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Autore Discussione: BILL EMMOTT. -  (Letto 24416 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 22, 2012, 11:30:06 am »

22/7/2012

Il rischio-Ue che spaventa il mondo

BILL EMMOTT

Noi qui nell’emisfero settentrionale stiamo per iniziare le nostre vacanze estive in uno stato d’animo cupo, in parte perché alla nostra malinconia si sono unite alcune delle economie emergenti del Sud del mondo. Ma la parola più importante da tenere a mente, quella che sta davvero determinando gli atteggiamenti dei mercati finanziari e anche delle gestioni aziendali, non è tristezza. È rischio. Se si dovessero guardare solo le previsioni economiche appena riviste, pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana, si vedrebbe solo buio. L’Fmi ha tagliato la sua stima di crescita economica globale nel 2012 al 3,5%, grazie al rallentamento della crescita in Cina, India e Brasile, ma anche grazie alla recessione dell’euro-zona. Il Fmi quest’anno prevede un calo del Pil della zona euro dello 0,3%, che scende a un preoccupante 1,9% in Italia e 1,5% in Spagna. Questi dati seguono la crescita mondiale del 5,3% nel 2010 e del 3,9% nel 2011, così è chiaro che la tendenza è tristemente al ribasso. Gli Stati Uniti sembrano relativamente in salute con previsioni di crescita del 2% per quest’anno, due volte di più della Germania (e dieci volte di più dello stagnante 0,2% della Gran Bretagna).

Ma anche con questi numeri la crescita è troppo lenta per avere molto impatto sulla disoccupazione tanto più che la popolazione degli Stati Uniti e la sua forza lavoro sono in crescita. Eppure questo genere di numeri mi riporta indietro nel tempo. Durante il mio incarico come direttore di The Economist, ricordo la pubblicazione di una copertina, penso fosse nel settembre 2002, che descriveva l’economia mondiale come «in stasi», con questo volevo dire che era come una nave a vela che non si muoveva perché c’era assenza di vento. Ciò si basava sulle previsioni di crescita del Fmi per il 2002 - ancora più basse per il 2003. Allora cosa successe? In realtà il mondo, tra il 2002 e il 2007, ha avuto i cinque anni di crescita economica più veloce degli ultimi 40 e passa anni. Sarebbe bello pensare che possa accadere di nuovo, e che salti fuori che noi tutti siamo stati troppo pessimisti.

Non è impossibile: le economie emergenti sono probabilmente solo in un rallentamento temporaneo, causato dal loro sforzi per ridurre l’inflazione dei prezzi e gli Stati Uniti hanno una notevole capacità di reinventarsi, come ora stanno facendo con il boom del petrolio e del gas. Ma siamo realisti: non è probabile. E la ragione principale non risiede in Cina o negli Stati Uniti. Si trova nel rischio, o piuttosto nei sentimenti che le aziende e gli investitori hanno ora circa il rischio. Anche se la guerra in Afghanistan era iniziata nel 2001 e nel 2003 stava per iniziare in Iraq, in realtà le imprese, in quei giorni non percepivano grossi rischi nella loro attività, nei loro mercati, nei loro investimenti. Mentre ora sì. Ovviamente, gli investitori e i manager sono sempre preoccupati del rischio. Questo è il loro lavoro. Ma la differenza, ora, è che percepiscono che la gamma dei rischi è molto più ampia, la gamma di possibili eventi drammatici è più vasta rispetto al 2002.

La rivolta araba, con la guerra civile in corso in Siria, è un esempio, soprattutto se si associa alla tensione sul programma nucleare iraniano: questo rende il prezzo dell’energia ancor più imprevedibile del solito. Il risultato è che l’utile e ben accolta caduta dei prezzi del petrolio che si è verificata negli ultimi mesi si è parzialmente invertita. Le preoccupazioni per l’economia cinese e la sua stabilità politica dopo lo scandalo e le accuse di omicidio contro Bo Xilai, ex sindaco della Chicago cinese, Chongqing, rientrano in una categoria simile. E sono, a mio avviso, esagerate: la capacità del governo di sostenere la crescita attraverso la politica monetaria e fiscale rimane forte.

Ma in un momento di generale nervosismo sul rischio sembra che alcune aziende non investano perché in allarme per il futuro della Cina. Anche così, la più grande fonte di preoccupazione è molto più vicina a casa. È l’Europa. Il problema non è semplicemente il fatto che i debiti governativi sono enormi, che la crescita è inesistente e che vi è un fondamentale disaccordo tra i Paesi debitori e quelli creditori su come dovrebbe essere gestito l’euro. Certo, queste cose sono importanti. Ma il vero problema è che la gamma dei possibili esiti sembra così ampia. Come può una società pianificare i propri investimenti tenendo conto della possibilità dell’uscita greca dall’euro? Che percentuale di probabilità dovrebbe dare alla possibilità che altri Paesi possano lasciare l’euro, o che la moneta possa crollare del tutto? Che cosa dovrebbero pensare le imprese delle prossime elezioni italiane, con Beppe Grillo e Silvio Berlusconi che, entrambi, riflettono ad alta voce sul fatto che l’Italia debba abbandonare l’euro? La risposta intellettuale, o analitica, è che le probabilità dell’uscita greca sono alte ma la probabilità che lascino altri Paesi o quella di un collasso completo sono molto basse.

La possibilità che l’l’Italia lasci l’euro e vada in default è inesistente: ogni banca italiana crollerebbe immediatamente. Ciò che si sente spesso dire in Paesi al di fuori dell’area dell’euro, in particolare in America, e cioè la scissione della valuta in due, con due diverse valute comuni, una per il Nord e l’altra per il Sud dell’Europa è, a mio avviso, praticamente inconcepibile. Tuttavia, in questo momento la nostra difficoltà è che le risposte intellettuali e analitiche non sono sufficienti. I consigli d’amministrazione e le istituzioni finanziarie devono prendere decisioni. Quello che stanno facendo sempre di più, in risposta a questa incertezza sull’euro, e sull’Italia, è di non investire affatto. Si sono seduti sul loro denaro, o lo mettono, in condizioni di scarsa resa, in luoghi apparentemente sicuri, come i Bund tedeschi. Questo processo sta diventando una profezia che si auto-avvera. La liquidità sta scivolando lontano dalle economie della zona euro e, per motivi diversi ma correlati, anche dall’economia britannica.

Gli investitori in Grecia non stanno facendo quello che farebbero normalmente dopo una crisi finanziaria, ovvero correre a caccia di buoni affari. Pensano che in futuro i prezzi potrebbero scendere ulteriormente e che la Grecia avrà una nuova crisi. Se c’è una cosa che i governi, soprattutto quelli europei, hanno bisogno di pensare durante le vacanze è come ridurre queste percezioni di rischio. Come si possono convincere le aziende e gli investitori che la gamma degli esiti possibili non è così ampia come temono? C’è disponibilità di cassa in abbondanza. Solo, non viene spesa.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10358
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 05, 2012, 07:39:27 pm »

5/8/2012

L'eredità politica dei Giochi

BILL EMMOTT

Dovremmo probabilmente ringraziare Mitt Romney. Prima che il candidato repubblicano alla Casa Bianca arrivasse a Londra e commettesse l’errore di dubitare pubblicamente della preparazione britannica per le Olimpiadi, e ancora peggio, di quanto davvero ci piacesse l’idea dei Giochi, eravamo in effetti un po’ scontrosi e un po’ apatici sull’argomento. Ma da allora l’evento è diventato un grande festival patriottico, un simbolo di unità in una terra di solito litigiosa.

