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Autore Discussione: ESTERO  (Letto 11002 volte)
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« inserito:: Maggio 30, 2007, 10:55:13 pm »

«Così la guerra dei diamanti ci ha rubato la nostra terra»

Toni Fontana


Il passaggio di Roy Sesana nei corridoi del Senato, tra i parlamentari immersi nelle questioni della politica italiana, ha creato un po’ di sorpresa. Non è del resto cosa di tutti i giorni, anche in una città cosmopolita come Roma, vedere un personaggio come lui. Sguardo tagliente, un sorriso graffiante che ricorda quello di un altro figlio dell’Africa, Nelson Mandela, Roy Sesana è il leader di boscimani del Kalahari (Botswana), il testimone della resistenza di un popolo che rischia di essere sacrificato sull’altare del profitto e della sete delle grandi compagnie diamantifere. Roy parla nella lingua a schiocco del suo popolo e riassume in poche frasi il senso della sua battaglia: «La terra è madre, la terra è vita, nella terra sono sepolti i nostri antenati». «Nessun popolo al mondo - aggiunge l’avvocato Stephen Corry, direttore di Survival, l’associazione che ha adottato la causa dei boscimani - ha mai vissuto così a lungo nella propria terra».

I boscimani abitano le terre dell’Africa meridionale da 20mila anni. Solo uno speciale rapporto con la flora e la fauna ha permesso loro di sopravvivere. Da 200 anni sono vittime della violenza dei coloni bianchi e delle tribù Bantu. Solo alcune migliaia di membri delle tribù Gana e Gwi sono scampati al genocidio. Nel 1961 venne istituito il Central Kalahari Game Reserve, la più estesa riserva dell’Africa (52mila kmq), allo scopo di «tutelare» i 3-5000 boscimani Gana e Gwi che vi vivevano. Il proposito era quello di lasciare intatta la loro cultura, unica soprattutto per lo spiccato senso musicale di molti nativi. Ma i guai, iniziarono con la scoperta dei diamanti. A partire dal 1997 i boscimani hanno subito deportazioni in veri e propri campi di concentramento, violenze e stupri. I pozzi sono stati cementati, le riserve d’acqua disperse nella sabbia, la caccia è stata vietata. I boscimani, come gli indiani d’America, sono stati confinati in ghetti dove alcolismo e Aids hanno creato le condizioni per la «soluzione finale», cioè l’annientamento del popolo più antico del pianeta. Fin dal 1991 Roy Sesana, boscimane Gana (il vero nome nelle lingua locale è Tobee teori), all’incirca sessantacinquenne, ha assunto la guida del Fpk (First People of the Kalahari) che si batte per i diritti dei popoli nativi. Incarcerato e torturato più volte ha iniziato nel 2006 una battaglia legale contro il governo del Botswana. Il 13 dicembre 2006, dopo 134 giorni di udienza, e 19mila pagine di verbali, l’Alta Corte del Botswana, ha pronunciato una storica sentenza. Gli sfratti sono stati dichiarati «illegali» ed è stato riconosciuto il diritto dei boscimani a vivere nella terra dei loro avi. Ma i problemi non sono finiti. Come hanno spiegato ieri Roy e l’avvocato Corry solo i 200 attori della causa sono stati autorizzati a tornare nella riserva con le loro capre. Senza il bestiame i boscimani non possono sopravvivere nelle aspre terre del Ckgr. Neppure il conferimento a Sesana del Right Livelihood Award (il Nobel alternativo) avvenuto nel 2005 ha fermato la repressione e, nel 2005, altri militanti del Fpk sono stati arrestati e torturati.

«Ci hanno deportato caricandoci sui camion - ha detto ieri Roy - ora ci negano ogni aiuto per tornare». La De Beers, che firma una parte consistente dei diamanti del pianeta, ha nel frattempo concluso lo sfruttamento di una miniera nella riserva, ma le ricerche di altri siti proseguono e non è solo la sete della multinazionali a minacciare i boscimani, ma anche il razzismo di un parte dei neri e dei bianchi del Botswana. E, mentre i boscimani rischiano di sparire il presidente del paese africano, Mogae, viene regolarmente ricevuto a Londra e nelle capitali dell’Occidente. L’associazione Survival ha appunto adottato la loro causa attuando anche clamorose iniziative. Quando la De Beers ha aperto il primo negozio a Londra le gigantografie pubblicitarie con la modella Iman sono state coperte con manifesti con la scritta: «I boscimani non sono per sempre». Ora Survival si batte affinché venga ratificata la Convenzione Ilo 169 sui popoli indigeni e tribali. Solo quattro paesi europei l’hanno fatto. Survival ha diffuso ieri una lettera del presidente Zapatero che annuncia la ratifica da parte della Spagna (poi effettuata). In Italia l’associazione ha inviato una lettera a D’Alema. In Senato l’iniziativa è stata presa dal senatore Francesco Martone (Verdi).

Pubblicato il: 30.05.07
Modificato il: 30.05.07 alle ore 8.59   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 01, 2007, 11:50:05 am »

31/5/2007
 
Il sì dell'Onu al tribunale per la morte di Hariri
 

 Sulle guance ben rasate del giovine Bashar al-Assad da poche ore rieletto a stragrande maggioranza Rais cioè Presidente della Siria, è arrivato un sonoro schiaffo, proprio uno schiaffone. A dispetto dell'opposizione forte insistita di Russia e Cina, gli Stati Uniti e l'Europa sono riusciti a strappare al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, una risoluzione vincolante. La risoluzione 1757 instituisce infatti il Tribunale Internazionale che dovrà processare i presunti assassini tutti siriani dell'ex premier libanese Rafic Hariri. La notizia è arrivata nella notte in una Beirut semideserta coi nervi tesi ed è arrivata la notizia curiosamente insieme con la rituale brezza che, da che mondo è mondo giunge da Cipro col primo buio della sera. Ora è giusto dire e scrivere che l'assassinio di Hariri deve assolutamente avere nome e cognome perchè giustizia sia fatta e le Nazioni Unite non possono una volta ancora perdere la faccia? Ma è altresì onesto dire che la risoluzione al 1757 potrebbe avere paradossalmente effetti devastanti nei già felici paesi dei Cedri, che da produttore di benessere rischia di diventare e per sempre stavolta, produttore di cadaveri. Effetti devastanti perchè il piccolo democratico paese detto la Svizzera del Medio Oriente è in piedi per scommessa, avendo un presidente Emile Lahoud che considera illegittimo il governo del "maronita signora" il quale coraggiosamente indica nei servizi segreti di Damasco i mandanti e gli esecutori dell'assassinio di Hariri. La morte di Hariri fu definita una disgrazia benefica perchè provocò quella primavera di Beirut in forza della quale sotto la spinta dell'opinione pubblica e internazionale la Siria fu costretta a ritirare le sue truppe dal Libano. Il fatto è che la Siria ha sempre considerato il Libano una sua provincia sicchè ha sempre rifiutato di scambiare rapporti diplomatici. Non si scambiano ambasciatori dentro lo stesso paese, diceva Hafez el Assad dittatore padrone della Siria il padre dell'attuale presidente Bashar. Il Libano è una creazione di imperialismo tuonavano a Damasco. Durante i trent'anni la Siria ha "morgonaticamente" occupato il Libano sfruttando la sua economia e dominando la sua politica con la scusa di difendere il piccolo paese dei Cedri contro Israele. La Siria grande e bel paese subisce da decenni una implacabile dittatura che il giovine Al Assad Pascià cercò di allentare, subito dissuaso dall'esercito e da quella realtà politica chiamata Hezbollah cioè il Partito di Dio che Khomeini dopo la cacciata dello Scià creò nella Beca, la splendida valle libanese dominata da solenni rovine romane. La presenza siriana e lo stato nello stato palestinese han fatto del Libano un facile bersaglio per Israele, lo sappiamo. Il mitico generale Dayan e lo stesso morto vivo Sharon, han sempre tentato l'avventura militare che sottomettesse un Libano e questo perchè il Libano viene considerato benedetto, benedetto dalle acque del fiume Litani. C'è un terribile conto aperto fra Gerusalemme e Beirut lo abbiamo visto di recente quando l'aviazione israeliana ha polverizzato la Beirut nuova, frutto di un'annosa ricostruzione dopo una guerra civile durata sedici anni. Oggi come oggi, il Libano è spaccato in due. La minoranza Maronita teme la prepotenza di Hezbollah intrecciata la longa manus siriana, teme di pagare il prezzo di una auspicata trattativa tra Gerusalemme e Damasco con la regia di Washington. Il Libano è più di un paese disse Giovanni Paolo II, il Libano è un messaggio, sì un messaggio al mondo arabo, al mondo intero, un messaggio di civiltà. Ma un vecchio adagio mediorientale dice: "Per far la guerra ci vuole l'Egitto, per far la pace ci vuole la Siria". Buonasera

Igor Man

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« Risposta #2 inserito:: Giugno 04, 2007, 10:58:22 pm »

Saeb Erekat: «All’Italia e ai Grandi dico: decidete sui caschi blu a Gaza»

Umberto De Giovannangeli


«Ho letto i suoi reportage da Gaza e dalla West Bank. Raccontano fedelmente la realtà drammatica in cui è costretta a vivere una popolazione sotto assedio e, penso a Gaza, anche in balia di bande armate che non rispettano la legge. Non voglio sfuggire alle nostre responsabilità, ma sfido chiunque a far valere le ragioni del diritto e il rispetto della legge sotto occupazione e con il boicottaggio internazionale». Siamo a Gerico, nell’ufficio di Saeb Erekat, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Mi accompagna Osama Hamdan, che aveva tradotto per Erekat i reportage dai Territori pubblicati nei giorni scorsi dall’Unità. Il nostro colloquio è interrotto più volte da lunghe telefonate con la Muqata, il quartier generale del presidente dell’Anp a Ramallah, e con l’ufficio del primo ministro israeliano Ehud Olmert a Gerusalemme. Erekat sta preparando il faccia a faccia tra Abu Mazen e Olmert in programma per il prossimo 7 giugno; il vertice, anticipa Erekat a l’Unità, «dovrebbe svolgersi proprio qui a Gerico. Ma ciò che più conta - aggiunge il capo negoziatore dell’Anp - è che da questo incontro se ne esca con decisioni concrete che ridiano un senso al dialogo».

Sul caos armato a Gaza, Erekat non nasconde le sue preoccupazioni: «La situazione - dice - rischia di sfuggire completamente di mano a tutti. Resto convinto che per fermare la violenza occorre rispettare il principio che deve esserci una sola autorità e una sola forza armata». La dirigenza palestinese conta molto sull’iniziativa diplomatica italiana. E dalle colonne dell’Unità, Erekat lancia un appello al premier Romano Prodi e al ministro degli Esteri Massimo D’Alema: «Il vertice del G8 (dal 6 all’8 giugno in Germania, ndr.) sarà anche occasione per una riunione del Quartetto (Usa, Onu, Ue, Russia, ndr.). All’Italia chiedo di riproporre in questa sede la necessità di ripensare i rapporti con il governo di unità nazionale palestinese, ponendo fine al boicottaggio, e di prendere in seria considerazione l’ipotesi di dislocare in tempi rapidi una forza di osservatori internazionali sotto egida Onu nella Striscia di Gaza. Una forza che contribuisca innanzi tutto a scongiurare un disastro umanitario».

