi, direi che fu senz’altro positivo: Spadolini la riteneva un partito di centro, mediatore di tutte le istanze, conciliatore delle più diverse esigenze di classi e di ceti. La D.C. per la stessa eterogeneità dei suoi componenti,  per la varietà dei suoi filoni e delle sue tradizioni, non poteva pretendere un’unanimità di posizioni politiche, economiche e sociali. Considerate queste premesse, l’abilità e i meriti di De Gasperi nel farne un partito di governo, funzionale ed articolato, grazie alla costante ricerca di un punto d’incontro, di un termine d’intesa valido per tutti, furono più che mai lodevoli.

Diverso il giudizio per la DC degli anni seguenti, soprattutto quando taluni – come Fanfani – tentarono di farne un partito-guida, un partito strumento di rottura e di rinnovamento, fuori dei classici schemi di equilibrio parlamentare e politico.

Spadolini disapprovava che l’ispirazione cattolica della DC fosse ostentata in tutte le occasioni, invocata a discriminante, sentita come arma di predestinazione nella sfera della vita pubblica. Gli appariva quanto mai necessaria l’autonomia delle forze politiche di formazione cristiana dalle schiere dell’apostolato laico, la separazione fra il piano della Chiesa e il piano del partito, al fine di evitare quelle involuzioni confessionali che avrebbero danneggiato fra l’altro la Chiesa stessa.

Volendo approfondire la valutazione spadoliniana su De Gasperi ?

Allo statista trentino Spadolini riconosceva in primo luogo il grande merito di aver promosso e attuato l’incontro fra i cattolici e lo Stato nazionale sul terreno politico, sul piano degli ordinamenti democratico-parlamentari, al di fuori di ogni tentazione esclusivistica, di ogni velleità clericale e intollerante. I pur generosi slanci di iniziativa sociale, di riformismo guelfo, agitati dalla “sinistra” dossettiana, non sarebbero bastati a salvaguardare le posizioni dei cattolici in Italia se non fossero stati accompagnati da una ferma e precisa coscienza dei doveri pubblici verso lo Stato democratico-liberale, da un’accettazione cordiale e senza riserve dei dati costitutivi della formazione unitaria.

L’accordo operoso fra D.C. e partiti laici doveva scongiurare una volta per sempre quegli “storici steccati” fra guelfismo e ghibellinismo che avevano caratterizzato tanta parte della storia italiana e che nel nuovo contesto del dopoguerra rischiavano di essere non solo anacronistici ma anche molto dannosi. La mediazione doveva per necessità essere di natura politica, investire lo stesso fondamento istituzionale, l’orientamento democratico parlamentare delle forze cattoliche, quel fondamento che era mancato ai generosi tentavi di Murri e anche di Sturzo.

Per finire, quale considerazione Spadolini aveva di Amintore Fanfani e di Aldo Moro, i due “cavalli di razza” della Democrazia Cristiana ?

Spadolini non disconosceva le doti di Fanfani, grande organizzatore, eccellente ministro tecnico, lavoratore instancabile. Avversava invece la sua visione della politica, che finiva per identificare in sé, nella sua persona, la salvezza del paese e nei suoi avversari gli avversari stessi della democrazia e della nazione. Visione, paragonabile per Spadolini a quella dell’ultimo Crispi, per la quale tutte le formule erano strumentali e secondarie rispetto al fine orgoglioso e perentorio della riconquista del potere; visione che comportava il dissolvimento delle categorie stesse di destra e sinistra di fronte alla spregiudicatezza e alla capacità di manovra.

Spadolini guardava con favore ad un altro centro-sinistra, quello che ravvisava per tanti aspetti nel pensiero e nell’opera di Aldo Moro. Un centro-sinistra condizionato e non incondizionato, sperimentale e non finalistico, lontano da tutti gli utopismi e da tutti i dogmatismi, nei limiti e nei confini classici di una equilibrata coalizione centrista, mediatrice e conciliatrice di forze storicamente differenziate e ideologicamente discordanti. Un centro-sinistra che credeva fermamente nelle riforme sociali ma non nello statalismo, che temeva l’ENEL più come strumento di corruzione politica che non di invadenza economica.

