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Autore Discussione: LORENZO MONDO  (Letto 69457 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 14, 2011, 07:16:22 pm »

14/8/2011 - PANE AL PANE

La speranza nel dolore

LORENZO MONDO

Nella quotidiana «offerta» di atti delittuosi e disumani, privi di grazia e di pietà, capita di imbattersi in qualche notizia che, senza essere in tutto rasserenante, induce a non disperare della specie umana. Negli ultimi giorni ne ho raccolte almeno un paio, provenienti da latitudini e situazioni diverse, ma direi che proprio per questo acquistano la forza dell’esemplarità. Abbiamo sentito di Carolina, una donna della provincia lombarda che ha perso il figlio, la gola squarciata da una bottiglia rotta, durante il futile diverbio con un coetaneo.

Questa madre, per quanto straziata, ha saputo aprire un varco nel suo dolore, per piegarsi sulla figura dell’assassino.
Ha respinto un comprensibile sentimento di odio, mostrando dispiacere per il suo futuro inevitabilmente difficile e per la sofferenza patita dai genitori. Tanto più stupisce il fatto che si tratti di una reazione a caldo, che avrebbe giustificato semmai la veemenza del rancore.
Un simile comportamento suggerisce una sola, secca alternativa, che lo consideri folle o sublime. Ma l’alternativa sembra sciogliersi, quando la donna, uscendo dal suo privato, invoca la speranza che quel fatto di sangue faccia riflettere tanti ragazzi sbandati, li induca a capire che nel mondo conta soltanto il «volersi bene».

Spostiamoci nell’Inghilterra turbata da torbidi di genesi oscura. Qui il disagio giovanile non si è espresso in un isolato gesto inconsulto, ma in torme furenti e gioiose dedite al saccheggio e alla violenza. Tra le vittime dei disordini (salite ormai a cinque) ci sono tre ragazzi di origine asiatica che sono stati investiti da un’auto, con l’intenzione di uccidere, mentre cercavano di contrastare i teppisti e difendere i beni di famiglia (rappresentano, insieme a tanti altri, la smentita a un sociologismo che giustifica l’«inevitabilità» di certe sommosse).

Tariq Jahan ha perso in quel triplice omicidio il figlio diciottenne Haroon. E’ apparso in televisione, la barba grigia nel volto devastato, non per gridare il suo dolore e chiedere vendetta, ma per invocare la fine degli scontri e un sentimento di pacificazione. Senza curarsi, nella sua magnanima urgenza, di essere salutato dai tabloid come un eroe nazionale. Ecco, Tariq da Birmingham e la signora Carolina da Monza si danno idealmente la mano. Danno ragione a Solzenicyn, all’umile eroina del racconto La Casa di Matrjona: «Le eravamo vissuti tutti accanto e non avevamo compreso che era lei il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9095
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« Risposta #91 inserito:: Settembre 04, 2011, 05:13:28 pm »

4/9/2011 - PANE AL PANE

L'azzardo dell'evasione

LORENZO MONDO

Tremate, evasori! Questo il messaggio del Governo, o almeno di una sua parte, dopo avere fatto e rifatto i conti della manovra finanziaria imposta dalla crisi. Dovrebbe essere apprezzata la risolutezza, anzi l’audacia, con la quale si intende stroncare una evasione fiscale che non ha l’equivalente in altri paesi europei. Per garantire il rispetto dei parametri economico-finanziari richiesti dall’Unione Europea, per compensare la cassazione di altre misure giudicate troppo impopolari o troppo punitive per i presunti elettori, si è davvero gettato il cuore oltre l’ostacolo.

A snidare i profittatori, si è messa in piedi una strategia a tutto campo, con ogni variante possibile e immaginabile, compresa una sorta di mobilitazione civile. Si prevede un più stringente impiego del redditometro per stanare i «nullatenenti» che possiedono ville, yacht e superauto, attraverso lo smantellamento delle società di comodo. Ma si ipotizza anche di rafforzare i poteri dei Comuni, che renderebbero pubbliche le dichiarazioni dei redditi e diventerebbero di fatto esattori. Si aggiunga una più severa tracciabilità dei pagamenti in ogni genere di transazioni.

Passando dal municipale al transnazionale, e ispirandosi all’esempio britannico, si è perfino ventilato un patto con la Svizzera per tassare i capitali sui conti cifrati. Ma il vero spauracchio è il carcere, garantito senza condizionale a chi evade per una somma superiore ai tre milioni di euro. Si aggiunga, come prova di inflessibilità, l’impegno solenne del ministro Tremonti a evitare un altro scandaloso ricorso al concordato o condono fiscale.

Sembra tuttavia paradossale che si attenda la salvezza proprio da una battaglia più volte annunciata e perduta (basti pensare - è un dettaglio - che, secondo la denuncia della Corte dei Conti, lo Stato riesce a incassare soltanto l’11 per cento delle irregolarità accertate). Così, le cifre sbandierate sul recupero dall’evasione risultano poco affidabili, come mostrano le perplessità di Bruxelles su questa parte della manovra.