I «murati» della Cisgiordania. I «prigionieri di Gaza». È corretto, sintetizzare così la situazione nei Territori?
«Sono definizioni drammatiche che rispondono alla realtà. Quella vissuta dalla popolazione palestinese è una condizione di sofferenza indicibile. Questo vale soprattutto per la Striscia di Gaza, ridotta ad una prigione a cielo aperto».

Una prigione dove regna il caos armato e dove l’unica legge che sembra contare è quella dei kalashnikov. Raccontando ciò che ho visto a Gaza, ho parlato del «suicidio» di una nazione. Concorda con questa definizione?
«Condivido la sottolineatura della drammaticità della situazione, ma più che di suicidio parlerei di un tentativo in atto di liquidare la causa palestinese. Definizione per definizione, parlerei di un omicidio della causa palestinese. Voglio essere ancora più chiaro: gli scontri armati interpalestinesi mettono in pericolo non solo il governo di unità, ma lo stesso tessuto sociale palestinese, la causa palestinese e la strategia palestinese nel loro insieme. E c’è chi dall’esterno punta allo sfascio».

Lei batte molto sul tasto della necessità di far valere il principio di un’unica autorità e di un’unica forza armata. Parla di diritto, di rispetto della legge, ma a Gaza la realtà trasuda rabbia, disperazione, violenza.
«Alla base di questa realtà c’è la frustrazione e l’assenza di speranza per il futuro, specie tra i giovani palestinesi. Qui sta la vera sfida, per tutti coloro che cercano con sincerità una soluzione condivisa al conflitto israelo-palestinese: ridare una speranza ai senza futuro di Gaza. E per farlo occorre rivedere la posizione verso il governo in carica».

Nel senso?
«Nel senso di porre fine al boicottaggio. All’Europa dico: vincolate i finanziamenti ad un controllo severo sul loro utilizzo, vincolateli a progetti sociali, ma non contribuite allo strangolamento di un popolo. Perché laddove, come a Gaza, oltre il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, dove il 65% dei giovani è senza lavoro, parlare di pace diventa un esercizio retorico, privo di senso reale».

La speranza fissata nel presente è anche la fine della violenza nella Striscia, sia negli scontri tra fazioni palestinesi, sia per ciò che concerne i raid aerei israeliani in risposta al lancio dei razzi Qassam su Sderot. In questa chiave, è ancora attuale l’ipotesi, avanzata dall’Italia, di una forza di interposizione nella Striscia?
«Non solo è attuale ma diviene sempre più urgente realizzarla. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a dare parere favorevole se esso può servire a sbloccare la situazione. L’Anp sostiene pienamente gli sforzi dell’Italia».

Ma è necessario anche il via libera di Israele.
«Negli ultimi giorni registriamo una modifica della posizione israeliana. Autorevoli ministri hanno aperto alla possibilità di una forza internazionale a Gaza. L’argomento è sul tavolo, anche del prossimo incontro tra il primo ministro Olmert e il presidente Abbas».

Qual è in conclusione di questo nostro incontro il messaggio che vorrebbe lanciare al governo italiano, in particolare per ciò che concerne la situazione a Gaza?
«La realtà è sotto gli occhi di tutti, e ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Senza indulgere ad autoassoluzioni. Per quanto ci riguarda, non nascondiamo le nostre difficoltà, la situazione a Gaza è drammatica e rischia di essere ingovernabile. Ma la "somalizzazione" di Gaza sarebbe una sciagura per tutti, perché destabilizzerebbe ulteriormente il Medio Oriente. Per questo è tempo delle decisioni, dell’assunzione di responsabilità. Gli appelli non bastano più».

Israele s’interroga: negoziare, ma con chi?
«Con colui che Olmert incontrerà nei prossimi giorni. Con il presidente liberamente eletto dai palestinesi, con il garante del governo di unità nazionale: Abu Mazen. Non è un problema di interlocutore, ma della volontà di Israele di lavorare davvero per una pace fondata su due Stati. L’assedio di Gaza, il Muro che penetra nella Cisgiordania occupata, l’espropriazione di terre, l’unilateralismo forzato non incoraggiano la ricerca di un compromesso».

L’opinione pubblica internazionale è rimasta impressionata dal video del giornalista della Bbc Alan Johnston rapito il 12 marzo.
«Conosco personalmente Johnston e so che un giornalista corretto, capace, che ha a cuore la causa palestinese. Il suo rapimento è un atto criminale. Il presidente e il governo stanno facendo il possibile per liberarlo. Se non ci riusciranno con i mezzi pacifici, allora non escluderei una operazione delle forze di sicurezza».

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.35   
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 07, 2007, 03:38:04 pm »

NEWS
7/6/2007
 
"Occhi sul Darfur", Amnesty vigila con satelliti
 
 
Un occhio potentissimo scruterà il Darfur contro le violazioni dei diritti umani: è quello dei satelliti da oggi a disposizione di Amnesty International che, avvalendosi per la prima volta di queste potenti tecnologie, potrà proteggere 24 ore su 24 12 villaggi sudanesi, per prevenire ogni nuova violazione e permettere interventi tempestivi in caso di violenze in una regione dal 2003 scenario di terribili atrocità.

L’associazione umanitaria, che durante il 5/o Simposio Internazionale sulla Terra Digitale in corso all’Università di Berkeley in California ha presentato il progetto ’Eyes on Darfur’ finanziato dalla coalizione ’Save Darfur’, lavora in stretto rapporto con l’Associazione Americana per l’Avanzamento Scientifico - American Association for the Advancement of Science (AAAS), che ha offerto la propria esperienza nell’uso di satelliti e altre tecnologie geospaziali. Con questa iniziativa Amnesty vuole far pressione affinchè cessino definitivamente le violenze nella martoriata regione. «Nonostante quattro anni di morte e distruzione in Darfur, il Governo Sudanese ha rifiutato le richieste internazionali e la risoluzione delle Nazioni Unite (ONU) di inviare forze di pace sul luogo - denuncia Larry Cox, direttore esecutivo di Amnesty-America. Il Darfur ha bisogno di queste forze di pace, nel frattempo useremo le tecnologie satellitari per vigilare, avvertiamo quindi il presidente sudanese Omar al-Bashir che è in atto un controllo continuo per scoprire eventuali nuove violazioni».

«Il nostro obiettivo - continua Cox - è permettere alle forze di pace dell’Onu di schierarsi in Darfur e proteggere i civili vulnerabili dalle violenze». Dal 2003 il Darfur, in Sudan Occidentale, è teatro di un feroce conflitto che vede contrapposti la locale maggioranza nera alla minoranza araba, appoggiata dal governo centrale del Sudan, che è accusato di tollerare le violenze della tribù guerriera dei Janjaweed. Amnesty da sempre denuncia la ferocia dei miliziani filogovernativi, le violenze, i massacri, gli stupri.

Oggi l’associazione umanitaria ha un’arma in più per sorvegliare e prevenire nuove violenze. I satelliti messi a sua disposizione, infatti, sono sensibilissimi, possono riprendere oggetti sul territorio piccoli come piedi, e visualizzare tempestivamente persone in fuga, truppe militari concentrate in un luogo, capanne distrutte. Grazie a Eyes on Darfur, spiega Ariela Blatter, direttore del Centro di Prevenzione e Risposta alla Crisi di Amnesty-Usa, tutti, dagli attivisti agli operatori a persone qualunque, possono contribuire ad aiutare direttamente i civili del Darfur. Nel caso in cui qualcosa di sospetto venga avvistato dai satelliti, spiega Blatter, ci si può ad esempio mettere in contatto tramite telefoni satellitari con funzionari umanitari sul luogo per prevenire eventuali nuove violenze. Amnesty invita quindi gli internauti di tutto il mondo a tenere d’occhio i 12 villaggi su cui puntano le sensibilissime telecamere satellitari dal sito (www.eyesondarfur.org), che contiene anche un archivio di immagini dove sono visibili villaggi prima e dopo la distruzione.

«Il nostro obiettivo - conclude Blatter entusiasta - è monitorare il fronte attuale del conflitto e prendere provvedimenti per proteggere i civili a rischio. Le tecnologie permetteranno ad Amnesty di espandere il proprio tradizionale ruolo di denuncia delle violazioni dei diritti umani».
 
 
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 08, 2007, 04:01:44 pm »

I baby killer di Moqtada al Sadr

di Roberto Di Caro e Abdul Jassem (da Baghdad)

Sono poco più che bambini. Orfani. Mandati a mendicare o a compiere attentati dalle milizie sciite di Baghdad. L'ultimo orrore della guerra in Iraq 
Scendono dai pullmini a gruppi di due o tre, addosso consunte magliette spesso di squadre di calcio italiane, e cominciano a mendicare in mezzo al poco traffico rimasto nella centrale piazza della Liberazione o in quella che era l'area dei ristoranti verso la fontana di Ali Baba e i 40 ladroni, tra le sirene della polizia e le urla che intimano di stare cento metri alla larga dalle pattuglie di passaggio degli eserciti americano e iracheno o partono raffiche di mitra e colpi di Kalashnikov. Rovistano nell'immondizia dei quartieri ricchi di Baghdad, quelli più blindati e pericolosi per gli estranei, racimolando contenitori di plastica e lattine vuote da rivendere per un pugno di dinari agli artigiani e alle officine che poi li riusano o riciclano. Ogni tanto, denuncia il portavoce del ministero degli Interni, il generale Abdullah Muhammed, "qualcuno di loro salta in aria, mandato a uccidere e a morire da gente che gli mette in mano un pacco da portare in mezzo a un mercato affollato o davanti a un centro di arruolamento della polizia: chi vuoi che badi a un bambino, non si sono sempre fatte piccole commissioni in cambio di una mancia?".

Sono un esercito di senza nome, di 'tahal enta', di 'ehi tu'. Bambini di strada, in arabo 'atsal al shawara'. Maschi, in maggioranza, ma anche femmine dai sei ai dieci anni. Orfani, quasi tutti, in un Paese dove da quattro anni gli attentati e la guerra civile fanno da cento a 150 morti al giorno, in crescita, dove le famiglie si sfasciano, le vedove non hanno mezzi di sostentamento e la disoccupazione è all'80 per cento. Dove la sicurezza personale è una chimera, l'elettricità c'è per due ore al giorno e il venerdì è vietato girare in auto per l'incubo di stragi nelle moschee affollate per la preghiera. Dove i muri sono segnati dalle esplosioni e il puzzo di bruciato è di nuovo intenso come nei giorni successivi all'arrivo degli americani. Ancora un paio d'anni fa, nella Qarrada che provava a essere di nuovo via di negozi, moda, orafi e supermercati e ora sembra il fantasma di se stessa, o all'inizio dell'arteria chiave di Sadoon sotto l'accavallarsi di insegne che segnalavano farmacie, medici, cliniche e laboratori ora tutti sbarrati come le gallerie d'arte, i ristoranti e gli store di alcolici, ti vendevano, questi bambini e ragazzi, chewing-gum, fazzolettini di carta, aranciata Mirinda, penne biro e fiori bianchi e gialli chiamati urud: ma era una sorta di piccola economia familiare di sopravvivenza, autogestita dal capofamiglia, fuori da organizzazioni e racket. Ora gli urud non li compra né li vende più nessuno e anche il resto, per misero che sia, è pericoloso per bambini di dieci anni portarselo appresso: hanno paura che i più grandi glielo prendano con la violenza. Non resta che chiedere l'elemosina. E neppure questo lo possono più fare come prima: perché ora è diventato un business, gestito da 'imprenditori' del settore. Con la benedizione e il tornaconto, come vedremo nei dettagli, delle milizie religiose, in particolare dell'Armata del Mahdi di Moqtada al Sadr.

