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Autore Discussione: CARLO CLERICETTI L'entusiasmo pericoloso  (Letto 3593 volte)
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« inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:24:20 am »

ECONOMIA    L'ANALISI

Gli errori del '29 e il rischio di oggi

Gli sbagli più gravi che trasformarono la crisi di Borsa in depressione oggi non vengono ripetuti, tranne, finora, uno in Europa

di CARLO CLERICETTI
 


Vi furono alcuni errori da parte delle autorità di governo e monetarie che contribuirono a trasformare nella crisi più devastante dell'economia moderna il crollo di Borsa del '29 (originato anche allora, fatte le debite differenze, da un eccesso di deregolamentazione e di speculazione).

Un grave errore lo commise la Federal Reserve, che non fece il suo mestiere di garantire l'ordinato funzionamento del mercato e permise che la mancanza di liquidità strangolasse le banche e poi l'economia reale. I banchieri centrali di oggi hanno evidentemente ben presente questo fatto, visto che dall'inizio della crisi non fanno altro che inondare di liquidità i mercati; e la manovra coordinata con cui le pricipali banche centrali hanno oggi ridotto di mezzo punto il costo del denaro, un fatto senza precedenti, risponde alla stessa esigenza. Inoltre allora non si fece nulla per tamponare gli effetti dei fallimenti bancari, mentre oggi, come abbiamo visto, solo la Lehman è stata lasciata al suo destino.

La mancanza di liquidità fu provocata anche dal fatto che i risparmiatori spaventati corsero agli sportelli bancari per ritirare i loro soldi. I governanti di oggi puntano a scongiurare questo rischio introducendo - dove non esisteva - o rafforzando la garanzia di rimborso dei depositi. In Italia, dove già la cifra garantita era tra le più elevate nel confronto con gli altri paesi, il governo si appresta a rafforzare la rassicurazione dei risparmiatori estendendo l'ombrello statale al Fondo interbancario di tutela.

Un terzo fattore fu la forte ripresa del protezionismo, con l'imposizione di dazi e barriere, e di questo, oggi, non si scorge nessuna avvisaglia. Ma un quarto elemento su cui un gran numero di economisti è d'accordo è costituito dalla politica fiscale: il presidente Hoover continuò testardamente a perseguire l'equilibrio dei conti pubblici, senza preoccuparsi di sostenere l'economia perché altrimenti il deficit pubblico sarebbe aumentato.

Quest'ultimo fattore ci ricorda qualcosa. Ci ricorda quello che va sotto il nome di "Patto di stabilità e di crescita", conseguente al Trattato di Maastricht. Fino ad oggi l'attenzione, quasi ossessiva, è stata posta solo sul primo dei due obiettivi, e non per caso. Questa scelta risponde alla concezione secondo cui il ruolo dello Stato nell'economia dev'essere il meno invadente che sia possibile, e se si raggiunge l'equilibrio dei conti pubblici - la stabilità - e si lascia fare al mercato, poi la crescita ne deriverà automaticamente.

Queste idee sono nate negli Stati Uniti e a partire dagli anni '80 hanno via via preso forza e sono diventate Vangelo in tutto il mondo industrializzato. Fatto sta che gli Stati Uniti, forse ammoniti dall'esperienza e forse anche per il loro noto pragmatismo, nel 2000 avevano un rapporto debito/Pil intorno al 30%, mentre oggi, secondo le dichiarazioni del segretario al Tesoro Hank Paulson, è arrivato all'87%. Di fronte al rischio per l'economia, gli stessi inventori hanno mandato la teoria in soffitta.

L'Europa è oggi sull'orlo (e forse anche oltre) della recessione. C'è da chiedersi se il Consiglio europeo e la Commissione - e la Bce - vorranno continuare ad essere "più realisti del re" e a ripetere che quello che conta è l'equilibrio di bilancio o se si decideranno a lasciare in soffitta quelle regole, almeno in occasione di questa crisi drammatica, per tentare di dare ossigeno all'economia. Altrimenti, il rischio è che il Patto resti inciso sulla lapide della crescita.

