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« inserito:: Ottobre 12, 2008, 04:31:09 pm » |
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Quel pomeriggio d’inverno con Haider
Paolo Soldini
Sarà impietoso dirlo, ma è morto dove e come era naturale che morisse, Jörg Haider. Sulla strada del Loiblpass, da sempre porta d’ingresso nel mondo germanico di sloveni, croati, balcanici, turchi, veneti e friulani, greci e poveracci del sud d’Europa e del mondo. Gente che ha attraversato la «sua» Carinzia ora con le armi in mano, ora con la propria disperazione da nascondere ai gendarmi. È morto di notte, correndo troppo sull’auto che era uno dei simboli del suo potere. Da solo. Jörg Haider era un uomo complicato.
Complicato quanto quei tanti pezzi di storia dell’Europa, del mondo che parla tedesco, dell’Austria che si raggrumavano nella sua personalità un po’ schizoide: un’aria da dandy perfettino e (quando voleva) bene educato, abbronzato, sorridente, vestito nel modo giusto; capace però di dire cose terribili su «quelli che ci vengono a rubare il pane e le case» come se fossero ovvietà da non discutere neppure, di giocare senza il minimo scrupolo con l’emotività e i più infami pregiudizi razzisti, xenofobi e latentemente antisemiti della «sua» gente. Alle rimpatriate con le ex Ss, negli anni ’90, non voleva tv né giornalisti, ma poi in ogni intervista trovava il modo di farsi «scappare» qualche golosità per i nostalgici. Auschwitz? I prigionieri morirono, per lo più, per i bombardamenti americani. Il Terzo Reich ebbe «una sana politica per l’occupazione»; gli anti-nazisti furono dei traditori della patria e «nella storia vanno ricordati anche i crimini degli ebrei nei confronti dei cristiani». Quando, a fine gennaio del ’93, disse che «per gli stranieri i forni sono già pronti» perfino molti suoi seguaci lo criticarono. Ma continuarono a votarlo.
Eppure Haider, figlio di nazisti convinti, non era nazista. Giocava con le nostalgie dei suoi elettori più anziani, ma non era un nostalgico. Un gruppo di studio dell’Università di Vienna ha seguito per anni i suoi comizi e le sue performance televisive estraendo dalla sua oratoria i tratti modernissimi del demagogo perfetto. Capace di utilizzare argomenti, toni, stilemi nazisti e fascisteggianti piegandoli però a una contemporaneità inquietante quanto banale. I suoi primi passi in politica, la magistrale presa di potere in un partito di bacucchi com’era prima di lui la Fpö e poi i successi sempre più travolgenti nelle amministrative, sono contemporanei alle prime affermazioni della Lega nord in Italia e dei movimenti localistici, regionalisti e secessionisti in tutte le regioni alpine caratterizzate da una ricchezza di recente formazione e a suo modo ancora precaria, quelle in cui i nouveaux riches hanno ancora in casa le foto dei loro genitori, o dei nonni, emigranti: la Savoia, alcune regioni svizzere, il nord-est italiano. È sull’impasto tra la paura di perdere il recente benessere ad opera degli «altri», quelli di «Roma ladrona» e di «Vienna cosmopolita», l’egoismo sociale, mitizzazione della diversità delle proprie «radici» che Haider, come Bossi, come Blücher in Svizzera, ha costruto la solida struttura del suo potere. Tenuta su con un cemento potente, che nella storia ha sempre funzionato: gli stranieri sono un pericolo, quelli diversi da noi vengono a rubarci i beni e l’anima.
Quanto il politico nazionale Jörg Haider, l’uomo di cui parlava anche la stampa americana e che l’Europa cominciava sul serio a temere, fosse in realtà un prodotto della sua provincialissima patria si poteva avere inseguendolo, o inseguendone l’ombra, nei «suoi» luoghi. Un pomeriggio d’inverno salimmo in auto per la Bärental, la valle degli orsi al confine con la Slovenia dove si trova una enorme proprietà regalata a Haider dal prozio Josef Webhofer, che nel ’39 l’aveva strappata per due soldi a una famiglia di ebrei italiani (l’Unità ricostruì e raccontò la storia nella primavera del ’2000). Alla fine della strada sempre più stretta, tra due muri di neve sempre più alti, c’era un cancello chiuso e, davanti, una specie di rifugio. La padrona era molto ostile: «Andate via. Non siete a casa vostra, questa è Austria, questo è territorio della Carinzia». «Quella è la proprietà di Haider?». «Qua è tutto proprietà del Landeshauptmann Haider, è proprietà nostra».
Qualche tempo dopo - Haider e il suo partito erano stati chiamati al governo dal cancelliere cristiano-democratico Wolfgang Schüssel e l’Unione europea studiava misure per arginare la possibile infezione - si teneva una manifestazione politico-sportiva in una località sciistica sopra Klagenfurt. Accompagnato da una squadra di snowboardisti acrobatici, lui scese dalla montagna in una penosa coreografia alla Wanda Osiris davanti a poche decine di fedelissimi e tra l’ostilità evidente degli sciatori «normali». Il clima era già cambiato, lo Haider di governo piaceva molto meno dello Haider di lotta. Nella Fpö i ministri avevano già cominciato a scannarsi e sui giornali correvano insinuazioni di ogni tipo; le segretarie del suo staff cominciavano a rispondere male ai cronisti e nei talk-shows televisivi i moderatori avevano finalmente imparato a non farsi prevaricare. Il suo sorriso, ora, appariva falso anche a chi lo aveva trovato irresistibile, le sue abbronzature improbabili, patetiche le sue attillate giacchette carinziane.
La sera delle elezioni parlamentari del 24 novembre 2002 la storia di Haider sembrava finita, spenta come le luci agli ultimi piani del palazzone sulla Mariahilferstrasse, dai quali si dominava un bel pezzo di Vienna. La Fpö aveva perso clamorosamente e si stava definitivamente spaccando. Il Landeshauptmann aveva però una risorsa: casa sua, la sua porzione di Austria laggiù, dove passavano gli stranieri del sud. Haider si rituffò nella Heimat, fondò un nuovo partito, la Bündnis für die Zukunft (Bzö) e a Vienna il suo posto fu preso da Heinz-Christian Strache, propenso quanto lui alla demagogia populista e razzista ma assai meno geniale. Nella bambagia dei consensi di Klagenfurt, a due passi dalla sua valle degli orsi, Haider ha visto il vento cambiare di nuovo a favore della destra, la crisi economica, gli egoismi e le paure riportare a galla le chance della sua moderna versione della banalità del male. Forse, anche per far dispetto a «quel cretino di Strache», si è sforzato di presentarsi con un’immagine più moderata. Poteva tornare a Vienna, ma il destino lo ha fermato a una svolta della strada che scende dalle montagne della Slovenia.
Pubblicato il: 12.10.08 Modificato il: 12.10.08 alle ore 11.31 © l'Unità.
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