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Autore Discussione: BILL EMMOTT. -  (Letto 26567 volte)
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« inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:49:20 pm »

LA RICETTA USA E QUELLA UE

Il costo dell’Europa disunita


Ma non doveva essere, questa, una crisi americana, scatenata dai mutui subprime americani e dal capitalismo yankee? Allora perché le banche europee sembrano soffrire più della loro controparte statunitense? Se nessuno si è sentito rincuorato dal voto di venerdì al Congresso americano, per l'approvazione del pacchetto di salvataggio da 700 miliardi di dollari per le banche americane, si può dire che nemmeno in Europa si siano mantenuti i nervi saldi, a giudicare dagli annunci frettolosi dei governi per assicurare un'ulteriore protezione ai risparmiatori.

Forse il peggio deve ancora venire, e non solo nel sistema finanziario, bensì nell'economia reale. Gli ultimi avvenimenti in Europa metteranno a tacere le pretese dei politici e di alcuni commentatori che il modello europeo di capitalismo, e specie quello finanziario, sia in qualche modo superiore a quello angloamericano, solitamente tacciato di maggior spregiudicatezza. Che si tratti di una valutazione errata — o quanto meno ingannevole — è già stato dimostrato dal fatto che le banche europee, in questa crisi, hanno subito maggiori perdite totali, per colpa dei prestiti senza copertura, rispetto alle banche americane: 181 miliardi di dollari contro 150, secondo il Financial Times, che cita un'analisi dell'agenzia di ricerca Creditflux. Se le banche europee fossero state più stabili, caute, meglio controllate e meno spregiudicate, allora questo non sarebbe accaduto.

Le perdite delle banche europee sono da addebitare al massiccio acquisto di derivati sui mercati americani. Esse hanno altresì prodotto in proprio un certo numero di derivati, ma la maggior parte proveniva da oltreoceano. Allora, possiamo ancora gettare la colpa sugli Stati Uniti? Tanto per cominciare, le banche europee non erano costrette all'acquisto, e coloro che esercitavano i controlli potevano anche impedir loro di accumulare riserve così ingenti. Ma lo hanno fatto, perché lo ritenevano redditizio. Oggi l'Europa deve affrontare tre distinte tempeste, che complessivamente rischiano di infliggere ingenti danni. Una viene dai derivati americani. Un'altra, tuttavia, viene dall'aumento delle insolvenze sui prestiti nel mercato immobiliare europeo, dove i prezzi sono ora in discesa, in particolare in Irlanda, Gran Bretagna, Spagna e Francia. La terza, imminente, ha l'aspetto di una progressiva recessione economica, aggravata dai tagli al prestito effettuati dalle banche, che provocheranno parecchi fallimenti, sia familiari che aziendali, che andranno a sommarsi nuovamente alle perdite e alle sofferenze bancarie. L'incertezza sulla reale portata di queste difficoltà e sulle debolezze ancora nascoste nei bilanci bancari basta oggi ad affossare i mercati azionari.

Come sempre, però, l'insicurezza principale e immediata riguarda quello che i governi possono fare per arginare il problema. I mercati saranno anche più capaci dei governi per stanziare i capitali, inventare tecnologie e interpretare le preferenze della gente, ma in tempo di crisi solo i governi dispongono di risorse sufficienti per trovare una via d'uscita, perché rappresentano l'intera nazione e tutti i suoi contribuenti. Nazione: parola d'importanza cruciale. Il governo Usa ha suscitato polemiche tra i suoi contribuenti per l'impiego di denaro pubblico allo scopo di nazionalizzare prima due gigantesche società ipotecarie, poi la compagnia di assicurazioni Aig ed ora per acquistare debiti per 700 miliardi di dollari. Ma almeno ha agito, e lo ha fatto più celermente e risolutamente di quanto non fece il governo giapponese durante la crisi finanziaria degli anni '90.

Quasi certamente sarà costretto a intervenire nuovamente, con un altro enorme pacchetto destinato a iniettare nuovo capitale nelle banche. E così dovrà fare anche l'Europa. Ma il problema in Europa è che ci sono tante nazioni, che rifiutano di cooperare tra di loro. È un dato inevitabile, ma anche deludente e preoccupante. È inevitabile, perché i distinti governi nazionali saranno sempre dalla parte del proprio elettorato e dei propri contribuenti. Per questo l'Irlanda si è affrettata, la settimana scorsa, a garantire i suoi depositi bancari malgrado il rischio di destabilizzare i sistemi finanziari degli altri Paesi europei, risucchiando i depositi; ed è per questo che l'Olanda si è precipitata a nazionalizzare la quota olandese di Fortis, la banca belga in difficoltà che l'aveva appena acquistata dall'ex banca olandese, Abn-Amro. È deludente constatare come questi governi non riescono a coordinarsi gli uni con gli altri, malgrado i regolari incontri e la moneta unica. La lezione da trarre, sia dagli interventi americani che dalla crisi finanziaria giapponese degli anni '90, è che alla fin fine il sistema bancario sarà stabilizzato soltanto dallo sforzo del governo per ricapitalizzare le banche. Questo può e deve essere fatto tramite «titoli preferenziali» contro capitale, proprio come ha fatto il grande investitore Warren Buffett con Goldman Sachs a New York: a lui andrà un dividendo annuale del 10 per cento, e questo possono esigere anche i governi.

In Europa, al momento, la ricapitalizzazione verrà effettuata da ogni singolo Paese, e probabilmente con pacchetti diversi varati dai singoli governi, il che potrebbe sortire l'effetto opposto, ovvero la destabilizzazione. Per questo motivo, è un vero peccato che la proposta di Francia e Olanda, condivisa anche dall’Italia, a favore di un fondo collettivo di ricapitalizzazione per l'Unione Europea sia stata così fermamente respinta dalla Germania, oltre che da altri Paesi membri. È una soluzione che, prima o poi, si rivelerà indispensabile. E più l'Europa aspetta, tanto maggiori saranno le risorse da destinare al progetto.

Bill Emmott
07 ottobre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 30, 2011, 03:57:34 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 14, 2010, 05:47:42 pm »

14/9/2010

Il maggioritario per l'Italia non funziona
   
BILL EMMOTT

E’ lusinghiero per noi inglesi che il nostro sistema sia stato tanto spesso lodato nel corso del dibattito italiano sulla politica e la legge elettorale. E ci siamo sentiti lusingati anche quando quest’anno, a maggio, tanti commentatori italiani hanno espresso preoccupazione perché il nostro sistema elettorale maggioritario uninominale secco non era riuscito, per la prima volta in 36 anni, a produrre un governo forte, portando necessariamente alla formazione di un governo di coalizione per la prima volta dal 1945. Eppure, per quanto lusinghiera, l’attenzione è, a mio parere, sbagliata. Un sistema maggioritario ha funzionato bene per la Gran Bretagna, ma non è adatto all’Italia.

L’anno scorso ho girato l’Italia facendo ricerche per un nuovo libro, «Forza, Italia», che sarà pubblicato il mese prossimo da Rizzoli. L’obiettivo della ricerca era esplorare i punti di forza del Paese per trovare la «Buona Italia», in contrapposizione alla «Cattiva Italia» su cui tanti critici stranieri (me compreso) si sono concentrati. Dopo questo primo editoriale su «La Stampa» spero di scrivere regolarmente della Buona Italia.

Grazie a questa affascinante e piacevole ricerca ho concluso che le riforme non funzioneranno se non si adatteranno ai punti di forza e alla vera natura della società italiana. Ed è per questo che l’esperimento con i sistemi maggioritari è stato un fallimento. L’attuale collasso della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi ne è l’ultima prova.

Alcuni diranno che il conflitto all’interno della coalizione di centro-destra è personale, un conflitto basato sul sostegno o sull’opposizione a Silvio Berlusconi stesso, e quindi non possono esserne tratte conclusioni strutturali o di sistema.

Ma questa è una spiegazione elementare. La realtà più profonda, sicuramente, è che la coalizione formata nel 2008 era artificiale. Così come lo era quella del 2001-06, anche se è durata più a lungo. Queste sono state coalizioni tra incompatibili, di meridionali con la Lega Nord, di riformatori liberali e conservatori, di fautori di un fisco indulgente con sostenitori dell’austerità.

A sinistra è lo stesso. Il Partito Democratico esiste veramente come partito? Perché le forze più vivaci ed attive a sinistra sono al di fuori del Pd, come la Sinistra Ecologia e libertà di Nichi Vendola o L’Italia dei valori di Antonio di Pietro? Perché il partito è lacerato dalle fazioni? Si può dire, correttamente, che tutti i grandi partiti raccolgono diverse tendenze, come il Partito Democratico in America, il Partito laburista in Gran Bretagna o la Spd in Germania. Ma è questione di proporzioni. Forse Pierluigi Bersani si accinge a dimostrare che sbaglio, ma apparentemente né lo stesso Pd né la sua sperata coalizione per il nuovo Ulivo sembrano avere una logica.

La speranza di alternanza, per i potenziali governi concorrenti, era comprensibile dopo Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica. Ma il detto militare che i generali cercano sempre di combattere l’ultima guerra, piuttosto che guardare alla prossima battaglia, è anche molto adatta alla situazione. La mancanza di alternanza è stata un vero problema nel contesto della Guerra fredda e in una politica dove gli estremi erano inaccettabili. Ma oggi? Tutti gli sforzi per produrre maggioranze solide, con il premio di maggioranza e la ricerca di partiti bipolari, sono falliti.

Ciò che ha l’Italia con l’attuale sistema elettorale è un’alternanza instabile. In aggiunta, ha fallito nel produrre governi operativi. Né il governo Berlusconi del 2001-06 né quello attuale sono riusciti ad attuare granché dell’agenda delle riforme, nonostante l’apparente forza di voto delle coalizioni in Parlamento. Perché? La mia convinzione è che il motivo è questo: le coalizioni erano artificiali, non reali, così come il Pd resta un partito artificiale.

L’elenco delle riforme che sembra essere in agenda per tutti include giustizia, istruzione, lavoro, federalismo, modifiche costituzionali, e altro ancora. Tutte queste riforme hanno bisogno di un ampio consenso perché ci sia una possibilità di realizzarle. Tutte richiedono l’accettazione di base da parte delle principali parti politiche che gli avversari hanno legittimamente il diritto di governare.

Eppure, né il consenso né l’accettazione sono possibili, fino a quando resta in piedi l’attuale sistema maggioritario e iper-partigiano. L’alternanza politica britannica funziona in parte grazie alla tradizione: è ciò a cui siamo abituati. Ma funziona soprattutto perché c’è in Gran Bretagna un’ampia accettazione delle regole del gioco politico.

Noi non abbiamo una costituzione scritta ma tutti i partiti politici accettano che la nostra tradizione costituzionale fissi alcuni requisiti e regole di base. A maggio di quest’anno, quando le nostre elezioni politiche non hanno prodotto una maggioranza assoluta, quella tradizione costituzionale è stata messa a dura prova. Eppure, in quattro giorni, è stata formata una coalizione ed è stata accettata dallo sconfitto Partito laburista. Esisteva già il consenso perché il cambiamento fosse regolare e legittimo.

In Italia, mi pare, il consenso deve essere creato e ricreato continuamente. Potere e interessi sono più divisi e più diffusi che in Gran Bretagna. La profonda divisione tra destra e sinistra è più di una semplice questione di filosofia o politica. Quindi, questa divisione di base ha sempre bisogno di essere colmata per creare il consenso e questo consenso richiede anche l’inserimento di altre forze, sia regionali o di settore. Per questo nel mio libro propongo che sia abbandonato il premio di maggioranza e che la legge elettorale sia riformata in favore di un sistema che scoraggi i partiti minuscoli ma che riconosca comunque la diversità e la diffusione di interessi politici e di identità.