È una reazione comune: la maggior parte dei Paesi sono felici quando possono criticarsi, ma sono molto meno contenti quando a farlo sono gli stranieri. E probabilmente Mitt Romney non ne aveva neppure l’intenzione. Ma adesso, proprio nel mezzo di questi Giochi, la questione è ancora delicata, e non poco sorprendente. L’evento sta raccogliendo un grande successo tra la gente, non soltanto nel mondo ma anche a casa, provocando un sentimento nazionalistico piuttosto straordinario.

Un esempio è la Bbc, che noi britannici con orgoglio e patriottismo tendiamo a considerare la migliore televisione delmondo,ma anche quella con la mentalità più internazionale.

Eppure, almeno sui canali nazionali, la Bbc sta seguendo i Giochi come se vi partecipasse un paese solo: la Gran Bretagna. Ogni giorno i titoli di testa sono per i più recenti successi della squadra inglese, il «TeamGB» come la chiamano. Gli altri 203 paesi sono a malapena menzionati, non importa quanti record i loro atleti e le loro atlete possano battere.

uesto è stato in parte il riflesso di una partenza lenta: ci sono voluti diversi giorni prima che la squadra inglese vincesse la prima medaglia d’oro. Ma rispecchia anche un grande investimento nazionale nello sport, come anche in altre forme di cultura, durante gli ultimi dieci - quindici anni, con mezzi finanziari innovativi: anziché impiegare i soldi dei contribuenti, che una volta erano la risorsa per sostenere lo sport, la maggior parte dei fondi è stata raccolta dalla Lotteria Nazionale, gestita privatamente, e da altri sponsor privati.

Quindi proprio come la Tate Modern, che dalla sua apertura nel 2000 è diventata la galleria d’arte contemporanea più di successo del mondo, grazie principalmente alle donazioni private, la Gran Bretagna ha improvvisamente iniziato a raccogliere risultati eccezionali alle Olimpiadi per la stessa ragione.

Siamo un po’ tutti nazionalisti quando si tratta di sport. Ma il nazionalismo inglese di quest’anno è comunque sorprendente, per tre ragioni. La prima è che il nostro non è un Paese molto unito. A rugby o a calcio giochiamo con nazionali separate: Scozia, Galles, Inghilterra e l’Irlanda delNord.Ein politica gli scozzesi si stanno muovendo per ottenere l’indipendenza.

Il secondo motivo è che la cultura britannica, e qui in realtà voglio dire inglese, tende a celebrare la sconfitta, se pur coraggiosa. Ci aspettiamo di perdere ai rigori con l’Italia o con la Germania. Nel tennis non ci aspettiamo di vincere a Wimbledon. Siamo persino convinti che andremo malissimo a cricket.

Ma c’è una terza e più importante ragione. Esattamente un anno fa, il 6 agosto, Londra fu travolta dalle rivolte, un’ondata d’incendi, saccheggi e violenze che in poco tempo invase anche altre città. Finì dopo quattro o cinque giorni. Ma portò a un lungo periodo di esame di coscienza nazionale sulle divisioni tra ricchi e poveri, delinquenti e rispettosi, soddisfatti e alienati. Nessuno credette allora che la Gran Bretagna fosse un paese in pace con se stesso, unito dalla sua «Britishness”.

E poi una settimana fa è arrivata la Cerimonia di Apertura dei Giochi diretta da Danny Boyle. Probabilmente ha provocato più di una scrollata di spalle dalle parti più povere di Tottenham, dove sono iniziate le rivolte dell’anno scorso, a circa un chilometro dal Parco Olimpico, ma di sicuro nessuna ostilità. In effetti, i britannici sembrano piuttosto uniti nel loro orgoglio: abbiamo pensato fosse un po’ pazza, un po’ sentimentale, molto creativa e con un colpo di genio nell’inclusione della Regina Elisabetta e il suo cammeo con James Bond.

Una nazione che sa essere creativa, sa essere seria, ma riesce a ridere di se stessa: così agli inglesi piace vedersi, e la partecipazione della Regina ha colto questo aspetto alla perfezione.

Il giorno dopo, mentre passeggiava per le sedi olimpiche con il sindaco di Londra, Boris Johnson, la Regina è stata sentita mentre commentava la sua comparsa nella cerimonia come «un po’ ridicola ». All’uomo con cui stava parlando quella frase sarà piaciuta tantissimo.

Perché tra il fervore nazionalistico, l’entusiasmo per l’intero evento, e l’atmosfera generale di pensiero positivo anche nel bel mezzo della recessione e delle diseguaglianze sociali, c’è stato un grande beneficiario politico: proprio Boris Johnson. Il sindaco di Londra è una strana creatura politica. È membro del partito conservatore, ma si permette di criticare il suo stesso governo. Sembra molto inglese e anche Euroscettico, eppure suo nonno era turco, sua nonna russa, e suo padre lavorava come funzionario alla Commissione Europea a Bruxelles.Èmolto più attento al tema dell’immigrazione della maggior parte dei suoi colleghi conservatori.

Agli occhi degli inglesi appare un po’ come una caricatura aristocratica, con il suo linguaggio a volte tratto dai libri per bambini degli Anni Trenta; eppure è popolare, perché comunica comunque bene con il pubblico. Agli inglesi piacciono le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua franchezza, e la sua vita privata a volte spericolata.

In effetti queste sue caratteristiche lo fanno somigliare non poco a Silvio Berlusconi, un politico su cui Johnson scrisse un ritratto pieno di ammirazione quando era direttore del settimanale di destra «The Spectator». Gli mancano naturalmente altri punti di forza di Berlusconi come i soldi e il potere mediatico. Ma ciò in cui gli assomiglia maggiormente è il desiderio costante di essere positivo.

Come risultato, gli analisti politici inglesi hanno iniziato a discutere se Johnson riuscirà alla fine a diventare Primo Ministro, anche sconfiggendo alle primarie l’attuale premier e leader del partito conservatore David Cameron. Sono tutti d’accordo che non ci riuscirà, perché i britannici, specialmente quelli che vivono fuori Londra, sono troppo cinici e critici dei loro politici per eleggere qualcuno che racconta barzellette, per quanto brillanti. Io non sarei così sicuro. Le Olimpiadi hanno dimostrato quanto gli inglesi amino lo spettacolo, e quanto adorino prenderne parte. Quest’anno abbiamo anche celebrato il sessantesimo anniversario della salita al trono della Regina Elisabetta, e anche quella è stata una festa memorabile e piena di ottimismo, nonostante il tradizionale maltempo inglese.

