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Autore Discussione: BILL EMMOTT. -  (Letto 24555 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 28, 2013, 08:50:26 am »

Editoriali
27/10/2013

Così svanisce il mito dell’intelligence americana

Bill Emmott

«Non farsi prendere». Mi ha risposto così un ex alto funzionario dell’intelligence britannica quando gli ho chiesto quali principi dovrebbero regolare le attività delle agenzie di spionaggio quando mettono sotto controllo i loro alleati. 
Questo non significa che la polemica sulla Nsa americana che ascolta le telefonate di Angela Merkel non sia importante. Ma significa che è importante per un motivo diverso dall’idea ingenua che spiarsi tra alleati sia «inaccettabile», come si è sentita in obbligo di dire la Cancelliera. Il motivo per cui sono importanti le rivelazioni sulla Nsa che continuano ad arrivare dal loro ex dipendente, Edward Snowden, che ha ottenuto asilo politico in Russia, hanno a che fare con la competenza. 
La prima cosa scioccante per le altre agenzie di spionaggio, come l’MI6 britannico, è che la Nsa si sia fatta scoprire. Ma la seconda cosa sconvolgente è quanto alla Nsa siano stati incapaci di mantenere non solo questo segreto, ma tutta la storia della loro vasta attività di sorveglianza. 
Si potrebbe sostenere che questo accade perché gli americani sono arroganti. Pensano di essere in grado di fare una cosa solo perché è tecnicamente possibile farla e credono che nessuno sarà in grado di fermarli. Per questo il cancelliere Merkel aveva detto che «non bisogna fare le cose solo perché si è in grado di farle». Ma accanto a questa verità sull’arroganza americana, una costante della vita occidentale fin dalla Seconda guerra mondiale, si è affermata anche la convinzione che della competenza degli americani più o meno ci si poteva fidare.
La vicenda Snowden ha distrutto questa convinzione. Snowden era un collaboratore informatico di prima nomina. Non era una spia provetta e neppure un genio del computer. Se era a conoscenza lui del programma di sorveglianza della Nsa e aveva accesso a informazioni sulle registrazioni delle conversazioni telefoniche dei leader mondiali, allora lo stesso vale per migliaia o forse decine di migliaia di altri dipendenti.
Questo va contro l’essenza delle operazioni di intelligence: la severa protezione delle informazioni all’interno di piccoli gruppi di persone in base al principio che «hanno bisogno di sapere». Ecco perché i nemici dell’Occidente di Al Qaeda, così come prima di loro i bolscevichi di Lenin, usano strutture a cellule in cui ogni piccolo gruppo non sa e non può sapere che cosa fanno gli altri.
Un tale sistema di protezione delle informazioni è certamente diventato più difficile nell’era digitale. Ogni sistema informatico complesso - e la Nsa è probabilmente uno dei più sofisticati al mondo - ha bisogno di amministratori per controllare le password, l’accesso e la crittografia, che saranno quindi in grado di venire a sapere una quantità enorme di cose, se solo sono abbastanza interessati a farlo. Eppure è ancora possibile creare barriere, mettere limiti a ciò che ogni amministratore può sapere. La Nsa semplicemente pare non essersi presa questa briga.
Questo è probabilmente l’aspetto più dannoso di tutta la vicenda. Di certo, come conseguenza delle ultime rivelazioni, la Germania e gli altri Paesi europei chiederanno nuovi e più equi diritti nei loro accordi per la condivisione delle informazioni di intelligence con gli Stati Uniti. Hanno modo di farlo adesso ed è ovvio che vogliano sfruttare l’occasione. Ma in questo modo la grande vittima è la reputazione della competenza dell’America e con essa la volontà degli alleati europei di fidarsene e di collaborare in futuro.
Il sentimento, con ogni probabilità è reciproco. L’America non è stata favorevolmente impressionata dalla competenza e dall’efficienza dei leader europei in questi ultimi anni, soprattutto nel trattare la crisi del debito sovrano dal 2010, e dalla loro politica estera verso la Libia, la Siria, l’Egitto, l’Iran e la Russia, tra gli altri. Anche l’Europa ha brontolato e sbuffato per l’indecisione americana in Medio Oriente, soprattutto per la sua incoerenza sulla Siria.
Così la vicenda dell’Nsa amplierà ulteriormente quelle crepe nel rapporto transatlantico. E’ molto più importante delle precedenti rivelazioni di Wikileaks, anche se quelle già avevano mostrato l’incompetenza nella protezione delle informazioni. Il materiale svelato da Wikileaks era imbarazzante, ma non c’era alcuna informazione segreta, nulla di davvero importante. Le rivelazioni di Snowden, invece, arrivano nel cuore della raccolta di informazioni.

Tutti gli alleati occidentali hanno avuto in precedenza incidenti imbarazzanti con l’intelligence, soprattutto durante la guerra fredda. Di solito riguardavano la scoperta di agenti sovietici in posizioni di rilievo. Non è noto a tutti, ad esempio, che la ragione per cui c’è sempre stato un funzionario europeo a capo del Fondo monetario internazionale da quando è stato istituito nel 1944, è che l’artefice del Fondo monetario internazionale, un funzionario americano chiamato Harry Dexter White, che progettò sia il Fondo sia la Banca mondiale con l’economista britannico Lord Keynes, si rivelò essere una spia sovietica. Il presidente Harry Truman scelse di consegnare il Fmi all’Europa, anche se era la più potente delle due nuove istituzioni, per evitare l’imbarazzo di una pubblica rivelazione dell’opera di spionaggio di White.
Incidenti del genere si sono verificati in tutti i nostri Paesi durante la guerra fredda e non c’è dubbio che ci si spiasse tutti a vicenda. Ma la consapevolezza che avevamo un nemico comune ci ha tenuti insieme e la leadership americana è stata ritenuta troppo necessaria per metterla radicalmente in discussione. Oggi il mondo è diverso. Noi europei vogliamo ancora la leadership americana ma vogliamo anche che il nostro leader mostri non solo potere ma anche competenza. Sono aspirazioni che verranno danneggiate dal caso Nsa. 