Un sistema simile a quello usato in Irlanda, che permette di evitare le liste di partito votando direttamente per i candidati in circoscrizioni multiple, dove questi vengono scelti con un «voto singolo trasferibile» e raggruppati in base alle preferenze, con la soglia del 5% di consensi necessaria per ottenere seggi: questo è il tipo di sistema che mi sembra adatto a soddisfare le caratteristiche di base dell’Italia e a produrre governi capaci di riforma.

Nessun sistema elettorale è infallibile. Ma ogni sistema ha bisogno di incanalare la politica di un Paese, senza cercare di sovvertirla o trasformarla.

(Traduzione di Carla Reschia)
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7829&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:04:54 pm »

4/10/2010

Obama deve ritrovare credibilità

BILL EMMOTT

Mentre Barack Obama è tutto preso dalla campagna elettorale per i candidati democratici nel tentativo di contenere le perdite del suo partito al voto di medio termine del 2 novembre per il rinnovo del Congresso, è tempo di pensare a quello che prima sembrava inconcepibile e cioè che potrebbe finire la sua carriera di Presidente al primo mandato, come Jimmy Carter nel 1976-1980, e come lui essere considerato un fallimento.

Questo non è ancora probabile, ci saranno un sacco di alti e bassi nella politica tra oggi e le elezioni presidenziali del 2012. Ma appare già chiaro che questi due anni saranno dominati da uno sforzo continuo e forse disperato per evitare l'umiliazione della sconfitta. Un obiettivo che condizionerà tanto la politica interna come quella estera e quindi interesserà il mondo intero.

Per un uomo che si vedeva, ed è stato visto in tutto il mondo, come un Presidente di cambiamento, questa è di per sé una notevole trasformazione. In patria ha raggiunto due dei principali obiettivi che si era posto: la riforma sanitaria che assicura una copertura quasi universale e la riforma delle regole finanziarie per rendere meno probabili future crisi. Eppure è stato ampiamente denigrato per la prima e ha ricevuto poco credito per la seconda. Oggi come oggi questi grandi risultati finiscono per pesare come una debolezza invece di essere una forza. E tutto ciò che fa o dice è oscurato dall'economia: la ripresa è in corso e finora è stata più forte e più costante che nella maggior parte dell’Europa, ma la disoccupazione rimane ostinatamente e storicamente elevata, al 9,6% della forza lavoro.

Il deficit del bilancio federale di 9% del Pil, che riflette il programma di stimolo fiscale di Obama dello scorso anno, lo condanna: con la disoccupazione ancora elevata, lo stimolo è visto come un fallimento costoso e non come un provvedimento senza il quale le cose sarebbero andate molto peggio.

In politica estera l’idea iniziale, condivisa a livello globale, che sarebbe stato un nuovo tipo di Presidente americano è stata sostituita dalla disillusione. Certo, Obama rimane il leader mondiale con cui ognuno vuole farsi una foto o da cui vorrebbe ricevere una telefonata. Ma gli alleati dell’America sembrano sempre più inclini a pensare che debba ancora dimostrare di saper prendere in mano la situazione nelle sfide più impegnative, in Medio Oriente, in Iran e in Afghanistan, e che non abbia dato alcun contributo sul cambiamento climatico. Gli avversari dell’America lo snobbano e lo fanno arrabbiare senza alcun timore.

E' giusto un simile fuoco di fila di critiche? In un certo senso gli indici di gradimento personale di Obama nei sondaggi smentiscono questa litania negativa: il suo punteggio si aggira intorno al 45%, non è molto diverso da quello di Ronald Reagan nel 1982 ed è migliore di quello di Bill Clinton nel 1994, in momenti in cui entrambi questi due Presidenti rieletti dovettero subire severe battute d'arresto nelle elezioni del Congresso. La preoccupazione per Obama, tuttavia, è che se è ancora gradito al pubblico a livello personale, così non è per le sue politiche, in particolare la riforma sanitaria, il deficit di bilancio e la guerra in Afghanistan. Se, come sembra probabile, i suoi avversari repubblicani a novembre prenderanno il controllo del Congresso, influiranno sempre di più sulla sua agenda e il rischio è che saranno poi in grado di focalizzare l'attenzione sulle politiche che lo rendono impopolare. Se è così, i suoi attuali livelli di popolarità possono semplicemente riflettere il fatto che non è ancora emerso con chiarezza un candidato repubblicano per il 2012. Una volta che ci fosse, i sondaggi potrebbero cambiare.

Anche così la sconfitta del 2012 è tutt’altro che inevitabile come dimostrano gli esempi di Reagan e Clinton. Reagan ha beneficiato della ripresa economica e di una politica estera forte, mentre Clinton è riuscito a volgere in vantaggio elettorale l'ostruzionismo repubblicano al Congresso. Barack Obama finora non è riuscito a trasformare la brillantezza mostrata nella sua campagna del 2008 in un modo efficace di comunicare con il popolo americano come Presidente: sembra più un professore universitario che l’amico saggio che Reagan e Clinton riuscivano a essere. Con la ripresa economica, e forse, come per Clinton, con il vantaggio offerto da oppositori repubblicani troppo zelanti nel Congresso, potrebbe ancora farcela. Ma sarà dura.

Nulla è certo nella politica elettorale, soprattutto su un periodo di tempo lungo come due anni. Quello che può essere previsto, tuttavia, è la probabile influenza sulla politica interna ed estera.

Gli effetti saranno di vario tipo. Il 29 settembre la Camera dei Rappresentanti ha approvato una legge progettata per consentire al governo americano di punire la Cina perché manipola la propria valuta e quindi esporta sotto prezzo, una legge che ora passerà all’esame del Senato. Il 15 ottobre il Tesoro degli Stati Uniti pubblicherà la sua relazione semestrale e dirà se i partner commerciali dell’America - in pratica la Cina - stanno manipolando le loro valute. I sentimenti protezionisti sono in aumento, e la capacità della Casa Bianca e del Tesoro di resistere a questa tendenza si sta indebolendo. Questo sta accadendo in vista delle elezioni del Congresso. Dopo una pesante sconfitta repubblicana, è probabile che la Casa Bianca possa seguire il rullo dei tamburi protezionistici nello stesso partito di Obama e nei sindacati, e prendere misure anticinesi. Questo porterà la questione della manipolazione monetaria e degli squilibri commerciali dalle conferenze degli economisti alle agende politiche mondiali.

E metterà la Cina e l'America su una rotta di collisione, un corso che potrebbe essere aggravato dalle dispute sul sostegno della Cina al regime nordcoreano, per esempio, o sulle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese meridionale. Non è ancora chiaro dove dovrebbe stare l'Europa, dato che lamenta la crescita dell’euro ma celebra le forti esportazioni verso la Cina della Germania. Un'altra preoccupazione di politica estera sarà che il presidente Obama potrebbe fare quello che gli europei parlano di fare in prima persona ma temono possa fare l’America: ritirarsi precipitosamente dall'Afghanistan, per guadagnare punti nei sondaggi d'opinione.

Anche altre due questioni interne faranno da cornice alla lotta per la Casa Bianca. La prima sarà lo sforzo repubblicano per cancellare la riforma sanitaria di Obama, sfidandolo a porre il veto, nonostante l'impopolarità della riforma. L'altra sarà il braccio di ferro sul deficit di bilancio, dove ogni parte tenta di dipingere l'altra come spendacciona o fiscalmente iniqua. Non sarà un bello spettacolo. In realtà rischia di far sembrare un gioco da bambini la battaglia europea sui piani di austerità e il salvataggio delle banche.

Traduzione di Carla Reschia
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7914&ID_sezione=&sezione=
« Ultima modifica: Ottobre 09, 2010, 03:51:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 09, 2010, 03:53:05 pm »

9/10/2010

Una scelta coraggiosa

BILL EMMOTT

Non è sempre noto per il suo coraggio. Troppo spesso, asseconda con debolezza sentimenti alla moda. Ma quest’anno il Comitato per il Nobel per la Pace ha fatto una scelta coraggiosa e ammirevole con Liu Xiaobo, il dissidente che la Cina ha condannato l’anno scorso a 11 anni di carcere per il terribile delitto di propaganda per la democrazia. Rude e scomposta la replica della Cina, che ha definito la scelta un’offesa. Che potrebbe, in modo non meglio precisato, danneggiare le relazioni tra Cina e Norvegia, non fa che confermare la validità e il merito della scelta.

Qualcuno potrebbe dissentire: diranno che il premio per la Pace dovrebbe andare a chi promuove la pace internazionale, piuttosto che a quelli, come il signor Liu, che tengono campagne per i diritti umani e la democrazia all’interno dei loro Paesi. Questo riconoscimento è, secondo la Cina, un’ingerenza nella sua politica interna e nella sua sovranità.

Sì, lo è, vorrei rispondere, ed è per questo che mi piace. Altri governi o istituzioni internazionali non sono in grado di interferire nella sovranità nazionale. Rischiano di essere accusati di ipocrisia - come è possibile che governi impegnati a espellere gli zingari rom, a dare in gestione la politica di immigrazione alla Libia o a chiudere in galera senza un vero processo persone sospettate di terrorismo diano ad altri lezioni sui diritti umani? E poi devono tenere in considerazione altri interessi, troppi, compresi il commercio e la sicurezza. Ma il Comitato del Premio Nobel per la Pace può farlo liberamente: risponde soltanto alla Fondazione Nobel, al Parlamento norvegese e, più genericamente, all’opinione pubblica mondiale. Il fatto che la Norvegia non sia membro dell’Unione europea è un vantaggio: il comitato non ha bisogno di sentirsi vincolato dalla diplomazia europea o dalle sottigliezze dello sforzo per forgiare una politica estera e una rete di sicurezza comuni.

Per chiunque non sia ipocrita, Liu Xiaobo è una causa eccellente, come lo era quando le fu assegnato il Premio per la Pace nel 1991 Aung San Suu Kyi, l’attivista birmana incarcerata perché vuole la democrazia. Dal massacro di piazza Tienanmen nel 1989, che fu la risposta alle proteste per migliori condizioni e per il controllo dell’inflazione da parte dei lavoratori e a quelle degli studenti per la democrazia, la campagna per la riforma politica in Cina è diventata in gran parte sotterranea. A poco a poco, nei successivi 20 anni, via via che nel Paese crescevano la ricchezza e, sotto molti aspetti, la libertà, è diventato lecito parlare, in termini generali, a favore della democrazia. Ma due cose sono rimaste un anatema per le autorità cinesi: il primo atto inaccettabile è mettere direttamente in discussione il ruolo, attuale o futuro, del Partito comunista nel governo della Cina, il secondo è quello di tradurre le dichiarazioni individuali in un gruppo in qualche modo organizzato.

Due anni fa il signor Liu ha fatto entrambe queste cose inaccettabili: ha collaborato alla redazione di un manifesto chiamato Carta 08 in omaggio al movimento Charta 77, guidato in Cecoslovacchia durante la Guerra fredda da Vaclav Havel, che chiedeva la democrazia pluralista e di fatto la fine del monopolio del potere del Partito comunista. E, invitando altri a firmare la Carta, lui e i suoi colleghi firmatari minacciavano di diventare un vero nucleo di opposizione alle autorità. Per questo motivo è stato immediatamente arrestato, per intimidire gli altri. Fino all’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il sistema ha funzionato.