In una grande città internazionale come Londra, le Olimpiadi difficilmente lasceranno un segno duraturo. Ci occuperemo di altre cose abbastanza rapidamente. Ma nella politica nazionale, e nello stato d’animo nazionale, potrebbe rimanere un segno. Stiamo mostrando che ci piace vincere, e che in questo momento ci piace stare ad ascoltare leader fiduciosi e positivi. Boris Johnson sarà un uomo da tenere d’occhio.

Traduzione a cura di Clara Colombatto

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10405
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 10, 2012, 08:45:49 pm »

9/9/2012

Un rebus in tre punti per l'Euro

BILL EMMOTT

Sarebbe bello prevedere che l’autunno porterà un po’ di sole alle nostre cupe economie europee, una luce alla fine del tunnel della crisi dell’euro. Purtroppo, però, sarebbe avventato presumerlo, anche dopo l’importante annuncio di Mario Draghi, giovedì, alla Banca centrale europea. Perché nessuno dei tre principali problemi che affliggono l’euro è stato ancora risolto.

E’ vero che il quadro non pare molto più felice dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna o dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, David Cameron, ha annunciato un pacchetto di misure presumibilmente intese a rafforzare la crescita economica, ma il pacchetto, in definitiva, era vuoto: ha dimostrato che il suo governo non sa cosa fare. Allo stesso modo, il presidente Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione del partito democratico non è riuscito a delineare un vero programma di quello che vorrebbe fare se a novembre sarà rieletto presidente.
Almeno il presidente della Bce, Draghi sa cosa fare: «Tutto il possibile», e, se necessario, comprerà titoli di Stato italiani o spagnoli in misura sufficiente a ridurre a livelli accettabili i costi di finanziamento di tali Paesi.

In altre parole, nella sua visione, occorre rimuovere il premio caricato dagli istituti di credito sui governi per coprire il rischio di un crollo dell’euro. L’euro non sta per crollare, dice, quindi non c’è bisogno di un premio.

Si tratta di un piano ingegnoso e rappresenta un notevole progresso che Draghi sia riuscito ad annunciarlo nonostante l’opposizione politica tedesca. Se dovesse funzionare, potrebbe addirittura riportare il sorriso sui volti del primo ministro Cameron e del presidente Obama, perché loro sanno che la recessione e il possibile crollo della zona euro deprimono le loro economie e rendono più guardinghe le loro aziende. Ma anche se il piano di Draghi è necessario e anche se può riuscire a far sì che non siano solo i mercati finanziari a determinare il futuro dell’euro, non basta a risolvere l’inghippo dell’eurozona.

Questo rebus ha tre punti. Il primo è pratico: come ristabilizzare la moneta europea, come vogliono i tedeschi, gli olandesi e gli altri Paesi creditori del Nord Europa, in base a rigorose norme di bilancio e a severe condizioni per eventuali salvataggi, finché c’è un Paese membro - la Grecia - che notoriamente non può obbedire alle regole e avrà inevitabilmente bisogno di altri aiuti? Espellere la Grecia metterà in pericolo la moneta e il sistema bancario europeo, ma tenerla come membro mina la credibilità di tutte le regole e le «condizioni» a cui la Germania e Draghi fanno riferimento. Su questo non è stato fatto alcun progresso e per la fine di settembre occorrerà decidere per un nuovo salvataggio della Grecia.

Il secondo è politico. Se, come dicono i creditori, la mutualizzazione del debito, un’unione bancaria e le misure di solidarietà del tipo appena annunciato da Draghi richiedono un passo verso l’unione politica e il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee di tutti i tipi, come può accadere ciò in un frangente in cui l’andamento della politica nazionale in tutta l’Unione Europea si sta muovendo virtualmente nella direzione opposta? Il voto olandese del 12 settembre sarà un test per questo. Ma anche se la politica nazionale non si muove attivamente verso una posizione anti-euro, dappertutto, e particolarmente in Germania c’è resistenza a una maggiore centralizzazione.

Il terzo e ultimo enigma è di natura economica, ma alla fine è politico, ed è meglio illustrato dall’Italia stessa. La domanda è come la moneta, e con essa le società e le democrazie dell’Europa occidentale, possono essere salvate dalla sola austerità fiscale. L’Italia illustra
quest’aspetto attraverso la combinazione dei tagli di bilancio del governo Monti, che erano necessari per rispettare gli impegni europei e rassicurare gli investitori internazionali, e una profonda recessione. E anche attraverso i frequenti riferimenti del presidente Monti alla «buona condotta» dell’Italia e al fatto che i suoi «fondamentali economici» non giustificano gli elevati costi di finanziamento. Queste affermazioni sono del tutto vere se si guarda solo alla politica fiscale. L’Italia è virtuosa, obbedisce alle regole dell’eurozona e presenta un deficit di bilancio di gran lunga inferiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma non sono vere se si guardano la crescita economica e le sue prospettive. Senza la crescita economica, il debito sovrano dell’Italia crescerà a una percentuale ancora più elevata del Pil, e molto probabilmente il presidente Monti non raggiungerà del tutto i suoi obiettivi di bilancio. E, cosa più importante, senza la prospettiva di un ritorno alla crescita economica, la situazione politica potrebbe rivelarsi abbastanza brutta.

Gli italiani questo lo sanno, naturalmente. Ma come molti altri europei, sono anche riluttanti ad accettare il tipo di riforme di liberalizzazione che vorrebbero il presidente Monti e altri come lui. Il mondo europeo è troppo definito dall’austerità, dal sacrificio, dalle misure di salvataggio un po’ difficili da comprendere, come quelle della Banca centrale europea.

L’ingrediente mancante è quello che il presidente François Hollande ha messo in luce in primavera durante la sua campagna elettorale, ma che da allora è caduto nel dimenticatoio: un riequilibrio della politica europea verso la crescita, con l’allentamento fiscale al Nord e la liberalizzazione al Sud. Miracoli esclusi, finché questo non accade, e fino a quando gli altri due enigmi dell’eurozona non saranno adeguatamente affrontati, l’Europa è destinata a continuare a zoppicare, da una crisi all’altra.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10505
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:43:22 pm »

22/9/2012

Cina-Giappone, la contesa che fa paura al mondo

BILL EMMOTT

Il mondo è giustamente preoccupato dalla guerra civile in Siria, e dalla violenza antioccidentale nei Paesi arabi e nelle altre nazioni islamiche in risposta al noto film amatoriale che attaccava il Profeta. Ma c’è anche un’altra serie di tensioni di cui preoccuparsi: quelle tra Cina e Giappone. Molto probabilmente, alla fine rientreranno e tornerà la calma. Tuttavia, vi è un rischio significativo che non andrà così. Si potrebbe anche arrivare a un conflitto.

Viste da migliaia di chilometri di distanza, le questioni in gioco sembrano banali, persino assurde. Poche piccole isole nel Mar Cinese Orientale, note in Giappone come Senkaku e in Cina come Diaoyu, una manciata di rocce, di questo stanno discutendo la seconda e la terza economia più grandi del mondo. Eppure quelle rocce hanno scatenato le più gravi manifestazioni anti-giapponesi in Cina dal 2005, mentre in decine di città cinesi si sono radunate folle per protestare al di fuori delle ambasciate e delle fabbriche e dei negozi appartenenti ai giapponesi.