Traduzione di Carla Reschia 
Da- http://lastampa.it/2013/10/27/cultura/opinioni/editoriali/cos-svanisce-il-mito-dellintelligence-americana-UKHBrz76w5r9bf7KpiBDPO/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:33:04 pm »

Editoriali
11/11/2013

Filippine, un disastro che mette a rischio la tenuta sociale del Paese
Bill Emmott

Oltre alla questione più importante - il terribile costo umano - la tragedia del tifone Haiyan alle Filippine segna la fine di una serie di buone notizie per una nazione del Sud-Est asiatico che finora non aveva condiviso troppi successi della regione. Speriamo che la forza e la credibilità che le precedenti buone notizie avevano portato al governo del presidente Benigno Aquino III gli permettano di tenere insieme il Paese e recuperare rapidamente.

Corruzione, cattiva gestione, guerre separatiste e guardaroba pieni di scarpe di Imelda Marcos, hanno per decenni reso le Filippine il peggior attore del Sud-Est asiatico.

Un Paese che, nonostante i cento milioni di abitanti, è stato talvolta guardato con un misto di disprezzo e pietà dai suoi vicini, specialmente l’influente, disciplinata e ricca città-stato di Singapore. Ma negli ultimi anni tutto questo ha iniziato a cambiare. 

L’anno scorso il governo finalmente ha firmato la pace con il Fronte di Liberazione Islamico Moro, forza separatista che ha condotto una lotta armata per più di 25 anni nella regione meridionale del Mindanao, conflitto ignorato dal resto del mondo nonostante abbia ucciso più di 120 mila persone. C’è molto lavoro da fare prima che la pace sia finalmente garantita, ma dato che il patto promette di dare al Mindanao un alto livello di autonomia, analoga a quella della Catalogna in Spagna, sembra davvero uno spartiacque.
 
Nel frattempo le Filippine hanno mostrato una forte crescita, grazie a un’espansione annuale del prodotto interno lordo maggiore del 4% in nove degli ultimi 12 anni, e con previsioni della Banca di Sviluppo Asiatico per il 7% nel 2013. La sua valutazione di credito internazionale è stata innalzata di grado quest’anno da tutte le tre maggiori agenzie internazionali, l’ultima, Moody’s, giusto un mese fa. Grazie alle tasse crescenti e ai soldi inviati dai numerosi filippini che lavorano all’estero, il Paese è anche diventato un creditore netto mondiale, con riserve di valuta straniera che superano i debiti.

Questo sviluppo economica non è avvenuta prima del tempo. Le Filippine si trovano in una regione dove è facile scontrarsi con i vicini - l’ultima lite è sul territorio sottomarino con la Cina - e hanno dovuto chiedere aiuto diplomatico agli Stati Uniti, di cui un tempo erano colonia, per fronteggiare i cinesi. Regimi corrotti, troppo disfunzionali e screditati per garantire che le necessarie infrastrutture venissero costruite, in precedenza avevano reso difficile la creazione di alleanze.

Il presidente Aquino viene dalla più famosa famiglia politica del Paese. Suo padre Benigno fu assassinato nel 1983 perché si opponeva all’allora dittatore Ferdinand Marcos, e sua madre Corazon condusse la rivoluzione «potere al popolo» che nel 1986 rovesciò Marcos e la rese il primo Presidente democraticamente eletto. Fin dalla sua elezione nel 2010, il compito di ripulire il Paese dalla corruzione è stato rinforzato e le infrastrutture hanno iniziato a essere ricostruite.

Ora, di fronte ai danni compiuti dal tifone Haiyan, il compito del presidente Aquino di tenere insieme il Paese e ricostruirlo è più grande e più duro che mai. Eppure disastri naturali di questo tipo hanno alcune caratteristiche che rendono il recupero più semplice. Prima di tutto l’aiuto e assistenza materiale che viene da grandi e piccole potenze, e che per lo meno sospende le baruffe diplomatiche. È quel che è successo circa tre anni fa, quando il Giappone fu colpito da terremoto e tsunami, e lo stesso è probabile che accada nel caso delle Filippine.

Una seconda caratteristica è che l’effetto economico dei disastri naturali è temporaneo e relativamente poco importante. Con una forte posizione di credito e supporto internazionale, le Filippine saranno in buona posizione per ricostruirsi in fretta e potranno installare migliori infrastrutture e edifici più moderni di prima. Il boom della ricostruzione neutralizzerà, e forse supererà, i costi economici di breve termine.

L’effetto economico, ripeto, non è importante. Quello su cui bisogna concentrarsi è l’impatto umano e sociale di un disastro naturale come questo. Il vero pericolo per le Filippine è che la tragedia sia una nuova fonte di divisioni, risentimenti e rabbia, causati da qualsiasi ingiustizia o corruzione percepita nel periodo successivo al disastro e nella ricostruzione. Per affrontare questo pericolo, saranno necessarie tutta la determinazione e le capacità politiche ereditate dal Presidente Aquino.

Da - http://lastampa.it/2013/11/11/cultura/opinioni/editoriali/un-disastro-che-mette-a-rischio-la-tenuta-sociale-del-paese-6gxhRj7V8zu55FS6Lt82OP/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:54:36 pm »

Editoriali

09/02/2014
Gli ostacoli alla crescita economica

Bill Emmott

Dall’inizio del 2014 per gli investitori internazionali nell’economia mondiale è cambiato tutto. Per i giovani disoccupati d’Italia, Gran Bretagna o persino America, o per una famiglia con un reddito invariato o in calo negli ultimi cinque anni, non è cambiato nulla. La grande domanda per il 2014 è se questi due percorsi torneranno a unirsi. 