Quanti sono, intanto, questi bambini di strada? Due milioni, secondo Fatima Hassan Muhammed, la responsabile del settore Protezione civile del ministero per il Lavoro e gli Affari sociali: "Ma è solo una stima: come facciamo a occuparci di loro quando i nostri funzionari non possono nemmeno scendere per strada, privi di qualsiasi scorta e alla mercé dei terroristi e delle milizie armate?".

Altri, infatti, si occupano di loro. Per trovarli e parlarci ti devi spostare a Sadr City, dentro la roccaforte sciita e delle milizie di Moqtada che la controllano ormai indifferentemente di giorno e di notte. Dal centro non sono più di 15 chilometri, ma per arrivarci ci metti un'ora e mezzo, un check point dopo l'altro, fra scontri quasi quotidiani che oppongono pattuglie irachene o americane e Armata del Mahdi, fino alla barriera e al filo spinato che circondano questa città nella città. Qui, dopo una non facile mediazione, incontri Kadhum Abdul Hussein, 42 anni, barba nera e dishdasha bianca, 'businessman', come lui si definisce, in arabo 'rajul amal'. Riconosce come sua marjaia, autorità religiosa suprema, non il supremo ayatollah sciita Ali al Sistani, ma "Saied Moqtada al Sadr, che Dio lo protegga. Ho l'onore di essere uno dei primi aderenti all'Armata del Mahdi, che prepara l'ormai prossima venuta del dodicesimo imam, l'imam nascosto, per cacciare i miscredenti occupanti e dar corso alla sua missione di giudicare il mondo". Ciò che Khadum fa, dunque, sia chiaro che è in nome di Dio. "Ero autista, con il mio Toyota coaster a 21 posti trasportavo a pagamento le persone da qui al centro. Un giorno salgono dei bambini: vanno 'ala bab Allah', a bussare alla porta di Dio, mi raccontano". Cioè a mendicare. "Allora, dico: 'Vi porto io ogni giorno e vengo a riprendervi la sera. Vi proteggo. In cambio voi mi consegnate l'incasso, io vi lascio il 30 per cento'. Vado all'ufficio di al Sadr: 'La tua è un'opera umanitaria', approva il rappresentante di Moqtada: 'Ma devi lasciare un quinto del guadagno al nostro Ufficio'. È giusto: noi siamo Islam, per purificare e dare valore a ciò che facciamo, il quinto, 'al khumus', va dato a chi ne ha bisogno. E oggi i più meritevoli sono loro, i Martiri di Sadr, che con quei soldi pagano gli stipendi e le armi dell'Armata del Mahdi, l'esercito religioso nostro primo dovere".

Non lesina dettagli tecnici, Kadhum. I bambini hanno fra i sei e i 15 anni. Lui ha cominciato due anni fa con 20 di loro, oggi ne gestisce 120 con l'aiuto del fratello, per un incasso medio giornaliero tra i 150 e i 200 mila dinari, 120-170 dollari. Con migliaia di orfani nella sola Sadr City, gente che fa il suo stesso lavoro ce n'è ormai a decine: molti li conosce, non si fanno la guerra, hanno di norma buoni rapporti. E quando c'è contesa sul territorio? "Un giorno", risponde, "ero in piazza Al Watheq", zona centrale di gente ricca, metà cristiani e il resto commercianti in maggioranza sunniti: "Arriva il pullmino di un altro businessman e scarica i suoi bambini. 'Non sai che questa è zona mia?', gli chiedo. Lui si offende, litighiamo. Interviene la polizia". Li porta entrambi in galera per sfruttamento? Neanche per idea. "I poliziotti discutono con noi, grazie al loro intervento io e il mio concorrente facciamo pace: la piazza ce la dividiamo, due vie ciascuno, e ora siamo amici".

Glissa, il nostro interlocutore, sul punto se la polizia incassi oboli o percentuali per tanta disponibilità ad agevolare la sua attività "insieme umanitaria e commerciale": ma è noto che a volte basta un panino o un pacchetto di sigarette. Comunque la stragrande maggioranza dei poliziotti di Baghdad proviene proprio da Sadr City, sciiti come il ministro degli Interni Jawad al Bolani. Sarà una millanteria l'approvazione dell'Ufficio dei Martiri di Sadr, cioè dell'Armata del Mahdi di Moqtada, una copertura etico-religiosa per un'attività di sfruttamento? Non è così. Kadhum dice il vero, è lo stesso Ufficio di Sadr a confermarlo, nella persona di uno dei suoi più importanti comandanti, lo sheikh (cioè religioso, ma non discendente del Profeta come i saied) Ali Al Sudani, barba, turbante bianco, sui 45 anni. "Il fenomeno dei bambini di strada", ricostruisce Al Sudani, prende consistenza nel '91, dopo la prima guerra del Golfo, "quando la feroce repressione della rivolta sciita nel sud Iraq spinse centinaia di migliaia di disperati verso Baghdad, nell'allora Saddam City oggi Sadr City". Ma è dopo la caduta del regime nel 2003, "con l'esplosione dell'odio tra sciiti e sunniti fomentata dagli occupanti", che esuli, vagabondi, orfani e senza famiglia invadono le strade. "Il governo non li protegge, è normale che vadano a mendicare: sì, l'80 per cento di loro viene da qui, da Sadr City". Il suo Ufficio incassa il quinto degli introiti anche dagli 'imprenditori della mendicità'? "La carità è per ogni islamico complemento necessario della devozione, come sempre ripetiamo nelle nostre moschee. Chiunque voglia essere benedetto dal nostro Ufficio è tenuto ad aiutarci con i suoi beni a pagare gli stipendi dei nostri dipendenti e nutrire il nostro esercito religioso per cacciare l'occupante. Con gli stessi soldi provvediamo anche ad aiutare i poveri, chi più ne ha bisogno".

Ciò che Al Sudani descrive e rivendica è né più né meno il meccanismo onnipervasivo di controllo della vita sociale, individuale ed economica messo in opera da Moqtada al Sadr nelle aree sotto il suo controllo. La religione è il perno, le moschee sono il viatico, il 'quinto' è il finanziamento, il 'welfare islamico' che ne ridistribuisce una parte è la struttura di compattamento del consenso, la milizia religiosa armata è il nerbo del potere e lo strumento del suo esercizio quotidiano e capillare. E l'escatologia del Mahdi o imam nascosto rende incontestabile e inoppugnabile la legittimazione dell'intera catena di potere.

La risultante, in un Iraq a pezzi, è l'estrema compattezza dei singoli pezzi. Ma ciò equivale a dire che l'Iraq in quanto nazione non esiste più. Il governo del territorio è condizione discriminante per parlare di Stato e nazione: ed è esattamente ciò che nella percezione degli iracheni è ormai venuto meno, indipendentemente dagli alterni esiti degli scontri militari in atto ovunque nel 'paese dei due fiumi'.

Non stupisce che in un simile contesto si intreccino malignamente dichiarazioni di nobili ideali e bieche attività di sfruttamento. O che in aree come il Sud sciita agiscano, indisturbate tanto dal debolissimo governo centrale quanto dagli ambigui contropeteri locali, bande criminali dedite al rapimento e alla tratta di ragazze fra i 12 e i 18 anni verso gli Emirati.

La più nota è attiva nell'area di Basrah, con propaggini fino a Nassiriya e Amara: è la banda che fa capo a Adnan Yakka, 52 anni, sciita, ex proprietario di night club all'epoca di Saddam. Nella Basrah dei contrabbandieri di petrolio, dei grandi commercianti di ogni cosa con l'Iran che sta al di là dello stretto braccio di mare porta del Golfo Persico, dei servizi segreti di Tehran che qui fanno ormai il bello e il cattivo tempo, non c'era più spazio per alcol e night club. Così Yakka ha riconvertito sull'export la sua attività. Il prezzo delle ragazze vendute varia dai 10 ai 25 mila dollari, il loro viaggio dura 70 ore via mare, il loro destino è fare le entraîneuses o semplicemente le prostitute nei cabaret di Dubai.

Attentati suicidi, corruzione, saccheggi di negozi 'empi', donne schiave nei night degli Emirati, bambini di strada sfruttati a Baghdad. Sono queste oggi in Iraq le facce del quotidiano.


 
E a Baghdad è caccia al cristiano
 
La prima chiesa cristiana, quella ortodossa in Qarrada, saltò per aria a Baghdad il 2 agosto 2004: quattro morti e una decina di feriti. Lo stesso giorno altre sette furono attaccate, e semidistrutta San Pietro e Paolo in Al Dora. Comincia allora l'esodo dei cristiani dalla capitale, che ospitava senza gravi problemi quattro su cinque del milione di caldei, assiriani, siriaci, armeni e gruppi minori residenti in Iraq sotto Saddam. Un terzo almeno se ne sono già andati. Verso Siria e Giordania, con il retropensiero di emigrare in Europa, America, Australia. O nel nord Iraq, a Dohuk, Arbil, qualcuno a Suleimaniya, nel Kurdistan di fatto autonomo il cui ministro delle Finanze, Sarkis Agha Jan, ha fatto costruire per loro più di 120 villaggi e chiese, garantendo anche un piccolo sussidio. Per chi è rimasto nella capitale la vita è diventata un inferno. Contro di loro è in atto una guerra fatta di attentati, assassini, rapimenti, riscatti, ricatti, imposizioni: a condurla sono le milizie religiose di entrambi gli schieramenti islamisti, le diverse sigle dei mujaheddin sunniti come l'Armata del Mahdi dello sciita Moqtada al Sadr. Nel nome dell'imposizione della sharìa, hanno fatto esplodere o imposto la chiusura dei negozi di alcolici, dei saloni da barbiere e di pettinatrice, tenuti in genere da cristiani. Religione e interesse si alimentano nel business dei rapimenti: 200 mila dollari di riscatto per Abonahren, venditore di liquori, rapito e torturato dall'Armata del Mahdi, la stessa cifra per il prete Nawzad Petros rapito da estremisti sunniti mentre portava la comunione a un malato, 250 mila per Gengis Kass Moussa vescovo dei cattolici siriaci a Mosul nel 2005, un milione di dollari per altri cinque preti. Tenere aperto un esercizio commerciale costa un milione di dinari al mese, 800 dollari, di pizzo agli sciiti sadriani o ai mujaheddin sunniti, a seconda delle zone.