Cosa ancora più inquietante, i media statali cinesi hanno riferito che «1000» barche da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole contese, determinate, si presume, a far valere le rivendicazioni territoriali della Cina sulla pesca all’interno di quello che sono attualmente acque territoriali giapponesi.

Quanto seriamente dovremmo prendere questa notizia? Al tempo dell’ultima grande ondata di manifestazioni anti-giapponesi, sette anni fa, avevo fatto proprio questa domanda a un vecchio politico giapponese del partito allora al governo, Taro Aso. La sua risposta fu noncurante: “Il Giappone e la Cina si odiano a vicenda da più di mille anni - ha detto, - non dovrebbe sorprenderla che anche oggi sia così.”

Poiché l’onorevole Aso nel 2008-2009 diventò primo ministro del Giappone, un linguaggio così poco diplomatico era un po’ preoccupante. Ma in sostanza stava dicendo la verità.

Questi due Paesi sono sempre stati rivali a tutti i livelli - politica, cultura, economia, territorio.

Questo è chiaramente dimostrato dal fatto che entrambi rivendicano la sovranità su grandi distese di fondali e di oceano: la rivendicazione più controversa della Cina riguarda l’intero Mar Cinese Meridionale, con il rifiuto delle pretese di Vietnam, Filippine, Malesia e altri Paesi vicini; il Giappone rivendica le Senkaku, contese anche dalla Corea del Sud, e, per via della conformazione del Paese, un grande arcipelago di piccole isole, una vasta fascia dell’Oceano Pacifico.

Questo genere di rivendicazioni è di solito roba da avvocati e funzionari che si occupano della Convenzione delle NazioniUnitesuldirittodelmare,l’accordo internazionale che ha lo scopo di governare e arbitrare tali pretese di sovranità in «zone economiche esclusive». Ciò che preoccupa ora è che il problema tra il Giappone e la Cina si è spostato nelle strade delle città cinesi, nella politica nazionalistadientrambi iPaesi,einunmomento estremamente delicato della politica interna cinese.

Questo è ciò che lo rende pericoloso. Là in mare, se davvero 1000 navi da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole occupate dai giapponesi - o anche se il numero reale è solo la metà di quello – potrebbe facilmente capitare un incidente, una collisione con una nave della Marina giapponese o con la guardia costiera. O anche un non-incidente, un errore di calcolo, con una nave affondata e la perdita di vite umane.

L’ironia della situazione è che si è verificata a causa delle mosse che il governo giapponese ha appena fatto per cercare di calmare le acque. Le isole Senkaku, che il Giappone ebbe in piena sovranità per la prima volta nel 1895, e poi riebbe nel 1972 quando gli Stati Uniti le restituirono al Giappone insieme a Okinawa, sono state a lungo di proprietà privata. Il governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, della destra nazionalista, ha proposto all’inizio di quest’anno di acquistarle per il suo governo metropolitano di Tokyo. Così il governo centrale del Giappone è intervenuto per acquistarle, con lo scopo di impedirgli di creare problemi.

La tempistica, tuttavia, ha trasformato una misura intesa a calmare le acque in un innesco. Il partito comunista che governa la Cina si sente sotto pressione per via degli scandali legati alla corruzione e al rallentamento dell’economia. Si attende per il prossimo mese la nomina di un nuovo presidente e di un nuovo primo ministro. Così, quando l’opinionepubblicacinesehacominciato a gridare ad alta voce slogan antigiapponesi in rete e nelle manifestazioni di piazza, il partito sembra aver deciso di sfruttare le manifestazioni per confermare le sue credenziali patriottiche invece di reprimerle.

Per lo stesso motivo, l’istinto di adottare la linea dura, e di mettere a segno provocazioni nelle acque intorno alle isole, andrà avanti per diversi mesi mentre si svolge questo passaggio politico. Anche in Giappone, la politica è instabile: le elezioni generali si terranno solo all’inizio del 2013 e una delle stelle nascenti della politica nazionale - il giovane (43 anni) sindacodi Osaka,ToruHashimoto - ha appena lanciato un movimento politico nazionale in parte basato sulla retorica nazionalista.

In precedenti occasioni, quando sono sorte tensioni tra Giappone e Cina, in un mese o due le acque si sono calmate. I legami economici tra questi due partner che condividono enormi scambi e investimenti di solito inducono i politici alla ragione. Nel 2008, il Giappone e la Cina riuscirono persino a concordare lo sviluppo congiunto di petrolio e gas sotto il fondo marino intorno alle isole Senkaku, anche se il progetto non è ancora stato attuato. Gli Stati Uniti, che nel Giappone hanno uno dei più stretti alleati, di solito riescono a calmare gli animi.

Moltoprobabilmentequestoaccadrà di nuovo. Ma in un anno di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti non sono nelle condizioni migliori per calmare le acque, e in ogni caso la loro posizione morale sulla questione non è così forte dal momento che il Congresso non ha ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, anche se la Convenzione è stata approvata ben tre decenni fa, nel 1982. In passato, i grandi conflitti sono spesso sorti da contenziosi minori e da errori di calcolo. Il mondo deve pregare che ciò non accada di nuovo ora, per colpa di alcune piccole rocce nel Mar Cinese Orientale.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10554
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:31:35 am »

Editoriali
25/10/2012 - scandalo a Londra

Nel caso Bbc i due estremi dell’Inghilterra

Bill Emmott


Le stelle della tv popolare in altri Paesi sono generalmente incomprensibili per gli stranieri, che si tratti di campioni di giochi a premi, comici, veline, o cantanti pop.

 

C’è qualcosa d’impenetrabilmente locale nella cultura popolare di massa. Invece gli scandali degli altri Paesi, soprattutto quelli sessuali, che coinvolgono quelle stesse elusive celebrità straniere, fanno presa. 

 

È accaduto proprio così con lo scandalo che ora in Gran Bretagna sta sconvolgendo la più indipendente, la più rinomata, apparentemente la più etica emittente del mondo, la cara vecchia Bbc.

 

E’ uno scandalo avvincente per via delle storie di sesso, anche se alcune di esse sono sgradevoli. Lo è perché mostra gli inglesi al loro meglio e al loro peggio: al meglio perché la Bbc si è affrettata ad autocondannarsi, a flagellarsi per le sue mancanze; al peggio negli attacchi ipocriti alla Bbc sui nostri tabloid, i cui parametri morali sono di gran lunga peggiori.

 

Infine, fa presa anche perché gli argomenti che essenzialmente sono alla base dello scandalo, la libertà di stampa e l’etica dei mezzi di comunicazione, sono sorprendentemente simili a ciò che sta accadendo in tutto il mondo. Proprio mentre i giornalisti italiani discutono la nuova «legge bavaglio» e la possibilità che un direttore di giornale come Alessandro Sallusti possa essere mandato in prigione, in Gran Bretagna il dibattito in merito a questo scandalo riflette anche la vicenda di spionaggio telefonico che ha colpito i giornali di Rupert Murdoch lo scorso anno e il crescente nervosismo per il prossimo piano per un sistema più rigido di disciplina dei media.