Probabilmente funzionerà ancora. Sebbene la diffusione di Internet e la proliferazione di giornali e riviste abbiano complicato il compito delle autorità nel mettere a tacere il dissenso, riescono ancora a farlo con notevole successo. I redattori sanno dove corrono le linee rosse e obbediscono. La critica delle politiche pubbliche è consentita e in qualche caso anche incoraggiata come una sorta di valvola di sicurezza e di responsabilità pubblica, ma la critica del sistema politico non lo è. La discussione sovversiva su Internet è rapidamente individuata e messa a tacere. Liu è, di conseguenza, quasi sconosciuto in Cina.

Ciononostante, un premio di questo tipo, con tutta l’attenzione internazionale e la copertura mediatica che attira, aumenta per le autorità cinesi la difficoltà di controllare il flusso delle informazioni. Rende inoltre più difficile per i governi stranieri ignorare il problema.

Quasi certamente, quando il passaggio della Cina a una qualche forma di democrazia sarà storia, probabilmente in un momento in cui la diffusione della tassazione sui redditi provocherà l’irresistibile esigenza di rappresentanza della classe media, il Nobel per la Pace di quest’anno meriterà solo una nota a piè di pagina. Ma è una nota ammirevole, una nota di cui il Comitato del Premio per la Pace può essere giustamente orgoglioso. Ed è una nota che si distingue per la piccola possibilità di diffondere il passaparola della democrazia all’interno della Cina e, cosa altrettanto importante, per il coraggio e per i principi.

traduzione di Carla Reschia
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7934&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 03, 2010, 04:16:43 pm »

3/12/2010

La diffidenza incrina le alleanze

BILL EMMOTT


La buona notizia riguardo alle ultime rivelazioni di Wikileaks a proposito delle relazioni dei diplomatici americani su Silvio Berlusconi è che distolgono l'attenzione dai party e dalla vita privata «rilassante» del presidente del Consiglio. Molti italiani, soprattutto sostenitori del governo di centro-destra, hanno a lungo lamentato l'eccessiva attenzione internazionale agli scandali sessuali. La cattiva notizia, tuttavia, è che queste rivelazioni ora concentreranno l'attenzione là dove avrebbe sempre dovuto appuntarsi: sul rapporto tra imprese e governo, e soprattutto tra interessi economici personali e l’esercizio della politica estera.

Le rivelazioni, che sono sostanzialmente rapporti di voci in circolazione a Roma e all'interno dello stesso partito di Berlusconi, non dovrebbero sorprendere alcun osservatore internazionale che dal 2001 abbia seguito da vicino la politica italiana. Né, ovviamente, possono necessariamente essere ritenute precise: sono accuse e sospetti, non fatti dimostrati. Ma tali indiscrezioni guadagnano un di più di autorevolezza se provengono dai messaggi di diplomatici americani, dalla consapevolezza che queste convinzioni hanno fatto la differenza negli atteggiamenti e nelle politiche relative alla sicurezza della superpotenza mondiale.

Ovviamente un alleato chiave per l’Italia. Inoltre, dovrebbero rammentarci qualcos’altro che è di fondamentale importanza nelle relazioni internazionali. Questo cruciale valore aggiunto è la fiducia. Normalmente, tra alleati di lunga data, e soprattutto tra alleati che sono democrazie, la fiducia negli affari esteri è consolidata da lunghi anni di conoscenza sempre più approfondita degli interessi sottotraccia e delle motivazioni di ciascun Paese. Per quanto riguarda la Russia, per esempio, è ben noto come la Germania abbia una visione diversa di quel Paese rispetto alla Gran Bretagna o agli Stati Uniti, a causa della maggiore vicinanza geografica, degli stretti legami commerciali e della dipendenza energetica.

Tale consapevolezza è stata un po’ complicata dal rapido inserimento di Gerhard Schroeder in un incarico assai ben remunerato come presidente del gasdotto russo-tedesco poco dopo aver lasciato la carica di Cancelliere della Germania. Dato che si era pubblicamente espresso a favore dell’operazione quando era Cancelliere, molti critici ritennero inappropriato che avesse accettato l’incarico, anzi persino scandaloso, e avevano sicuramente ragione. Ma questo sgarbo non ha minato la fiducia nella politica tedesca verso la Russia, perché l'affare era stato condotto in modo trasparente ed era in linea con quella che era diventata una costante della politica della Germania dopo la fine della Guerra Fredda.

L'importanza delle accuse riguardanti Berlusconi e Putin è che, contrariamente al caso tedesco, sembra che abbiano minato la fiducia americana riguardo le linee della politica estera italiana nei confronti della Russia e sollevato dubbi circa la coerenza di tale politica nel passato. Pur attribuendo un chiaro valore al sostegno fornito dall’Italia per le operazioni militari in Afghanistan e Iraq, tanto dal governo Berlusconi 2001-06 come da quello di Romano Prodi nel 2006-08, questi dispacci diplomatici indicano che in America si sono diffuse l’esasperazione, la diffidenza e anche l’amarezza per il corso della politica italiana nei confronti della Russia, in un periodo in cui il comportamento russo stava di nuovo causando particolare preoccupazione a Washington. L'essenza di questa diffidenza, è importante ripeterlo e sottolinearlo, non si fonda sul tema della politica «giusta»: un argomento del genere potrebbe essere discusso pubblicamente e del tutto apertamente con un alleato democratico come l'Italia. No, l'essenza della diffidenza sembra essere sorta dalla convinzione che la politica italiana era diventata personale e non nazionale, e dal sospetto che nascondesse interessi commerciali - di nuovo personali e non nazionali.

Tutti i governi, e tutti i capi di governo, coltivano l'idea che stretti rapporti personali fra i leader possano essere utili nelle relazioni internazionali. L’affiatamento tra Bill Clinton e Tony Blair, per esempio, sembra sia stato considerato un bene tanto in America come in Gran Bretagna. Il problema di queste rivelazioni non verte su questo tema: normalmente, sarebbe un vantaggio per uno o più leader europei godere di una sorta di relazione privilegiata con il leader russo. George W. Bush, dopotutto, ha affermato di aver «guardato nell’anima di Putin», quando i due si incontrarono per la prima volta. Queste accuse, però, vanno oltre la chimica personale.

La loro essenza mi richiama inevitabilmente alla mente la ben nota copertina pubblicata da The Economist, nel 2001, quando ero capo redattore della rivista: dichiaravamo che Silvio Berlusconi era «inadatto» a governare l'Italia. Questo non aveva niente a che fare con scandali sessuali. Aveva piuttosto qualcosa a che fare con prove e incriminazioni. Ma, soprattutto, la nostra motivazione e la nostra preoccupazione concernevano i pericoli per la democrazia insiti in una relazione troppo stretta tra un potente uomo d'affari e le istituzioni di governo. Era inevitabile che sorgesse il sospetto che le politiche del governo venissero orientate a favore degli interessi commerciali individuali o societari. E tali sospetti e accuse corrodono profondamente la fiducia nel governo, anzi nello stesso capitalismo.

Ora, da queste rivelazioni di Wikileaks, possiamo vedere che questi sospetti corrodono anche la fiducia tra gli alleati in tema di politica estera. Questo logorio è in atto da molto tempo. Ma renderlo di pubblico dominio ora rischia di rendere ancora più profonda, e più diffusa, la diffidenza.

Traduzione di Carla Reschia
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8162&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 31, 2011, 06:21:48 pm »

30/1/2011

L'Italia non risponde al telefono

BILL EMMOTT

Pochi giorni fa un’intervistatrice tv mi ha chiesto cosa credevo potesse pensare della politica italiana un alieno proveniente da un altro pianeta, un extraterrestre che improvvisamente si fosse trovato a Roma. Una bella domanda, anche se mi sono chiesto se lei vedeva anche me come una sorta di alieno. Forse come commentatore straniero sono davvero una specie di extraterrestre, ma vorrei rilanciare: di fronte alla politica italiana oggi siamo tutti alieni, rispetto ai politici siamo tutti creature di un altro pianeta, italiani o stranieri, giovani o vecchi, di destra o di sinistra. Perciò la mia risposta è che il nostro extraterrestre chiederebbe come mai in Italia c’è così tanta politica e così poco governo. Infatti, se l’Italia fosse l’unico Paese sulla Terra visitato dall’alieno, la creatura dovrebbe concludere che in questo gioco chiamato democrazia la politica e il governo devono essere variabili indipendenti, attività non connesse, e potrebbe dedurne che in Italia il vero governo deve essere altrove, probabilmente in qualche luogo segreto, perché nessuno dei politici sembra avere nulla a che fare con esso.

Ciò che i media internazionali rispecchiano oggi, in realtà, è l’idea, affine ma più limitata, che il grande successo di Silvio Berlusconi, in effetti la vera eredità dei suoi anni a Palazzo Chigi, sia aver finalmente sostituito come cliché favorito tra gli stranieri per l’Italia «La Dolce Vita» con la frase «Bunga Bunga». Tuttavia il danno, come ben comprende il nostro alieno, è molto più grave della semplice sostituzione di una bella immagine cinematografica con uno scollacciato esotismo.

Il danno può essere riassunto adattando la famosa frase detta da Henry Kissinger, quando l’allora segretario di Stato Usa chiese a chi avrebbe dovuto telefonare se avesse voluto parlare con l’Europa. Se si fosse riferito all’Italia di oggi, avrebbe detto che il numero lo conosce, ma nessuno risponde al telefono. Non ha senso, pensano i governi stranieri o le imprese, chiamare l’Italia, perché il governo, e forse ogni iniziativa, non esiste più. I politici, almeno tutti i politici nazionali, si sono lasciati alle spalle il mondo reale. «Povera Italia», come ha detto recentemente il mio ex datore di lavoro, The Economist. La rivista fu anche rimproverata nel 2001, quando descrivemmo Silvio Berlusconi come «inadatto a guidare l’Italia», ma non ci rendevamo conto che la parola cruciale non era solo «inadatto», ma anche «guidare». Né lui né nessun altro nella politica italiana mostra alcun interesse a guidare l’Italia.

Naturalmente gli italiani hanno percepito questo per qualche tempo. Milioni di voi hanno fatto de «La casta» di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo un grande bestseller nel 2007, un fenomeno che in qualsiasi altro Paese avrebbe implicato la presenza di una forza irresistibile per il cambiamento. Ma la politica è proseguita come prima. Solo, peggio.

Che dire dell’economia? Gli analisti hanno speso un sacco di tempo l’anno scorso chiedendosi in cosa l’Italia è diversa dalla Grecia, dall’Irlanda e dal Portogallo, dato che il suo debito pubblico è uno dei più grandi d’Europa in rapporto al Pil. La conclusione popolare, soprattutto con Giulio Tremonti, è che l’Italia è diversa perché non soffre di crisi del settore finanziario, ha un deficit di bilancio relativamente modesto ed è ancora in grado di onorare i debiti, nonostante un tasso di crescita lento. Quindi questa è una buona notizia.

È tempo di convincersi del contrario. Infatti, sebbene l’analisi sia corretta, la conclusione è errata: in realtà, questa è una cattiva notizia. Perché almeno i governi di Grecia, Irlanda e Portogallo stanno facendo qualcosa sotto la pressione della loro crisi: le riforme sono state tentate. Almeno in Irlanda c’è un’opposizione che sa chi è il suo leader e sa che vuole andare al governo alle elezioni anticipate che si terranno il mese prossimo.

Così come ad altri commentatori mi viene spesso chiesto come possa il presidente del Consiglio sopravvivere a scandali che avrebbero costretto alle dimissioni in pochi giorni qualunque altro leader europeo. La ragione non ha veramente nulla a che fare con il sesso o machismo che viene spesso citato, ancora meno con l’opinione pubblica.