Per quanto riguarda il carcere, suvvia, l’Italia non è assimilabile all’America dei tempi di Al Capone, messo al chiuso non come criminale ma come evasore. Eppure siamo costretti a sperare, a tifare perché ne esca qualcosa di buono. Resta una maliziosa domanda: perché aspettare una tale emergenza se, come annuncia trionfalmente il ministro Calderoli, la soluzione dell’annoso problema si trovava a portata di mano? Saremmo disposti ad annullare la domanda, suscitatrice di lunghe ombre sulla nostra politica, se omissioni e connivenze fossero davvero acqua passata.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9160
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 03, 2011, 06:25:35 pm »

3/10/2011



LORENZO MONDO

Non occorre sposare le intemerate del presidente Berlusconi contro le persecuzioni dei magistrati, per provare disagio davanti a certi episodi che riguardano il potere giudiziario e magari lo stesso dettato delle leggi. Prendiamo proprio l’ultima inchiesta sul premier, connessa ai suoi rapporti con il faccendiere Tarantini e con ragazze da alcova. Se ne è occupata in prima istanza la Procura di Napoli, che indagava sull’estorsione di cui sarebbe stato vittima. Ma ecco che gli atti vengono richiesti da Roma, dove sarebbe avvenuto il versamento di denaro del premier a Tarantini. Se così è stato, non si capisce perché Napoli non abbia avvertito quella che è stata dichiarata una sua manifesta «incompetenza». E si capisce come Berlusconi, chiamato a testimoniare, si sia negato temendo un «trappolone». Ma non è finita con il balletto delle avocazioni. Perché alla fine è stata Bari a impossessarsi del caso, con un vistoso cambio di scena: Berlusconi infatti, da parte lesa, si è scoperto indagato come corruttore. Ripeto, nessun compiacimento assolutorio per il cattivo odore che emana da una vicenda di soldi e donne facili. Ma non rappresenta uno spettacolo edificante il misto di contrattempi e trafelati interventi che emergono da questa triangolazione giudiziaria.

Ragionando sull’esercizio della giustizia, sono portato dalle cronache a occuparmi di un’altra storia, significativa anche se decisamente minore. Leggo sul Corriere della Sera che da due anni si indaga, e a gennaio si aprirà il processo, per il presunto furto di un ovetto Kinder. Massì, il famoso dolcino a base di cioccolata. Un giovane di vent’anni è accusato di avere sottratto, in quel di Taranto, il famigerato ovetto da una bancarella. Egli sostiene di averlo effettivamente preso in mano per mostrarlo al commerciante e pagarlo. Ne è nato un battibecco, con un intervento dei carabinieri e un rinvio a giudizio del malcapitato per furto e ingiurie. È fallito ogni tentativo di transazione, fino all’offerta di 1600 euro per una refurtiva che vale poco più di un euro. Ma, tra le scartoffie e il tempo perso dagli inquirenti, se ne sono sprecati a migliaia prima di arrivare al dibattimento. C’è da piangere, se si pensa alle continue lamentele per l’insufficienza di uomini e mezzi assegnati all’ordine giudiziario. Tra gli addebiti mossi a Berlusconi, attratto da ben altre golosità, e quelli mossi al patito della cioccolata corre una bella differenza. Eppure concorrono entrambi a suscitare pungenti interrogativi sui tempi e sui modi in cui si rende giustizia in Italia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9272
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 23, 2011, 11:46:22 am »

23/10/2011

Genitori italiani e familismo italico

LORENZO MONDO

Non sappiamo quanti fossero i mascalzoni e gli imbecilli (insieme agli aspiranti criminali) che hanno messo Roma a ferro e fuoco. Certo erano tanti e il fatto che soltanto nove di loro siano finiti in carcere dimostra che la repressione è stata inadeguata o di mano leggera. Anche troppo. Non la pensano così i genitori dei dimostranti finiti a Rebibbia, dei quali si stanno accertando le effettive responsabilità. Sono i campioni del familismo italico, da non confondere con il senso della famiglia, che non disgiunge dall’affetto la severità e l’educazione al rispetto di certi principi elementari. L’espressione più radicale di questo sentimento deviato si trova nelle donne di mafia che inveiscono a difesa dei congiunti in manette; ma si manifesta per mille rivoli in più quiete e domestiche circostanze della vita associata.

Non c’è punizione, anche tenue, ventilata tra i banchi di scuola o nei commissariati di polizia che non veda la reazione di genitori che giurano sulla correttezza e sull’innocenza dei figli, vittime di intenti persecutori. A Roma si sta recitando lo stesso, insopportabile spettacolo. I loro ragazzi, figuriamoci, non si occupano di politica (come se questo fosse di per sé un crimine), sono perfino impegnati nel «sociale», non farebbero del male a una mosca e, semmai, si sono lasciati trascinare dalla foga della protesta e dal cattivo esempio. Parole assolutorie anche per chi è inchiodato dalle telecamere, per l’energumeno che affrontava i poliziotti armato di un estintore (richiamando alla memoria, con un brivido, l’analogo episodio, risoltosi in modo funesto al G8 di Genova).

Quanta commiserazione per i figli detenuti in celle sovraffollate e umide, col rischio di prendersi malanni a causa del freddo, quanta sollecitudine per la cattiva nomea che comprometterebbe una onorata carriera di studio e di lavoro. Non uno che abbia esalato contro il figlio la parola cretino, che abbia dichiarato «gli sta bene», minacciando un «a casa faremo i conti»: in aggiunta al disagio della detenzione che, stante l’andamento della giustizia e in mancanza di gravi, personali addebiti, promette di essere temporaneo. Certo non suscita comprensione l’atteggiamento vigliacco dei dimostranti che, dismesso il piglio bellicoso, negano l’evidenza accampando ridicole giustificazioni e professando un candido pacifismo. Ma più indifendibili sono questi genitori fasulli, protettivi oltre misura nei confronti di rampolli che mostrano, quanto meno, di non conoscere neppure. Sintomo, anche loro, dell’offuscamento morale e civile che affligge questo Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9352
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« Risposta #94 inserito:: Novembre 06, 2011, 11:06:24 pm »

6/11/2011 - PANE AL PANE

L'alluvione delle coscienze

LORENZO MONDO

Sembra una beffa. Mai come oggi siamo appesi ai bollettini meteorologici per programmare una gita nel fine settimana o anche il minimo scarto da comportamenti abitudinari. Sono avvisi inappuntabili sul nuvolo e sul sereno, forniti da uomini che fin dalla divisa dell’aeronautica mostrano di avere confidenza con i cieli. Ma la loro capacità di previsione ci aiuta a scampare da un acquazzone, non dalla tragedia come quella che si è rovesciata sulle Cinque Terre e su Genova. La verità è che la mutazione "tropicale" del clima produce alluvioni-lampo non incluse in un generico stato di allerta, tali da trasformare in pochi minuti un inoffensivo torrente in uno scarico di distruzione e di morte.