Questa valutazione positiva di Moro, espressa più volte nel corso degli anni Sessanta dalle colonne del Resto del Carlino e del Corriere della Sera, si tradusse poi in una concreta e convita collaborazione politica, sia pure in un altro contesto, quando Spadolini ricoprì (1974-1976) la carica di Ministro per i Beni Culturali, nel governo bicolore DC-PRI.
 
 
da sintesidialettica.it
« Ultima modifica: Agosto 05, 2016, 04:36:31 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 30, 2016, 12:40:10 pm »

Quella sinistra fra radicale e repubblicana

Giovanni Spadolini
Sabato 30 gennaio 2016
“La Voce Repubblicana”, 23-24 settembre 1983

1870-1892.
Il ventennio, e qualcosa di più, affrontato in questo nostro convegno, è fondamentale per la nascita dell’Italia moderna, per i germi destinati poi a svilupparsi negli anni immediatamente successivi, cioè l’ultimo decennio dell’ottocento e l’età giolittiana. Ed è sull’ultimo scorcio di secolo che voglio brevemente richiamare la vostra attenzione, proprio per capire l’importanza estrema dell’indagine su ciò che precede, su ciò che sta immediatamente prima.

È solo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a partire dal 1890, che si definiscono in Italia i partiti politici in senso moderno. Nel 1890 sorge il partito radicale, col battesimo un po’ pomposo, molto classicheggiante e plutarchesco., del “patto di Roma”; nel 1892 si ha a Genova la costituzione ufficiale del partito socialista, che si separa dall’involucro anarchico; nel 1895 si definisce formalmente nel triangolo fra Forlì, Firenze e Milano, il partito repubblicano italiano, che era sì il più antico di tutti, ma che si era espresso dopo Roma capitale attraverso il movimento sindacale, i patti di fratellanza, precedente e quasi condizionante il movimento politico: un po’ come i laburisti inglesi.

Tutto avviene sulla sinistra dello scacchiere politico italiano, anzi per i tempi sull’estrema sinistra. A destra e al centro poco o niente in questa direzione si muove. Per registrare la nascita di un partito liberale organizzato come tale, in Italia, si dovrà attendere il crollo del vecchio sistema liberale, la marcia su Roma, l’avvento del fascismo.

Ecco perché – l’ho ricordato nelle pagine introduttive del volume I radicali dell’ottocento – ecco perché la battaglia per la definizione del partito politico, delle sue regole, dei suoi strumenti d’azione, è tutta una battaglia di sinistra in Italia: o socialista, o repubblicana, o, sempre meno col tempo, radicale.

Radicale. Un termine, una parola quasi scomparsa all’indomani della liberazione dal linguaggio politico corrente: almeno fino all’inizio degli anni cinquanta.

In quel clima, in quella fase della vita politica italiana, torna a circolare la parola “radicale”. È un termine che non è stato presente alla Costituente: sostituito da un partito, la “democrazia del lavoro”, con qualche venatura massonica e lontane ascendenze vetero-radicali, ma perfino timoroso di riprendere l’insegna dei Sacchi e dei Credaro. Quella miniatura di partito radicale, piuttosto erede delle clientele meridionali che non di una vera impostazione politica, si è dissolta intorno al 1948: in qualche zona assorbita dai “fronti popolari”, in qualche altra dai “blocchi” (o presunti tali) liberali. Dei due nuclei storici dell’opposizione allo Stato monarchico, su sponda non marxista, sopravvive solo, nel parlamento successivo al ’48, il vecchio e tenace partito repubblicano.

19 febbraio 1951. Esce allora, in quel clima, sul “Mondo” di Mario Pannunzio, la seconda puntata della mia storia dei Radicali dell’ottocento. “Con, senza, contro Garibaldi”, l’ha intitolata il grande direttore con quella sfumatura di ironia che sempre lievitava nei titoli del settimanale fondato da poco più di un anno. È il tramonto dei massimi miti del partito d’azione di origine mazziniana – l’iniziativa popolare, la Costituente, l’associazionismo – che genera la nascita dei primi gruppi radicali: quasi la “destra” del repubblicanesimo intransigente, chiuso nell’inflessibile non possumus politico.