(8 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 28, 2008, 10:42:21 pm »

ECONOMIA      L'ANALISI

Tetto ai mutui, trascurato chi ha il tasso fisso

di CARLO CLERICETTI


"La strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni", recita un proverbio. E' senz'altro buona l'intenzione del governo di togliere dai guai chi ha stipulato un mutuo a tasso variabile e ha visto la rata aumentare oltre le sue possibilità di onorarla, ma se il provvedimento è quello esposto dal ministro Giulio Tremonti nella sua conferenza stampa, quanto meno è poco comprensibile.

Il tetto del 4% agli interessi vale solo per chi ha fatto un mutuo a tasso variabile? E perché questa disparità nei confronti di chi ha stipulato invece un mutuo a tasso fisso, proprio per evitare il rischio che la rata crescesse? Per evitare questo rischio gli interessati hanno accettato tassi più alti, e infatti non si trova in Italia chi abbia un mutuo al tasso fisso del 4% (a meno che non sia a condizioni di favore, come ad esempio per i dipendenti di molte banche: ma qui parliamo di persone normali).

Questi cittadini, dunque, vengono puniti per la loro prudenza. Se anche il loro tasso fisso è del 6, 7, 8 per cento (ma per mutui più vecchi si va anche oltre), il provvedimento non se ne occupa.

Comunque un modo per migliorare le condizioni peggiori c'è. Grazie ai famosi decreti Bersani (su cui anche Tremonti in seguito ha varato ulteriori interventi) è possibile rinegoziare il mutuo senza spese, e cambiare banca, sempre senza spese, se la propria non vuol farlo. Chi ha un mutuo a tassi ormai fuori mercato, dunque, si dia da fare e cerchi condizioni più favorevoli.

(28 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 13, 2008, 05:30:44 pm »

ECONOMIA      L'ANALISI

Un fallimento liberista

A portare alla bancarotta i giganti dell'auto Usa sono stati anche, e in modo determinante, i deficit dei Fondi aziendali pensionistici e sanitari.

La società ha chiesto ai privati i servizi di welfare che lo Stato non fornisce, e questo è il risultato

di CARLO CLERICETTI


C'è un fattore che non è stato messo nel dovuto rilievo nella vicenda che ha portato al dissesto dei tre grandi gruppi automobilistici americani, General Motors, Ford e Chrysler. L'attuale grande crisi nata nella finanza c'entra, ma fino ad un certo punto. Non ha fatto che dare il colpo di grazia, a causa della riduzione dei consumi e delle insolvenze sugli acquisti a rate, a gruppi che già da tempo pencolavano sull'orlo della bancarotta. Non a caso già tre anni fa le agenzie di rating avevano declassato le loro obbligazioni ben al di sotto dell'investment grade (il livello fino a cui il rischio per l'investitore viene considerato accettabile), classificandoli in pratica titoli-spazzatura.

A parte gli errori industriali e strategici, che pure ci sono stati, un peso determinante lo hanno avuto i pesantissimi esborsi che questi gruppi hanno dovuto sostenere per coprire i costi dei rispettivi Fondi previdenziali e sanitari. In America, come si sa, la previdenza pubblica è ben poca cosa, e per avere la speranza di una rendita sufficiente a sopravvivere quando si va in pensione bisogna versare contributi ai Fondi. Quanto alla sanità, quella pubblica copre solo i poverissimi e gli anziani (i famosi programmi Medi-care e Medic-aid). Gli altri si devono arrangiare con le assicurazioni private, che costano care, tanto che circa 45 milioni di cittadini non possono permettersele: in questi casi, un banale incidente o una malattia possono far cambiare drammaticamente la situazione sociale e il tenore di vita delle famiglie.