Non si tratta soltanto di malaugurate congiunture, la ripetizione degli eventi rivela che dobbiamo prendere atto di una amara novità. Se devo avvalermi di un termometro letterario, mi ricordo che, a raccontare disastri provocati dalle acque, figurano tra i nomi eminenti soltanto il Riccardo Bacchelli del Mulino del Po e il Giovanni Guareschi di Mondo piccolo. Ma si tratta appunto delle prevedibili intemperanze di un grande fiume. Il dato è abbastanza significativo e conferma a suo modo che ci troviamo di fronte a inedite minacce, scontando decenni di insipienza, di avido sfruttamento di un territorio estremamente fragile.

Il repertorio delle reponsabilità è stucchevole ma proprio questo dimostra la sua impunita recidività. C’è un abusivismo edilizio che, sommandosi alle autorizzazioni di manica larga, divora e sfigura parti sempre più estese del territorio (annettendosi palesi zone a rischio, fino a coprire tratti di un torrente con asfalto e cemento). C’è il mancato dragaggio dei corsi d’acqua, depauperati dello sfogo rappresentato dalle golene. E i boschi, già protettivi contro il dissesto, patiscono l’abbandono, sono lasciati alle scorrerie dei cinghiali. Così, il demone dell’urbanizzazione selvaggia viene castigato da un retroterra dimenticato, da un contesto che si rivela sempre più alieno.

Appaiono emblematiche, nelle immagini tragiche di Genova sommersa, le auto sparpagliate come fiammiferi, come bastoncini di un surreale gioco a Shangai. E adesso? Finora, a sgomentarci, era lo scempio del paesaggio, di un patrimonio mirabile consegnatoci dalla natura e dalle generazionbi passate. Erano, ad avvilirci, l’egoismo e la corruzione che presiedono a tanti misfatti. Ma ora è la terra che ci frana addosso, fango contro fango. Per intraprendere la strada lunga e sofferta di un cambiamento, bisognerebbe recuperare il senso del limite e ripulire, insieme ai luoghi devastati, le coscienze. Trattando con esemplare durezza chi insiste a malfare. Ne saremo capaci?

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9403
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« Risposta #95 inserito:: Novembre 21, 2011, 05:34:14 pm »

21/11/2011 - PANE AL PANE

"Staccare la spina" Parole sprecate

LORENZO MONDO

Mario Monti, chiamiamolo così senza l’appellativo di professore che per molti ha un significato limitativo marcando la sua estraneità al mondo della politica, ha ottenuto nei due rami del Parlamento una massiccia maggioranza. Non offuscata dallo spettacolino di quel tal Scilipoti che si è presentato alla Camera con la fascia nera al braccio in segno di lutto. E nemmeno dall’ostracismo della Lega che ha rispolverato gli inoffensivi ministeri del Nord facendo appello alle viscere dei suoi militanti (ingoiando il rospo di un esecutivo ad alto quoziente nordista). Gli ostacoli veri si annidano all’interno del provvisorio unanimismo che ha legittimato il nuovo governo. Già alla vigilia se ne sono colte le avvisaglie quando è caduta l’opzione, patrocinata dal presidente della Repubblica, di Giuliano Amato e Gianni Letta come ministri. Due persone apprezzate per il loro senso della misura che avrebbero impegnato i rispettivi schieramenti ostacolando le imboscate delle ali estreme. La bocciatura significa che certi partiti vogliono mantenersi le mani libere.

Ora, è comprensibile che non si accetti di procedere al buio, ma le parole che si sentono, a voce alta e bassa, lasciano trapelare l’insofferenza per una mediazione - di interessi e di sacrifici - che è la ragione prima del nuovo corso. Troppe sono in realtà le parole che si sprecano, al di là del senso comune. C’è chi grida al golpe, alla sospensione della democrazia: quando la scelta, dettata da una drammatica emergenza, è frutto di un accordo trasversale degli eletti e può essere vanificata dal voto del Parlamento che è in grado - come afferma un subdolo memento - di «staccare la spina». Si insiste d’altra parte nel qualificare quello di Monti come un governo di tecnici, del quale già si contano i giorni, perché non può esautorare alla lunga la politica. Si trascura, con rara impudicizia, che la politica ci ha messo del suo per esautorarsi. E che proprio un anomalo governo offre - per la competenza, la sobrietà del comportamento e l’onestà dei propositi - i tratti distintivi di una politica diversa da quella cui siamo da troppo tempo avvezzi. Forse la gravità della situazione e l’ampio consenso manifestato a Mario Monti dall’opinione pubblica frenerà le spinte faziose. Vada come vada, nelle future scadenze elettorali non si potrà prescindere da questo esperimento. È toccato ai presunti tecnici mostrare che non tutto è da buttare nel nostro paese, che esistono trascurate risorse per una politica intesa a riappropriarsi dei suoi ineludibili e nobili compiti.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9460
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:06:29 am »

5/12/2011 - PANE AL PANE

La megalomania di don Verzè

LORENZO MONDO

Don Luigi Verzé ha rotto il suo lungo silenzio sulle traversie del San Raffaele, dopo il suicidio del braccio destro Mario Cal e l’inchiesta della magistratura per i debiti, ammontanti a 1,5 miliardi di euro, che gravano sul centro sanitario. Ha scritto una lettera ai pm in cui rivendica «l’intera responsabilità morale e giuridica di quanto accaduto». Non entro nel merito delle accuse che gli sono rivolte, sulla liceità dei suoi comportamenti e sulle omissioni per i traffici di denaro messi in atto da suoi collaboratori e «clienti».