 

Lo scandalo che coinvolge la Bbc riguarda un ex presentatore di quello che fu negli Anni 70 e 80 un longevo programma musicale, «Top of the Pops», che ospitava programmi per bambini e raccoglieva un sacco di soldi in beneficenza. Si scopre che Sir Jimmy Savile, diventato tale grazie alla sua opera di carità, era un molestatore sessuale seriale, sia delle quattordicenni credulone che si presentavano in massa alla Bbc per partecipare a «Top of the Pops», sia di disabili e malate di mente nei vari ospedali dove aveva lavorato.

 

Questo sarebbe già abbastanza grave, ma la cosa più grave è che solo dopo la morte di Savile, l’anno scorso a 84 anni, un importante programma d’attualità della Bbc, «Newsnight», ha messo in cantiere un servizio televisivo sulle accuse da parte di alcune delle sue vittime, ma poi l’ha sospeso per ragioni che non sono ancora state spiegate.

 

Lo scandalo è scoppiato quando un canale rivale ha ripreso alcuni dei temi che il servizio della Bbc aveva sollevato, e ora i giornalisti della Bbc coinvolti sono tutti presi a lanciare accuse ai loro padroni. Con un tocco meravigliosamente britannico lunedì la Bbc ha riportato il servizio di un rinomato programma di attualità, «Panorama», che attaccava «Newsnight», rivelando alcune delle sue manchevolezze. E nell’edizione del martedì di «Newsnight» il programma ha mandato in onda una discussione sul programma stesso e sui suoi errori.

 

E’ tutto intrattenimento. Ma, ci si potrebbe chiedere, perché tanto clamore attorno a questo scandalo? Le celebrità fanno sesso con i fan, anche con quelli molto giovani, in tutti i Paesi, soprattutto da quando la televisione e la musica pop si sono fuse creando una cultura di massa. Il fatto che Jimmy Savile abbia sfruttato queste opportunità non è più sorprendente del fatto che i membri dei Beatles o dei Rolling Stones abbiano dormito con groupies di varie età. E il fatto che Savile abbia anche molestato vulnerabili ricoverate può essere disgustoso, ma non è il primo criminale sessuale e non sarà l’ultimo.

 

Non sono però quelli i veri problemi, le vere ragioni per cui questo scandalo, nato da un uomo un po’ strano che molte persone trovavano abbastanza inquietante, continuerà a fare notizia ancora per lungo tempo.

Ci sono in gioco due veri problemi. Uno è l’angoscia per quella che Dante Alighieri chiamava «ignavia»: la tendenza delle persone a stare a guardare e non fare nulla, anche quando sanno che è stato fatto male. La Bbc e le altre istituzioni britanniche, tra cui in particolare gli ospedali e le associazioni di beneficenza con cui si era impegnato Savile, andranno incontro a un lungo periodo di indagini e di esami di coscienza: la gente, dirigenti inclusi, sapeva che cosa stesse accadendo e non ha fatto nulla?

 

Questo problema di mancanza di coraggio morale, di complicità in virtù del silenzio è, a mio avviso, un aspetto fondamentale del nostro tempo in tutte le democrazie occidentali. Tanto le élite come la gente comune sono accusate di non affrontare la realtà, di non agire o almeno gridare ad alta voce quando le nostre democrazie si trovano sotto attacco, per esempio da parte delle potenti oligarchie aziendali che assumono il controllo sul governo. 

 

Questa è la storia dell’Italia con Silvio Berlusconi, ma anche, in modo diverso, la storia della mancanza di un regola alla finanza in Gran Bretagna e Usa grazie allo strapotere della City di Londra e di Wall Street.

Lo scandalo Savile alla Bbc è un caso minore rispetto a quelli. Ma se riesce a concentrare un po’ d’attenzione sulla responsabilità personale e sul peccato di ignavia, sarà una buona cosa. Il secondo vero problema riguarda la regolamentazione dei media e la loro responsabilità. Grazie allo scandalo dello spionaggio telefonico, che questa settimana si è allargato a un secondo gruppo britannico, gli editori del tabloid Daily Mirror, a breve un giudice presenterà le sue proposte sulla futura disciplina dei media. Probabilmente proporrà di sostituire il tradizionale, ma del tutto inefficace, sistema britannico di autoregolamentazione con una nuova agenzia che abbia poteri statutari.

 

Questo sarà ferocemente avversato dai direttori dei giornali britannici. Lo scandalo Savile non è collegato direttamente a questo: emittenti come la Bbc sono già disciplinate da un’agenzia di vigilanza. Ma influenzerà ugualmente la politica di regolamentazione dei media perché la stupida decisione di «Newsnight» della Bbc di cancellare la sua stessa indagine confermerà la convinzione che dei media non ci si può fidare perché non decidono da sé.

 

Per me, ex direttore di una rivista, è una constatazione molto triste. Noi dei media dobbiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni e rimanere sempre consapevoli della fiducia che i nostri lettori e telespettatori hanno riposto in noi. Ma questo significa anche che i media devono prendere atto delle conseguenze quando non riescono ad agire in modo responsabile e quando violano quella fiducia.

 

traduzione di Carla Reschia 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/25/cultura/opinioni/editoriali/nel-caso-bbc-i-due-estremi-dell-inghilterra-432PkRq6BbGsE8GMiUOHPI/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 04, 2012, 05:15:50 pm »

Editoriali
04/11/2012

L’anima global è nascosta nelle Langhe

Bill Emmott


Poiché la prima sera ci siamo trovati per una cena conviviale piemontese a Torino e il giorno dopo abbiamo fatto una gita tra le colline perfette e cariche di viti delle Langhe, avremmo dovuto pensare all’amicizia, ai ricordi condivisi, o almeno al Barolo e al vitello tonnato. E naturalmente lo abbiamo fatto. Ma siamo giornalisti. 

Così siamo condannati dal nostro mestiere a badare ai percorsi, ai temi maggiori. E così abbiamo pensato al senso di modernità e tradizione, al reale impatto della globalizzazione e a cosa rimane immutabile nei nostri Paesi. 

 

Il «noi» a cui mi riferisco è un gruppo di vecchi amici incontrati quando eravamo tutti stanziati come corrispondenti stranieri in Giappone, più decenni fa di quanto ci piaccia ricordare (ma nel mio caso, il mese scorso sono passati 29 anni da quando mi trasferii a Tokyo). Ogni anno o due ci ritroviamo insieme in un Paese diverso, per ricordare, per parlare, per spassarcela. Questa volta l’organizzatore è stato il meraviglioso Fernando Mezzetti, che è stato corrispondente de «La Stampa» a Tokyo alla fine degli Anni 80, dopo aver lavorato per il «Giornale» a Pechino e a Mosca. E’ stata un’idea di questo globetrotter a portarci tutti in Piemonte. 

 

Il Giappone è stato, per tutti noi, un’esperienza formativa. Abbiamo vissuto lì quando era ritenuto sinonimo di modernità, di efficienza, della sfida orientale alla supremazia economica occidentale. E’ stato la Cina del suo tempo, la forza inarrestabile che era destinata a superare l’Europa e l’America. Era il futuro. Ma poi improvvisamente non lo è stato più e non ha sorpassato nessuno. 