I cristiani sono controllati capillarmente, chi vende casa, auto e mobili il giorno appresso viene rapito, e liberato solo in cambio dei soldi che ha incassato: ormai se ne vanno senza niente, firmano una procura e sperano che il loro delegato prima o poi riesca a vendere e a mandare i soldi. Le chiese sono protette da barriere di cemento e filo spinato, ma a pregare ci si va sempre meno e a rischio della vita. L'alternativa è l'islamizzazione forzata. In Al Khark, quartiere a sud-ovest, solo lo scorso mese 30 ragazze sono state convertite a forza. In Al Dora, quartiere a sud-est in mano alle milizie sunnite, le condizioni imposte ai cristiani per restare sono che sposino almeno una figlia ai mujaheddin, versino dai 400 dollari in su al mese alla milizia, le donne indossino il velo. Sui muri delle loro case attaccano altoparlanti che diffondono il Corano. Chi non può emigrare si sposta almeno in quartieri relativamente meno sotto tiro, come Al Jadida, Alsina'a, Al Wahda. L'esasperazione e la rabbia dei cristiani non si rivolge solo contro i loro persecutori. Ce l'hanno con l'America, che ha regalato il Paese alle bande degli islamisti, e con i loro stessi capi religiosi: a cominciare dal patriarca Emmanuel Delli: reo di essersi rifugiato in Kurdistan, abbandonando i suoi fedeli alle persecuzioni.

da espressonline
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 15, 2007, 12:12:59 am »

Chavez: «Non accetto lezioni da chi apre Guantanamo»
Sandra Amurri


Di lui l´opposizione dice: è un populista, un accentratore che reprime ogni forma di dissenso, un dittatore travestito da democratico. Mentre per gran parte del popolo dei barrios, è colui che incarna il bisogno di riscatto, di identità e di futuro. Il presidente ci accoglie con un sorriso e tra il compiaciuto e il sorpreso esclama: «L´Unità, fondato da Antonio Gramsci!». Quel Gramsci che scoprì quando, rinchiuso nel penitenziario militare (dal ´92 al ´94), incontrava politici e intellettuali, tra cui Jorge Giordani, oggi Ministro dell´Economia, che gli regalò le «Lettere dal carcere».

Presidente, su di lei piovono molte critiche di una deriva antidemocratica...
«La verità del Venezuela non si vede al Country club o alla Lagunita, si vede nei barrios. I ricchi mi odiano. I poveri mi amano e io li amo e sono pronto a dare la vita per loro. Può sembrare una non risposta, ma così non è. Mi danno del despota, mi chiamano Hitler, non mi importa "nada". Quello che immagino e chiavismo senza Chavez. Una democrazia decentrata e partecipata. Un popolo padrone del proprio destino. È questo processo che vogliono fermare: la rivoluzione socialista bolivariana. Lo fanno con tutti i mezzi, compresa la manipolazione dell´informazione, dentro e fuori e il Paese. Ma il radicale processo di democratizzazione sociale procederà. E, da ora, ancor più velocemente, grazie al "Partito Socialista Unito del Venezuela": 5 milioni di richieste di iscrizione, raccolte nei barrios, nelle fabbriche, nelle piazze. Dove stava Venezuela 10 anni fa? E dove sta oggi? I poveri non votavano, non possedevano carta d´identità. È il cambiamento che fa paura. Hanno cercato di influenzarmi in tutti i modi: Blair, Aznar, Clinton. Aznar, prendendomi sotto braccio, mi disse: unisciti a noi e porterai il Venezuela in cima al mondo. "Sì, bene, ma cosa facciamo dei Paesi poveri, di Haiti ecc…?". "Quelli si sono già fregati!", mi rispose". Stava parlando di persone, di esseri umani...!».

Ma la non rinnovata concessione a Rctv, resta, comunque, il simbolo del suo autoritarismo sanzionato da una risoluzione dell´Unione Europea.
«La condanna, di fatto, è stata emessa dalla destra spagnola e non dall´Ue. Quella assunta è una decisione democratica che serviva al Paese. La collettività aveva diritto ad un servizio televisivo pubblico, come in Italia e in ogni paese civile. In Venezuela c´è uno squilibrio a favore del settore privato, esistevano ed esistono grandi canali privati a carattere nazionale nelle mani di poche famiglie che sono anche proprietarie di giornali di radio di tv via cavo e di telefonia».

Anche il suo amico e compagno Lula però ha preso le distanze...
«Lula ha dichiarato di considerarla una decisione assolutamente democratica, esattamente il contrario di quanto riportato. C´è da chiedersi: perché il mancato rinnovo del contratto di concessione a Rctv, affare interno di uno stato sovrano, abbia raggiunto l´opinione pubblica mondiale? Al punto che Condoleezza Rice, nel corso di una riunione sull´energia, ci ha accusato di aver violato la carta dei diritti umani. Qualcuno ha, forse, riportato la risposta, accolta da un lungo applauso, del ministro degli Esteri venezuelano che le ha chiesto, tra l´altro, se il suo Paese, paladino della libertà, avrebbe autorizzato Tves, la nostra nuova tv pubblica, a realizzare un servizio nel lager di Guantanamo? L´impero americano ha dichiarato guerra al mondo, ma sta dando segni di decadenza. Noi siamo la dignità del mondo, perché rappresentiamo chi non ha voce. Indietro non si torna: l´oligarchia deve rassegnarsi, rinunciare al golpe soave...la strategia della "miccia lenta".

Golpe soave? Strategia della miccia lenta? Ci spieghi presidente.
«Il golpe soave, di cui Bush è l´ideologo, viene portato avanti con il contributo dell´oligarchia interna. Una carica esplosiva collegata ad una lunga miccia, loro l´accendono, noi la spegniamo, loro la riaccendono, noi la spegniamo. Costruiremo una Repubblica antisismica. Stiamo combattendo una guerra di resistenza. Ma se si dovesse arrivare all´esplosione finale sarebbe un´esplosione rivoluzionaria ed io sarei lì a comandarla con il popolo che già oggi ha una più alta coscienza, è meglio organizzato, può contare sull´esercito che ha un rapporto democratico con le istituzioni. E il petrolio è utile per attuare la rivoluzione pacifica socialista bolivariana attraverso una redistribuzione delle ingenti ricchezze del Paese, finora appannaggio delle classi oligarchiche e di interessi stranieri. Ma la forza vera sta nel processo di democratizzazione. Quello che stiamo costruendo qui è un altro mondo possibile».



Pubblicato il: 14.06.07
Modificato il: 14.06.07 alle ore 14.42   
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 19, 2007, 12:11:04 pm »

Sostiene Amos Oz
Maurizio Chierici


Adesso le Palestine sono due: Gaza e Cisgiordania. Si sbranano come hanno sempre sognato i falchi di ogni cancelleria d’Occidente. L’incubo della piccola patria promessa sta per finire. La kefia di Arafat, sotto terra; Abu Mazen erede sbiadito dai muscoli di Hamas, mentre le ultime cronache ufficializzano le bantulands annunciate nelle mappe dei piani di pace che dal 1948 continuano a restringere i palestinesi in macchioline separate, a volte invisibili, abbracciate da muri e carri blindati.

Laggiù, fuori da tutto, il ghetto di Gaza, l’Egitto dove è scappata la sacra famiglia negli anni di Erode: un milione e 200mila abitanti, uno sull’altro in 363 chilometri quadrati. Quando Sharon governava, si ritira da Gaza sdegnando gli accordi con Usa, Europa, Mosca anche se Washington approva a giro di telefono e l’Europa, settimane dopo, si adegua. La volontà palestinese non conta. Sharon sgombera Gaza a condizioni che annunciano un futuro da gigantesco lager. Nessun permesso per la ricostruzione dell’aeroporto bombardato. Nessun attracco marino, proibizione che cancella anche le barche da pesca: a 100 metri da riva non possono gettare le reti. Motovedette che sorvegliano, elicotteri che intervengono. Sorgenti d’acqua sotto controllo israeliano. Anche la luce arriva da centrali lontane. Da ieri, benzina tagliata e frontiera sempre chiusa per i pendolari di Mosè, quei palestinesi di Gaza che partivano all’alba e tornavano alla sera per guadagnarsi il pane - come chicanos messicani - nei campi e nelle fabbriche del Paese padrone.

Disoccupazione al 70 per cento. Chiusi dentro; fessura di un cancello aperto sulla sponda egiziana con l’obbligo del doppio filtro: filtro israeliano, filtro del Cairo e poi sabbia, solo sabbia, per 130 chilometri prima di arrivare alla prima città. Gaza è un’enorme periferia di Napoli dove si spara alla luce del sole. Vivono di rimpianti e di rabbia. E i piccoli campi dell’odio che sgretolano il futuro di ogni palestinese, si trasformano nei laboratori della disperazione dove il fanatismo pesca a piene mani. Cos’hanno da perdere? Gli aiuti della carità internazionale filtrano goccia a goccia. Anche i 600 milioni di dollari, diritti di dogana dovuti ai palestinesi, restano congelati nelle casse di Gerusalemme. Gli stipendi pubblici non si pagano da mesi e i negozi falliscono.

L’Europa blocca ogni intervento umanitario ingigantendo il potere dei clan bene equipaggiati e dell’estremismo che nutre le loro ambizioni. Può essere una distrazione, può essere il calcolo puntato sul fanatismo di Hamas che non riconosce il diritto di sopravvivenza di Israele. E quei razzi dell’idiozia, lanciati verso le colonie vicine, inutili, piccole ferite che complicano le mediazioni dei palestinesi moderati, increspando appena la cronaca dei testimoni che resistono a Gaza. Raccontano con le lacrime nelle parole. Non piagnistei o buonismo retorico. Ogni reporter del mondo propone l’angoscia della stessa domanda: quanto potranno andare avanti ? Come una miriade di topi stretti in gabbia finiscono per affidarsi al topo prepotente. I racconti dei racconti di padri, nonni, bisavoli distruggono ogni illusione. È sempre andata così, continuerà così.

Promesse rimandate da un anno all’altro e gli anni sono mezzo secolo. Lo hanno attraversato scappando davanti alle guerre, alle rappresaglie e all’orrore dei kamikaze che ricadeva su tutti: israeliani e palestinesi innocenti. Terrorismo che cancella ogni buona volontà. «Ogni volta che gli israeliani ascoltano l’espressione “il problema dei profughi palestinesi” sentono un pugno nello stomaco. Centinaia di migliaia vivono da sempre in campi disumani. Secondo Israele la colpa è dei leader palestinesi che hanno cominciato la guerra nel 1948 e degli stessi profughi che hanno abbandonato le case sconvolti dal panico.

Per gli arabi, la responsabilità è di Israele: ha espulso la gente con forza crudele, ripete Amos Oz, scrittore israeliano. «È venuto il momento di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe che imprigiona i profughi palestinesi. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Lo Stato di Israele è sufficientemente maturo e forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni». Oz indica gli obiettivi urgenti: concessione del diritto al lavoro e nazionalità palestinese a milioni di persone senza diritti.