La differenza decisiva tra l’Italia e ciò che sarebbe accaduto in Francia, Spagna o Gran Bretagna è che gli alleati di Berlusconi, all’interno del suo partito e della sua coalizione, non gli hanno ancora chiesto di dimettersi, cosa che altrove i loro omologhi avrebbero già fatto da tempo. Essi non vedono alcuna necessità di farlo e presumibilmente credono di poter ancora trarre beneficio dall’alleanza con lui. Né l’opposizione appare seriamente intenzionata nel tentativo di costringerlo ad andarsene, o di cercare di convincere i suoi alleati, nel Pdl o nella Lega, che i loro interessi potrebbero essere serviti meglio senza di lui. Lo spettacolo piuttosto strano della legge sul federalismo fiscale e relativi dibattiti mettono in luce questa mancanza di urgenza e di determinazione. Dopo tanti anni di discussioni su questo problema, con il disegno di legge principale approvato da quasi due anni e con le scadenze per le leggi di attuazione presumibilmente imminenti com’è possibile che ci sia così poca chiarezza su ciò che davvero significa federalismo fiscale? Non sono solo gli alieni a non riuscire a decifrare il vero significato di questo cambiamento apparentemente così importante.

La domanda che devo continuare a pormi alla luce di questa scena politica triste, paralizzata, del tutto autoreferenziale, è se mi sbagliavo lo scorso ottobre esprimendo speranza e ottimismo nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi». Certamente non abbiamo ancora raggiunto il «dopo», ma la mancanza di leadership, o anche del desiderio di averne una, è scoraggiante.

Così, torniamo al nostro alieno e supponiamo che così come è extraterrestre sia anche un economista esperto. Se l’alieno desse un’occhiata ai dati economici dell’Italia, vedrebbe una lista familiare di punti deboli: la crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi della zona euro allargata, la caduta dei redditi delle famiglie; la crescita a rilento della produttività, l’invecchiamento e la stagnazione della popolazione, l’alta disoccupazione giovanile, i disavanzi del commercio della bilancia dei pagamenti, nonostante tutte le dicerie sulle esportazioni italiane (che, contrariamente alla credenza popolare, sono solo al quinto posto nell’Unione europea, sommando beni e servizi, o al quarto solo per le merci).

Ma incontrerebbe anche imprenditori che lavorano giorno e notte per creare e inventare prodotti di alta qualità venduti in tutto il mondo; vedrebbe, dal referendum Fiat, una volontà emergente tra i sindacati moderati e i lavoratori per modernizzare le pratiche del lavoro; vedrebbe le idee, l’energia e la creatività dei giovani e potrebbe essere impressionato dalla forza delle cooperative e delle reti nel lavorare insieme per obiettivi comuni. Soprattutto, noterebbe, nelle sue conversazioni con gli economisti italiani umani, un consenso insolito (per l’economia) su ciò che deve essere fatto.

Il manifesto dell’alieno sarebbe chiaro, insieme forse con la sua strategia di investimento: concluderebbe, come amano dire gli investitori, che in Italia l’«opportunità al rialzo» di una crescita economica più rapida, lungo le linee tedesche, è grande se solo ci potesse essere un accordo per liberare le energie del Paese. L’agenda richiede il passaggio a un diritto del lavoro unitario ma più flessibile; il trasferimento di risorse pubbliche dall’odierno pantano di usi improduttivi a un nuovo sistema di assicurazione contro la disoccupazione; la liberalizzazione dei mercati per i servizi e per le merci così da consentire maggiore concorrenza e innovazione e, per tutti, la riduzione dei costi. E ancora di più, naturalmente, compresa una versione molto più ambiziosa della riforma Gelmini, per trasformare le università in istituzioni di livello mondiale costrette a concentrarsi sugli studenti e sui risultati. Sarebbe un ordine del giorno liberale, non poi così diverso da quello che i leader e gli altri Paesi della zona euro chiederebbero se l’Italia dovesse in effetti trovarsi in una crisi del debito sovrano. Ecco perché una tale crisi non sarebbe una cosa negativa, nel caso dell’Italia.

Un’agenda del genere avrebbe bisogno di una leadership politica. In realtà avrebbe bisogno di politici interessati alla politica e al governo del Paese. Per il momento non lo sono. Eppure, come Hosni Mubarak, che non è lo zio di Ruby, sta imparando in Egitto, non si può contare per sempre sullo status quo.

(Traduzione di Carla Reschia)
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:36:17 pm »

28/2/2011

Nella Ue le nuove democrazie

BILL EMMOTT

Il rifiuto del colonnello Muammar Gheddafi di trarre le conclusioni sia morali che pratiche dalla sua situazione di barricato a Tripoli, con più della metà del suo Paese (almeno in termini di popolazione) caduto nelle mani dell’opposizione, non deve stupire nessuno. Nei suoi 40 anni al potere in Libia non ha mai dato prova né di una forte morale, né di un istinto pratico, salvo per quello che riguardava la conservazione del suo potere.

Il risveglio del mondo arabo, iniziato appena un mese fa, continua invece a portare sorprese. Una, particolarmente benvenuta a chi scrive, è giunta sabato, da un Paese molto lontano dal Nord Africa. E credo che in una prospettiva a lungo termine, misurata in decenni, porterà sorprese importanti all’Unione Europea nel suo insieme. Ma prima parliamo della non-sorpresa. Dall’inizio della rivolta in Tunisia, si è spesso detto e scritto che l’ondata di proteste nel mondo arabo era inaspettata e imprevista.

Ma è vero il contrario, sono state predette in tutto salvo l’aspetto temporale. Sconvolgimenti, incluse rivoluzioni sociali e politiche, sono stati pronosticati per il mondo arabo costantemente, almeno nei due decenni precedenti. Il problema semmai è che questi pronostici erano talmente frequenti da aver annoiato il pubblico fino agli sbadigli, e passare alla fine inosservati. Ero rimasto sorpreso dagli eventi in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Oman e altri Paesi. Ma ho capito che non avrei dovuto stupirmene quando un ex collega dell’Economist - dove ho lavorato dal 1980 al 2006 - mi ha proposto di leggere un lungo «speciale» sul mondo arabo che il loro responsabile per gli esteri, Peter David, aveva pubblicato il 25 luglio 2009. Intitolato «Risvegliandosi dal sonno», l’articolo di David raccontava della «febbre sotto la pelle» nella maggioranza dei Paesi arabi, e citava innumerevoli libri e articoli di altri autori che già in precedenza erano giunti alla stessa conclusione.

Una volta che si guarda ai fatti, sorprende non tanto che la rivoluzione sia oggi in atto, quanto che non sia accaduta prima: nei 21 Paesi membri della Lega Araba la popolazione è raddoppiata negli ultimi 30 anni, più della metà dei 360 milioni di persone che li abitano ha meno di 25 anni. Gli arabi sono sempre più urbanizzati, e grazie a tv satellitari come la qatariota Al Jazeera hanno un accesso sempre maggiore all’informazione. Eppure, nonostante i prezzi sul petrolio e sul gas siano rimasti alti negli ultimi anni, il reddito della gente non è cresciuto, e le riforme politiche sono state quasi inesistenti. Nessuno, meno che mai gli anziani dittatori e i loro compari che governavano questi Paesi, dovrebbe stupirsi per la diffusione delle proteste e delle rivoluzioni.

Per questo motivo, se in futuro questo movimento non si espandesse a Ovest, verso l’Algeria e il Marocco, e a Est, in Giordania, Siria, Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dovremmo considerare proprio questa una sorpresa. Come nell’Europa Orientale e Centrale dopo il crollo del Muro di Berlino, la rivolta in espansione non porterà necessariamente la democrazia e non riuscirà ad abbattere definitivamente i regimi dovunque. Ma la pressione che provocherà non si riuscirà più a ignorare.

La sorpresa di sabato scorso è venuta invece dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di imporre sanzioni al regime di Gheddafi, congelandone le attività, e di deferire il Colonnello al Tribunale penale internazionale (Tpi). Per quanto benvenute e appropriate, queste decisioni sono poco più che gesti, considerato che l’assassino Gheddafi si è barricato a Tripoli e non appare troppo indebolito in questo momento dal congelamento dei suoi beni o dal divieto di viaggiare. Il vero significato della risoluzione giace però nell’unanimità del Consiglio di sicurezza, e soprattutto nell’appoggio, sia pure poco entusiasta, della Cina. Che ha comunque votato per deferire il Colonnello al Tpi per aver trattato i suoi oppositori più o meno nella stessa maniera in cui Pechino nel 1989 intervenne contro la rivolta di piazza Tiananmen. L’esercito cinese aveva sparato sulla folla dai ponti e non dagli elicotteri e dai caccia, ma ci sono pochi dubbi che Deng Xiaoping, che allora governava la Cina, non avrebbe esitato a far ricorso ancora più massiccio alla forza se fosse stato necessario.

La Cina di oggi tiene all’importanza di istituzioni e accordi multilaterali molto più di quella del 1989. Perciò è significativo e sorprendente che il suo governo ha ammesso, nella cornice della più importante istituzione multilaterale, di considerare l’uso della forza omicida per la repressione di una rivolta come un crimine del quale i leader devono rispondere.

E’ un cambiamento importante. E sarà importante ricordare questa dichiarazione alla Cina, quando i tibetani o i musulmani dello Xinjiang scenderanno in piazza la prossima volta. Prima di allora, e prima di una nuova protesta nella piazza Tiananmen di Pechino, non possiamo sapere quanto sul serio prendere questa posizione. Ma potrebbe essere una sorta di segno di maturità: si è arrivati a un punto in cui il sempre maggiore coinvolgimento della Cina nel mondo (in Libia ci sarebbero almeno 30 mila lavoratori cinesi) la spinge anche ad assumere posizioni più responsabili. E forse - ma solo forse - il tempo di reagire al dissenso interno con i massacri è finito.

La sorpresa a lungo termine portata dagli eventi in Egitto, Tunisia e ora in Libia, si ripercuote invece nel nostro lontano futuro. Riguarda le conseguenze che il possibile e probabile contagio delle rivoluzioni democratiche nell’ampia regione del Nord Africa e del Medio Oriente porterà all’Unione Europea. Dovremmo essere pazienti nell’osservare fin dove si spingeranno queste rivoluzioni, come lo fummo nei primi mesi dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Ma, come allora, pianificare e riflettere in anticipo si rivelerà utile.

L’Ue si è evoluta attraverso una serie di idee che, quando furono proposte per la prima volta, erano apparse improbabili, per diventare poi un giorno inevitabili. La prossima idea del genere potrebbe essere l’espansione dell’Ue alla costa meridionale del Mediterraneo. Nessuno oggi si attende un’evoluzione del genere, considerando che Francia, Germania e altri Paesi europei non riescono ad accettare l’idea dell’adesione della Turchia, che è già una democrazia. Ma torniamo ai primi Anni 90: divenne rapidamente chiaro che l’Europa Occidentale aveva un grande interesse a patrocinare la stabilità e lo sviluppo economico degli ex satelliti sovietici suoi vicini, e lo fece in un lungo e lento processo culminato con la piena adesione all’Ue per 10 di questi Paesi, più di dieci anni dopo. Non tutti gli ex «satelliti» dell’Urss sono diventati democrazie, e non tutti, almeno per ora, hanno aderito all’Ue. Lo stesso succederà probabilmente in Nord Africa e in Medio Oriente.

Eppure, bisogna pensare ai paralleli tra il crollo dell’Unione Sovietica nelle terre al confine orientale dell’Ue, e alla caduta delle dittature arabe nella costa meridionale del Mediterraneo. Così come dopo il 1989, anche oggi i grandi interessi e l’opportunità storica che l’odierno risveglio arabo offre all’Europa diventeranno sempre più chiari nei prossimi mesi e anni, nel bene e nel male.