 

Ha subito un crollo finanziario, a partire dal 1990, l’enorme scoppio di una bolla del credito che è stato un segno precursore della crisi che l’Occidente sta vivendo ora. Le cause della crisi giapponese furono come un esperimento di laboratorio per quello che è successo in seguito negli Stati Uniti e in Europa: il fallimento della regolamentazione finanziaria, la presa in ostaggio del governo da parte di potenti gruppi di interesse, il fallimento della politica poi per risolvere il pasticcio. E questo presunto maestro di adattamento ai cambiamenti si è dimostrato incapace di cambiare e di adattarsi alle nuove circostanze, lasciando il Giappone a 20 anni di stagnazione. 

 

Abbiamo il Giappone in comune, ma abbiamo formazioni molto diverse. Oltre a me e Fernando, il nostro gruppo comprendeva un altro inglese (ex-Bbc), un francese (che ora lavora per Mediapart e prima era all’Afp), un canadese-ungherese (ora con la Stanford University, ma ancora in Giappone), e un americano ( ex-Cbs News), mentre tra le nostre mogli ci sono una sudcoreana, una giapponese, un’inglese, una portoghese e un’italiana. Eppure questo gruppo così variegato ha comunque imparato la stessa lezione dalla nostra esperienza giapponese. Ovvero che non dobbiamo prendere le cose, e in particolare le tendenze, come permanenti. Come si dice in inglese, le apparenze ingannano. 

 

In giro per le Langhe e visitando cantine come quelle della famiglia Ceretto, di Gianni Gagliardo, presidente dell’Accademia del Barolo, e di Contratto, ci siamo ricordati di questo concetto. Un principio giapponese vuole che tutto abbia una facciata, tatemae, ma anche una verità nascosta, o honne. Nelle Langhe tatemae è quello che i turisti vedono, o vogliono vedere, in molti dei bei paesaggi italiani: un senso di tradizione, di immutabilità, l’idea che abbiano conservato l’aspetto del passato. 

 

Eppure l’honne, come i lettori de «La Stampa» senza dubbio sanno mentre noi non lo sapevamo, è molto diverso. Ed è che la bellezza e il carattere delle Langhe sono una creazione molto moderna. Infatti, come abbiamo cominciato a pensare e a parlare dei nostri Favorita, Nebbiolo e Chinato, siamo arrivati a chiederci se in realtà potrebbero essere parte dell’essenza stessa della modernità occidentale, nella nostra epoca globalizzata. 

 

Per noi è stata una sorpresa sapere quanto povere fossero le Langhe ancora in epoca moderna e quanto recente sia il suo emergere come centro di vini di alta qualità, cibo e turismo. Alla cantina Ceretto ci hanno raccontato di come il padre e il nonno dell’attuale famiglia avessero discusso animatamente se avesse senso o meno iniziare a imbottigliare il vino. In tutti questi paesi, in quei vigneti e piccole aziende agricole, tutto sembra e appare estremamente locale. Ma la verità è che le maggiori influenze sono globali.

 

Quando eravamo tutti in Giappone negli Anni 80, il vino era molto costoso e anche difficile da trovare, in particolare il buon vino. Quando Fernando era a Pechino era praticamente sconosciuto al di fuori dei compound occidentali. Oggi i ristoranti italiani sono i più comuni tra quelli non giapponesi in tutte le grandi città del Giappone, e il vino è economico e largamente bevuto, soprattutto dalle donne. E la domanda cinese ora guida il mercato globale del vino per i vini di alta qualità, così come è molto probabile che guiderà il mercato per i vini più economici tra 10 o 20 anni. 

 

In tutti questi vigneti, al di là delle uve, delle cantine e delle sale di degustazione, l’elemento più evidente è la tecnologia. Le vasche luccicanti in acciaio inox, i sistemi di controllo, gli strumenti di analisi. L’altra cosa più evidente è la raffinatezza del marketing: i disegni di etichette, le forti identità visive, il posizionamento di vini diversi a diversi livelli di prezzo per diverse fasce di consumatori. E la terza è la visione globale dei proprietari. Tutta la lunga storia della viticoltura nella regione porta la modernità scritta a grandi lettere: la globalizzazione unita alla tecnologia, unita a un uso intelligente dell’immagine. 

Questo elemento, ne sono certo, c’è sempre stato. Ma ora è dominante e si combina con un altro fenomeno più recente, una creazione, per lo più, dell’ultimo decennio. È l’accento sulla qualità, sia tra i consumatori che tra i produttori. 

 

Poche settimane più tardi, questa volta senza il mio gruppo di amici giornalisti, sono tornato a Torino per il meraviglioso Salone del Gusto di Slow Food. Si tratta di una celebrazione di molte cose: delle idee di purezza, di natura, dei metodi di coltivazione tradizionali. Ma anche di una celebrazione della qualità, e del desiderio di presentare la qualità al mondo: questa è sicuramente l’essenza dei presidi Slow Food, in cui la qualità è certificata e gli agricoltori sono autorizzati a presentarla a un mercato più ampio e a un prezzo più alto di quello che potrebbero permettersi. 

 

Nei tre o quattro decenni che io e la mia banda di amici abbiamo passato nel giornalismo, il più grande cambiamento che tutti abbiamo vissuto (e di cui abbiamo beneficiato, come corrispondenti esteri) è stata la globalizzazione: l’ascesa e la caduta del Giappone, la crescita costante della Cina, la diffusione dello sviluppo economico in gran parte del resto dell’Asia e persino nell’Africa sub-sahariana. Dal punto di vista economico è stato di enorme beneficio non solo per i Paesi emergenti, ma anche per l’Europa e per l’America. Da un punto di vista culturale, per non parlare della politica, ci sono maggiori dubbi. 

 

Di quei dubbi abbiamo parlato molto nelle Langhe e a Torino. Molti europei si sentono sballottati e flagellati dai venti della globalizzazione, in particolare dall’immigrazione, ma anche dal modo in cui le culture sono diventate molto più interconnesse, attraverso i media e Internet, ma anche attraverso la compenetrazione in tutti i nostri Paesi, del cibo, delle bevande, della musica, ecc. altrui. La produzione su scala globale, di massa, di tutte queste cose, proprio come per i divani o gli orologi, può dare la percezione che la qualità e l’individualità abbiano raggiunto un minimo comune denominatore. 

 

Ed è così a volte. Ma le Langhe, in verità con la rinascita di Torino nel corso degli ultimi 20 anni, ci hanno offerto uno sguardo sul futuro e non sul passato. Per noi sono diventate il simbolo di un’Europa che riesce a fare quello che ha sempre fatto meglio durante i periodi più belli della sua storia: concentrarsi sulla conoscenza, l’ingegno e la creatività, esplorare il mondo in cerca di nuovi mercati e di nuove terre, porre l’accento sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Anche il Giappone faceva così. Prendeva le idee all’estero e le migliorava, ha rivoluzionato la sua società e il modo di vivere, ma pur sempre conservando la specificità giapponese. Al momento sembra aver perso la capacità di farlo, logorato da una lunga stagnazione, impaurito dalla crescita della Cina e, recentemente, abbattuto dal suo tragico tsunami. 