La definizione dello status di Gerusalemme e il trattato che finalmente segni le frontiere dello Stato ebraico; dal 1948 ad oggi restano indefinite consentendo ai falchi la fantasia di chissà quale conquista. Oz fa capire che la responsabilità della catastrofe si allarga al Libano, minaccia il regime egiziano: Mubarak, buon amico dell’occidente, resta presidente con una trasparenza elettorale che avrebbe fatto arrossire Pinochet. Ma le responsabilità risalgono agli anni che precedono Hitler e la Shoa, prima ancora che il desiderio degli ebrei di ritrovarsi nella terra promessa si trasformasse nell’esodo dei perseguitati. Le cancellerie degli stessi Paesi che oggi non vedono e non sentono hanno allegramente disegnato l’angoscia dei nostri giorni.

Nel 1924 Francia ed Inghilterra si spartiscono a Losanna l’impero ottomano. Disegnano nuove frontiere secondo le convenienze, imponendo il controllo dei porti chiave per la navigazione verso «le Indie» e il dominio dei mercati asiatici in fondo al Mediterraneo. Cominciava la febbre del petrolio. Ai francesi toccano Siria e Libano protetto da Parigi e scorporato dall’influenza di Damasco. Era già deciso nel 1916 mentre la guerra mondiale bruciava l’Europa. Cinquanta milioni di morti non hanno impallidito gli affari. L’annuncio di un Libano francese ha un risvolto spirituale e coloniale: la pace religiosa andava protetta e per pace religiosa si intendeva la costituzione dettata da Parigi. Prevede che il presidente della nuova repubblica debba essere per sempre cristiano-maronita, non importa se i musulmani sono maggioranza. Poteri minori a sunniti, greco ortodossi, drusi. Gli sciiti, sconsiderati.

L’Inghilterra unifica Baghdad all’Egitto che già controlla militarmente ed allarga i confini del Kuwait del quale è protettrice dalla fine dell’Ottocento: sempre petrolio e navi per l’India. A British Petroleum e Gulf Oil Usa il monopolio dell’oro nero. Nel 1923 si attribuisce al Kuwait il destino di Paese cassaforte, specie di vetrina del benessere alla periferia di paesi ricchi ed inquieti, sull’esempio di Honk Kong. Lo sceicco Feisal, amico di Lawrence d’Arabia è la pedina usata da Londra per sgretolare l’impero ottomano: viene incoronato re dell’Iraq. Ha un fratello che si chiama Abdullah « scarso fascino, quasi analfabeta». Per accontentarlo si traccia un pentagono nel deserto. «Sovrano di sabbia», ironia della diplomazia occidentale. Abdullah è il nonno che lascia il trono a re Hussein di Giordania, bisnonno dell’Abdullah sovrano dei nostri giorni.

Con la distrazione di un colpo di penna i kurdi vengono dispersi in quattro nazioni. Turchia e Iraq se li stanno ancora dominando, non per dominare l’inconsistenza degli uomini: continua la sete del petrolio. A Losanna nessuno si è preoccupato su come avrebbero reagito i popoli tagliati per appagare gli appetiti dei signori del mondo. 80 anni dopo, l’analisi delle Nazioni Unite, pubblicata dal Guardian di Londra, definisce «devastanti» le conseguenze della politica di Bush, ultimo signore. «Nessuno deve perdere l’opportunità di perdere l’opportunità», sospirava Abba Eban, uno dei padri di Israele. Bush le ha bruciate tutte. Il Libano brucia, i palestinesi precipitano e Gaza è l’inferno che prima o poi qualcuno bombarderà. Iraq e Afghanistan sono i morti di ogni mattina. Paradossalmente i soli posti dove il voto è libero e trasparente restano Israele e Gaza. Israele per cultura e tradizione; Gaza perché lontana dalla corruzione di Fatah nell’illusione che protagonisti non compromessi possano cambiare con i muscoli la vita insopportabile.

Ma se la ragione all’improvviso tornasse, e scoppiasse la pace, c’è da essere contenti? Le inquietudini armate e le guerre di bassa e alta intensità, che da anni sconvolgono Medio Oriente, Filippine, Afghanistan, Africa e America Latina hanno allevato generazioni di guerriglie. Sanno solo combattere. Invecchiano con questo mestiere e i figli ne prendono il posto. A volte la patria è lo straccio di una bandiera clandestina: paga casa, minestra, apre modesti conti in banca. Le armi, unico strumento di lavoro: come possono riciclarsi nelle abitudini che non conoscono? Ma le cose non si mettono male: Al Qaeda e i Contractors Usa offrono la continuità dell’impiego. Se una guerriglia declina in Colombia, la società Balckwater americana è pronta ad accogliere gli sfiduciati. Con la guerra in Afghanistan ed Iraq è diventata il quinto braccio militare degli Stati Uniti. Braccio privato ma col vice presidente Dick Cheney e Rumsfeld, alle spalle. Coffer Black, leggendario protagonista delle azioni segrete Cia, ne è vice presidente. Ventimila agenti, aerei ed elicotteri da guerra.

Ufficialmente il governo Bush sborsa 100 milioni di dollari l’anno, ma il comitato d’inchiesta delle Nazioni Unite riunito a Ginevra dallo spagnolo Luis Gomez del Prado, si è accorto che le cifre sono più consistenti: attraverso scatole cinesi il Pentagono paga in nero. Coi democratici che controllano le camere a Washington l’aria è cambiata. I professionisti «ready to go», pronti per intervenire in qualsiasi momento, stanno lasciando: troppo rischio per pochi soldi. E Blackwaters recluta in Colombia fra i paramilitari della destra che imbarazzano Uribe. Blackwaters cerca in Guatemala e Salvador ex squadre della morte. Ufficiali di «seria professionalità» venezuelani ed argentini. Democrazia e pacificazione hanno annebbiato il loro potere e rimpicciolito gli stipendi. Se i nuovi stipendi Blackwaters sono poca cosa per i professionisti dell’altra America, per i professionisti latini è una paga di rispetto. La seduzione di Al Qaeda lega ai soldi il sacro furore integralista e al nazionalismo panarabo che riaccende i fuochi. Va forte in Pakistan, recluta in Europa e Nordafrica.

Le preoccupazioni della commissione di Ginevra per il momento restano preoccupazioni, ma se a Gaza all’improvviso tornasse la ragione, chi è cresciuto con le armi del nonno e del padre; chi sbarca il lunario con lo stipendio delle bande armate e si sposa e cresce i figli; se tutti si mettono proprio d’accordo non sa come cercare un’occupazione normale. «Attenzione», avverte il documento di Ginevra. «È urgente capire cosa succederà di questi uomini quando guerre e guerriglie si spegneranno». Se davvero si spengono ce li ritroviamo sotto casa con un solo mestiere. Ma da Gaza arriva una buona notizia: continuano ad ammazzarsi.


Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 11.55   
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« Ultima modifica: Giugno 19, 2007, 06:09:34 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 19, 2007, 06:09:02 pm »

Royal-Hollande: Fine del Pacs più famoso di Francia

Gianni Marsilli


«Ho chiesto a François Hollande di lasciare il nostro domicilio e di vivere la sua storia sentimentale per conto suo, e gli ho augurato di essere felice». Lui ha ottemperato. Ha preso le sue cose e se n’è andato. Oggi il Pacs più famoso d’Europa non c’è più.

Ne restano tracce importanti. Restano innanzitutto quattro figli: «Ho taciuto durante la campagna per le presidenziali e per le legislative anche per proteggerli», dice lei.

Ma restano anche tracce politiche. Lei ha un programma preciso: succedere a François alla testa del partito. Lui dice di non essere contrario in linea di principio, ma chiede che lei faccia le cose secondo le regole, che si metta in fila e che faccia la sua battaglia. C'è un primo contrasto: lei vorrebbe accelerare i tempi, andare ad un congresso entro l'anno. Lui invita alla calma: il congresso si terrà, ma alla scadenza naturale, nell'autunno del 2008. Lei ha parlato di loro due in un libro che uscirà domani e in un'intervista radiofonica trasmessa ieri.

Lui ha reagito in tv spiegando con calma agli intervistatori assatanati che non ha nessuna intenzione di «discutere in pubblico di faccende private prive di qualsiasi interesse politico».

Decisamente, Ségolène Royal, che vinca o che perda, occupa la scena. Da oggi non ha più comprimari. Niente più ingombranti bagagli coniugali: libera e bella. Nell'intervista rilasciata a France Inter fa un grande sospiro, e poi spiega pazientemente, con bella voce roca così diversa dai toni alti dei comizi: «Ho deciso così perché le cose siano ben chiare davanti a noi stessi e davanti agli altri». Prima di render pubblica la sua separazione ha aspettato che il ciclo elettorale si concludesse, e che i figli digerissero la notizia in famiglia, e non attraverso le prime pagine dei giornali.

Lei non lo racconta, ma si sa che galeotta fu una sera dello scorso settembre. Sapeva che François era a cena alla Brasserie Lipp con il numero due del partito, François Rebsamen, e con il portavoce Julien Dray. I tre erano a metà del pasto: bip bip, fece il cellulare di Hollande. Lui chinò la testa di lato, bisbigliò qualcosa, si scusò e partì come se avesse il diavolo alle calcagna senza una parola di spiegazione. Accidenti, si dissero gli altri due con uno sguardo d'intesa. Alto bip bip sul cellulare di Julien Dray. Era lei, Ségolène: ma François non è lì con voi? Bofonchiò qualcosa di poco convincente, il povero portavoce. La faccenda era chiara: François, tutto Ps e Ségolène, aveva insospettate risorse. L'«altra» è una giornalista di Paris Match, settimanale diffusissimo e già prodigo di copertine per…Ségolène. Piuttosto avvenente, coniugata con prole numerosa. Pare sia una storia seria, non la classica sbandata del cinquantenne. Il marito non ha gradito l'intrusione del pur simpatico Hollande. Ségolène neanche, come si è visto. Cose che capitano. Un anno fa pareva ancora che tutto filasse per il verso giusto. Tanto che lei, il 29 giugno, chiacchierando con tre giornalisti a bordo di un TGV, si era lasciata andare: «Oh sì, con François potremmo sposarci». E quando, e dove? «Magari in Polinesia», aveva risposto allegramente. Da laggiù Oscar Temaru, gran capo indipendentista degli isolani, aveva cinguettato felice: venite, vi sposo io, e poi facciamo un giro in piroga.

La risposta di François non fu sulla stessa lunghezza d'onda: schivò la questione, intonando il ritornello sul privato che è privato, e il politico che è politico. Poi quella sera di settembre, i dubbi che diventano certezze, la decisione comune di non farne parola fino al quarto ed ultimo giro di valzer elettorale. Campagne separate, tranne un giorno di fine marzo a Limoges, dove salirono insieme, loro due, sullo stesso palco. Lui le diede persino un bacio (sulla guancia) che lei accettò regale e magnanima, mentre la sala crollava di fischi e applausi entusiasti. Mancavano solo i confetti, quella sera a Limoges. Ma fu l'unica sera, poi di nuovo ognun per sé.