1951. Probabilmente quello fu il mio primo incontro ideale con Alessandro Galante Garrone. Non ci conoscevamo ancora, nessun convegno storico ci aveva ancora uniti. Ricordo solo in quello stesso anno l’incontro a Siena, in un convegno organizzato dalla stessa Società, (presidente e segretario, con un commovente accento di fedeltà ai valori del primo e del secondo Risorgimento, Eugenio Artom e Sergio Camerani), in quel convegno a Siena, ricordo l’incontro con un uomo cui dovevo legarmi con una stretta, affettuosa amicizia, un uomo che io voglio rievocare in questo convegno, autore di tre fondamentali volumi nella mia collana “quaderni di storia”, personaggio appartenente a quella sinistra gobettiana e democratica anticale che è rimasta sale della nostra storia vivente, Nino Valeri.

Nino Valeri sì, Federico Chabod sì, molti altri amici già in quegli anni ’50-’51 che furono i miei primi del noviziato accademico: ma Galante Garrone, che incontrai più tardi, ma che certamente fu fra i primi a leggere e apprezzare quella storia d’insieme, quello schizzo, quell’affresco di storia del partito radicale, cui egli doveva poi portare il contributo della sua indagine scavata e approfondita, dentro la storia del radicalismo.

La mia amicizia con Alessandro Galante Garrone ha costituito uno dei punti fermi della mia vita di studioso non meno che di uomo politico. Ed ecco perché sono qui a Livorno, a testimoniare a lui e all’amico Della Peruta, come gli altri relatori, un affettuoso ringraziamento per avere accettato il nostro invito. Il tema è temperato dalla prudenza accademica, “Sinistra costituzionale, correnti democratiche e società italiana”; in realtà è la storia della sinistra italiana nel suo filone radicale repubblicano e nella preparazione del filone socialista.

È il rapporto fra socialisti e radicali, repubblicani e socialisti. È una storia che continua ancor oggi in forme diverse, è la storia che animò il nobile tentativo del partito d’azione. Non fatemi finire in politica: questa è stata la costante riflessione della mia vita. Fino alle pagine recenti sul “partito della democrazia”.

Giovanni Spadolini

Da - https://www.facebook.com/notes/giovanni-spadolini/quella-sinistra-fra-radicale-e-repubblicana/969069233184682
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 25, 2016, 11:53:20 pm »

L’ultimo Croce: “L’uomo vive nella verità”