 

Anche l’Italia ha perso questa capacità, per motivi propri, tra i quali la sua lunga stagnazione. Ma la nostra allegra banda di vecchi corrispondenti stranieri ha lasciato le Langhe e Torino con un senso di speranza. Questi luoghi che abbiamo visitato ci sono sembrati, alla fine, più moderni e più adatti al nuovo mondo di quanto non fosse stato il caso per altre delle nostre precedenti rimpatriate, come ad esempio l’Ungheria (2007) o il Portogallo (2010). Nessuno potrebbe dire che hanno perso anche un solo grammo della loro identità piemontese e italiana, anche se sono radicalmente mutate. 

 

Il nostro prossimo incontro si terrà, probabilmente, in Gran Bretagna. Mi chiedo cosa penserà il gruppo di quel Paese e quanto bene rappresenterà la modernità. Beh, la prossima volta non sarò io a scrivere le conclusioni. 

traduzione di Carla Reschia 

da - http://lastampa.it/2012/11/04/cultura/opinioni/editoriali/l-anima-global-e-nascosta-nelle-langhe-ecdyJQmlzSkLvuJcfiK9PL/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 19, 2012, 09:11:54 pm »

Editoriali
19/11/2012

La voglia di cambiare

Bill Emmott

Venerdì, mentre ero seduto nella Sala d’Arme dello splendido Palazzo Vecchio di Firenze, sentendo che così tanti giovani, da Renzi ai «Pionieri», vengono apprezzati e «cacciati» dai miei amici della Rete per l’Eccellenza Nazionale, continuava a venirmi in mente la famosa canzone dal film «South Pacific».

Devi avere un sogno, se non hai un sogno come potrà avverarsi?

 

Ma continuavo anche a pensare questo: il problema dell’Italia è che vive in una specie di sogno, e che deve svegliarsi.

 

Ci sono, in realtà, due generi di sogno. Per anni, per decenni anche, l’Italia ne ha avuto troppo pochi del primo tipo e troppi del secondo.

 

Il primo è il tipo di sogno che ha a che fare con qualcosa che si vuole che accada. E’ il sogno nella mente di ogni imprenditore di successo, ma anche di ogni innovatore e creatore del cambiamento, nelle comunità locali come nelle scuole, nelle organizzazioni benefiche o nei grandi affari della politica nazionale e internazionale. Questi sognatori non badano a cosa è stato fatto o a ciò che è permesso fare. Guardano a cosa potrebbero fare con le loro mani e i loro cervelli, per creare una realtà completamente nuova.

 

I «Pionieri» che stanno cercando quelli che si definiscono Arenauti sono persone così: gente che sta inventando nuovi modi di fare le cose e nuove cose da fare o creare, inseguendo il proprio sogno, un sogno di cambiamento. Ma gli stessi Arenauti, questo gruppo di oltre 100 professionisti, soprattutto giovani, provenienti da molti settori, condividono questa miscela di sogni e di azione.

 

Il motivo per cui li sostengo e sono ispirato da loro fin da quando li ho incontrati per la prima volta, nel 2009 è esattamente quel misto di sogni e di azione. Ci sono un sacco di persone, in Italia come nel mio paese, che presentano i loro sogni di cambiamento con manifesti e dichiarazioni e discorsi. Non ce ne sono così tanti che lavorano per cercare di mettere in pratica i loro sogni.

 

Mentre io, uno scrittore inglese di mezza età, stavo seduto a guardare il sindaco Matteo Renzi tenere il suo discorso di benvenuto con la sua classica tenuta, blue jeans, camicia bianca aperta al collo e giacca blu scuro, naturalmente ho dovuto interrogarmi anche su di lui. È un altro giovane sognatore. Ma è un uomo che vuole mettere i suoi sogni alla prova dei fatti?

 

Troppi politici sognano solo di arrivare al potere per il gusto dello stesso piuttosto che per raggiungere un vero e proprio obiettivo condiviso. Il sindaco Renzi, come tutti rilevano, parla molto di più di principi astratti e vaghe aspirazioni che di fatti concreti, sostanziali.

 

Se il suo fosse il lancio di una nuova impresa, non riuscirebbe a raccogliere capitali perché gli investitori non finanzierebbero un sogno senza un vero piano d’investimento.

 

Ma non si tratta di affari. Il suo scopo è ottenere dei voti e ha imparato tanto dalla Gran Bretagna di Tony Blair come da Silvio Berlusconi che il voto può essere conquistato più facilmente con un linguaggio positivo e ispirato piuttosto che attraverso i programmi politici.

 

Ricordo bene uno dei miei peggiori giudizi come direttore dell’Economist: fu quando, prima delle elezioni del 1997 in Gran Bretagna, scrissi che Blair non meritava sostegno perché non era riuscito a dire al popolo britannico che cosa avrebbe effettivamente fatto quando fosse diventato primo ministro. Era sbagliato perché non teneva conto del fatto che gli avversari di Blair avevano perso tutta la loro credibilità e negava l’ipotesi che semplicemente il potere dato dall’essere una novità e dall’impersonare il cambiamento avesse in sè il potenziale per rendere fattibili azioni concrete.

 

Nessuno di noi può sapere se questo sarebbe vero anche qualora il «pioniere» emergente di Firenze vincesse le primarie del PD e poi le elezioni della prossima primavera. Ma sarebbe un errore fare come ho fatto io nel 1997 e respingere la possibilità solo perché si tiene nel vago ed è inesperto. L’establishment politico è concreto e scafato ma ha perso ogni credibilità, proprio come i conservatori britannici negli Anni ‘90.

 

La questione fondamentale è se l’elettorato italiano sia giunto a credere che il cambiamento sia necessario, e non un cambiamento superficiale ma fondamentale. Fino ad ora, di sicuro, ha prevalso il secondo tipo di sogno: l’illusione, così diffusa tra gli italiani, che le cose possano continuare come sono perché è tutto veramente OK, qualsiasi cosa ne dicano quei noiosi degli economisti e dei sondaggisti.

 

Questo tipo di sogno non ha a che fare con la creazione di una nuova realtà ma con il desiderio di negarla e di evitare la necessità di fare qualcosa di serio, e certamente difficile, per cambiarla. Ecco perché abbiamo chiamato il mio prossimo film documentario sull’Italia «La ragazza in coma», o la fidanzata in coma. Questa sospensione delle funzioni vitali è in parte il risultato delle azioni negative, egoistiche di ciò che nei miei libri ho definito «la cattiva Italia». Ma è anche un risultato del desiderio di sognare per evitare la realtà e l’azione.

Quanto più vedo quel desiderio e ne sento parlare tanto più divento preoccupato e pessimista. Poi, però, mi torna la speranza quando incontro e dò più ascolto all’altro tipo di sognatori. Gruppi come RENA, che traducono i sogni in azioni, e «pionieri» come quelli che loro ricercano, ansiosi di eliminare tutti gli ostacoli al cambiamento e di creare nuove realtà, necessarie per produrre il risveglio che all’estero tutti gli ammiratori dell’Italia auspicano.