Su tutto questo si pronuncerà la giustizia. Certo lasciavano perplessi le iniziative dispendiose sviluppatesi intorno a quello che pure è riconosciuto (onore al merito) come uno dei centri di ricerca e di cura tra i più avanzati d’Europa. Basta pensare, tra le altre bizzarre intraprese, alle piantagioni di mango in Brasile o alle attività alberghiere in Sardegna. Si avvertiva in lui una spericolatezza, una propensione all’affarismo che mal si conciliavano con la veste di sacerdote. E non a caso, ai tempi di Paolo VI, era stato sospeso a divinis. Non piaceva neanche l’intimità gioviale con Berlusconi, l’elogio della sua fisica prestanza, che potevano essere benevolmente accolte se non si fossero tradotte in una indulgenza di ordine pastorale. E non insisto sulle spese sostenute, a crisi ormai affiorante, per la statua dell’Arcangelo che svetta sull’ospedale e per l’aereo privato che avrebbe agevolato la diffusione della sua «buona novella». Erano, insomma, le stigmate di una megalomania praticata in mezzo alle esalazioni di facile denaro.

Ma è la chiusa della sua lettera ai magistrati che sgombra ogni sospensione di giudizio e suscita una totale riprovazione. «Ora so - scrive don Verzé - cosa significa essere come Cristo tempestato di insulti, sulla croce. Fa parte del mio programma sacerdotale». Si è ricordato, alla buonora, di essere un prete ma soltanto per concedersi un’altra stonatura. E questa non si può lasciargliela passare, soprattutto da parte di chi rispetta e venera il nome di Cristo. È fin troppo facile obiettargli che, pur tenendo conto dei tempi diversi, esiste un eccessivo divario tra il dorso di un asino prediletto dal divino maestro e le ali saettanti di un jet. Più indigna confrontare il supplizio della Croce inflitto all’uomo-Dio con gli strali giornalistici diretti contro un responsabile di gravi ammanchi. Altro che «non nominare il nome di Dio invano». È un paragone dal sapore blasfemo che getta ombre sulla lucidità, più che di un prete, di un declinante capitano d’industria. Vaticano, se ci sei, batti un colpo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9520
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« Risposta #97 inserito:: Dicembre 11, 2011, 11:21:26 am »

11/12/2011 - PANE AL PANE

Un parrocchiano come gli altri

LORENZO MONDO

L’arresto del boss Michele Zagaria a Casapesenna, nel Casertano, ripropone uno schema abituale nella cattura di uomini del suo rango, appartengano essi alla mafia o alla camorra. C’è innanzitutto la lunga latitanza, che per lui valeva tre lustri, accompagnata dalla fama dell’imprendibilità. C’è il fatto che trovasse una tana accogliente non alla macchia ma a casa sua, facendo una vita da recluso che lascia pensare, restrizioni a parte, a un carcere di massima sicurezza: tant’è che Michele Capastorta veniva anche chiamato Il Monaco (una vita così sacrificata che prende il senso di una orgogliosa, luciferina sfida alla convivenza civile). E c’è l’utilizzo di misure protettive che si avvalevano, in particolare, di sofisticate risorse tecnologiche.

Ma a poco sarebbero serviti il bunker infossato come nocciolo duro in una villa, i muri scorrevoli, la rete delle telecamere, senza la protezione garantita dal contesto sociale. Lo si è visto nell’atteggiamento della gente presente al suo arresto. Una scena allucinante e, ahimè, non inedita. Sembrava che assistessero a un funerale o alla tappa di una dolorosa via crucis. Parole di compassione e rammarico, invocazioni alla Madonna, preoccupazione per il pane e il lavoro elargiti dal boss. Tanti benefici che venivano rinfacciati, con le consuete lamentazioni, allo Stato assente.

Ma non c’è analisi sociologica, non privazione di elementari diritti, non sedimentati rancori che possano giustificare una così abnorme solidarietà per un delinquente abbietto. Sembravano tutti trascurare che su Zagaria pendeva una condanna a tre ergastoli, che quel pane e quel lavoro, non ben definito, comportavano il prezzo del sangue. Stupiva l’assenza di vergogna, l’incapacità di ribellarsi, almeno nell’intimo, a imposizioni o umilianti concessioni, rendendosi di fatto complici di atti criminosi. È questa complicità che lascia sbigottiti, ben più radicata che la paura: perché in tanti anni, non c’è stata nemmeno una lettera anonima che mettesse gli investigatori sulla pista buona.