Lei con un perenne codazzo di microfoni e telecamere, lui con qualche cronista locale. Fino all'epitaffio radiofonico: «Non abitiamo più insieme, e ciò corrisponde alla realtà della nostra relazione». Lei vuole chiarezza, non vendette: «Non farò niente contro di lui».

L'ha solo congedato, come un presidente fa con il suo premier, dicono i maligni.

Pubblicato il: 19.06.07
Modificato il: 19.06.07 alle ore 12.27   
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 02, 2007, 11:24:19 pm »

30-07-2007

Prezzo minimo imposto, l'America cancella il divieto

Giuseppe Colangelo


Con la sentenza della Corte Suprema del 28 giugno 2007 sul caso Leegin è venuta meno una quasi secolare tradizione giurisprudenziale dell’Autorità antitrust Usa, avviata sin dal caso Dr. Miles del 1911: considerava tutte le varie forme di imposizione di prezzo al dettaglio fatte dal produttore al distributore, in primis il prezzo minimo, come vietate di per sé (per se rule). Si riteneva che le restrizioni non potessero che avere effetti anticoncorrenziali prevalenti. Tale regola viene ora abbandonata e sostituita dalla rule of reason, che abilita l’Autorità antitrust a procedere con la logica del caso per caso.

La differenza tra imposizione di prezzo massimo e prezzo minimo

È stata una decisione sofferta, quella della Corte Suprema, presa con quattro giudici dissenzienti. Si inserisce comunque in un trend consolidato e ultradecennale volto all’indebolimento, e in definitiva all’eliminazione, del divieto per se su tutte le restrizioni verticali in uso tra produttori e distributori, anche le più controverse. Si può infatti ricordare che dal 1937 al 1975 la legislazione antitrust americana ha sospeso il divieto per se del prezzo imposto dal produttore. (1)
Nel 1975 il principio applicato nel caso Dr. Miles è stato reintrodotto, ma subito dopo è stato indebolito con una serie di sentenze tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Nel 1977, ad esempio, nel caso Sylvania è stato eliminato il divieto per se sui contratti verticali "non di prezzo" come la distribuzione esclusiva e territoriale. Nel 1997 con il caso State Oil è stato tolto il divieto per se sul prezzo massimo imposto dal produttore. Rimaneva dunque il divieto per se solo sui casi più controversi: la fissazione di un prezzo minimo imposto o di un prezzo imposto tout court. Ora è saltato anche su questi.
Nell’analisi economica, tuttavia, se è condiviso che un prezzo massimo imposto dal produttore possa avere importanti effetti benefici per la società, in quanto limita l’abilità del distributore di applicare un proprio margine di profitto e quindi rende possibile tenere più bassi i prezzi per i consumatori, è molto più controverso il caso del prezzo minimo imposto dal produttore (o del prezzo imposto tout court). Mentre sembrano chiari e significativi i suoi effetti anticompetitivi, rimangono dubbi e di incerta quantificazione gli effetti positivi.
Tra gli effetti anticompetitivi, non vi è dubbio che un prezzo minimo imposto indebolisce la concorrenza tra i distributori (intrabrand competition) e quindi più che probabilmente rende più alti i prezzi ai consumatori. Inoltre, può costituire una leva per i produttori con cui aumentare il grado di stabilità e di tenuta dei propri cartelli. Tra i più importanti effetti positivi, si può annoverare l’essere uno strumento per impedire a un distributore di fare free riding sui servizi promozionali da erogare alla clientela prima della vendita. Si vuole impedire ad esempio che i clienti raccolgano informazioni sul prodotto (poniamo un pc) da un distributore tradizionale, per poi realizzare l’acquisto da un distributore online che non dà servizi informativi alla clientela, ma concede un robusto sconto. Un secondo vantaggio, rilevante soprattutto nel caso dei beni di lusso, è di impedire che i clienti inferiscano erroneamente da sconti osservati nel prezzo una riduzione della qualità del prodotto, a discapito della reputazione del produttore. Molto più dubbio è invece che il prezzo minimo imposto renda più effettiva la concorrenza tra i produttori (interbrand competition), come pure sostenuto dalla Corte Suprema. Perché mai questo dovrebbe accadere? Il ragionamento economico non viene esplicitato nella sentenza.

Il caso Leegin

Nel caso di specie, un produttore di articoli in pelle, Leegin, è stato accusato da un distributore texano di avergli imposto un prezzo minimo da praticare al consumatore su una linea di cinte da donna presente sul mercato con il marchio "Brighton". Leegin voleva in tal modo lasciare un margine di profitto alto ai distributori in modo da favorire le piccole boutique specializzate, rispetto ai grandi magazzini, in grado di assicurare al cliente un servizio di assistenza pre-vendita più accurato e personalizzato, che aiutava a mettere maggiormente in risalto il brand. La denuncia parte allorché il distributore texano, che vende il prodotto con uno sconto del 20 per cento rispetto al prezzo minimo indicato da Leegin, si vede rifiutare, da parte di quest’ultima, ulteriori acquisti del prodotto. La Corte Suprema, in opposizione a quanto stabilito nei giudizi di grado più basso, ha ritenuto che non si dovesse applicare il divieto per se alla pratica, come chiedeva il distributore texano, ma che si dovesse entrare nel merito del caso.
È pur vero che un prezzo minimo imposto in cui siano prevalenti gli effetti anti-competitivi può ancora essere vietato con la rule of reason, ma come consumatore mi sarei sentito più tutelato con il divieto per se.

Cosa farà la Commissione europea?

Resta da vedere se la Commissione europea recepirà la decisione della Corte Suprema americana. Da un lato, potrebbe farlo, come già avvenuto per il prezzo massimo imposto con il regolamento n. 2790/99 all’articolo 4(a). Dall’altro tuttavia, il caso Leegin ha analogie con quello della distribuzione selettiva, esclusiva e territoriale dei produttori automobilistici, in cui poco tempo fa la Commissione, con il regolamento n. 1400/02, ha espresso un orientamento di maggiore severità volto a non permettere l’uso di qualsiasi forma di accordo verticale. (2) Anche i produttori di automobili, come Leegin, desideravano ridurre la concorrenza tra i distributori al fine di aumentare il loro margine di profitto e dargli così il giusto incentivo a fornire una buona assistenza al cliente sia pre- che post-vendita. La Commissione europea si mostrò molto preoccupata del fatto che l’eccessivo indebolimento della concorrenza tra i concessionari potesse contribuire in modo significativo a mantenere elevati i prezzi delle automobili e da questa preoccupazione nacque un regolamento di esenzione più severo del precedente. Tra l’altro, il regolamento all’articolo 4.1(a) afferma che l’esenzione non si applica agli accordi verticali in cui venisse utilizzato un prezzo minimo imposto dal produttore o un prezzo imposto tout court.
Si tratterebbe dunque, in caso di recepimento dell’orientamento americano, di una brusca virata rispetto agli orientamenti seguiti nel periodo in cui Mario Monti era commissario alla Concorrenza dell’Unione Europea.


(1) È stato fatto questo attraverso il Miller-Tydings Resale Price Maintenance Act del 1937 e con il McGuire Act del 1952.
(2) Nel caso delle automobili si trattava della distribuzione selettiva con esclusiva territoriale e non di un prezzo minimo imposto.

 
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 05, 2007, 11:30:57 pm »

Yehoshua: «Anche da confini certi nascerà la pace»

Umberto De Giovannangeli


«La pace è anche una sfida con se stessi, con le paure, le diffidenze, che abbiamo interiorizzato. La pace è liberarsi di queste paure, scrollarsi di dosso il fardello della memoria, ed è anche riconoscere le ragioni, e non solo l’esistenza, degli altri. Ma la pace è anche liberarsi dall’ossessione della propria forza. La pace, quella vera, che è ben altra cosa dall’assenza di guerra, non potrà nascere solo da una iniziativa dall’alto, ma dovrà radicarsi nella mente e nei cuori dei due popoli». Un estate fa, di questi giorni, lo scrittore israeliano Abraham Bet Yehoshua viveva, da cittadino di Haifa, l’incubo quotidiano dei razzi katyusha che si abbattevano sulla città. Eravamo nel pieno della guerra tra Israele e Hezbollah. All’inizio di quel conflitto, lo scrittore israeliano si era schierato a favore di una risposta ferma all’attacco delle milizie sciite libanesi: «Non bisogna dimenticare - ricorda Yehoshua - che il 12 luglio Hezbollah sferrò un attacco a Israele, uccidendo otto soldati, rapendone due e bersagliando con i suoi razzi i centri israeliani del Nord. Quella risposta era necessaria e giustificata anche sul piano morale, ma poi…». Dietro quel «poi» c’è il ripensamento dello scrittore, il suo gridare «basta», un appello rivolto alle autorità di Israele: «Qualcuno - riflette a un anno di distanza lo scrittore - si illuse o fu portato a credere che con la guerra avremmo potuto "pacificare" il Libano. Quell’illusione si rivelò un tragico errore». E l’errore più grande «è credere che esista una scorciatoia militare all’affermazione del nostro sacrosanto diritto alla sicurezza. Le armi non potranno mai sostituire la politica nella ricerca di un compromesso che ridisegni il volto di un nuovo Medio Oriente».

Yehoshua guarda con favore e con cauto ottimismo alle aperture del premier Olmert nei riguardi del presidente palestinese Abu Mazen: «Per una volta - osserva - due debolezze riescono a fare una forza…». Ma la pace, quella vera, non può riguardare solo israeliani e palestinesi. «Resto convinto - afferma Yehoshua - che occorra estendere il nostro orizzonte fino comprendere la Siria. A Olmert dico: metti alla prova Bashar Assad. Aprire a Damasco significherebbe anche provare a spezzare la pericolosissima alleanza fra la Siria e l’Iran». Presente e passato s’intrecciano nelle riflessioni del grande scrittore israeliano, che oggi si gode il successo del suo ultimo romanzo «Fuoco amico», che presto uscirà anche in Italia per Einaudi. Al centro del nostro colloquio c’è sempre lo sforzo di definire al livello più alto il concetto di pace. Che nella visione di Yehoshua è anche rivisitazione critica della storia nazionale: «La pace - dice - potrà dispiegarsi solo quando tutti noi, israeliani e palestinesi, avremo compreso l’essenza di questo conflitto, nel quale a scontrarsi non sono il Bene e il Male, la Ragione e il Torto, Bios e Thanatos ma due ragioni, due diritti egualmente fondati». La pace, dunque, «è anche l’ammissione da parte nostra che la nascita di Israele si fonda su un atto vissuto da un altro popolo come un sopruso».

Un anno fa di questi tempi, le armi tuonavano in Medio Oriente. Un anno dopo, come definirebbe la situazione?

«Haifa ha ripreso a pulsare di vita. I locali sono animati, il dialogo tra la comunità ebraica e quella araba che rende culturalmente ricca Haifa non si è mai spezzato. Il che non significa chiudere gli occhi di fronte alle incognite del futuro…».

