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Autore Discussione: FRANCIO FUKUYAMA La fine del modello americano  (Letto 2427 volte)
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« inserito:: Ottobre 08, 2008, 08:48:23 am »

8/10/2008
 
La fine del modello americano
 
 
   
FRANCIO FUKUYAMA
 
Le dimensioni del crac di Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli Stati Uniti: il danno al «brand» America.

Le idee sono una delle nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica. La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye.

E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani che denunciavano il modello capitalistico americano come «capitalismo da cowboy».

Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo. Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il settore finanziario.

Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»; improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire l’egemonia degli Stati Uniti.

La scelta che dobbiamo fare ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli - come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti. Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati, quali completamente da scartare.

Molti commentatori hanno sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le biotecnologie.

Sul piano internazionale la rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80, quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e l’Argentina. Simili politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo cieco.

Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci, era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori: se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel disavanzo.

La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.

Il secondo articolo di fede reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street. E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici, certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che sono all’origine della crisi attuale.

Lo scandalo della Enron, il deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto alla promozione della democrazia non è mai stata messa in discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per «intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente - compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita - non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».

La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.

(c) 2008, Newsweek, Inc. All rights reserved. Reprinted by permission.
 
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