Giovanni Spadolini
Giovedì 25 febbraio 2016

“La Voce Repubblicana”, 4-5 gennaio 1983

Toccò a me, come presidente del Consiglio, insediare il comitato per l’edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce: settantatré volumi da riordinare secondo un criterio unitario ma rispettoso delle varianti, delle correzioni, dei ripensamenti, talvolta delle rielaborazioni dell’autore instancabile, in cui brillava una fede incomparabile nel lavoro come sogno di nobiltà divina, quasi di predestinazione.
Fu una cerimonia semplice e scarna: nessun abbandono alla retorica, quasi il tocco di una seduta di lavoro. Il comitato proveniva da un’udienza del presidente Pertini: in quel Quirinale da cui il maestro di Napoli aveva rifuggito, allorché un compagno di partito dell’attuale capo di Stato, Pietro Nenni, aveva portato la proposta di elezione in sede di direzione socialista (usando, Nenni, forse senza pensarci e in senso positivo, il giudizio su Croce come “papa laico” che invece Gramsci aveva coniato molti anni prima, ma in senso polemico e riduttivo).
Tutti uomini di cultura; nessun politico infiltrato e mascherato. Antichi allievi dell’Istituto di studi storici di Napoli, come Romeo o Galasso; presente allora, come sottosegretario alla presidenza, un crociano di assoluta fede e quasi di fisica insofferenza verso le manifestazioni dell’anticrocianesimo epidermico e ritornante. Francesco Compagna, anch’egli reduce dalle lezioni di palazzo Filomarino nell’immediato dopoguerra. Filologi e critici letterari in quantità per proporre soluzioni, per individuare rimedi, per approfondire analisi o colmare lacune.
Un’edizione nazionale pone infiniti problemi. Il mio intervento, come studioso prima ancora che come presidente del Consiglio, fu breve e ridotto all’essenziale. Croce ha realizzato in vita la sua edizione nazionale. Ha diviso le sue opere secondo uno schema che solo negli ultimi anni ha subito qualche correzione, qualche brivido di ripensamento o di autocritica. Ha anticipato quasi tutti i suoi libri sulla “Critica” e, dopo la “Critica”, sui “Quaderni della critica”; ha raccolto tutti i suoi scritti con metodo certosino, con pazienza esemplare anche le lettere aperte inviate ai giornali. Ha preventivato tutto; ha calcolato tutto. Quasi nel timore che manie esterne si sovrapponessero alla sua inimitabile costruzione intellettuale.
Instancabile artigiano
Col culto dei distinti che lo caratterizzava, e cui improntava l’intera sua concezione del mondo, ha separato nettamente le pagine di storiografica, di storia generale, di storia minore, di filosofia, di estetica, di critica letteraria, di politica. Conviene cambiare poco o nulla nella distribuzione dei suoi studi (recuperando solo qualche scritto giovanile dimenticato, qualche testo lasciato da parte nelle riviste, magari marginale o ereticale). Non solo: ma allontanarsi il meno possibile dai caratteri, dall’impostazione grafica da lui preferita.
Croce aveva l’amore “fisico” per i libri. Collaborava col suo editore, col vecchio Laterza, nella scelta dei caratteri, nella selezione della carta. Non amava i cambiamenti: l’uomo che contribuì a cambiare come pochi le basi intellettuali e spirituali della vita italiana, l’uomo che ispirerà tutti i rinnovatori (anche quelli che dopo la guerra avrebbero voluto “seppellirlo”, coloro – dirà una volta – “che vorrebbero ficcarmi a forza in una bellissima e decorosissima tomba”).
Anche in materia tipografica rifuggiva da tutte le novità, detestava tutti gli esibizionismi. Aveva una specie di pudore della pagina scritta. Lo sorreggeva il fremito della continuità coi grandi classici a cui si era nutrito e alimentato. Non ebbe mai bisogno di illustrazioni nell’opera sua: perché il suo stile di grandissimo prosatore riusciva a rendere chiari tutti i riferimenti anche artistici e architettonici.
Si consentiva, sì, qualche “divagazione”, qualche rapporto – editorialmente parlando – “extraconiugale”: ma sempre in una certa cornice, in un certo ambito ideale, in quella Napoli che comprendeva Morano, legato alla memoria di De Sanctis, quel suo mezzogiorno depresso e derelitto che lo congiungeva idealmente a Giustino Fortunato, quelle pubblicazioni di storia locale, quelle miscellanee introvabili che egli amava come pochi, anche per il senso della rarità, anche per il senso, in lui sconfinatamene vivo, delle piccole patrie (“l’Italia è una pianta dalla molte radici”, avrebbe detto Cattaneo).
Non ispirarsi, per l’edizione nazionale di Croce, ai criteri di grandezza che compenetrarono l’edizione nazionale di D’Annunzio, a suo tempo, dopo tutti i litigi e i bisticci col grande Arnoldo Mondadori. Croce, appunto, come anti-D’Annunzio, Croce come simbolo dell’Italia della ragione. Croce artigiano instancabile, che merita di rivivere in un’edizione nazionale non pomposa, non barocca, neanche troppo costosa (raccomandai di pensare a un’edizione universale per i giovani parallela a quella principale: e non secondo i criteri di arbitraria selettività che hanno caratterizzato certe immissioni di Croce nelle attuali “universali”).