Il parroco di Casapesenna ha definito Zagaria «un parrocchiano come gli altri ai quali portare il Vangelo». D’accordo, uno il coraggio, se non ce l’ha, non se lo può dare, e in date circostanze sarebbe anche ingeneroso pretenderlo. Ma poiché non risulta che sia riuscito a catechizzare il boss avrebbe fatto bene a operare qualche distinzione, a non assimilarlo agli altri suoi parrocchiani. Se lo prendessimo alla lettera, ci sarebbe da rabbrividire, da disperare che qualcosa, da quelle parti, possa cambiare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9538
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« Risposta #98 inserito:: Dicembre 18, 2011, 05:49:07 pm »

18/12/2011 - PANE AL PANE

Che faccia tosta il Paese abusivo

LORENZO MONDO

A remare contro il governo Monti ci si mette, nel suo piccolo, anche Bacoli, la città che sorge sul litorale flegreo. Qui non è questione di rifiuti ma di un altrettanto maleodorante abusivismo edilizio. A Bacoli è scoppiata una rivolta, non per dire basta allo scempio, ma per impedire la demolizione di due case costruite in violazione del vincolo paesaggistico. Si trattava, pensate, di eseguire una sentenza della magistratura emessa nel 2008. Ci sono stati scontri violenti con la polizia che voleva aprire il passo alle ruspe, alcuni feriti, macchine distrutte, fino a quando il prefetto ha rinviato il provvedimento al 10 gennaio, sperando di stemperarne l’impatto dopo le Feste.

Se ne sono viste di tutti i colori. Uno dei proprietari ha minacciato di darsi fuoco, salvo traccheggiare poi con la polizia chiedendo di provvedere lui stesso, se costretto, a una meno costosa demolizione. Dio mi guardi dal non compatire le disgrazie altrui, ma trovo crudele esibire una figlia disabile per alimentare la protesta. Le infermità meritano una solidale attenzione ma non valgono di per sé a redimere un indebito possesso. E lasciamo stare l’altarino con la statuetta del Sacro Cuore davanti al quale radunarsi in preghiera. Un abuso anche nei confronti di Gesù Cristo, in un fumo di superstizione se non di camorra.

Il Consiglio comunale aveva emesso nei giorni scorsi un comunicato che brillava per la sua ipocrisia venata di comicità. Prometteva di riunirsi in seduta permanente per monitorare gli abusi non dettati da necessità, ma pretendeva la sospensione degli abbattimenti fino al 31 dicembre del 2012: non per dare eventualmente agli occupanti il tempo di trovare una diversa sistemazione, ma in attesa che si aprisse un altro condono. Una faccia tosta seguita successivamente dalle dimissioni del sindaco.

Si calcola che in Campania siano 70.000 gli edifici costruiti nel dispregio di ogni norma ed è ovviamente impossibile che tutti vengano rasi al suolo. Nei Campi Flegrei i tribunali hanno stabilito che ne vengano abbattuti 1300 (compresi quelli di Bacoli). E’ presumibile che, fra tanti, non siano stati scelti a caso ma che gridino davvero vendetta. In una situazione così pregiudicata sarebbe già importante dare il senso di una svolta, con un taglio che, oltre a riparare danni vistosi, assumerebbe un valore educativo e dissuasivo. Le responsabilità dei singoli, costretti in molti casi a pagare di persona, ed i connessi traffici della malavita, chiamano però in causa un’intera classe politica. Dov’erano parlamentari, governatori, sindaci, assessori mentre una popolazione di trafelate, insolenti formiche deturpava una terra così bella con 70.000 escrescenze cementizie?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9559
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« Risposta #99 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:28:28 am »

8/1/2012

Cortina non è sola

LORENZO MONDO

È il solito balletto del dire e non dire. A Cortina, dopo il blitz della Guardia di Finanza, tutti definiscono sacrosanta la lotta all’evasione fiscale, anche se troppi storcono la bocca. Il sindaco, gli operatori turistici, gli esercenti e i devoti a vario titolo della capitale ampezzana oppongono all’operazione delle «fiamme gialle» uno schieramento di «ma». Colpevolizzare un posto di vacanza come se fosse un ricettacolo di evasori è scorretto e «forcaiolo».

Ci vuole più rispetto per la gente che lavora e dà lavoro. Non è giusto colpire un simbolo del turismo italiano. Bisogna sentirsi in colpa perché si fanno le vacanze a Cortina? Ci sono altri modi per esercitare controlli incrociati sui redditi, senza ricorrere ad aggressioni di stampo mediatico. Gratta gratta, si arriva perfino a concludere che davanti a un Fisco così rapace si è costretti a evadere. E scendono in campo, a rinforzo, Pdl e Lega che, impermeabili al senso dell’umorismo, paventano l’instaurazione di uno Stato di polizia.

Attilio Befera, il presidente di Equitalia, si è finto sorpreso per le proteste: «A Cortina abbiamo fatto andar bene gli affari. I ristoranti hanno aumentato i loro ricavi del 300 per cento in un solo giorno». Alludeva all’impennata di scontrini fiscali e di ricevute rilasciate dagli esercenti nel giorno dei controlli (e trascurava sul momento la sproporzione tra certe macchine lussuose e il miserevole reddito dichiarato dai proprietari).

E’ un tratto di ironia che ci rende simpatico il capo dell’Agenzia delle Entrate. Ma resta il discorso di fondo. E’ vero o no che sono stati scoperti a Cortina cittadini che, per l’entità degli addebiti, devono essere considerati veri e propri ladri? Appare ininfluente il sospetto che Equitalia abbia cercato un esibizionismo mediatico, compatibile d’altronde con indagati che non disdegnano le luci di una qualsivoglia ribalta. D’altronde il ceto medio, che subisce un’inusitata asprezza di tasse e balzelli, trova conforto in qualche sferzata inflitta a cosiddetti vip sulla scena delle loro malefatte. Senza doversi contentare delle cifre sul recupero fiscale fornite genericamente in alto loco.