Quali sono queste incognite viste da Haifa?

«Il Libano è un Paese tutt’altro che stabilizzato. Hezbollah non ma mai cessato di riarmarsi e ora sembra che nel Sud si siano insediate anche cellule qaediste. La vigilanza è d’obbligo, ma proprio per questo ritengo di straordinario significato l’impegno di quei caschi blu dispiegati ai confini tra Libano e Israele: senza di loro, non vi sarebbe stata stabilizzazione. E noi israeliani non dovremmo dimenticare che se ciò è avvenuto, molto è dipeso dalla determinazione dell’Italia. Dodici mesi dopo, non siamo all’anno zero: si sono generate dinamiche che hanno anche risvolti positivi».

A cosa si riferisce?

«Penso al piano di pace saudita e alla disponibilità manifestata da Riad a essere parte della conferenza internazionale lanciata da Bush. Mi paiono segnali incoraggianti dietro ai quali emerge la consapevolezza, non solo saudita ma anche di altre nazioni arabe, che la pace con Israele - e la fine del conflitto israelo-palestinese - sia uno strumento strategico per arginare la marea fondamentalista sciita».

Dal Libano al fronte palestinese. C’è chi parla di un nuovo feeling tra Olmert e Abu Mazen.

«Non credo che sia scoppiato l’amore tra i due; penso invece che forse per una volta due debolezze possano fare una forza. Ciò che conta, per Israele, è riconoscere di avere finalmente un partner credibile con cui negoziare un accordo globale di pace. Abu Mazen lo è. E negoziare la pace, è questo che Olmert dovrebbe dire chiaro e forte in un discorso alla Nazione, non significa per noi israeliano cedere al nemico; negoziare non è una resa, non è una concessione, ma è l’unica via percorribile se si vuole davvero preservare i due pilastri su cui si fonda Israele: la sua democrazia e l’identità ebraica».

Negoziare la pace. Qual è la questione davvero cruciale tra le tante ?

«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo».

In cosa consiste questo «altro»?

«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari - come lo è ogni popolo - senza preoccuparci di perdere l’identità».

Normalità e Gerusalemme: è un binomio possibile?

«Sì, a patto, però, che ognuna delle parti si liberi di quella bramosia da possesso assoluto in nome della quale tanto sangue è stato fatto scorrere. Ciò riguarda soprattutto il controllo della Città vecchia. Bisogna che Israele rinunci alla sua sovranità nell’area e che i palestinesi facciano altrettanto. Si tratta invece di chiedere all’Europa cristiana, più ancora che all’America cristiana, agli israeliani e ai musulmani, non solo palestinesi, di gestire in comune la Città vecchia. Gerusalemme non può che essere condivisa, non solo dai due popoli ma dall’intero genere umano, perché Gerusalemme è un patrimonio dell’umanità».

La pace e i vicini arabi. È ancora convinto della possibilità, oltre che dell’opportunità, di aprire alla Siria?

«Non si tratta di firmare assegni in bianco a Bashar Assad ma di esplorare con maggiore attenzione l’opzione siriana, verificando tutti quei punti che sono sul tavolo da decenni: un Golan smilitarizzato e aperto alle due popolazioni potrebbe essere la soluzione che metterebbe fine al conflitto israelo-siriano. Di una cosa resto convinto: Israele non ha speranza a lungo termine se non trova un accordo con gli arabi».


Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 9.10   
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:27:46 pm »

Globalizziamo i bambini

Maurizio Chierici


Quando ha comperato il Times scandalizzando Londra, Citizen Murdoch, l’editore australiano che sta mangiando ogni Tv e ogni giornale, si è giustificato con uno strano discorso: «È necessario internazionalizzare i media. Nell’era della globalizzazione e dei satelliti mi propongo di sottrarre i media agli egoismi dei notabili di ogni nazione, chiusi e propensi a piegarli ad interessi economici e politici locali. I lettori di Londra e i lettori di New York devono avere le stesse informazioni non inquinate da trame personali». Specie di crociata per difendere la lealtà globale dagli appetiti degli editori di provincia. Con un piccolo handicap: era e resta una internazionalizzazione privatizzata. Ogni decisione passa dalla sua scrivania. Citizen Murdoch è il gioco di Citizen Kane, film che Orson Welles ha dedicato cinquant’anni fa all’editore Hearst, signore della California con Hollywood, radio e giornali ai suoi piedi. Cinquant’anni dopo Hearst ha l’aria di un don Rodrigo di campagna.

Come tutti sanno, l’altro ieri Murdoch ha comperato il Wall Street Journal, conservatore ma corretto nel bilanciare le notizie, peso massimo dell’informazione economica che scuote le borse del mondo. Nel portafoglio americano di Murdoch le tribune dell’informazione sono tante, dal New York Post alla Fox Tv che ha combattuto in Iraq al fianco di Bush. Murdoc ha appoggiato ogni sospiro di Bush, di Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Tony Blair. Sta corteggiando Hillary Clinton. Hillary fa la ritrosa e per il momento lo sdegna ma prima poi la sventurata risponderà: non può buttar via una corazzata così. Internazionalizzare resta per Murdoch la scorciatoia verso il maneggio globale delle notizie. Piccoli fratelli impallidiscono. Bisogna dire che internazionalizzare per difendere gli interessi di tutti è la bugia al quale ricorrono gli speculatori di ogni professione. Internazionalizzare per esempio il petrolio, bene dell’umanità. Guerre e massacri nel nome di questa libertà. Internazionalizzare l’Amazzonia per far respirare il mondo, ma anche per aprire la cassaforte che nasconde sotto la pelle verde, oro, uranio, alluminio, ferro e un’infinità di materie strategiche che nessuno ha il coraggio di elencare nascondendosi dietro l’alibi della scienza e delle biodiversità.

Su questo tipo di internazionalizzazione è intervenuto a New York - 2001 - il professor Cristovào Buarque. Rispondeva alla domanda di uno studente neo-liberista. Chiedeva lo studente: «Vorrei mi dicesse, come brasiliano e come umanista, se è d’accordo sulla internazionalizzazione dell’Amazzonia». Mai come quell’anno stava bruciando. E il candidato alla presidenza Bush aveva lanciato l’idea di proteggerla con un’amministrazione superstatale, eserciti compresi. Buarque, professore e rettore di università a San Paolo, aveva insegnato negli Stati Uniti ed era stato governatore di Brasilia: si preparava a diventare ministro dell’Educazione del primo governo Lula. La sua fondazione «O mundo para todos», il mondo per tutti (tutti gli sventurati, soprattutto bambini raminghi) veniva indicata dall’Onu quale modello da seguire per strappare all’emarginazioni un miliardo e mezzo di tasche vuote. Risposta famosa che val la pena ricordare adesso che Murdoc spiega l’acquisto del Wall Street Journal con l’enfasi dell’apostolo impegnato a difendere l’informazione universale.

«Come brasiliano sono contrario all’internazionalizzazione dell’Amazzonia», risponde il professor Buarque. «Anche se il mio governo non riesce a proteggerla come sarebbe necessario, l’Amazzonia è terra brasiliana a meno che non cambino le regole internazionali in modo da dare sollievo all’umanità. Da umanista non sopporto il degrado e lo sfruttamento delle foreste amazzoniche. Non sopporto che vada in fumo una selva larga sei mila di chilometri. La bruciano per allevare animali che diventano bistecche sulle tavole del nord; non sopporto la coltivazioni di cereali e soia preziosi nella fabbricazione di energie rinnovabili necessarie al mercato delle automobili e alle strutture industriali che nutrono il progresso della società. Per dar respiro all’ umanità immagino eticamente che l’Amazzonia possa essere internazionalizzata, ma proprio nel nome dell’eticità che ogni paese dovrebbe rispettare con qualche sacrificio, non mi sembra logico internazionalizzare solo l’Amazzonia. Ogni bene che sfama, consola e arricchisce la vita di miliardi di persone dovrebbe essere internazionalizzato. Il petrolio è importante nella vita delle società così come è importante l’Amazzonia, polmone del mondo. Se è giusto che la mano internazionale impedisca la deforestazione, è altrettanto doveroso che i paesi guida non possano accettare il ricatto dei padroni delle riserve di petrolio: ne aumentano o ne tagliano l’estrazione, alzano e abbassano i prezzi calcolando la convenienza di gruppi ristretti quando gli interessi sono universali. Internazionalizziamo ogni riserva. Se l’Amazzonia è utile a tutti, anche i capitali finanziari e i depositi d’oro nascosti nei bunker delle nazioni potenti, sono indispensabili a miliardi di persone umiliate da fame e sottosviluppo. Bruciare l’Amazzonia è grave, grave come la disoccupazione manovrata dalle decisioni personali di speculatori globali. Non possiamo permettere che le riserve finanziarie servano a bruciare regioni e continenti nella voluttuosità arrogante delle speculazioni. Internazionalizziamole.

Ma il mondo nel quale viviamo non conta solo le ricchezze da godere nei bei palazzi, su barche o aerei che fanno sognare l’universo delle baracche. Come umanista propongo di internazionalizzare i grandi musei. Perché il Louvre deve appartenere solo alla Francia? Il Louvre e ogni museo sono i guardiani di stanze dove si raccolgono le opere di geni che hanno illuminato la storia. Impossibile immaginare che un patrimonio il quale accompagna nei secoli la vita di tutti - proprio come il patrimonio naturale amazzonico - venga lasciato all’orgoglio di un solo paese o di collezionisti che della bellezza hanno una percezione per lo più decorativa. Possono disporne con la libertà che la loro vanità suggerisce. Possono incenerire tele o sculture con gli sfregi delle guerre o egoismi ugualmente tristi. Qualche tempo fa un milionario giapponese si è fatto seppellire assieme al quadro che più amava, opera di un grande pittore. Un quadro sotto terra, rubato al piacere delle folle e degli studiosi i quali possono solo ammirarlo nei colori approssimativi delle riproduzioni? Non è giusto. Internazionalizziamo musei e collezioni.

Mi trovo a New York per gli incontri organizzati dalle Nazioni Unite in occasione della Fiera del Millennio. Mancano i presidenti di certi paesi. Altri hanno penato per arrivare al palazzo di vetro. Filtri sgradevoli li hanno bloccati alle frontiere. Direi che è necessario internazionalizzate New York, sede delle Nazioni Unite e metropoli guida del mondo. Se non proprio l’intera città, almeno Manhattam dovrebbe appartenere all’intera umanità. Anche Parigi, Venezia, Firenze, Roma, Londra, Rio de Janeiro sono città che hanno lievitato la cultura universale. Non rappresentano la sintesi di una sola nazione, ma il confluire creativo del mondo intero. Internazionalizziamole.