Per gli investitori il cambiamento è notevole, anche se a pensarci bene non dovrebbe sorprendere. Per i giovani disoccupati e per le famiglie normali, al contrario, è la mancanza di cambiamento a deludere. Ma per loro la vera, grande delusione in molti paesi, l’Italia in particolare, è la mancanza di iniziativa da parte del governo o dei politici. Ci sarà un perché se il Movimento Cinque Stelle rimane stabile nei sondaggi e partiti anti-sistema come il Dutch Freedom Party in Olanda, il Front National francese o l’Independence Party britannico, guadagnano consensi nella prospettiva delle elezioni di maggio per il Parlamento europeo.

Il cambiamento per gli investitori, tuttavia, dovrebbe portare un po’ di speranza, almeno per quanto riguarda un eventuale termine per la delusione. Una speranza più forte in America e in Gran Bretagna che in Italia o nel resto della zona euro, ma che potrebbe arrivare anche lì, in ultima analisi. A patto cioè, che gli eventi in Asia e in altre economie emergenti, non lo blocchino o lo destabilizzino. In che cosa consiste il cambiamento? Nel fatto che invece di continuare a calcolare quanto sono deboli le economie americana, inglese, giapponese e nordeuropea, investitori e banchieri centrali sono ora costretti a calcolare quanto siano forti. Il recupero dopo un crac finanziario, specialmente se duro come quello del 2008-09, è sempre lento. Ci vuole tempo perché le banche si sistemino, perché le aziende riducano i loro debiti, la fiducia è in frantumi. Ma alla fine ritorna e le aziende ricominciano a investire e ad assumere.

Questo è chiaramente quello che sta accadendo in America e in Gran Bretagna. La ripresa degli investimenti va al rallentatore, ma è in corso. In America a gennaio sono stati creati meno nuovi posti di lavoro di quanto sperassero gli economisti, ma probabilmente ne è in gran parte responsabile il brutto tempo. La Federal Reserve confida nella ripresa abbastanza da aver iniziato a restringere la sua politica monetaria, riducendo gradualmente la quantità di obbligazioni acquistata ogni mese dal mercato, il cosiddetto «alleggerimento quantitativo».

A differenza dell’America, il crescente rafforzamento della Gran Bretagna è dovuto più al mercato immobiliare e ai consumi delle famiglie e questo potrebbe renderlo meno sostenibile nei prossimi anni. Ma anche lì la disoccupazione è in calo e i redditi, al momento, stanno cominciando a crescere. Per questo motivo è probabile che entro la fine dell’anno la Banca d’Inghilterra cominci a ridimensionare la propria politica monetaria per impedire che la crescita produca un nuovo aumento dell’inflazione. Nella zona euro la preoccupazione è diversa: piuttosto che dell’inflazione la Banca centrale europea deve preoccuparsi della deflazione, o del calo dei prezzi, perché una tale tendenza renderebbe il peso già enorme del debito pubblico ancora più oneroso e potrebbe anche danneggiare le imprese. Ma la settimana scorsa la Bce ha ottenuto un’importante vittoria presso la Corte costituzionale tedesca, quando il giudice ha deciso che non poteva bloccare le misure adottate da Mario Draghi per sostenere il sistema finanziario. Questo rende più probabile che per combattere l’inflazione la Bce sarà ora in grado di presentare la propria politica di «alleggerimento quantitativo», pompando denaro nelle economie della zona euro così come la Fed ha fatto in America.

Quindi il cambiamento è in cammino, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma, come sempre, incombe un’ombra, o meglio, due ombre. In Europa la grande incognita è la politica – il pericolo che le elezioni europee di maggio potrebbero trasformare la naturale delusione dei comuni elettori in una grande ribellione contro l’Unione europea, contro la cooperazione internazionale e contro le politiche di austerità associate con l’euro e con la Germania di Angela Merkel.

Nel mondo, però, l’incognita è un’altra anche se pure lì c’è una componente politica. L’ombra proviene dai nuovi fermenti che agitano le economie emergenti, quelle che negli ultimi cinque anni hanno salvato l’economia globale. In parte questo è il risultato del mutamento di politica della Federal Reserve, dal momento che l’alleggerimento quantitativo americano negli ultimi anni ha inondato di denaro non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Anche un sacco di economie emergenti, però, hanno continuato a crescere velocemente in mezzo alla recessione globale, creandosi da sé molto nuovo credito e incoraggiando le proprie imprese private a chiedere prestiti. Il processo è stato sostenuto dall’aumento dei prezzi delle risorse naturali e dell’energia, che ha fatto apparire gli investimenti nelle economie produttrici di risorse dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina come una scommessa a senso unico. Ma ora i prezzi delle materie prime sono in calo e questo rende la scommessa più rischiosa.

È per molti versi un ritorno alla crisi finanziaria dei mercati estasiatici ed emergenti del 1997-98. I paesi che avevano accumulato grossi debiti privati e grandi deficit della bilancia dei pagamenti furono duramente colpiti. Così i produttori di petrolio, come la Russia, perché il prezzo del petrolio crollò. Ora le economie più fragili sono ancora quelle con grandi deficit come la Turchia, il Sud Africa, l’India e Indonesia, ma anche, di nuovo, la Russia. Le turbolenze dei mercati emergenti sono solo agli inizi, quindi è troppo presto per dire se sarà solo un’onda nell’oceano o un nuovo tsunami. C’è anche un’ulteriore complicazione: la Cina. La seconda più grande economia del mondo non è fragile, né ha un deficit. Ma altri paesi dipendono dalle sue importazioni, in particolare di risorse naturali e semilavorati. E la sua economia sta rallentando bruscamente per via della bolla del credito interno e degli sforzi ufficiali per contenerla.