L’America ha nella regione complessi dossier militari, e verrà ritenuta responsabile per quello che accadrà - o non accadrà - in Palestina. L’Europa, come nel dopo-1989, può offrire soprattutto legami culturali ed economici, che hanno una valenza più positiva. I Paesi europei sono già oggi i maggiori partner commerciali di numerosi Paesi nordafricani: l’Italia, per fare un esempio, è leader con la Libia e l’Algeria grazie al petrolio e al gas. La logica di questi legami, accanto alle paure di instabilità e migrazioni di massa, può puntare un un’unica direzione a lungo termine: una qualche sorta di forma di adesione all’Ue per alcuni Paesi nordafricani.

Più che un’adesione a pieno titolo, come la vediamo oggi, si tratterebbe di un’Unione nuova che contempla diverse forme di adesione. In fondo vale già oggi, visto che solo alcuni dei 27 fanno parte del sistema dell’euro, o della zona Schengen. Quindi ci vorrà una nuova formula per offrire integrazione economica, incluso un successivo accesso ai commerci e al mercato unico, ai Paesi democratici del Nord Africa, probabilmente senza concordare per il momento una piena libertà di movimento della mano d’opera. Tutto questo significherà che l’Unione Europea stessa dovrà cambiare di nuovo nome: potrebbe diventare l’Unione Europea e Mediterranea.

Senza una proposta del genere, senza una visione così a lungo termine, cosa potrà offrire l’Europa alle neodemocrazie nordafricane, se e quando emergeranno? Un po’ di aiuto, qualche posto all’università. Tutto qui. Eppure, dopo la caduta del Muro di Berlino, abbiamo da offrire, come incentivo per le riforme democratiche, qualcosa di veramente prezioso: la possibilità di unirsi a noi.

Appare difficile, anche senza menzionare l’Islam. Ma non dimentichiamo che un tale sviluppo darebbe anche un senso economico e politico all’Europa. Mediterraneo, se guardiamo alla sua radice latina, significa «al centro della terra», e non «confine meridionale».
Fu il centro del nostro mondo per secoli. E fa parte del vicinato europeo.

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 13, 2011, 06:27:13 pm »

13/3/2011

Il rischio di fuggire dal mondo

BILL EMMOTT

Se vi siete mai chiesti perché il Giappone abbia così pochi vecchi edifici o perché la più famosa xilografia giapponese, opera dell’artista Hokusai, rappresenti una grande onda, o anche perché il termine internazionalmente accettato per maremoto sia «tsunami», una parola giapponese, bene, ora lo sapete. Venerdì un incredibile, terribile terremoto e uno tsunami hanno ricordato a tutti noi quello che 120 milioni di giapponesi sanno da una vita: che il loro arcipelago di isole sul limite estremo dell’Asia è la zona sismica più attiva del mondo abitato.

È troppo presto per fare una stima di quante persone abbiano perso la vita nel terremoto e nello tsunami, ma anche un semplice sguardo ai filmati dell’onda che distrugge città e villaggi del Nord-Est del Giappone suggerisce che il numero finale potrebbe essere nell’ordine delle decine di migliaia, o forse anche di più.

Per via della frequenza e della gravità dei terremoti, le norme edilizie in Giappone sono molto rigide e la tecnologia è altamente avanzata. So per esperienza di piccoli terremoti (ho vissuto in Giappone per tre anni alla metà degli Anni 80 e da allora sono un assiduo frequentatore) che trovarsi in un grattacielo durante un terremoto è spaventoso, perché l’edificio continua a oscillare per un tempo incredibilmente lungo, ma anche molto sicuro.

Questo non vale invece per le case ordinarie, specialmente nelle piccole città e nei villaggi. I terremoti, e gli incendi che spesso li seguono, nel corso dei secoli hanno insegnato ai giapponesi a costruire e progettare case che possono essere sostituite facilmente e con poca spesa. Anche molti dei templi storici che i turisti visitano in una città antica come Kyoto sono stati ricostruiti più volte nel corso dei secoli. Così, quando lo tsunami ha colpito, molte piccole case sono state spazzate via o schiacciate come scatole di fiammiferi.

Guardando il disastro giapponese, una delle prime cose che mi viene in mente è un senso di colpa: mi sento in colpa perché sono più sconvolto e choccato da questa catastrofe che, per esempio, dal terremoto ad Haiti nel gennaio 2010 che forse ha ucciso 250 mila persone. Perché? Non è solo perché una volta ho vissuto in Giappone e ho molti amici lì, benché, certo, anche questo conti. Il fatto è che il Giappone assomiglia di più alla Gran Bretagna o all’Italia di Haiti o della provincia di Sichuan in Cina, dove sono morte circa 70.000 persone: è un Paese moderno, sviluppato, industrializzato, come i nostri, in cui non ci aspettiamo che improvvisamente, durante un normale pomeriggio di marzo, decine o centinaia di migliaia di persone possano morire. Mette in discussione il nostro senso di sicurezza, di civiltà, le protezioni che la ricchezza sembra assicurarci.

E quindi quale potrebbe essere l’impatto di un tale evento in Giappone? Il primo principio quando si tratta di valutare le catastrofi naturali è, credo, di dimenticare l’economia.
Molta gente chiede immediatamente quale sarà l’impatto economico in quella che è la terza economia del mondo. La risposta è che, salvo il brevissimo termine, sarà trascurabile. Naturalmente, ci saranno disagi per le fabbriche, i trasporti, le industrie di servizi e tutti i tipi di attività economiche. Ma sarà una cosa solo temporanea. Lo sforzo della ricostruzione rilancerà la produzione economica e creerà posti di lavoro e, in un’economia moderna e sviluppata, la gran parte di questo sarà finanziata dalle assicurazioni. Così, proprio come dopo l’uragano Katrina negli Stati Uniti, che ha devastato New Orleans nel 2005, l’impatto economico è la cosa meno importante di cui preoccuparsi. Una questione economica più significativa riguarda la sicurezza energetica: questa catastrofe potrebbe indebolire o rafforzare la fede dei giapponesi nella tecnologia a energia nucleare. Il Giappone è, accanto alla Francia, la nazione più dipendente dal nucleare per la produzione di energia elettrica.

Non si capisce ancora se uno o più dei suoi reattori nucleari possa essere stato reso pericoloso dal terremoto: se, in presenza del peggior terremoto della storia del Giappone non ci fossero stati gravi danni né avvelenamento da radiazioni, questo potrebbe rafforzare la scelta nucleare. Ma se il Giappone ha subito un incidente simile a quello di Cernobil in Ucraina nel 1986, allora l’opzione nucleare potrebbe anche uscirne distrutta, specialmente in altri Paesi a rischio sismico come l'Italia. E’ troppo presto per esprimere un giudizio, tuttavia.

I veri, significativi effetti a lungo termine saranno probabilmente psicologici e culturali. L’ultimo grande terremoto in Giappone si è verificato nel 1995 a Kobe, una città industriale a Sud-Ovest di Tokyo e ha causato 6.500 morti. Col senno di poi, è chiaro che il disastro di Kobe ha scosso la fiducia dei cittadini sia nella competenza del governo sia nell’efficacia del regolamento edilizio del Paese. A differenza dell’Italia, il governo godeva della fiducia dei cittadini in Giappone e i regolamenti erano ritenuti i migliori al mondo. Il risultato di un soccorso caotico e del crollo di molte strutture che erano state considerate a prova di terremoto ha di certo contribuito a distruggere la fiducia della gente comune nel sistema in cui avevano fino ad allora confidato. La yakuza locale, le bande del crimine organizzato hanno guadagnato credito per il loro ruolo nei soccorsi a scapito della polizia e dell’esercito o dei funzionari pubblici.

Sarebbe sbagliato attribuire tutto a un solo evento. Ma di conseguenza la politica giapponese e le procedure di attuazione delle politiche sono diventate meno decise ed efficaci, e più dispersive e controverse. L’esperienza del terremoto di Kobe ha sicuramente contribuito a tale processo.

Ora, c’è una possibilità che i risultati politici siano positivi piuttosto che dannosi. La politica altamente disfunzionale del Giappone, che ha dato al Paese quattro primi ministri negli ultimi quattro anni, potrebbe ora arrivare a un accordo temporaneo, o almeno a un obiettivo comune attorno al compito di ricostruire e rimettere in sesto la nazione. Le memorie politiche possono essere brevi e la morale scarsa, ma la lotta in corso proprio prima del terremoto, che bloccava il bilancio annuale del governo per forzare il ricorso alle urne, sicuramente ora apparirà irresponsabile e obsoleta.

Il Paese ha urgente bisogno di un senso di comune appartenenza, per varare le riforme e rilanciare la propria economia, e una terribile catastrofe naturale potrebbe contribuire a dare esattamente quel tipo di sensazione. Il Giappone si è ricostruito e reinventato più volte in passato dopo le calamità, compreso il terremoto del 1923 seguito da un incendio che distrusse Tokyo, e la sconfitta e la distruzione del secondo conflitto mondiale.
Vi è, tuttavia, anche un pericolo psicologico e culturale. Ed è che, choccato da questa catastrofe e reso di nuovo consapevole della propria vulnerabilità, il popolo giapponese possa di nuovo ripiegarsi su se stesso, distogliendo ambizioni ed interessi dalla globalizzazione e diventando ancora più insulare e remoto di quanto già sia.

Questa tendenza è in corso da qualche tempo. Nella tecnologia c’è anche una frase per definirla: «L’effetto Galapagos». Negli ultimi 20 anni le imprese di elettronica giapponesi hanno continuato a produrre innovazioni meravigliose ma molte applicabili solo a casa, in ambiente giapponese. Da qui questa idea che il Giappone si stia evolvendo separatamente, come le iguane e le tartarughe delle isole Galapagos.

Più in generale il crescente distacco dal resto del mondo è stato visto nella diminuzione del numero dei giovani giapponesi che scelgono di studiare o lavorare all’estero.
Il problema giapponese è in questo senso il contrario della «fuga dei cervelli» dell’Italia: sempre meno giovani si recano all’estero, e questo significa che sempre meno stanno imparando da esperienze, tecnologie o idee internazionali.

Sarebbe sbagliato esagerare questo rischio. Dopo questo disastro il Giappone non ha intenzione di chiudere le sue porte al mondo nel modo in cui lo fecero i suoi shogun Tokugawa (leader militari) per oltre 200 anni, dal 1630 fino al 1860. Ma potrebbe anche diventare ancora più diffidente, più preoccupato dei suoi affari, più sulla difensiva e più, beh, spaventato.
Speriamo di no: l’Asia e il mondo sarebbero peggiori senza l’attivo contributo di uno dei Paesi più sviluppati e avanzati del mondo, in particolare con la Cina in crescita e la Corea del Nord sempre pericolosa.

(Traduzione di Carla Reschia)
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 30, 2011, 03:41:36 pm »

30/4/2011

Senza la verità non si fanno riforme


BILL EMMOTT

Mi ha fatto piacere leggere l’elegante risposta di Antonio Vigni («Tre verità sull’Italia») al mio articolo provocatorio sulle «bugie».
Le sue verità però hanno bisogno di qualche chiarimento. La prima pseudo-pseudo bugia-verità era se il sistema industriale italiano avesse mostrato la sua forza durante la crisi. Lo sfondo che manca alla sua configurazione della crescita della produzione industriale nel 2010 è che, dopo lo choc Lehman, il crollo produttivo in Italia tra il secondo trimestre del 2008 e il secondo trimestre del 2009 (il momento peggiore della crisi) era, con il 20%, il quarto più grave di tutta l’Unione Europea, peggio che in Germania e molto peggio che in Francia (15%). Questo crollo mostrava debolezza, e per mostrare forza il recupero avrebbe dovuto essere molto più veloce che in Francia.
Non lo è stato.

