Tenuti da sconosciuti o da celebrità, sono il vero motore del web
A tutto «blog», il trionfo dei diari in Rete Nati dieci anni fa, ora sono almeno 70 milioni.
E le aziende se li contendono. «Ma qui in Italia sono ancora poco valorizzati»
MILANO — E fu così che i «diaristi anonimi dalla sessualità incerta» (definizione coniata a Napoli nel «lontano» 2004, a margine di una tavola rotonda su weblog e scrittura) si trasformarono negli interlocutori più ambiti dal mondo del business. I blog, altrimenti detti «diari online», compiono 10 anni e si prendono la rivincita: più dinamici dei siti, conquistano i vertici dei motori di ricerca, diventando la nuova frontiera del marketing globale.
Un anniversario trionfale, celebrato da siti e media tradizionali, dal Guardian al Wall Street Journal. Una data «ufficiale» di fatto non c’è, ma i miti tramandati nella Rete sono concordi nell’identificare Dave Winer come «il» protoblogger, colui che nel 1997 sviluppò il software da cui prese il via l’ultima rivoluzione di Internet. Il termine weblog, «traccia su rete», nacque pochi mesi dopo. Da lì all’abbreviazione in blog, il passo fu breve. «Si potrebbe definirlo un punto di presenza personale all’interno della Rete — sintetizza Giuseppe Granieri, autore di «Blog Generation» (Laterza) e blogger su bookcafe. net —,un’enorme redazione collettiva che svolge una funzione importante di emersione dei contenuti del web».
Ce n’è di ogni tipo: personali o politici, vlog (con i video) o urban blog (dedicati a una città). Crearli è facile, per tenerli in vita bastano passione e ritagli di tempo. Oggi, secondo l’ultimo censimento di Technorati, ne esistono più di 70 milioni. Alcuni non sono più attivi, altri sono aggiornati di rado; di fatto, però, ogni secondo, in qualche angolo sperduto del mondo, un nuovo blog emette il suo primo vagito telematico.
Il blog, per i suoi sostenitori, è un’onda d’urto democratica. In occasione dell’11 settembre o dello tsunami, i media si fecero bagnare il naso dai blogger, veri campioni del citizen journalism, il «giornalismo dal basso». Bloggano i politici (il più tecnologico, con tanto di sbarco su Second Life, è Antonio Di Pietro), i manager (si chiamano corporate blog), gli scrittori. Qualche blogger ha compiuto il percorso inverso ed è diventato una celebrità, dall’inglese Belle de Jour all’italiana Pulsatilla. Gli italiani, ecco. «Siamo ancora una comunità ristretta — spiega Granieri — per problemi di lingua e cultura: qui si è iniziato a sdoganare il blog solo nel 2005». «I media ci valorizzano poco —aggiunge Luca Conti, re dei blogger con il suo Pandemia — mentre all’estero siamo spesso considerati come fonti».
Dalla classifica BlogBabel esce comunque l’istantanea di una blogosfera in cui la fama nel «mondo esterno» vale come un asso di picche: per i profani, i top blogger italiani sono quasi emeriti sconosciuti, compreso quel Gianluca Neri autore dello scoop del rapporto Usa sul caso Calipari. Due le eccezioni: Beppe Grillo e Luca Sofri. Ma dallo scorso autunno, qualcosa si è mosso. Sulle scrivanie dei manager europei è comparsa una ricerca Ipsos sull’influenza dei blog per l’orientamento agli acquisti «e le aziende — spiega Conti — hanno capito che avere buone relazioni con noi è vantaggioso: ben posizionati sui motori di ricerca, con un’ampia rete di contatti... e ora ci danno la caccia». Con buona pace di Bruce Sterling, il padre del cyberpunk che pronosticava la fine dei blog nel 2017, la second life dei blogger è appena iniziata.
Gabriela Jacomella
gjacomella@rcs.it 18 luglio 2007
da corriere.it