I candidati alla presidenza deli Stati Uniti (candidati anno 2001) propongono di internazionalizzare le riserve forestali del pianeta: per salvarle, dicono. L’idea non è male, ma l’allargherei. Cominciamo ad usare i miliardi dei debiti condonati alle nazioni che accettano di abbassare le frontiere per affidare alle mani di tutti la salvezza delle foreste; cominciamo ad usare questi miliardi per garantire ad ogni bambino del mondo la possibilità di mangiare almeno una volta al giorno e di andare a scuola. Internazionalizziamo i bambini, non importa i posti dove sono nati; trasformiamoli come l’Amazzonia o come il Louvre in un patrimonio dell’umanità in modo da proteggerli non tenendo conto dei colori, delle lingue, delle religioni diverse. Internazionalizziamoli per non permettere che lavorino quando devono studiare e che muoiano di malattie banali o sfinimento quando devono vivere.

Come umanista sono d’accordo sulla internazionalizzazione dei patrimoni del mondo, ma se mi si definisce brasiliano nella domanda che mi è stata rivolta, invitandomi ad internazionalizzare l’Amazzonia, resto brasiliano e ripeto che l’Amazzonia è solo nostra».

Crisovào Buarque ha rimodulato le stesse provocazioni in un articolo apparso sul Globo, grande quotidiano della famiglia Marinho. Cardoso, presidente del Brasile stava per lasciare. L’economia traballava e Roberto Marinho, nonno spirituale di Berlusconi (Tv, giornali, radio, profeta delle telenovelas), guardava a Lula, eterno nemico, come a un salvagente: la faccia giusta per frenare la rabbia dei dimenticati dai governi dell’oligarchia dei quali Marinho era il megafono. Soluzione che riteneva temporanea: invece... Ed ha aperto una finestra a Buarque, studioso inquieto, intellettuale impegnato. Nelle ultime elezioni ha voltato le spalle a Lula. Fa il senatore sui banchi della sinistra che contesta il governo.

Tornando a Murdoch: il Daily News dà un consiglio ai redattori del Wall Street Journal: «Chiunque di voi creda che Murdoch possa rispettare l’indipendenza della testata, capirà nel tempo di essere stupido. Murdoch vuole solo far crescere ricchezza e potere politico». Le sue promesse somigliano alle promesse che nella campagna elettorale 2001 il giovane Bush distribuiva a proposito dell’internazionalizzazione dell’Amazzonia. Per il bene dell’informazione, per il bene dell’umanità, per salvare le foreste. In realtà è solo il bene di chi cerca il controllo globale. Con la gente normale fuori dalla porta, a mani vuote.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 06.08.07
Modificato il: 06.08.07 alle ore 8.52   
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:30:34 pm »

Salam Fayyad: «L’Italia aiuti i Territori con un Piano Marshall»

Umberto De Giovannangeli


Per l’Occidente è l’«Uomo dei conti» che tornano. Non solo in campo finanziario, ma ora anche in quello, non meno accidentato, politico. Salam Fayyad, 57 anni, primo ministro palestinese, ha una lunga frequentazione con l’Occidente e le sue istituzioni: laureato in Economia nella Texas University ad Austin, ha completato la sua preparazione all’Università Americana di Beirut: dal 1987 al 1995 ha lavorato presso la Banca Mondiale. Ministro delle Finanze nel governo di al-Fatah dal 2002, è stato nominato primo ministro dal presidente Abu Mazen dopo il golpe di Hamas a Gaza. Nel suo recente passato politico c’è anche la costituzione di un partito laico, progressista, «Terza Via», che ha come sua finalità la nascita di uno Stato di diritto in Palestina, che salvaguardi la pluralità in campo politico e religioso, garante del rispetto dei diritti umani e civili. «Sono convinto - afferma - che indipendenza e democrazia siano tra loro strettamente legate».

La pace con Israele, sottolinea Fayyad, «è una necessità per il futuro Stato palestinese» e ribadisce che gli obiettivi del suo governo sono la «costituzione di uno Stato palestinese indipendente, la giusta soluzione della questione dei rifugiati e dei confini, e la demolizione della Barriera di separazione». Per quanto concerne lo statuto di Gerusalemme, Fayyad fa sue le considerazioni espresse dallo scrittore israeliano Abraham Bet Yehoshua nell’intervista a l’Unità: «Gerusalemme -dice- deve essere concepita come città del dialogo e capitale di due Stati in pace fra loro. Una cosa è certa: nessun leader palestinese, neanche il più moderato, potrà mai sottoscrivere un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina».

Ma indipendenza si coniuga anche con un altro concetto caro a Fayyad, quello di benessere: «Una delle priorità del mio governo -afferma in proposito il premier- è la lotta alla povertà, al blocco dell’economia, che significa anche favorire lo sviluppo degli aiuti e garantire una gestione trasparente degli affari nazionali». Oggi Fayyad incontrerà il segretario dei Ds Piero Fassino, impegnato, in qualità di copresidente del Comitato per il Medio Oriente dell’Internazionale Socialista, in una missione in Israele e nei Territori. È l’occasione per fare il punto dei rapporti con l’Italia: «Le nostre relazioni -sottolinea Fayyad- sono improntate all’amicizia e alla cooperazione. Tutti i palestinesi sanno di poter contare sul sostegno del governo, del parlamento e del popolo italiani. Ed è per noi importante che sia il primo ministro Prodi che il ministro degli Esteri D’Alema abbiano ribadito più volte che una svolta di pace in Medio Oriente passa necessariamente per una soluzione della questione palestinese fondata sul principio di due popoli, due Stati».

Con il premier indicato da Abu Mazen è inevitabile toccare anche il tasto-Hamas. Al movimento islamico che definisce illegale il governo da lui presieduto, Fayyad ribatte seccamente: «La rottura è stata consumata da chi ha usato le armi per conquistare il potere a Gaza. È Hamas ad aver imboccato la strada dell’illegalità. L’impegno del mio governo è quello di ripristinare la legalità in tutta la Striscia, senza legalità non c’è spazio per uno Stato ma solo per una terra di nessuno dominata dalla logica della sopraffazione. Vorrei che i palestinesi guardassero al governo che presiedo come al governo della legalità». Il premier rivendica il diritto di resistenza all’occupazione israeliana, ma la resistenza non s’identifica con la pratica terroristica né con la deriva militarista della seconda Intifada: per questo nel programma del governo Fayyad non c’è alcun riferimento alla «muqawama», la resistenza armata all’occupante israeliano.

Signor primo ministro, dopo il golpe di Hamas a Gaza, c’è chi ha evocato la prospettiva di due Stati palestinesi. È una ipotesi realistica?
«Assolutamente no. Questa prospettiva non esiste né ora né mai. Il colpo di mano militare di Hamas non deve oscurare una verità storica: esiste un unico popolo palestinese e nel futuro c’è spazio per un solo Stato di Palestina».

In una recente intervista a l’Unità, il vice premier israeliano Haim Ramon, ha affermato che Israele può porre fine all’unilateralismo perché finalmente può contare su partner affidabili: il riferimento è a Lei e al presidente Abbas.
«Quella di Ramon è una considerazione importante ma che deve essere sostenuta da atti concreti e da una chiara strategia di pace. È importante che vadano avanti come è avvenuto oggi (ieri, ndr.) gli incontri tra il premier Olmert e il presidente Abbas per definire i punti di un Accordo di principi, ma è ancora più stringente la necessità di entrare nel merito, e senza pregiudiziali, di tutte le questioni cruciali: la politica del rinvio non si è rivelata una buona politica».

Tra le questioni cruciali c’è la definizione dei confini. Qual è in merito la sua posizione?
«Il mio riferimento sono le risoluzioni 242 e 338 dell’Onu e quanto delineato dalla Road Map. Lo Stato indipendente di Palestina deve nascere sui Territori occupati nel 1967: vi potranno essere delle correzioni concordate, sulla base della reciprocità, ma la sostanza è questa».

Lo Stato di cui Lei parla ha Gerusalemme Est come sua capitale?
«Non potrebbe essere diversamente, Gerusalemme può essere, deve essere una città condivisa. Per Gerusalemme non vedo altro futuro che quello di divenire capitale di due Stati».

In questo passaggio cruciale nel dialogo israelo-palestinese cosa si sente di chiedere all’Italia?
«Di esserci a fianco, sostenere gli sforzi del mio governo e del presidente Abbas per ripristinare la legalità nei Territori: un impegno che s’intreccia fortemente con l’accelerazione di un negoziato globale di pace».

E nell’immediato?
«L’immediato è la condizione di sofferenza che segna decine di migliaia di famiglie palestinesi, nella Striscia di Gaza come in Cisgiordania. Occorre affrontare questa emergenza umanitaria e sociale, attraverso un Piano straordinario di aiuti. Anche così si investe sulla pace: perché laddove regnano frustrazione e malessere, la parola "pace" perde di senso. Per questo confido in un impegno dell’Italia, che in parte è già avviato, perché verso il popolo palestinese si mostri una solidarietà concreta».

È ancora sul tappeto la richiesta di una forza internazionale a Gaza?
«Per quanto mi riguarda, sì».

Hamas è decisamente contraria.
«Una forza internazionale sotto egida Onu contribuirebbe a porre fine all’assedio della Striscia e a garantire gli aiuti alla popolazione civile. Il no di Hamas perpetua la sofferenza della gente di Gaza oltre che un regime di illegalità». (ha collaborato Osama Hamdan)

Pubblicato il: 07.08.07
Modificato il: 07.08.07 alle ore 10.14   
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 16, 2007, 04:59:26 pm »

Chavez prepara il via al "golpe democratico"


Il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha presentato in Parlamento il suo progetto di riforma costituzionale che mira a instaurare il «socialismo del ventunesimo secolo» e a servire «la volontà popolare».

Hugo Chavez ha presentato all'Assemblea nazionale (il parlamento di una sola Camera) la sua «proposta per una riforma costituzionale che guarda avanti» in via d'instaurare, ha affermato, «una delle costituzioni più avanzate del mondo» e di fare «infine nascere il nuovo Stato».

Questa riforma tocca 33 dei 350 articoli della Costituzione, vale a dire il 10 per cento di un testo comunque già modificato da Chavez nel 1999. Chavez intende così trasformare, l'organizzazione politico-territoriale che divide il paese in «comuni» per «instaurare un autentico potere popolare». La riforma prevede d'altronde di rinforzare i poteri dello Stato nell'economia attraverso le nazionalizzazioni dei settori petrolifero, elettrico e delle telecomunicazioni. Il potere di espropriazione dello stato andrà inoltre rafforzato, così come il suo potere di gestione delle riserve monetarie. In ambito sociale, la riforma prevede inoltre di ridurre a sei ore l'orario massimo di lavoro giornaliero.

Estendere i termini del mandato presidenziale è un altro dei punti cardine della proposta di Chavez, che vuole estendere il mandato presidenziale dai sei anni attuali a sette, ma soprattutto vuole eliminare qualsiasi limite alla rielezione del presidente.

Secondo le regole vigenti Chavez, alla fine del suo attuale mandato nel 2012, non potrebbe essere più rieletto. Se invece la riforma dovesse passare potrà essere presidente fino a quando riuscirà ad ottenere i voti necessari.


Pubblicato il: 16.08.07
Modificato il: 16.08.07 alle ore 14.41   
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