Va consigliata poi una certa prudenza a chi, facendosi zelatore dell’immagine di Cortina, rischia di recarle danno. Temere disdette nelle prenotazioni e fughe dei turisti infastiditi dalle indagini, significa accreditare Cortina come rifugio di lestofanti, non avere fiducia nella gente onesta che non ha nulla da spartire con gli inquisiti e sa considerare nel giusto valore la perla delle Dolomiti. Va da sé che ci si aspetta qualche replica di Equitalia in altri luoghi di eccellenza dal Nord al Sud della Penisola. Non c’è nessuna regione immune da comportamenti asociali, dal più sfrontato egoismo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9627
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« Risposta #100 inserito:: Gennaio 15, 2012, 11:17:38 am »

15/1/2012

Il vigile ucciso e il sogno svanito

LORENZO MONDO

Adesso sono in tanti, e non soltanto i colleghi, a ricordare quanto Niccolò Savarino fosse buono, premuroso e gentile. Era il vigile «in bicicletta» ammazzato da un Suv che il guidatore ha scagliato deliberatamente contro di lui a farne scempio. A Milano, nel quartiere periferico della Comasina, su cui questo siciliano salito al Nord per conquistarsi l’ambita divisa da vigile, era chiamato a vigilare.

Occorreva un episodio così efferato per rammentare a tutti in modo particolarmente impressivo che gli addetti alla sicurezza non sono diversi dai comuni cittadini. Possono infastidire per una multa o un richiamo severo all’osservanza delle regole, possono essere additati e aggrediti come nemici da manifestanti rabbiosi, ma la divisa non rappresenta una barriera contro l’essere semplicemente uomo. Dovrebbe semmai suscitare, in persone civili, un maggiore apprezzamento, tanto più quando è onorata da un forte senso del dovere.

Savarino ha cercato di fermare una macchina che era passata sul piede di un malcapitato, e ha pagato con la vita il suo intervento. Quasi certamente chi lo ha travolto e si è dato alla fuga è un criminale che ha dei conti in sospeso con la giustizia, ma è comunque espressione di una cancrenosa violenza: come quella «gratuita» di chi, sempre a Milano, ha travolto un uomo che pretendeva il rispetto di un parcheggio per disabili o ha ammazzato a botte l’automobilista che aveva investito un cane.

Il vigile vittima come tanti di un male che incupisce le nostre città. Ed è questo il problema che assilla, che deve turbare i sonni dei responsabili della politica e dell’amministrazione. L’uccisione di Savarino sembra intanto compromettere il sogno del sindaco Pisapia. Egli intendeva cambiare il volto di Milano puntando anche sul vigile di quartiere che, sul modello del «bobby» inglese, instaurasse un nuovo rapporto con i cittadini. Fin dalla sua campagna elettorale, ipotizzava una «forza gentile» che trovasse il suo bonario, cattivante emblema, nella bicicletta. Ma adesso il sindacato di polizia si ribella, chiede che almeno in periferia si incrementino più sicure auto di pattuglia.

La bicicletta non protegge dagli accoltellamenti, dalle percosse, dagli insulti che i vigili lamentano di dover affrontare ogni giorno. Occorre prendere atto che sono tempi di emergenza e, anziché coltivare il «bon ton» con i cittadini onesti, mitigare con la persuasione le piccole inosservanze, si fa più stringente la necessità di contrastare, con la deterrenza e la durezza della reazione, la genia dei malavitosi. Di tanto si accontenterebbero, accantonando nobili utopie, le persone per bene.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9648
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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:59:34 am »

Cultura

16/01/2012 - lo stile

Fruttero, una scrittura allergica ai luoghi comuni

Dai romanzi a quattro mani ai testi autobiografici il tratto caratteristico è la distanza dalle fedi perentorie

LORENZO MONDO
Torino

E’ nel 1972, con il successo della Donna della domenica , che il nome di Carlo Fruttero, accoppiato a quello di Franco Lucentini, diventa noto al grande pubblico. Ma egli aveva alle spalle una intensa attività di traduttore, che si era esercitata su autori di spicco (Nathanael West, Beckett, Ralph Ellison, Salinger) e aveva in particolare pubblicato nel 1959, con Sergio Solmi, Le meraviglie del possibile , un’antologia della fantascienza destinata a grande fortuna, che ebbe il merito di dare piena legittimità in Italia a quella che era considerata una letteratura minore, di puro intrattenimento. Egli si poneva fin da allora in una posizione eccentrica, capace di abbattere con le risorse della cultura e della scrittura ogni confine di «genere». E’ quello che accade anche con La donna della domenica , con il «giallo» che diventa una serrata indagine di costume, non meno pungente perché divertita, su Torino: una città rimasta a mezza via tra passato e futuro, tra i residui risorgimentali e le caotiche periferie industriali, dove il perbenismo si contamina con la trasgressione.

Soltanto filologi acuminati potrebbero assegnare, nella sapienza della costruzione e nell’alacrità della scrittura, la parte che spetta a ciascuno dei due autori, che procedono imperterriti a fare coppia nelle successive prove romanzesche: A che punto è la notte , Il palio delle contrade morte , L’amante senza fissa dimora (non dimenticando le sferzanti note, memori dei moralisti d’ antan , che trovano il loro più vivace contrassegno nel volume intitolato La prevalenza del cretino) . Mi sembra di poter cogliere l’indizio di una più personale disposizione nel brillante racconto Ti trovo un po’ pallida. Scritto nel 1979, appartiene al solo Fruttero e insinua nel contesto mondano di una assolata Maremma brividi onirici e visionari. Il pensiero corre allora allo straordinario Palio delle contrade morte , alla sfilata di fantasmi che denunciano nella piazza del Campo, insieme alle frodi e alle crudeltà della Storia, le compromissioni e le insolvenze di ciascuno nei confronti della propria vita.