Croce artigiano, come visse, con discrezione, con signorilità, con immenso distacco dalle cariche e dai riconoscimenti, con un’influenza profonda sulla cultura esercitata con la penna, al di fuori, perfino, di un diretto veicolo accademico.
Maestro di vita? Lucio Colletti ha riproposto questo tema in un recentissimo dibattito sull’eredità di Croce trent’anni dopo promosso dalla rivista ideologa del partito socialista, “Mondoperaio”, insieme con Rosario Romeo, con Cesare Leporini, con Augusto Del Noce. “Maestro di vita, conoscitore profondo delle passioni umane, alto moralista. Un uomo il cui incitamento alla serietà del vivere oggi vale più che mai”. Il tutto, da parte di Colletti, dopo una riduzione quasi spietata del peso di Croce nella cultura occidentale: divulgatore della cultura romantica tedesca, filosofo tutto sommato secondario e derivato, storico forse più grande nelle piccole cose che nelle grandi.
Romeo ha respinto la tesi di Croce come maestro di vita, quasi isolato dalla sua opera, quasi svincolato dal suo depositum fidei in senso laico. “Non si può accettare la tesi di Croce maestro di vita e moralista, né sul piano storico né sul piano logico, se si parte da un giudizio su Croce come debole filosofo, storico di scarso valore e critico letterario tutto sommato marginale”.
E Romeo non ha torto. “Come mai un pensatore, in fondo di secondo piano, ha potuto esercitare una funzione di primo piano nelle cultura italiana?”. E i rilievi dello storico sono tutti pertinenti, tutti azzeccati: compreso il rapporto fra Croce e la società italiana.
In quel dibattito si è parlato molto, con un termine orrendo, di “omogeneizzazione della società” operata da questa specie di livellamento culturale crociano. E Romeo ha avuto buon gioco nell’obiettare: “respingerei ogni omogeneizzazione, mi limiterei a parlare della creazione di un ethos pubblico”. Ma “la creazione di un ethos pubblico non è l’accettazione di una teoria filosofica idealistica. È sempre il risultato di un’egemonia culturale”. Romeo accetta il termine che era caro a Gramsci, riconosce che l’egemonia c’è stata, che si è proiettata nel lungo dialogo filosofico fra Croce e Gentile, che si è estesa nella lotta a tutte le forme di provincialismo italiano, che ha naturalmente comportato pedaggi pesanti, come la sottovalutazione della scienza, comune del resto a tutte le scuole filosofiche del primo ventennio del secolo, o come la subordinazione e talvolta il disconoscimento delle scienze sociali rispetto alle scienze umane.
È un’egemonia, quella del crocianesimo, che ha consentito all’Italia di avanzare nel livello di studi e nel respiro sociale nonostante il “fermo” imposto dal fascismo, e di prepararsi al traguardo del dopoguerra attraverso quel grande retroterra culturale che compenetrò in misura diversa tutte le forze democratiche all’indomani della liberazione.
Questo trentennale della morte di Croce ha permesso di fissare il grande debito che hanno verso Croce soprattutto tutti i non crociani, tutti coloro che ne respingono la dottrina, tutte le correnti che hanno più forte il senso messianico o fideistico della storia. Un giorno si affronterà pure il tema di quanto Croce abbia pesato nell’evoluzione politica dei cattolici democratici e di quale influenza abbia esercitato nella crisi ideologica, in atto, del comunismo (sì, del comunismo: proprio Croce che proveniva dalle simpatie verso Antonio Labriola e dalla sottoscrizione alle vittime socialiste del 1898!).
Ma soprattutto il trentennale della morte, ci ha permesso di ricordare quel Croce mosso, problematico, insoddisfatto o inquieto, quel Croce che noi conoscemmo nelle stanze di redazione del “Mondo” di Mario Pannunzio, l’ultimo Croce. Il filosofo per il quale il progresso rappresentava “il soffrire più in alto”, il pensatore che non si appagava più delle certezze dell’epoca liberale, ma contrapponeva a tutti i fanatici delle intolleranze manichee, abbastanza numerosi negli anni ’49-’50, l’uomo del dubbio e del tormento, il solo che “vive nella realtà”.
Una filosofia laica della vita
“Non andate in cerca della verità”: così suonavano le ultime parole della prima conversazione all’Istituto storico di Napoli pubblicata il 12 marzo 1949 sul “Mondo”: “non andate in cerca né del bene, né del bello, né della gioia, in qualcosa che sia lontano da voi, distaccato e inconseguibile, in effetti inesistente, ma unicamente in quel che voi fate e farete, nel vostro lavoro nel cui fondo c’è l’Universale [una maiuscola eccezionalmente tollerata da Pannunzio] di cui l’uomo vive; e per chiudere con un motto bizzarro ma profondo, che soleva ripetere un dotto tedesco, o se si vuole ebreo-tedesco, altamente benemerito degli studi, il Wartburg, tenere sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare”.
Dio è nel particolare. È un motto che riassumeva intera la filosofia laica della vita, oggi che si parla tanto, a proposito e a sproposito, di laicità. Parallelo al giudizio che di Croce appena scomparso dette un grande poeta che l’aveva sempre molto amato, essendone misuratamente riamato, Eugenio Montale: una lezione segnata “da quel Dio che Croce, come tutti i credenti, non volle mai nominare invano”.