Lo scenario più favorevole è che le turbolenze dei mercati emergenti stavolta siano contenibili e che il rallentamento della Cina sia moderato. Ciò consentirebbe alle economie occidentali in convalescenza di recuperare le forze nel corso dell’anno. Eppure, dobbiamo sempre ricordare che la politica ha il potere di distruggere anche la previsione più fiduciosa e che i mercati finanziari vanno nel panico come mandrie di gnu inseguiti dai leoni. E dobbiamo infine ricordare che il punto dell’intero esercizio non sono le cifre del Pil o il reddito degli investitori ma il futuro di quei giovani disoccupati e i redditi familiari. Se non ci saranno miglioramenti entro la fine del 2014, non ci sarà nulla di cui rallegrarsi.

Da - http://lastampa.it/2014/02/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-ostacoli-alla-crescita-economica-mWuCxWg3JCOwJz2N7rm9qO/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 26, 2014, 11:34:43 pm »

Editoriali
26/03/2014 - il paese a una svolta

Smog e debiti banco di prova per la Cina

Bill Emmott

Una verità eterna sulla Cina moderna è che è in continua evoluzione. Appena credete di aver capito cosa sta succedendo, soprattutto in campo economico, vi scoprite superati. E’ inevitabile in un’economia che raddoppia di volume ogni 7-10 anni e che oggi è 25 volte più grande e più ricca di quando nel 1978 l’allora leader, Deng Xiaoping, diede il via al processo di transizione dalla pianificazione centrale maoista al capitalismo di mercato. Ma una cosa resta uguale: la politica conta molto di più dell’economia. 

Durante la mia visita a Pechino, la scorsa settimana, due fenomeni hanno attirato la mia attenzione. 

In primo luogo che, nonostante alcune splendide giornate di sole senza traccia di smog , tutti quelli che incontravo fossero intenti a studiare i loro smartphone per consultare le applicazioni in grado di informarli sulle ultime stime dell’inquinamento atmosferico nella capitale.

A questo visitatore l’aria sembrava sorprendentemente limpida, ma tutti i miei amici scuotevano la testa, spiegando quanto sia raro il cielo blu, ma anche come, grazie ai loro telefoni, sapessero che anche in quei giorni incantevoli il livello delle pericolose particelle cancerogene nell’aria era molto più alto rispetto al livello di sicurezza fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Il secondo fenomeno è stato l’improvviso irrompere nei notiziari di storie di aziende insolventi, portate dai loro debiti al fallimento, anche per volontà del governo o delle banche di proprietà statale. 

Dall’inizio della crisi finanziaria globale, nel 2008, la crescita economica cinese è stata trainata in gran parte da una grande espansione del credito, tanto al settore privato come ai governi locali. Un’espansione ora in rallentamento, la parola d’ordine del governo centrale è che le imprese insolventi non debbano necessariamente essere salvate. Saranno lasciate andare in bancarotta, per reintrodurre una certa disciplina nel mercato.

L’aria e l’acqua inquinata e il cibo contaminato sono diventati negli ultimi dieci anni tratti distintivi della storia economica della Cina. Lo stesso vale per il debito, la cui crescita è stata associata almeno a livello di aneddoto, alla costruzione di palazzi di uffici e condomini rimasti vuoti, con rapidi cambiamenti nel settore finanziario e con il manifestarsi di quella che in Occidente era una frase legata al crollo del 2008, il «sistema bancario ombra», in altre parole la finanza non regolamentata, che può anche significare finanza pericolosa.

 

Di conseguenza, la combinazione di questi problemi ambientali in costante peggioramento con la crescita spaventosa del debito ha portato a molte previsioni, soprattutto occidentali ma a volte anche cinesi, di un imminente disastro. La crescita economica è andata comunque rallentando, dai tassi annui, parametrati sull’inflazione, di oltre il 10%, fino al pur sempre alto 7,5% . Potrebbe essere sul punto di crollare adesso, sepolta dai debiti e soffocata dall’inquinamento?

La risposta è in parte nell’economia ma soprattutto nella politica. La parte economica della risposta è che, certo, il debito è cresciuto rapidamente e spesso in modo dispendioso, ma partendo da un punto piuttosto basso. Il sistema finanziario rimane principalmente controllato dalle banche statali. Quindi, se i prestiti crollano, la conseguenza non sarà uno shock come quello della Lehman Brothers ma piuttosto costi crescenti per il Tesoro.

Le cifre non sono del tutto trasparenti. Ma, secondo le migliori stime, attualmente il debito congiunto dell’amministrazione centrale e di quelle locali ammonterebbe a circa il 55-60 % del Pil, che è meno della metà del rapporto debito pubblico-Pil dell’Italia. Un aumento del rapporto, causato da perdite su crediti delle banche statali, sarebbe una mossa nella direzione sbagliata, potenziale fonte di problemi per il futuro. Ma può essere sopportato, almeno per il prossimo decennio o più, così come l’Italia è stata in grado di permettersi un crescente livello di indebitamento negli Anni 70 e 80.

Il vero problema è l’aspetto politico di questo processo avviato per fare pulizia dei prestiti sconsiderati e affrontare l’enorme spreco di capitale che si è verificato nel corso degli ultimi cinque anni. E questo è il vero problema anche per quanto riguarda l’ambiente.