Un ragionamento simile si applica alla seconda pseudo-pseudo bugia-verità, sull’esportazione: l’Italia ha avuto la seconda perdita più grave delle esportazioni nell’Unione Europea nello stesso periodo post Lehman, quindi il suo recupero dovrebbe essere più forte per recuperare il terreno perduto. In entrambi i casi va aggiunto un ulteriore punto: il settore manifatturiero è stato deludente, ma il settore terziario è andato ancora peggio, il che è più importante dato che (includendo sia il pubblico che il privato) fa il 70% del prodotto nazionale lordo contro il 25% del settore manifatturiero.

La terza pseudo-pseudo bugia-verità riguarda il fatto se i risparmi e la ricchezza delle famiglie siano un fattore positivo per l’economia. Come dice lui, nel 2010 i consumi privati hanno contribuito poco alla crescita di domanda nazionale, perché le famiglie hanno scelto di risparmiare meno delle loro declinanti entrate effettive. Ma questo non è un «fattore positivo» sostenibile: perché i consumi aiutino la crescita economica, le entrate familiari devono aumentare, altrimenti i fantastici risparmi familiari italiani spariranno molto rapidamente.

La questione fondamentale è ben illustrata dall’asserzione che il rapporto tra debito pubblico italiano e prodotto nazionale lordo era il 119% nel 2010 paragonato al 121,5% nel 1995. Questo significa che i governi in questi 15 anni hanno fallito o a tagliare abbastanza la spesa pubblica o a generare sufficiente ricchezza per ridurre questo rapporto. Il che a sua volta spiega perché durante una crisi globale che ha colpito Paesi come Gran Bretagna, Irlanda e America, dove il settore privato si indebita troppo, l’Italia, dove questi peccati non avvengono, ha comunque avuto una delle riprese economiche più deboli nel mondo occidentale. Per cambiare ciò sono necessarie delle riforme. E per fare le riforme, bisogna riconoscere la verità.

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« Risposta #9 inserito:: Maggio 14, 2011, 03:19:58 pm »

14/5/2011

L'economia della Cina cambia pelle


BILL EMMOTT

Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali.
Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi.

Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento.

I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa.

Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015.
Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni.

Questo, tuttavia, secondo l'analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.

Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi.

Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente.

Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo.
La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80.

Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora.

Traduzione di Carla Reschia
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 10, 2011, 10:24:03 am »

10/6/2011 - L'ECONOMIST SUL CAVALIERE: HA FREGATO L'ITALIA

Dieci anni di polemiche

BILL EMMOTT

Se qualcuno, dieci anni fa, mi avesse detto che nel 2011 avrei scritto regolarmente editoriali per un giornale italiano e che avrei pubblicato un libro sull’Italia, avrei risposto che era matto.

Dopo tutto, come direttore di The Economist, stavo viaggiando molto in America e in Asia, ma non in Italia, e il mio personale passato di scrittura riguardava il Giappone. Ma poi, quasi esattamente dieci anni fa, all’Economist abbiamo pubblicato la nostra nota copertina, dichiarando che Silvio Berlusconi era «inadatto» a governare l’Italia. E, anche se io allora non lo sapevo, la mia vita stava per essere cambiata da quella copertina.

In un primo momento pensavo che sarebbe cambiata semplicemente per la necessità di evitare gli italiani: per molti di loro The Economist, e quindi il suo direttore, era diventato il nemico pubblico numero uno. Questo era vero anche per molti lettori che in realtà non sostenevano il Cavaliere: erano indignati perché una pubblicazione straniera aveva osato prendere una posizione così forte sulle elezioni italiane e sul suo probabile prossimo presidente del Consiglio. Molti lettori, tuttavia, ne furono davvero felici. Berlusconi, naturalmente, non era tra questi, anche se sostenne di essere un ex abbonato. Mostrò la sua mancanza di gioia chiamandoci «comunisti», e il suo quotidiano Il Giornale rafforzò questo punto di vista pubblicando la mia foto in prima pagina e facendo notare che assomigliavo a Lenin. Quindi intentò la prima di due cause per diffamazione contro la rivista. Dieci anni dopo guardo a quelle origini della mia nuova vita legata all’Italia con un misto di orgoglio e di perplessità. Orgoglio perché gli organi di stampa dovrebbero battersi per principi importanti e fare del loro meglio per dire la verità, ed è quello che stavamo facendo. Ma anche perplessità a causa del ruolo insolito e difficile assegnato in Italia ai critici e ai commentatori stranieri. Quel ruolo, di cui ora beneficio, è molto lusinghiero. Ma non sono del tutto sicuro su come interpretarlo.

Sotto questo aspetto l’Italia è sorprendentemente simile al Giappone. La maggior parte dei Paesi presta poca attenzione a ciò che gli stranieri dicono o scrivono su di loro. I media britannici raramente riportano quello che i media francesi, americani o italiani dicono della Gran Bretagna. La Francia praticamente non riconosce alcun ruolo ai commentatori stranieri. E in realtà neppure l’America, anche se l’immigrazione rende difficile definire chi è del luogo e chi è straniero. Ma sia il Giappone che l’Italia sembrano prestare molta più attenzione degli altri alle idee e alle analisi degli stranieri sul loro Paese.

Perché? La risposta, ho concluso, è che i critici stranieri sono utilizzati in un mix di modi buoni e cattivi. Positivo è il sentimento, autentico, che nessun Paese detenga il monopolio della conoscenza o del giudizio, da qui un interesse genuino a imparare dalle idee e dalle esperienze di altre persone.

Il modo sbagliato, invece, va in una direzione del tutto diversa: in entrambi i Paesi il dibattito politico è molto parrocchiale e ripiegato su se stesso, e tanto il Giappone quanto l’Italia oppongono abbastanza resistenza a partecipare pienamente a ciò che chiamiamo globalizzazione. Di conseguenza, i critici stranieri sono spesso usati come strumenti in una disputa essenzialmente interna, come armi politiche per aiutare una parte o l’altra. In tale uso la necessità di un’arma è più importante di quello che il critico straniero sta in effetti dicendo.

Nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi» sostengo che c’è una «buona Italia» e una «mala Italia», e che l’equilibrio tra le due deve essere cambiato. Ci sono così tante energie positive e idee da liberare. Dopo dieci anni di articoli sull’Italia, prima come nemico pubblico numero uno del centro-destra, poi come quello che Il Giornale ha definito un «anti-italiano», quindi come ricercatore delle eccellenze e delle potenzialità dell’Italia, sento anche che l’equilibrio tra il buon uso dei commenti stranieri e il cattivo uso deve cambiare.

Con questo voglio dire che le analisi degli stranieri sull’Italia, sui suoi problemi e sulle sue potenzialità, potrebbero essere di maggior profitto per i lettori e gli opinionisti italiani se si accantonasse la parzialità politica. Gli stranieri, scrivendo di un altro Paese, hanno molti punti deboli: soprattutto l’ingenuità e l’ignoranza delle sottigliezze. Ma la loro forza può e deve essere la loro indipendenza dalla politica interna e dalle parti.

Il grande merito del discorso agli azionisti tenuto il 31 maggio dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sta nel fatto che è una figura realmente indipendente, indipendente dalla politica e anzi in procinto di lasciare il Paese. Il suo discorso merita di essere letto e riletto molte volte. I suoi discorsi non sono certo le «prediche inutili» di cui si lamentava. La miglior ambizione che qualsiasi analista straniero d’Italia possa albergare nel proprio cuore è di non fare sermoni inutili.

Traduzione di Carla Reschia

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« Risposta #11 inserito:: Luglio 07, 2011, 09:46:14 am »

7/7/2011

Se si tradisce la fiducia dei lettori

BILL EMMOTT

I giornalisti britannici spesso possono risultare arroganti e presuntuosi in modo fastidioso, anche se fanno finta di disprezzarsi e dicono d’essere ancora meno popolari dei politici e dei venditori di auto usate. Lo scandalo che sta esplodendo a Londra sembra destinato a spiegare entrambe queste contraddittorie affermazioni. E così facendo sta danneggiando persone e istituzioni che vanno da David Cameron, il primo ministro, a Rupert Murdoch, il più potente proprietario di media del Paese, a molte delle forze di polizia regionali britanniche, tra cui la polizia metropolitana di Londra.

Tutti sanno, da secoli, che ci sono giornalisti disposti virtualmente a tutto per ottenere, o, se necessario creare, una storia, in tutti i Paesi, ma sicuramente in Gran Bretagna, con la sua stampa nazionale così competitiva. A Fleet Street, l'antica (ma ora teoricamente vacante) sede della stampa di Londra, un vecchio adagio recita che tutto ciò di cui ha bisogno un buon giornalista siano gambe robuste e l’astuzia di un topo.

Tutto vero ma la domanda ora è quanto oltre possa spingersi quell’astuzia prima di finire per infrangere la legge e distruggere la fiducia del pubblico.

Questa storia ha impiegato molto tempo ad emergere. Quattro anni fa apparve chiaro che alcuni giornalisti del giornale della domenica più venduto nel Paese, il News of the World, si erano spinti troppo oltre. Il loro corrispondente che assicurava la copertura sulla famiglia reale fu condannato per aver usato un detective privato per intercettare illegalmente i messaggi vocali sui telefoni cellulari di vari principi e dei loro amici, ed entrambi finirono in carcere. Andy Coulson, che allora era il direttore del giornale, si era dimesso affermando però di non aver saputo nulla di quello che stava succedendo.

Quella storia merita di essere raccontata per quello che non accadde e ciò a sua volta spiega perché questo scandalo è importante e perché i giornalisti inglesi siano stati così arroganti negli ultimi anni. Il punto è che non ci fu nessuna inchiesta pubblica e nemmeno una vera indagine. Il proprietario di The News of the World, Rupert Murdoch, disse che si trattava di un caso isolato di cattiva condotta da parte di un giornalista canaglia, che non aveva alcuna autorizzazione. Quando altre celebrità e politici iniziarono a dire che anche i loro telefoni erano stati violati, la polizia iniziò ad indagare. Ma dissero di non aver trovato alcuna prova di ulteriori malefatte.

Così due anni dopo, il leader del partito conservatore, David Cameron, si sentì autorizzato ad assumere il signor Coulson come capo della comunicazione, un lavoro che ha conservato quando David Cameron è stato eletto primo ministro nel maggio 2010. Ma negli ultimi nove mesi, è emerso un numero sempre crescente di rivelazioni, a conferma che, lungi dall'essere un caso isolato, queste intercettazioni telefoniche illegali erano in effetti assai diffuse al giornale. L'idea che il signor Coulson in qualità di direttore non ne sapesse nulla ha rischiato di danneggiare sia la sua attendibilità sia la sua fama di competenza. Per paura di diventare un caso politico, a gennaio ha rassegnato le dimissioni dal numero 10 di Downing Street, una mossa di cui il primo ministro si è dichiarato dispiaciuto, definendola nobile.

Finora le rivelazioni hanno riguardato essenzialmente le celebrità, che suscitano poca simpatia pubblica. Ma il 5 luglio il quadro è cambiato, radicalmente, quando da accuse ben circostanziate è emerso che nel 2002 il giornale aveva usato un detective privato per introdursi nel cellulare di una studentessa di 13 anni sparita da casa, Milly Dowler, che poi fu ritrovata assassinata. Questa notizia ha scatenato l'inferno, facendo emergere nuove accuse su casi di spionaggio telefonico in occasione di altri processi per omicidio ad alto impatto mediatico e gli inserzionisti hanno annunciato che avrebbero sciolto i loro contratti con News of the World.