Sia come sia, è negli scritti di Fruttero seguiti alla morte dell’amico Lucentini che ci muoviamo su un terreno sicuro. A trent’anni di distanza dalla Donna della domenica , Donne informate sui fatti ricorre ai meccanismi del romanzo poliziesco per indagare sull’assassinio di una immigrata che ha fatto fortuna. Ma l’inchiesta si estende dal truce fatto di cronaca a una intera città, ancora Torino, aggiornata sul mutare dei tempi. E l’emulo del commissario Santamaria sarà orientato alla soluzione del giallo da un coro di voci femminili, restituite alla brava nel loro vivace linguaggio, dissonante per anagrafe ed estrazione sociale. Risulta centrale, con i suoi risvolti dolenti, il tema dell’immigrazione. Ma l’interesse dell’autore è mosso più largamente dagli oscuri meandri del cuore, dalle passioni indomabili come l’avidità, l’assenza di pietà, la gelosia, l’orgoglio. Inclina a condividere con uno dei suoi personaggi l’idea di Schopenauer che «i cinque sesti dell’umanità fanno schifo, sono gentaglia». Il suo pessimismo assolve tuttavia la parte residua della specieumana che, con tutti i suoi difetti, si astiene dalla malvagità e merita di essere considerata con indulgente sorriso.

Il Fruttero più scoperto, e il suo commiato, lo troviamo in un libro, apparentemente minore, di capitoli autobiografici che viene intitolato, con ironico understatement , Mutandine di chiffon . Qui compaiono gli amici più cari, gli incontri avuti nel lavoro editoriale alla Einaudi e alla Mondadori, la Torino di sempre evocata con guardingo affetto nelle sue atmosfere, la Francia amatissima frequentata con Franco Lucentini. Bellissimi i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nel Monferrato, in prossimità di un magico castello. Nella sua biblioteca Fruttero viene educato alla lettura, prima dei «gialli» Mondadori (quasi un presentimento) poi di libri più impegnativi, maturando «una passione feroce, esclusiva, come il gioco o il terrorismo, che fa sembrare insignificante qualsiasi altra cosa». Là apprende dall’impareggiabile signor conte, nelle varie «invasioni» del castello da parte di tedeschi, fascisti, partigiani un freddo, vigile distacco. Si affermano cioè certi tratti che saranno caratteristici di Fruttero, il suo disincanto dinanzi alle fedi perentorie, all’utopismo inscalfibile e, più in generale, all’autorità dei luoghi comuni. Oltre che della sua amicizia senza effusioni ma ferma, del suo magistero stilistico, sentiremo acutamente la mancanza anche di questo Fruttero, scrittore malgré lui civile.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/438421/
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« Risposta #102 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:19:08 am »

22/1/2012 - PANE AL PANE

La scossa della Concordia

LORENZO MONDO

Ho viaggiato una volta su una nave della Costa e, a parte gli inconvenienti dovuti all’eccessivo e chiassoso affollamento, non ho avuto di che lamentarmi del personale di bordo, delle varie prestazioni offerte dalla crociera. Non ho assistito alla pratica dell’«inchino»,
l’abitudine cioè di avvicinarsi alle coste per salutare qualcuno o rendergli omaggio. Forse quel comandante non amava simili esibizioni, forse non erano consentite nei luoghi del Mediterraneo orientale toccati dalla navigazione. Sicché la tragedia della «Concordia» mi trova, a questo riguardo, impreparato e sgomento. Tanto più quando apprendo che la stessa nave aveva già effettuato nel corso degli anni 52 «inchini». Una notizia che rende ben più pesanti, ed estensibili, le accuse rivolte allo sciagurato Schettino.

C’è da chiedersi perché, a partire dalla Compagnia, nessuno intervenisse a scongiurare un comportamento così pericoloso e, in varie situazioni, chiaramente dissennato. Lo dimostra a usura l’infortunio del comandante Schettino, così vicino all’isola che, ad onta della sua abilità, si è avveduto solo all’ultimo momento, per «la schiuma sull’acqua», dello schianto imminente contro uno scoglio. E vengono i brividi quando Palombo, l’asserito maestro di Schettino, esalta in un libro le sue ripetute manovre rasocosta, definite rischiosi ma «bellissimi passaggi».

Mentre incombono i fantasmi delle vittime e l’incubo di una catastrofe ambientale, vien da riflettere sulle manifestazioni di un radicato costume italiota. A parte le gratificazioni riservate ai turisti e pagate nell’occasione a caro prezzo, c’è un comandante che inverte la rotta per cedere al richiamo «familistico» o paesano della terraferma. C’è l’«inchinarsi» all’oltranza di una festa segnata da luminarie e sirene spiegate. E la spavalderia che induce a strafare, ad abusare delle proprie risorse, di un malinteso estro «creativo».

Occorreva l’incredibile naufragio davanti all’Isola del Giglio per risvegliarsi dal sonno della ragione e dell’irresponsabilità?
Il ministro dell’Ambiente ha promesso il varo sollecito di una legge sulle rotte a rischio che tenga a distanza i grattacieli galleggianti, che metta al riparo, insieme alle vite umane, i parchi naturali e le bellezze insostituibili del nostro Paese. In primo luogo Venezia, finora impunemente minacciata, e miracolosamente risparmiata, dal traffico osceno. Non c’è profitto di sorta, non le titillate emozioni di turisti inconsapevoli che possano giustificare così gravi rischi. Occorre una scossa, ed è doloroso che venga richiesta, imposta, dai passeggeri imprigionati nel ventre della «Concordia».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9679
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 05, 2012, 07:36:11 pm »

5/2/2012

Denaro, politici e soliti scandali

LORENZO MONDO

Dopo lo scossone rappresentato dal «governo dei professori», e i duri sacrifici richiesti al Paese, cresce l’attenzione su zone opache o semplicemente incongrue della vita politica. La gente assiste incredula alla singolare congiunzione di elementi realistici e surreali, non esenti da una spruzzata di involontaria comicità. Prendiamo la vicenda della Margherita, dove un imprevedibile incidente ha scoperchiato una pentola maleodorante. Si è appreso con stupore che un partito defunto da anni, diventato una costola del Partito democratico, gestiva una enorme quantità di denaro (al pari dell’altro contraente del patto unitario).