Se esaminate i discorsi dei dirigenti a capo del Partito comunista cinese nel corso degli ultimi cinque anni, o anche su un periodo più lungo e date un’occhiata anche ai loro «piani quinquennali», troverete una promessa dopo l’altra: «riequilibrio» dell’economia, fine di una direzione «insostenibile», opera di pulizia, tanto dell’ambiente come del cattivo credito. Ma fin qui poco è davvero stato fatto, su entrambi i fronti.

Le leadership del presidente Hu Jintao e del primo ministro Wen Jiabao erano troppo deboli o troppo poco disponibili a mantenere le loro promesse. Secondo studi indipendenti ci potrebbero essere oltre un milione di morti premature ogni anno per colpa dell’inquinamento atmosferico. Su una popolazione di 1,3 miliardi può non sembrare molto. Ma significa che l’inquinamento dell’aria è già diventato la quarta causa di morte più comune tra gli adulti, anche se molti degli effetti dell’assorbimento di particelle cancerogene nei polmoni non saranno visibili per parecchi anni a venire.

 Ora c’è una nuova leadership e si sta parlando e agendo in modo molto più duro. Il presidente Xi Jinping e il suo premier, Le Keqiang, da quando sono entrati in carica, l’anno scorso, hanno stretto la presa. In Cina c’è sempre stata una sorta di unità anticorruzione, ma con la presidenza Xi l’azione è diventata più ampia e incisiva di qualsiasi altra da due decenni a questa parte e ha portato al licenziamento e all’arresto di migliaia di alti funzionari nel partito e nelle potenti imprese di proprietà statale, e quindi alla rimozione di molti potenziali nemici.

Si tratta di una purga di cui i vecchi dittatori comunisti potrebbero andare orgogliosi. Ma coniugata a un crescente orientamento a utilizzare fonti disciplinari non comuniste, ossia il mercato e le imprese private. Di qui l’ondata di default del debito, dal momento che la dirigenza ha dichiarato di non voler salvare le imprese in via di fallimento. C’è un po’ di ottimismo anche per l’ambiente. Dopotutto, anche i capi del partito devono respirare. E devono preoccuparsi della protesta pubblica che ormai si è abitualmente focalizzata sull’ambiente.

Sarà la nuova leadership a segnare la svolta? Non possiamo saperlo. Ma sappiamo che il più importante banco di prova della loro forza e della loro determinazione sarà il confronto con i tanti gruppi di interesse – spesso nei governi locali e nelle imprese statali – che traggono vantaggio dall’inquinamento e che sono cresciuti grazie a un continuo flusso di credito facile.

Due luoghi si stanno riempiendo velocemente: le prigioni e campi di lavoro, grazie alle epurazioni degli alti funzionari; e ora alle liste dei fallimenti. Più spesso questo accade, più dovrebbe crescere l’ottimismo nei confronti della Cina degli investitori stranieri e degli osservatori. Solo se questo processo si fermerà, vuoi per timidezza politica, o per proteste popolari di massa, ci si dovrebbe preoccupare. La Cina ha il potenziale per un progresso economico molto più grande. Che questo avvenga o meno è nelle mani della politica.

Traduzione di Carla Reschia 

Da - http://lastampa.it/2014/03/26/cultura/opinioni/editoriali/smog-e-debiti-banco-di-prova-per-la-cina-7qmFkUgh0hnahg8rxs7YAM/pagina.html
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:35:12 pm »

Editoriali
04/05/2014

Il governo alla prova di leadership
Bill Emmott

A luglio l’Italia si troverà davanti a un’opportunità e al contempo a una responsabilità. Un’opportunità per dimostrare la sua capacità di leadership dinanzi all’Europa, un’opportunità per avviare qualcosa che potrà essere ricordata come una fase importante e popolare del progetto europeo. Ed è un’opportunità, inoltre, per lanciare, o meglio rilanciare, qualcosa che aiuterebbe molto l’imprenditoria e le famiglie italiane, oltre ad essere la risposta più seria e pratica che il Vecchio continente può dare ai piani di Vladimir Putin in Ucraina. 

Questo «qualcosa» è quello che può essere chiamato «Unione energetica» europea. E l’opportunità in questione è la presidenza di turno del Consiglio dei ministri europeo, che durerà per sei mesi a partire dall’1 luglio. 

Questa presidenza di turno di sei mesi di solito viene inaugurata con annunci e dichiarazioni relative ad ambiziose intenzioni, specialmente davanti ai mezzi di informazione nazionali, che sottolineano l’importanza del ruolo assunto. Proclami che vengono puntualmente dimenticati a causa del pantano di summit noiosi, comunicati sciatti e progressi compiuti a passo di lumaca. Per ora, la presidenza di turno italiana sembra aderire a questo percorso già visto.

In realtà non lo deve essere necessariamente. I sei mesi di presidenza, durante i quali l’Italia avrà un ruolo primario nel dettare l’agenda di lavori per l’Europa, inizierà sulla scia dei risultati delle elezioni europee che si terranno tra il 22 e il 25 maggio. L’esito delle urne, se i sondaggi si dimostreranno attendibili, porterà a un risultato positivo per Matteo Renzi, ma sembrano destinati ad essere piuttosto negativi per l’Unione europea nel suo complesso. Questo a causa del rafforzamento dei partiti euroscettici, come il Fronte nazionale in Francia, l’Independence Party in Gran Bretagna, e il Freedom Party in Olanda, determinati ad occupare una gran parte di seggi nel Parlamento europeo. Se le previsioni dovessero essere confermate, questo peserebbe sullo spirito europeo, con pesanti ricadute sulla stessa agenda di lavori. 