Questa è una situazione politicamente esplosiva per via dei legami tra News Corporation e David Cameron, che casualmente è anche amico di Rebecca Brooks, che ha preceduto il signor Coulson come direttore del News of the World, quando è scoppiato il caso dell’ omicidio Dowler e ora è amministratore delegato della società britannica di Rupert Murdoch, News International. Questa incandescenza politica è smorzata solo dal fatto che lei e la sua organizzazione erano vicini anche ai governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown.

In Italia i giornali e le emittenti sono spesso politicamente allineati, così amicizie e alleanze cambiano con i governi. In Gran Bretagna questo è meno vero, soprattutto perché Rupert Murdoch possiede così tanti giornali - Il Times, il Sunday Times, il Sun e il News of the World - che tutti i governi lo vogliono dalla loro parte, a prescindere dal partito politico. E tutti i politici hanno paura dei danni che i giornali, sia quelli di Murdoch come quelli concorrenti, possono fare alla loro reputazione, perciò sono riluttanti a sfidare troppo apertamente la stampa.

Lo scandalo, tuttavia, è anche istituzionalmente esplosivo. Perché la ragione fondamentale per cui non c'è stata alcuna vera indagine su questo scandalo negli ultimi quattro anni non è stata solo la codardia politica, ma il fatto che anche la polizia vi era pesantemente coinvolta. Il Sun, il News of the World, il Daily Mail, il Daily Mirror e altri tabloid non solo ricevono abitualmente confidenze da parte della polizia, che sarebbe normale, ma pagano anche i poliziotti per le singole informazioni, e questo è illegale.

Così a quanto pare la polizia non ha voluto guardare troppo da vicino lo scandalo delle intercettazioni perché per farlo rischierebbe di esporre i propri rapporti molto stretti e talvolta illegali con i giornalisti. Martedì scorso, appena esploso lo scandalo, News International ha annunciato che avrebbero passato alla polizia i dettagli dei pagamenti ai poliziotti per le informazioni, autorizzati quando il signor Coulson era direttore. In altre parole, i dettagli delle tangenti autorizzate dal futuro capo della comunicazione per il primo ministro.

E’ difficile dire cosa accadrà ora, lo scandalo è ancora in piena esplosione. Probabilmente sarà avviata una sorta di inchiesta pubblica sulla condotta dei giornalisti dal governo o dal Parlamento. Probabilmente, ci sarà anche una ricerca seria sulla corruzione all’interno della polizia, e sulla condotta dei singoli poliziotti. Ci saranno le dimissioni ai vertici di News International, e ci saranno pressioni sul governo perché impedisca a Murdoch di assumere il controllo completo di BSkyB, la sua società TV via satellite, anche se questo legalmente sarà complicato. Infine, ci sarà un dibattito sull’opportunità di introdurre controlli pubblici sulla condotta della stampa, ipotesi che preoccupa ogni giornalista serio, in quanto limiterebbe la nostra libertà di parola e d’indagine. Ma mentre la combattiamo dovremo tuttavia evitare di sembrare arroganti e presuntuosi.

Traduzione di Carla Reschia
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 10, 2011, 04:02:43 pm »

10/7/2011

Italia attenta, metti a rischio la credibilità


BILL EMMOTT

Nel corso di questi ultimi due anni in cui ho scritto e parlato dell’Italia, ogni volta che ho detto qualcosa di critico sui punti deboli dell’economia italiana, quasi inevitabilmente, qualcuno tra il pubblico o tra i lettori ha risposto dicendo: «Ma noi non siamo come la Grecia, e abbiamo superato molto bene la crisi». Ho sempre contestato la seconda parte di tale argomento, che non è supportata dai fatti, ma mi sono sempre detto d’accordo sulla prima. Ecco perché è così strano, e potenzialmente tragico, che proprio il governo italiano negli ultimi giorni appaia determinato a rendere l’Italia più simile alla Grecia.

Il panico dei mercati finanziari di venerdì, con la svendita delle azioni italiane e il costo del debito pubblico in ascesa, riflette esattamente questo sentimento.
Proprio come per il Portogallo, la Spagna e la Grecia, la crescita economica in Italia è debole e il Pil e la produzione manifatturiera si riprendono più lentamente dalla crisi globale del 2008-09 rispetto a quanto è avvenuto in Francia, in Germania o nei Paesi Bassi.
Ma almeno le finanze pubbliche nazionali erano sotto controllo, con un piccolo deficit di bilancio e il rapporto tra debito pubblico e Pil stabilizzato.

Quindi, a differenza della Grecia, la debole crescita economica italiana non implicava che il Paese potesse diventare insolvente e non in grado di pagare gli interessi sui suoi enormi debiti pubblici. Situazione, comunque, che non può essere data per garantita. Perché quando si tratta di finanza pubblica, la differenza tra confortevole stabilità e dolorosa insolvenza è abbastanza esile.

Un aumento dei tassi di interesse praticati dagli investitori in obbligazioni, o un improvviso aumento della spesa pubblica o una diminuzione delle entrate fiscali possono precipitare un Paese nella crisi, soprattutto quando il debito pubblico ammonta al 120% del Pil. (A proposito, il debito pubblico dell’America, Paese spesso descritto come fiscalmente sconsiderato, arriva appena al 65% del Pil).

In alternativa, una crisi può improvvisamente scoppiare quando sorgono dubbi sulla condotta futura della politica del governo, a causa dell’instabilità politica, perché questi dubbi riguardano anche la possibilità di un controllo adeguato sulla spesa e sulle tasse. La debolezza dell’economia italiana e l’enorme debito pubblico la rendono vulnerabile esattamente a questo genere di dubbi.

In precedenza durante la crisi economica e la lenta ripresa, i timori per l’instabilità politica e dei mercati finanziari sembravano aiutare il governo di Silvio Berlusconi. Qualunque cosa tu possa pensare di noi, poteva dire il governo, sarebbe assai rischioso cambiarci o forzare le elezioni in questa situazione. Ma ora le battaglie all’interno del governo sono diventate molto più destabilizzanti delle battaglie tra il governo e i suoi critici. Se questa guerra continua, l’opzione più opportuna sarebbe quella di andare a elezioni anticipate o cambiare il governo.

Le misure fiscali proposte dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sono state accettate dal mercato, ma gli analisti sia all’interno sia all’esterno del Paese hanno notato una loro caratteristica importante: le principali riduzioni del disavanzo di bilancio avverranno in futuro. Questo è importante ora che la battaglia politica tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia è uscita allo scoperto. Perché l’inevitabile conclusione che trarranno gli analisti di mercato è che i tagli in effetti non si faranno mai. La credibilità delle misure fiscali si sta sgretolando.

Pensateci dal punto di vista di un osservatore esterno. Un giorno, il Presidente del Consiglio dichiara che si è sempre opposto alla guerra in Libia, a cui le forze italiane partecipano, come parte della Nato. Un altro giorno il presidente del Consiglio attacca il suo stesso ministro dell’Economia, rende esplicito che favorisce la riduzione delle tasse e permette che uno dei suoi giornali pubblichi notizie dannose su Tremonti. Che cosa dovrebbe credere questo osservatore? Il capo del governo si oppone alle politiche del suo gabinetto, e al suo stesso ministro.

Questo, da un punto di vista nazionale, è un suicidio. Si sta distruggendo la credibilità. L’aspetto più importante delle politiche economiche del Paese, cioè la rigorosa gestione del deficit di bilancio, viene messa in serio dubbio. Se continua su questa strada l’Italia nella mente degli investitori internazionali finirà davvero nella stessa categoria del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna e della Grecia: instabile, insostenibile e insolvente. E per di più tutto questo è del tutto inutile

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« Risposta #13 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:28:50 am »

20/7/2011

La trasparenza di uno scandalo


BILL EMMOTT

Gli scandali inglesi, ora dovrebbe essere abbondantemente chiarito, funzionano in modo diverso da quelli italiani. In Italia gli scandali iniziano con una rivelazione apparentemente enorme ed enormi quantità di attenzione, ma poi diventano sempre più piccoli e l’attenzione svanisce.

In Gran Bretagna è il contrario: i nostri scandali partono in sordina ed emergono lentamente, ma poi diventano sempre più grandi. E così non possiamo ancora prevedere quanto si allargherà ancora lo scandalo, ormai di ampia portata, che ha investito i giornali di Rupert Murdoch e la polizia di Londra.

Quello che appare chiaro è che Rupert Murdoch, 80 anni, architetto e forza trainante del più grande gruppo mediatico del mondo, ieri ha interrotto la testimonianza del figlio James davanti alla commissione parlamentare ristretta per dire: «È il giorno più umiliante della mia vita». Non possiamo giudicare quanto fosse sincero quando l’ha detto. Ma possiamo dire che lui, la sua famiglia e la sua compagnia hanno sofferto sia una grande umiliazione sia un colpo mortale per il loro potere politico. E’ molto probabile che lo scandalo causerà anche un vero e prolungato danno commerciale.

News Corporation ha già dovuto chiudere il suo giornale più redditizio in Gran Bretagna, News of the World, e abbandonare l’offerta per acquistare i due terzi di British Sky Broadcasting che non possiede. I restanti quotidiani nazionali - Sun, Times e Sunday Times - appaiono vulnerabili per l’abbandono degli inserzionisti e dei dirigenti e della redazione. E c’è un rischio, piccolo finora, che le indagini si estendano anche alle operazioni americane di News Corporation.

A lungo termine, e nel più ampio interesse nazionale, i problemi di Rupert Murdoch e della sua compagnia non sono le questioni più importanti in questo scandalo. Le questioni più importanti riguardano le accuse di corruzione della polizia da parte dei giornalisti, la regolamentazione per i media in Gran Bretagna, e il rapporto tra politici e mezzi d’informazione. Eppure anche così, lo spettacolo di uno tra i più potenti magnati dei media a livello mondiale interrogato in Parlamento in merito allo scandalo, era estremamente avvincente. Verrà ricordato per molto tempo a venire.

La cosa più memorabile, per questo spettatore, è la percezione di quanto all’oscuro sembri o pretenda di essere il signor Murdoch dell’operato dei suoi giornali in Gran Bretagna, dei casi legali che coinvolgono queste aziende, e persino delle strutture che si immagina gestissero quei giornali.

L’immagine che passava era quella di un uomo che aveva perso i contatti con un impero mediatico diventato troppo grande e troppo complesso per essere gestito da una sola famiglia. Immagine rafforzata dai frequenti silenzi che seguivano una domanda, a cui spesso Rupert Murdoch rispondeva semplicemente «no». Era come se questo uomo d’affari una volta grande e potente stesse lottando per capire la domanda e trovare almeno una risposta. Naturalmente, i suoi avvocati gli avranno consigliato di stare molto attento e di dare risposte il più brevi possibile, ma l’impressione data andava oltre la prudenza.

In Gran Bretagna è ormai diffusa la sensazione che Rupert Murdoch sia uomo del passato: che né lui né la sua famiglia torneranno a essere potenti o influenti nei media o in politica. Cosa che non si può dire degli Stati Uniti, dove Fox Tv e le aziende cinematografiche e il Wall Street Journal gli danno ancora un’enorme potenza commerciale e qualche influenza politica. Ma in Gran Bretagna stiamo entrando in una nuova era.

Quello che ancora non si sa è in che modo sarà nuova o diversa quest’era. Il motivo per cui non lo sappiamo è che ogni giorno emergono nuovi elementi dello scandalo: in questa sola settimana, a parte la testimonianza di Murdoch, i più importanti sviluppi hanno incluso le dimissioni di due tra i poliziotti più in evidenza della Gran Bretagna e la morte di un giornalista che era stato ampiamente citato perché aveva denunciato la condotta illegale del suo ex datore di lavoro, il News of the World, e del suo ex direttore, Andy Coulson, diventato poi responsabile della comunicazione per il nostro primo ministro David Cameron.