In questa situazione, è comprensibile che una parte importante della contrattazione sindacale sia stata diretta, da oltre cinquant'anni a questa parte, ad ottenere dalla aziende - quelle di una certa dimensione, ovviamente - quella copertura previdenziale e sanitaria che lo Stato non fornisce. E le aziende provvedono stipulando convenzioni con le assicurazioni e gestendo Fondi pensione, che investono i contributi sui mercati obbligazionari e azionari. Ora, chiunque abbia avuto qualche esperienza di risparmio gestito sa bene che le cose possono andare a gonfie vele, ma ci si può anche rimettere; e i Fondi dei big dell'auto non hanno fatto eccezione alla regola generale.

Per di più, fino agli anni '90 del secolo scorso i contratti prevedevano che il vitalizio fosse "a prestazione definita", ossia rapportato a quanto si percepiva di salario e non al rendimento degli investimenti del Fondo. La fede americana che investendo a lungo termine non si può che guadagnare - una fede, c'è da supporre, che la dura prova dei fatti dovrebbe aver incrinato - ha così provocato dei disastri nei bilanci aziendali. Già nel 2005 si calcolava che 1.500 dollari del ricavato di ogni auto GM e Ford venduta dovevano essere destinati ai Fondi previdenziali e assicurativi. In seguito tutte le aziende americane (quelle che l'avevano) hanno trasformato la copertura previdenziale nel tipo "a contribuzione definita". Si tratta, cioè, sull'importo che l'azienda versa al Fondo, ma senza garanzie di nessun tipo sulla pensione che si prenderà. Il rischio finanziario viene così scaricato sui lavoratori, ma neanche questo basta a risanare le voragini dei Fondi. Del resto, la General Motors ha un rapporto di 2,5 pensionati per ogni lavoratore attivo, quando - per gli Stati - è già considerato eccessivo un rapporto di 1 a 1.

Sempre la General Motors ha chiuso il 2007 con un deficit del suo Fondo di 39 miliardi di dollari (Il Sole 24 ore del 14.11.08) a fronte di un attivo con un valore di mercato (all'epoca) di 130 miliardi, che possiamo immaginare quanto siano diventati oggi: riporta sempre Il Sole che a fine anno erano investiti per il 26% in azioni per la parte pensionistica Usa del gruppo, mentre nel resto del mondo l'impiego nelle Borse era addirittura il 62%; e un 9% del paniere era costituito da azioni del settore immobiliare. Infine, negli ultimi 14 anni la redditività industriale è stata quasi sempre inferiore all'esborso per finanziare il Fondo.

L'ideologia liberista che ha avuto nell'America il suo portabandiera, che voleva che lo Stato gestisse il meno possibile e si limitasse al massimo a controllare, nel presupposto ritenuto un assioma (cioè, una verità evidente che non si dimostra) secondo cui i privati sono sempre più efficienti del pubblico, conosce ora la sua nemesi: è proprio a causa di quelle garanzie indispensabili che lo Stato non ha voluto dare, e che dunque la società ha richiesto alle aziende private, che ora due tra i maggiori costruttori di automobili al mondo (la Chrysler da tempo non può più essere considerata tale) per salvarsi avrebbero dovuto essere statalizzati: welfare ai privati, industria allo Stato. Davvero un esito paradossale. Non è andata così (almeno per ora) per l'opposizione dei senatori repubblicani, ma l'alternativa sarà disastrosa, con la perdita di milioni di posti di lavoro e un ulteriore colpo all'economia americana già in recessione.

I risultati, peraltro, gridano da tempo che non è quello sostenuto dai liberisti il modello migliore. La sanità Usa, ai cui scompensi abbiamo già accennato, risulta invariabilmente agli ultimi posti tra i paesi sviluppati, come efficienza ed efficacia, in tutte le classifiche di organismi sovranazionali o specializzati. Eppure è la più costosa del mondo: quasi il 16% del Pil, mentre la spesa europea si aggira sull'8-10%. Meno noto è il fatto che metà di questa percentuale è spesa pubblica: perché i controlli costano e perché assicurazioni e case farmaceutiche sono lobby fameliche e potentissime, che controllano un giro d'affari che secondo le stime raggiunge l'iperbolica cifra di 2.200 miliardi di dollari. Una spesa enorme, dunque, per un sistema inefficiente e che lascia del tutto scoperto quasi un quinto dei cittadini.