Questi voti anti-europeisti riflettono la lunga recessione e gli alti tassi di disoccupazione. Ma soprattutto sono il riflesso di quel clima di disillusione nei confronti dell’Unione europea che è cresciuta in un decennio ed oltre. Molte persone oggi sembrano convinte che l’Ue sia senza una direzione ed incapace di realizzare qualsiasi passo in avanti volto a migliorare il livello di vita del popolo, o ancor peggio, che possa essere addirittura funzionale agli interessi di una élite di politici, banchieri e grandi imprese a danno della gente comune.

Prima che le vicende ucraine precipitassero, con l’invio delle truppe al confine e le forze speciali di Mosca in azione all’interno del Paese, si sentiva spesso dire, con un retrogusto di amarezza, che era tragicamente ironico che molti europei perdevano affezione nei confronti dell’Ue proprio in un momento in cui tanti cittadini ucraini, nelle proteste contro Kiev, manifestavano il loro amore per le idee e i valori che l’Ue rappresentava. 

Da allora, con l’annessione della Crimea alla Russia e la ribellione nell’Ucraina orientale, l’Ue si è dimostrata sempre più impotente. I suoi moniti e avvertimenti non hanno sortito nessun effetto. Le sue imprese non vogliono perdere commesse e affari con la Russia. E nel complesso siamo troppo dipendenti dalla Russia per le forniture di energia da poter rischiare una seria rottura delle relazioni con Mosca.

In un quadro di questo tipo cosa può fare l’Italia in occasione dei summit europei che si terranno durante la presidenza di turno? Certo non può fare miracoli, ma può avviare un processo in grado di migliorare la sua immagine in Europa e, nel medio termine, rafforzare l’economia nazionale.

L’energia è sempre stata un ottimo fattore potenziale di cooperazione e integrazione europea. Condividiamo la necessità di approvvigionamenti sicuri al prezzo più conveniente possibile. Condividiamo la necessità di ridurre le emissioni nocive per tutelare l’ambiente, e produrre più energia attraverso fonti pulite e rinnovabili. Condividiamo la necessità di rendere le nostre reti di distribuzione il più efficienti possibile, e al contempo di assicurare la fornitura di energia anche quando c’è poco vento o il sole non splende quanto dovrebbe. 

Un mercato unico dell’energia, la competizione del settore, i vantaggi delle economie di scala assicurate da una rete europea, il potere legale di impedire la concessione di sussidi nazionali che alterano la concorrenza: questi sono stati gli strumenti tradizionali della cooperazione europea, usati nella Comunità per il carbone e l’acciaio degli Anni Cinquanta, così come la campagna contro i sussidi degli Anni Ottanta, il mercato unico degli Anni Novanta, o la politica dei «cieli aperti» sempre negli Anni Novanta. Come la Commissione europea ha ribadito a più riprese, l’energia sarebbe dovuta essere uno dei grandi progressi dell’Ue nello scorso decennio.

Ma non lo è stato. Ci sono di fatto tre ragioni che hanno contribuito a questo fallimento. La prima è che gli investimenti energetici sono costosi. Ma una ragione ancor più forte è che le imprese energetiche nazionali sono assai potenti e fortemente legate alla politica, tanto da poter bloccare ogni progresso. Una terza ragione è che la strada verso le energie rinnovabili ha dovuto convivere spesso con la concessione di sussidi nazionali che frammentano il mercato piuttosto che unificarlo, proprio come un tempo facevano per le auto o l’acciaio. E questo ha reso le imprese energetiche ancora più bramose di bloccare il progetto di un mercato comune europeo dell’energia.

Ora comunque, l’Italia ha un’opportunità e una responsabilità. L’opportunità di utilizzare la crisi ucraina per costruire quel consenso politico necessario a togliere di mezzo gli ostacoli. I giganti energetici italiani, come Eni ed Enel, sono stati d’impedimento così come i giganti tedeschi e di altri Paesi. Così se l’Italia vuole rilanciare il progetto di un’unione energetica, le sarebbe di aiuto rimediare alla crescente impressione di non voler scontentare Eni o la Russia per vili ragioni commerciali. 


E’ una responsabilità perché l’Europa ha un estremo bisogno di compiere progressi sul fronte energetico. La dipendenza dalla Russia per un terzo delle nostre forniture di gas naturale è una seria debolezza. E nonostante il fatto di essere circondati da fornitori di carbone, gas e petrolio, i nostri prezzi dell’energia elettrica sono due o tre volte superiori a quelli americani. In Italia i prezzi dell’elettricità, sono i più elevati del club dei 34 Paesi industrializzati dell’Ocse. 

Ed è una responsabilità ancor maggiore, perché l’Europa ha bisogno di leadership, anche per dimostrare ai propri cittadini che l’Ue è in grado di portar loro vantaggi politici, economici e sociali. La fornitura di energia sicura e a basso costo, attraverso un mercato unico e competitivo, interconnesso da una rete di distribuzione super-efficiente grazie alla quale l’elettricità può essere fornita dalla società in tutta Europa, è l’esempio eccellente e più potente di quello che l’Ue può fare.

Qualcuno tuttavia deve far sentire la sua voce, deve gridare per far comprendere questa necessità e per rilanciarla, al fine di creare pressioni sulla Germania e altre nazioni affinché mostrino un atteggiamento serio sull’Unione energetica. A luglio l’Italia avrà l’opportunità di fare esattamente questo.

Da - http://lastampa.it/2014/05/04/cultura/opinioni/editoriali/il-governo-alla-prova-di-leadership-7Zg4dra1XqxfrH6X0yKfeP/pagina.html
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« Risposta #50 inserito:: Gennaio 09, 2017, 05:31:53 pm »


E sull’Unione incombe Marine Le Pen

Pubblicato il 09/01/2017

Bill Emmott
   
Il Generale Charles de Gaulle ne sarebbe orgoglioso. Perché il futuro dell’Europa in questo nuovo anno non sarà plasmato in Germania, né in Italia, né nella problematica Russia, e nemmeno nella Gran Bretagna della Brexit, ma in Francia. Altri avranno un ruolo, potrebbero anche creare dei casi. Ma sarà la Francia ad avere l’influenza più decisiva.