E, in parallelo alle indagini, sono state avviate due pubbliche inchieste indipendenti per riferire sul comportamento dei media e su quello della polizia. Rimane aperta la questione di quanto questo scandalo possa danneggiare seriamente David Cameron, alcuni membri del suo partito hanno addirittura iniziato a parlare apertamente della possibilità di sue dimissioni. Che allo stato delle cose appaiono improbabili.

La sua decisione di assumere il signor Coulson, nonostante il suo passato come direttore di un giornale accusato di attività illegali, è stata chiaramente pessima, soprattutto per averlo tenuto in servizio così a lungo. Ma fin qui questa è una prova di cinismo piuttosto che di corruzione o di illegalità, e non vi è nulla di nuovo nel cinismo dei politici. Le sue dimissioni richiederebbero nuove rivelazioni su di lui che svelassero che sapeva più di quanto non abbia ammesso finora sul coinvolgimento del signor Coulson in atti illegali, o rivelazioni su qualche altro comportamento illecito.

Lo sviluppo più importante riguarda proprio la polizia. Questo è importante in senso immediato: il fatto che due alti ufficiali si siano dimessi significa che quegli uomini personalmente, e molti dei loro colleghi, possono ora avere un motivo per svelare nuove informazioni o nuove prove che potrebbero danneggiare News Corporation, altri giornali o anche il signor Cameron e altri politici. Ma è anche importante in un senso più profondo: la polizia è sotto inchiesta, come istituzione, sia per non aver applicato correttamente la legge sulle intercettazioni telefoniche, sia perché accusata di essere stata pagata da giornalisti e investigatori privati per avere informazioni, cosa che è illegale.

Queste indagini sono scioccanti ma non del tutto nuove. La Gran Bretagna ha già avuto in passato scandali e indagini sulla corruzione nella polizia. Quelli precedenti riguardavano tangenti versate da bande criminali. Lo shock di queste accuse è l'idea che la polizia possa aver venduto informazioni private su gente comune, persone che dovrebbe proteggere.

Alla fine, questo scandalo svanirà e guariranno le ferite che ha prodotto. Un punto di forza della Gran Bretagna è che ha vigorosi anticorpi nella sua democrazia, grandi risorse che faranno piazza pulita delle infezioni e degli abusi di potere. Certo, non sappiamo ancora quando questo accadrà, né quanto possa dilagare lo scandalo.

Ma nel caso che noi giornalisti ci eccitassimo troppo al riguardo, dovremmo prendere nota di un sondaggio che è stato pubblicato ieri sul quotidiano Guardian: diceva che, nonostante lo scandalo, il partito conservatore ha riacquistato vantaggio sui laburisti, e i loro partner nella coalizione, i liberaldemocratici, hanno pure riguadagnato popolarità. Può essere che il pubblico inglese si preoccupi di questo scandalo meno di quanto fanno i media.

Traduzione di Carla Reschia
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 01, 2011, 04:45:26 pm »

1/8/2011

Un patto non dirada la nebbia

BILL EMMOTT

L’ accordo quadro sulla manovra fiscale concordato ieri tra democratici e repubblicani al Congresso degli Stati Uniti e la Casa Bianca all’altro capo di Pennsylvania Avenue, non è un granché e non è nemmeno di ampio respiro. Ma quanto meno è un accordo, e assumendo che sia accettato dal Congresso durante i prossimi due giorni eviterebbe alle finanze pubbliche una crisi del tutto superflua, potenzialmente in grado di innescare una nuova crisi finanziaria globale. Anche così, non è la fine della storia, non a lungo termine.

Il direttore di una rivista italiana di recente mi ha chiesto cosa pensassi circa la differenza tra la crisi monetaria dell’Europa e quella dell’America, dicendomi che a suo avviso l’America ha il grande vantaggio di avere un sistema presidenziale. Spero che non lo pensi adesso, ma in ogni caso davvero dovrebbe prestare maggiore attenzione alla Costituzione americana. Perché questo dibattito farsesco sul tetto del debito è tutta colpa dei padri fondatori: Jefferson, Washington e gli altri.

Hanno progettato la costituzione americana, con tutti i suoi pesi e contrappesi, espressamente per ostacolare il potere decisionale di un singolo, in particolare del Presidente che avrebbe potuto rischiare di diventare dittatoriale come il re britannico Giorgio III, e sono certamente riusciti nell’intento in modo spettacolare nel corso della lunga discussione sull’innalzamento del tetto del debito nazionale di 14.300 miliardi di dollari («soffitto di debito», una sorta di limite di indebitamento legale) per evitare un default o una massa di tagli alla spesa, dopo il 2 agosto.

Un fatto degno di nota, di certo, è che in tutto questo processo praticamente nessuno nei mercati finanziari ha finora previsto il default dell’America, o anche il declassamento dalla tripla A del suo rating.

Si metta a confronto l’andamento delle trattative di questo fine settimana con quelle precedenti il vertice di emergenza della zona euro, il 21 luglio: mentre i rendimenti obbligazionari della zona euro, in particolare per la Spagna e per l’Italia, erano saliti per la paura di un default da mini-Grecia, il mercato dei buoni del Tesoro americani è rimasto abbastanza tranquillo. I tassi dei buoni del Tesoro a breve o medio termine sono saliti un po’, ma quelli a 10 anni in effetti venerdì sono caduti. Il dollaro è scivolato, ma non esattamente in modo catastrofico.

Forse i mercati aderiscono alla cinica visione che Churchill aveva dei suoi alleati: «Si può sempre contare sugli americani, fanno la cosa giusta... dopo aver provato tutto il resto...».

Più probabilmente avevano già previsto tutto; i negoziati dell’ultima ora conclusi con un cattivo affare, ma almeno conclusi, e l’apparente accordo di ieri per un presunto taglio di 3000 miliardi di dollari alla spesa in oltre dieci anni sembrano dimostrare che hanno avuto ragione. Più in profondità, la loro impassibilità potrebbe riflettere la sensazione che il vero problema è un po’ più a lungo raggio rispetto a quanto è stato rappresentato da un termine in qualche modo artificiale, come la scadenza del tetto del debito.

Il vero problema comprende un fenomeno a medio termine e una questione a lungo termine, anche se strettamente correlati. Il primo è simboleggiato, ma non circoscritto al gruppo dei conservatori repubblicani dentro e fuori il Congresso che si fanno chiamare Tea Party.

Quel gruppo, le cui eroine sono Sarah Palin e una ardita congressista del Minnesota, Michele Bachmann, è stato il cuore del blocco durante i negoziati sulla riforma fiscale e il limite del debito. Come in ogni Paese, quando c’è una piccola maggioranza parlamentare e del Congresso, un gruppo di fanatici può ottenere un potere di veto che va oltre la sua reale capacità di rappresentanza numerica. Fortunatamente, sembra probabile che il veto ora possa essere superato da un compromesso tra le forze più moderate.

I Tea Party, tuttavia, rappresentano più di un semplice veto temporaneo. La migliore analogia storica è con il movimento isolazionista nato in America durante gli Anni 30. La posizione dei Tea Party sull’ampio debito americano, sembra, di primo acchito, abbastanza ragionevole: quando qualcuno ha preso in prestito troppo, dicono, è sbagliato concedergli di più.

Ma in realtà, cercare di curare i debitori tutto d’un colpo, negando loro ogni prestito e obbligandoli a mancare ai loro obblighi, obblighi che sono stati tutti stabiliti dal precedente voto del Congresso, sarebbe stato irresponsabile e, all'atto pratico, isolazionista.

Isolazionista perché l’America è la più grande economia del mondo così come la sua più grande debitrice, e molti dei suoi titoli di Stato sono detenuti da stranieri. Un default sarebbe sostanzialmente un default sul debito estero. Ma i Tea Party non si preoccupano degli stranieri, o della credibilità internazionale del loro Paese.

Come il movimento America First negli Anni 30 e durante i primi anni della Seconda guerra mondiale, essi sostengono che il Paese dovrebbe lasciar perdere il mondo per risolvere i propri problemi, lasciare che l’America si concentri su se stessa. Peggio ancora, in un certo senso, alcuni nei Tea Party vedono il mondo come una minaccia per l’America: la signora Bachmann, attualmente l’unica dei Tea Party a essersi presentata come candidata alla presidenza per il 2012, due anni fa ha proposto un emendamento costituzionale per impedire che il dollaro venga sostituito da una valuta estera, cosa che in realtà era già illegale e che nessuno pensava di fare. Il suo obiettivo era quello di creare l’apparenza di una minaccia là dove non esisteva.

Quando nel 2008 è scoppiata la crisi finanziaria, molti economisti temevano che avrebbe prodotto un’ondata di protezionismo, soprattutto negli Stati Uniti, e ci sono stati sospiri di sollievo quando questo non è successo. Eppure la nascita dei Tea Party e il voto per il Congresso dello scorso novembre suggeriscono che la vera minaccia è l’isolazionismo, che nel tempo può produrre una nuova ondata di protezionismo commerciale e finanziario.

Sarebbe sbagliato sopravvalutare l’importanza attuale dei Tea Party: rimane una piccola minoranza rumorosa. Ma la grande battaglia di medio termine è per la Casa Bianca e per il controllo del Congresso nelle elezioni del novembre 2012.

Sarebbe rassicurante credere a tutte le persone comuni intervistate dai tg delle tv straniere che si dicono imbestialite dal comportamento irresponsabile del Congresso, in particolare dall’ostruzionismo dei Tea Party, e pensare che nelle elezioni del prossimo anno gli estremisti andranno in sofferenza.

Queste persone sono state intervistate a Washington DC e New York, e possono anche non essere rappresentative della nazione. C’è molto ancora da mettere in gioco per le elezioni del prossimo anno, e i conservatori repubblicani giocheranno in modo assai duro.

Così, la questione a lungo termine al centro della scena sarà: l’economia americana può fare ciò che ha fatto in passato, e rilanciare e riformare se stessa dal basso, nonostante le inutili partite politiche giocate a Washington? E’ notoriamente flessibile, e i veri eroi americani sono sempre stati Google, Wal-Mart, Apple e Boeing, non i lungimiranti visionari politici della capitale.

Ma gli ultimi dati economici, diffusi la scorsa settimana, hanno mostrato un quadro altrettanto stagnante in America come in Gran Bretagna. Questo non è sorprendente, in entrambi i casi: dopo aver fatto troppo affidamento sulle spese dei consumatori e sul boom del credito, entrambi i Paesi erano destinati a passare attraverso un lungo e doloroso periodo di adattamento. Anche con le esportazioni in crescita, che è il caso dell’America e della Gran Bretagna, è difficile superare completamente gli strascichi del dopo crisi, e questo era vero anche prima che i rincari dei prezzi del petrolio e dei generi alimentari facessero sentire i consumatori ancora più poveri.

Questo andrà avanti per molto tempo a venire. In un primo momento la politica fiscale è stata una soluzione, in quanto il prestito ha stimolato l’economia. Ora è un problema, perché i tagli, per quanto necessari, deprimono la domanda. In America, dove i tagli sono comunque stati differiti, c’è una complicazione aggiuntiva: la lunga disputa sulla politica fiscale e l’impostazione del governo, che durerà fino e oltre le elezioni del 2012, sta producendo una fitta nebbia che offusca non solo il futuro fiscale del Paese, ma anche il futuro delle relazioni dell’America e il suo atteggiamento verso il mondo esterno.

In questo contesto confuso e altamente incerto, sarebbe veramente miracoloso se le imprese dovessero decidere per investimenti massicci in America. Quindi la migliore ipotesi, purtroppo, è che non lo faranno. La disputa sul fisco continuerà, la nebbia rimane, e il mondo non può dipendere da una rapida ripresa dell’America.

[Traduzione di Carla Reschia]
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