Sono dati su cui riflettere. E su cui dovrebbero riflettere soprattutto quanti anche in Italia (sempre più numerosi negli ultimi anni, anche a sinistra) hanno continuato a ripetere la litania della maggiore efficienza dei privati sempre e comunque.

(12 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:18:33 am »

ECONOMIA      ANALISI

L'entusiasmo pericoloso

di CARLO CLERICETTI



E' difficile riuscire ad entusiasmarsi per il robusto rialzo con cui le Borse hanno concluso la prima seduta dell'anno. Fare previsioni è certamente un mestiere difficile - e infatti la maggior parte di quelle che circolano si rivelano poi sbagliate - ma pensare che il peggio sia alle nostre spalle, che la fase ribassista dei mercati si sia esaurita con l'anno che è finito, è altrettanto certamente assai azzardato.

Ogni crisi ha una storia a sé, perché il mondo è diverso dal passato (anche recente) e anche perché cambiano le reazioni con le quali viene affrontata. Nel caso di questa abbiamo visto le banche centrali e gli Stati scendere in campo massicciamente, come mai era avvenuto prima, per sostenere i mercati e varare piani che impediscano il collasso dell'economia reale; e altre misure si aggiungeranno probabilmente a quelle già prese. Basteranno queste iniziative? Dipende a che cosa. Dovrebbero riuscire - c'è da sperarlo - ad evitare che il mondo piombi in una Grande Depressione come quella degli anni '30, dovrebbero attutire gli effetti nefasti di un disordine dell'economia che alla fine ha presentato il conto. Ma una cosa è non avere una disoccupazione al 25% (come allora) e le sommosse della gente esasperata, altro è riuscire a riparare rapidamente l'enorme e complesso meccanismo dell'economia mondiale che è stata lasciata cadere in un disordine a cui ci vorrà parecchio tempo per rimediare.

Tra l'altro, questi stessi provvedimenti che oggi sono indispensabili generano a loro volta squilibri, per esempio sui conti pubblici, che dovranno anch'essi essere riassorbiti. E dunque, se anche la recessione vera e proprio durerà solo per quest'anno, come tutte le grandi istituzioni sovranazionali e private che producono previsioni continuano a ripetere, ciò non significa che con l'inizio del 2010 l'economia mondiale sarà in perfetta forma e pronta per un nuovo ciclo di robusta crescita.

Per i mercati finanziari, poi, pur valendo a maggior ragione il discorso che l'esperienza del passato può servire fino ad un certo punto, perché proprio qui si sono prodotti i mutamenti più radicali, le prospettive sono tutt'altro che rosee. Non solo rifletteranno la debolezza della congiuntura mondiale, ma dovranno digerire i ciclopici dissesti al loro interno prodotti da circa un quindicennio in cui sono stati lasciati senza regole e senza controlli (con buona pace di chi sostiene che il mercato si auto-regola). Finora è valsa la costante che più grossa era stata la bolla, più lungo e pesante sarebbe stato il successivo periodo di assestamento. Giova ripeterlo ancora una volta, non è detto che la storia si ripeta. Ma se dovessimo basarci sull'esperienza, verrebbe da dire che le Borse potranno anche avere una limitata fase di rialzo, ma poi scenderanno ancora. E scenderanno ben oltre il punto in cui tutti si aspetterebbero che sia più che abbastanza, con una esagerazione simmetrica a quella che c'è stata con il rialzo. Scenderanno oltre il punto in cui tutti diranno "è impossibile che il ribasso continui".

In quali tempi tutto ciò potrebbe avvenire, al momento è impossibile valutarlo. Si può solo ripetere che probabilmente non saranno tempi brevi, che saranno nell'ordine di anni. E poi passerà, come è sempre successo. A volte piove per molto tempo di seguito, ma poi, inevitabilmente, torna il sole.

(3 gennaio 2009)

da repubblica.it
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