De Gaulle non era un fautore molto collaborativo della solidarietà europea. Dopo tutto, com’è noto, a metà degli Anni 60 ricattò la giovane Comunità europea boicottando gli incontri per promuovere la propria visione di un’Europa intergovernativa piuttosto che sovrannazionale. Era quello che Donald Trump potrebbe chiamare «La France prima». Ma ecco, voleva l’Europa per rendere la Francia più potente nel mondo, e questo sta di nuovo per accadere.

Uno dei motivi è ben noto: la possibilità, ed è scioccante anche solo che si possa definire una possibilità, che a maggio Marine Le Pen del Front National possa essere eletta alla presidenza. Chi non ha sentito enunciare la cupa logica speculativa? Che dopo la Brexit e Trump, il prossimo colpo alle previsioni razionali e alla saggezza convenzionale, la prossima vittoria del populismo, debba essere il presidente Le Pen?

Se ciò dovesse accadere, l’Unione europea finirebbe in pezzi. A differenza di Trump, Le Pen è in politica da 20 anni e le sue posizioni politiche hanno una consistenza che significa che devono essere prese sul serio: lei vorrebbe ricostruire le barriere commerciali della Francia, lasciare l’euro e limitare rigorosamente l’immigrazione, e nessuna di queste cose è compatibile con l’Unione europea come la conosciamo. E lei fa davvero sul serio.

Il risultato è che non ha senso alcuno in qualsiasi Paese dell’Ue - la Gran Bretagna che negozia la Brexit, l’Italia che prende in considerazione di andare al voto - prendere decisioni importanti fino alla conclusione del secondo turno delle elezioni presidenziali in Francia, il 7 maggio. Il risultato è semplicemente troppo importante per tutti noi. Ma è importante anche per un altro motivo, oltre alla paura di un presidente Le Pen.

Questa seconda ragione per cui l’influenza della Francia sarà determinante è molto più positiva. Nei suoi 60 anni di esistenza l’Unione europea non ha mai fatto progressi, non è mai stata in grado di agire in modo credibile e con decisione, tranne quando i governi di Francia e Germania hanno pensato insieme, pianificato insieme e lavorato insieme. Durante i cinque anni del mandato del presidente François Hollande, questo motore franco-tedesco è arrivato a un punto morto. Nessuna delle due parti si fida dell’altra e i tedeschi pensano che il presidente Hollande sia debole e incapace.

Senza il motore franco-tedesco, la gestione delle molteplici crisi dell’Europa è stata disastrosamente lenta, inefficace e divisiva. Eppure Francia e Germania hanno interessi comuni: le uccisioni di Berlino il 19 dicembre, a poco più di un anno dal massacro del Bataclan e cinque mesi dopo un identico attacco condotto con un camion a Nizza, hanno dimostrato che i due Paesi devono affrontare la stessa minaccia terroristica; avendo concepito insieme l’euro quando Kohl e Mitterrand erano presidenti e collaboravano strettamente, condividono un profondo interesse per far funzionare il sistema valutario; e con l’America di Trump, potenzialmente ostile all’Europa, hanno più che mai bisogno l’uno dell’altro nella geopolitica.

Se in Francia a maggio si verifica il risultato più probabile delle elezioni presidenziali, vale a dire la vittoria del candidato di centro-destra François Fillon, si potrebbe aprire una nuova era per la collaborazione franco-tedesca. Fillon, economicamente un liberalizzatore, ma conservatore sotto il profilo sociale, è molto più compatibile con il cancelliere Angela Merkel e soprattutto con i suoi sostenitori della Democrazia cristiana e dell’Unione cristiano sociale, rispetto al presidente Hollande. Potrebbe anche riuscire a convincere Merkel e il parlamento tedesco ad allentare i vincoli di bilancio stretti che bloccano le economie della zona euro.

Ma il risultato probabile si avvererà, dopo un 2016 che ha visto vanificati i risultati dati per probabili in Gran Bretagna e in America? I principali pericoli, in Francia come in Olanda, dove si vota a marzo, e in Italia, in qualsiasi momento si voterà, nascono dalla combinazione di alto tasso di disoccupazione, redditi delle famiglie stagnanti e paura dell’immigrazione.

Il problema di Hillary Clinton è stato il suo legame troppo stretto con le istituzioni americane che avevano portato al crollo finanziario del 2008 e che in seguito non sono state in grado di gestire una ripresa equa. La Brexit è un caso molto diverso, data la lunga storia di semi-distacco dall’Europa della Gran Bretagna, ma può ancora essere spiegata con l’alienazione dai poteri costituiti che fondamentalmente comprendevano un’Europa che, grazie alla perdita del motore franco-tedesco, ormai sembrava un problema piuttosto che un qualsiasi tipo di soluzione.

Per vincere nel 2017 i partiti politici e gli intellettuali che auspicano società aperte e liberali e una collaborazione a livello europeo dovranno dimostrare di poter offrire più speranza per il futuro dei cittadini di tutte le età di quanto non facciano i sostenitori della chiusura e del rifiuto dell’Europa, come ad esempio le Pen e Geert Wilders nei Paesi Bassi.

Questo significa che dovranno convincere gli elettori che possono far di nuovo funzionare l’Europa, rendendola parte della soluzione per i problemi nazionali piuttosto che essa stessa un problema. Soprattutto dovranno convincere gli elettori che sono in grado di restituire dinamismo all’economia nazionale, rimuovendo ciò che ostacola la crescita e la creazione di posti di lavoro. 