Ma la cosa più stupefacente è che i beneficiari ignoravano quale destinazione avesse lo zoccolo duro del malloppo. In verità, ancora il 23 dicembre la Margherita «certificò» la regolarità dei suoi bilanci: con una memoria depositata al tribunale civile e controfirmata dal rappresentante legale Luigi Lusi. Peccato che, all’epoca, il senatore Lusi si fosse già appropriato di 13 milioni di euro, procurandosi beni immobiliari in Italia e all’estero. Costernazione dei dirigenti che «non sapevano», che si affidavano a occhi chiusi a quel personaggio. Come dubitare di uno che era stato segretario dei boy scout e si vantava di essersi prodigato per i bambini della Palestina e di Cernobil? Politici di lungo corso trattati come ingenui «lupetti». Ed è qui che la solida concretezza del denaro evapora in un clima surreale.

Prendiamo un’altra storia, anche se ha un minor rilievo e comporta minori responsabilità. Riguarda gli ex presidenti di Camera e Senato che, oltre agli altri privilegi, godono di uffici e di segretarie nei palazzi del potere. Non basterebbe a queste figure, talora autorevoli, il riconoscimento di certi vantaggi a tempo determinato, magari per qualche legislatura, anziché per tutta la vita? La segretaria di Carlo Scognamiglio, che fu presidente del Senato per due anni, ha rilasciato a questo giornale una intervista dal candore disarmante. Protesta che nel suo ufficio si è occupati a tempo pieno, per di più con stipendi modesti. Precisa che il lavoro indefesso consiste nel programmare convegni e seminari. Il prossimo sarà dedicato, perbacco, al diario di Olindo Malagodi. Con tutto il rispetto per lo storico esponente liberale, ti cadono le braccia. E saremmo curiosi di sapere che diavolo stiano facendo gli altri numerosi titolari, chiedendoci se non potrebbero comunque svolgere un siffatto lavoro in sedi occasionali o a casa propria, con vantaggio dell’erario. Schifani e Fini promettono di sanare l’abuso. Staremo a vedere se alle parole seguiranno i fatti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9739
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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 12, 2012, 07:35:59 pm »

12/2/2012

La nevicata del lamento

LORENZO MONDO

Non erano paragonabili alle nevicate eccezionali di oggi quelle che ricordo della mia infanzia. Da molti punti di vista. Non erano così folte, ma comunque disagevoli per una serie di circostanze. Parlo dei terribili inverni di guerra, che ebbi a vivere in un paese del Monferrato. All’accumularsi dei fiocchi, si dava alacremente mano alla pala per liberare gli accessi. Ci si scaldava con strati di panni (i lunghi mutandoni di lana) raccogliendosi intorno alla stufa e, di notte, aggrappandoci coi piedi allo scaldino. Ma si tirava in lungo, il più possibile, nella stalla messa a disposizione dai vicini e riscaldata dal benedetto fiato dei buoi. Lo spazzaneve, trainato da un cavallo, liberava le vie centrali. Ma per andare a scuola, chi volesse, si sprofondava fino al ginocchio e si arrivava zuppi, per avere battagliato a palle di neve ed esserci distesi a fare lo «stampo». Per giorni si viveva al chiuso, stretti al vicinato, senza notizie del mondo grande che stava schiantandosi (senza radio e con la televisione di là da venire). E si dava fondo alle magre provviste, la polenta abbrustolita sul piano della stufa, la minestra di latte e castagne, l’ultimo coniglio sacrificato. Educati alla sopportazione, si attendeva il sereno, aderendo fatalisticamente ai ritmi della natura.

Oggi, per fortuna, è diverso. Soltanto nelle isolate frazioni montane si verifica qualcosa di analogo: con una aggravante, che spesso in quei paesi spopolati sono rimasti soltanto i vecchi, accompagnati dal retaggio di debolezze e infermità. Soccorrono in qualche misura i moderni strumenti di contrasto, i mezzi motorizzati. Quelle macchine che, per impreparazione e imprevidenza, hanno contribuito invece a paralizzare città come Roma. Fatta la tara a situazioni drammatiche create dall’inusitato maltempo, è nei luoghi più protetti che si coglie una diversità, di ordine psicologico (e morale) rispetto ad altri tempi.

Non è magari l’incapacità di adoperarsi personalmente a sgombrare la neve davanti alla porta di casa. È l’assalto della gente ai grandi magazzini per impossessarsi di generi di consumo, quasi fossimo alle soglie di eventi catastrofici e di lunga durata. Come se non bastassero un po’ di pane e pasta, e una dozzina di uova, a superare momenti difficili. Peggio ancora quando sentiamo levarsi il lamento per le introvabili fragole o «zucchine» (quelle che al Nord si continua a chiamare zucchini). Bando ai ridicoli rimpianti su un’età che ai nostri ragazzi sembrerà degna di cavernicoli; ma resta qualche perplessità sulla stoffa umana di cui sono intessuti tanti nostri contemporanei.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9764
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