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« Risposta #3 inserito:: Agosto 05, 2016, 04:39:00 pm »

Spadolini: la nobiltà della politica

Norberto Bobbio


Giovedì 4 agosto 2016

“La Stampa”, 5 agosto 1994   

Sono passati soltanto pochi mesi da quando aveva affrontato dignitosamente la battaglia per la presidenza del Senato, come candidato dell’opposizione. Era stato sconfitto per un solo voto, ma a me che gli ero stato a fianco in quei giorni disse: “Forse meglio così. Sarò più libero di continuare l’opposizione dal Centro”. L’aveva detto nei giorni precedenti che l’opposizione più efficace sarebbe dovuta provenire dal Centro piuttosto che dalla Sinistra. Tenne il primo discorso della nuova legislatura durante il dibattito sulla fiducia, dichiarando la propria astensione. Nessuno di noi poteva immaginare che sarebbe stato anche l’ultimo. Era già sofferente, e tale pareva all’aspetto, anche se mostrava o fingeva di non accorgersene. Aveva subito una prima operazione dopo un faticoso viaggio in Cina e in India, dove aveva ricevuto, rispettivamente il 21 e il 25 febbraio, due lauree ad honorem, e aveva letto due discorsi, Il lungo dialogo fra Italia e Cina, in occasione della prima e Mazzini e Gandhi: una storia comune, in occasione della seconda. Aveva dovuto rinunciare al nuovo viaggio che l’avrebbe condotto in Cile, dove l’attendeva una nuova laurea conferitagli dall’Università Cattolica di Santiago. Aveva già preparato e fatto stampare un discorso su uno degli argomenti in cui era più versato: Chiesa e Stato da Porta Pia alla Repubblica.
Nel discorso al Senato, di cui mi disse, inviandomene il testo, che era soddisfatto per aver potuto esprimere sinteticamente la posizione politica a cui era rimasto fedele in tutti questi anni, ammonì il presidente del Consiglio a non credere che con questo governo fosse cominciata una storia nuova e che il nuovo si contrapponesse “meccanicamente e impetuosamente” al vecchio. Non esitò a denunciare il governo di non essersi “distaccato dal solco della degenerazione spartitoria”; raccomandò di affrontare il problema delle riforme costituzionali con sagacia e prudenza. La Costituzione, disse, è un bene comune dell’intero Paese: di conseguenza terreno ideale per farla maturare era quello parlamentare. Né bisognava dimenticare che era ispirata all’unità della nazione “senza distinzione tra Busto Arsizio e Battipaglia”.
Era arrivato tardi alla vita politica. Nato nel 1925, era stato eletto per la prima volta senatore del partito repubblicano nel marzo 1972. Studioso di storia, autore di numerose opere su personaggi ed eventi dell’Italia del Risorgimento e dell’età giolittiana, che andava ristampando in lussuosi volumi rilegati e illustrati con fotografie dell’epoca, cominciò a insegnare storia contemporanea alla facoltà di Scienza Politiche Cesare Alfieri di Firenze, dove si era laureato nel 1950, quando aveva solo 25 anni.