François Fillon è adatto a questo compito perché è capace di rivolgersi sia ai giovani che vogliono lavoro e opportunità sia ai più anziani che si preoccupano dei valori francesi tradizionali. Entrambi gli altri principali candidati, Manuel Valls per la sinistra e l’indipendente Emmanuel Macron, hanno anch’essi la capacità di ispirare i giovani ma, in quanto appartenenti al governo Hollande, risultano compromessi dal suo fallimento. La posta, per l’Europa e per il mondo, non potrebbe essere più alta.
[traduzione di Carla Reschia]

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/09/cultura/opinioni/editoriali/e-sullunione-incombe-marine-le-pen-0VA9ClmAglQCbUW9r4O5uL/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170109.
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:00:10 pm »

May, la chiarezza che giova all’Unione

Pubblicato il 18/01/2017
Bill Emmott

Bene, almeno l’incertezza è finita. Alcuni commentatori hanno definito i sei mesi di oscillazioni del governo britannico sul piano per la Brexit «ambiguità costruttiva», una frase usata da Henry Kissinger 40 anni fa. Confusione rende meglio l’idea, ma ora è chiaro: il primo ministro britannico Theresa May ha annunciato che il Regno Unito lascerà il mercato unico europeo e l’unione doganale. 

E’ un azzardo, ma ha un senso. Anche la scorsa estate la signora May aveva detto che tra le sue priorità c’erano limitare la libera circolazione dei cittadini europei e porre fine alla giurisdizione della Corte europea di giustizia nel Regno Unito. Per questo la Gran Bretagna deve abbandonare il mercato unico, perché è sottoposto alle leggi europee e la libera circolazione ne è uno dei principi cardine. Logico quindi attenersi a questo piano.

Certo si può discutere se siano queste le priorità, anche sul piano politico, a parte quello economico. La signora May evidentemente pensa che per lei sarebbe politicamente troppo rischioso acconsentire a mantenere la libertà di movimento. Sta dicendo d’altra parte che è pronta a correre il rischio di causare un danno economico alla Gran Bretagna abbandonando il più grande mercato unico del mondo per evitare un rischio politico al partito conservatore a cui appartiene.

Durante i sei mesi di confusione e ambiguità sui piani britannici per la Brexit, il primo ministro ha lasciato che i suoi ministri e il suo partito si cimentassero in un dibattito pubblico chiedendosi se questa fosse la scelta giusta. La sua posizione sul tema è stata coerente. Ma lasciando aperto il dibattito e aspettando di vedere quale sarebbe stato l’atteggiamento degli altri governi europei ha permesso che prevalesse l’incertezza. 

La fine di questo stato di cose è una buona notizia per gli altri 27 membri dell’Unione europea. Non devono più preoccuparsi che la Gran Bretagna cerchi di convincerli ad abbandonare i principi che sono il cuore dell’Unione europea. Non ce l’avrebbe fatta, anche se alcuni politici e intellettuali britannici chiaramente erano convinti che qualche altro Stato fosse pronto a limitare l’immigrazione e che riuscire a tenere nel mercato unico la Gran Bretagna, la quinta economia mondiale, fosse così importante da valer bene qualche concessione.

Si sarebbe risparmiato un sacco di tempo dimostrando che si trattava di un’illusione. Si sarebbe rischiato di creare una spaccatura ancora maggiore tra i Paesi dell’Unione e una relazione ancora più difficile con la Gran Bretagna.

Quindi la chiarezza su questo tema farà bene all’Europa. Le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato di Roma, a marzo, non devono essere offuscate da questo problema. L’Unione europea può andare avanti cercando di sviluppare le sue politiche sulle questioni molto più importanti dei rifugiati, dell’economia e delle relazioni con la Russia.

 Per la Gran Bretagna tuttavia, anche il discorso del primo ministro May non fa del tutto chiarezza sul futuro del Paese. Il Regno Unito sa che in futuro negozierà un trattato di libero scambio con l’Unione europea, così come cercherà di farlo con gli Stati Uniti e con altri Paesi. Ma ancora non si sa quanto lontano voglia spingersi il governo britannico per adempiere alla vaga promessa del primo ministro May di creare una «Gran Bretagna globale» che sarà il punto di riferimento per la libertà di commercio.

Sappiamo, per certo, che la Gran Bretagna non intende seguire Donald Trump sulla via dell’isolazionismo e del protezionismo. Il voto sulla Brexit è stato più frutto di arroganza nazionalista che di quella sorta di rabbia per la globalizzazione cavalcata da Trump. Ma cosa implichi questo per l’economia britannica ancora non si sa.

La signora May dice che il suo obiettivo è il libero commercio con l’Unione europea. Questo disegno comprende l’agricoltura? Abolirà tutti i sussidi e le altre forme protezionistiche per gli agricoltori britannici uscendo dall’Unione e consentirà l’accesso ai prodotti comunitari senza tasse né quote? 

O, per fare un altro esempio, sappiamo che lasciando l’Unione il Regno Unito potrà abbassare le tasse sulle importazioni di auto fino a zero, se vorrà. Il tasso europeo è ora del 10%. Questo intende la signora May quando dice che «liberarsi» dell’Unione europea ci permetterà di diventare i maggiori sostenitori del libero scambio. Ma le aziende automobilistiche giapponesi, indiane e americane che producono nel Regno Unito saranno d’accordo con quest’eccellente idea?

Tutto questo non lo sappiamo. E quindi il risultato vero del discorso chiarificatore del primo ministro britannico è di aver chiarito le idee agli altri 27 membri dell’Ue, ma non molto alla Gran Bretagna stessa. 

Traduzione di Carla Reschia 
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