Scrittore di facile vena, chiaro, elegante, dotto senza pedanteria, sempre ben documentato in virtù di una memoria prodigiosa e di una straordinaria rapidità nel raccogliere informazioni e di una non meno straordinaria capacità di ritenerle, fu, ancora giovanissimo, uno dei più assidui e autorevoli collaboratori del Mondo di Mario Pannunzio. Diresse, prima, Il Resto del Carlino per tredici anni dal 1955 al 1968, quindi il Corriere della Sera dal 1968 sino a quando fu eletto senatore. Da anni collaborava al nostro giornale, generalmente con articoli in cui ci raccontava i suoi viaggi e descriveva i personaggi incontrati: articoli che poi raccoglieva in volumi di varietà, intitolati Bloc-notes. Vi rivelava sempre la sua viva curiosità di conoscere il mondo in lungo e in largo, e vi sapeva fondere con efficacia le sue eccellenti doti di storico, di giornalista e di scrittore politico.
Da anni era direttore della Nuova Antologia, la vecchia rivista arrivata alla veneranda età di 129 anni. Valendosi delle sue vastissime conoscenze di scrittori, artisti, uomini politici, l’aveva trasformata in un ricco e interessante repertorio di storia patria, letteraria, politica, filosofica che appariva puntualmente in quattro volumi annuali di circa 500 pagine ciascuno. Se ne occupava personalmente per diletto, la domenica, quando tornava da Roma alla sua bella casa-biblioteca in via Pian dei Giullari. Leggeva moltissimo: divorava giornali, libri vecchi e nuovi, manoscritti che capitavano ogni giorno sul suo tavolo. Non gli sfuggiva un solo discorso che io andavo tenendo qua e là. Il giorno dopo mi telefonava: “Me lo dai per la Nuova Antologia?”
Ebbe sempre una concezione nobile della politica. Non fu un uomo di cultura prestato, come si suol dire oggi, alla politica. Continuò a fare politica non venendo meno agli obblighi dell’uomo di cultura. Il suo eroe fu, sin dagli anni dell’adolescenza, modello irraggiungibile, Piero Gobetti, il giovane morto a 25 anni in una strenua, anche se allora disperata, difesa della libertà. Lo incontrai la prima volta, tramite il comune amico Giovanni Sartori, molti anni fa nella sua casa di Firenze. Mi volle mostrare la collezione rarissima delle riviste gobettiane. Aveva già cominciato a raccogliere tutti i volumi, più di cento, di “Piero Gobetti editore”. Era fiero di averli ormai raccolti tutti, anche il rarissimo Ossi di seppia di Montale. Nello scorso ottobre presentai a Palazzo Carignano, insieme con Alessandro Galante Garrone e il direttore di questo giornale, l’ultima sua raccolta di scritti gobettiani: Gobetti, un’idea dell’Italia. Naturalmente mi chiese di dargli il testo per la Nuova Antologia.
Gli ho telefonato spesso in ospedale durante la malattia. In una delle ultime conversazioni mi ricordò la promessa di mandargli un articolo sul tema dell’Italia come nazione. Leggeva i giornali. Continuava a tenersi al corrente. L’ultima lunga telefonata, pochi giorni fa. Avevamo commentato i fatti del giorno. Mi era parso affaticato, ma la sua parola era, come sempre, chiara e appassionata. Era lieto di essere riuscito ancora a scrivere per il nostro giornale, cui era affezionato, alcune pagine di commento al saggio di Alessandro Galante Garrone, Il mite giacobino: testimonianza di una lunga e cara amicizia. Aveva avuto il presagio che sarebbero state le ultime?   

Norberto Bobbio     

Da – La Stampa
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