 

La rottamazione è essenziale. Ma lo sono anche le azioni reali, per trasformare i sogni in una nuova, più costruttiva realtà.

 

Traduzione di Carla Reschia 

da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/la-voglia-di-cambiare-OBDJQ8SGZhueN32BwuaX1I/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:36:49 pm »

Editoriali
10/12/2012

Un Paese che rifiuta la realtà

Bill Emmott

Se una decina d’anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pensato, scritto e fatto un film non su Giappone, Cina o qualcuno dei miei vecchi temi di interesse, ma sull’Italia, mi sarei chiesto se il mio interlocutore avesse fumato sostanze illegali. 

Ma per come la vedo ora, e per come ritengo che le imminenti elezioni politiche in Italia saranno cruciali, e il modo in cui ho trascorso i miei ultimi anni non mi sorprende per nulla.

 

Il motivo non sono solo quelle due famigerate parole, Silvio e Berlusconi. Il fatto è che l’Italia è centrale in una serie di fenomeni che da tempo mi preoccupano per il futuro dell’Occidente.

Mi appassionai per la prima volta all’Italia a causa di Silvio Berlusconi. Sì, è così. Noi dell’Economist lo dichiarammo inadatto a governare l’Italia» sulla nostra copertina dell’aprile 2001, per ragioni di principio; niente a che vedere con gli scandali sessuali per i quali più tardi divenne famoso in Gran Bretagna e in America. I princìpi in questione riguardavano il giusto rapporto che ci deve essere in una democrazia tra il potere privato, capitalistico, e il governo - devono restare il più possibile separati, così come un arbitro di calcio deve restare indipendente dalle squadre - e l’importanza dello stato di diritto.

 

Non eravamo «per la sinistra» e di certo non eravamo «comunisti», come diceva Berlusconi, anche se io assomiglio a Lenin. Non eravamo nemmeno «contro la destra». Eravamo contro la conquista dei poteri di governo in una democrazia occidentale da parte di un singolo, enorme interesse privato; ed eravamo contro l’erosione dello stato di diritto che quell’interesse provocava. Come dice Umberto Eco nel mio film, anche in altri Paesi ci sono tycoon, e potenti lobby e concentrazioni di media perciò quel che accadeva in Italia era e resta un pericolo per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e molti altri Paesi.

 

Da quella copertina dell’Economist cominciò il mio viaggio in Italia. Un viaggio allietato da due denunce per diffamazione da parte di Berlusconi (entrambe le cause sono state vinte dall’Economist), e diventato più intenso man mano che approfondivo la mia conoscenza dei problemi dell’Italia in tutte le loro forme: economiche, politiche e morali. Nel corso del viaggio ho scritto un libro per i lettori italiani - «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» – che ho poi arricchito e rivisto per il lettori inglesi con il titolo «Good Italy, Bad Italy» mentre stavo preparando il «Girlfriend in a Coma». 

 

E’ stato un viaggio affascinante, spesso divertente, ma ha avuto su di me due conseguenze: mi ha reso più pessimista, e ancora più preoccupato per le malattie dell’Occidente. 

 

Sono diventato più pessimista perché mi sono reso conto della forte resistenza al cambiamento e alle riforme in Italia, da parte di gruppi di interesse di tutti i tipi. E’ stata questa resistenza il maggior problema del Presidente Monti durante l’ultimo anno. Monti pensa che se fosse riuscito a persuadere questi gruppi di interesse - sindacati, grandi aziende, ordini professionali o pensionati -, che ciascuno doveva fare qualche concessione e rinunciare a qualche privilegio per il bene comune, questo sarebbe accaduto. Un po’ come avviene durante i negoziati per il disarmo, quando i Paesi accettano di rinunciare ai loro carri armati e missili. Ma, almeno per ora, non ha funzionato. Non è successo perché Monti dipendeva dal sostegno parlamentare di partiti che rifiutavano il cambiamento per assecondare il nocciolo duro dei loro elettori, o anche solo per farsi dispetto a vicenda. Non ha funzionato anche perché tutti sapevano che il governo di Monti era provvisorio: bastava aspettare e «far passare la nottata», come si suol dire. Perfino gli enti locali hanno usato questa tattica, rinviando l’applicazione di nuove leggi visto che sapevano che il voto era imminente. 

 

Questo mi ha reso pessimista per una seconda ragione. Per anni, fino a che la crisi del mercato dei titoli di Stato del 2011 ha costretto l’élite italiana a riconoscere i veri malanni economici del Paese, avevo notato una forte e diffusa tendenza a rifiutare la realtà, a ricorrere a dati falsi o datati per rassicurarsi che il Paese fosse in realtà più forte che debole: un alto tasso di risparmio privato (in realtà dimezzato), famiglie ricche (ma provate a vendere le case che sostengono questa «ricchezza»), un forte settore manifatturiero (che produce solo un settimo del Pil e diventa sempre meno competitivo), l’innata creatività italiana (mentre la meritocrazia è stata distrutta e i neolaureati più creativi emigrano a Berlino, Londra e New York). 

 

Lo choc della crisi del debito sembrava aver cambiato questa percezione. Ma lo ha fatto davvero? Se i gruppi di interesse continuano a bloccare con tanta determinazione le riforme, probabilmente ritengono che in fondo il cambiamento non è necessario. Nei miei momenti di ottimismo mi dico che stanno solo guadagnando tempo, sperando di essere più forti rispetto ad altri gruppi di interesse dopo le elezioni del 2013. Ma può darsi che sperino semplicemente in qualcosa di magico che accada nel frattempo ed eviti la necessità di cambiare: una cura miracolosa proposta da Mario Draghi alla Bce; l’improvvisa disponibilità della Germania a pagare i debiti dei Paesi dell’Europa del Sud, o qualcos’altro. La verità continua a venire evitata.

 

Queste tendenze – quella dei gruppi di interesse a difendere i loro titoli e privilegi e quella delle élite che cercano di non affrontare la realtà – non sono un’esclusiva italiana. Problemi di questo genere esistono anche nel resto del mondo. Anche l’America che aspetta di vedere come il Congresso risolverà il problema del «fiscal cliff» che minaccia la sua economia dopo il 1 gennaio 2013, vede le lobby difendere i loro privilegi e le élite negare la realtà. La differenza con l’Italia è che qui questo processo è andato avanti a lungo, una ventina d’anni, mentre le altre forze economiche e sociali andavano degenerando. L’America e la Gran Bretagna sono solo all’inizio di questo processo, e continuo a sperare che riusciranno ad evitarlo. L’Italia invece, come dice il titolo del mio film, è finita in coma.

 

Si risveglierà? La decisione di Berlusconi di presentarsi alle elezioni sfidando l’austerità di Monti fa credere che il rifiuto della realtà resti forte, almeno nella destra. Le elezioni saranno un test cruciale, forse addirittura storico. Saranno la prova di quanto i partiti e le lobby che li appoggiano hanno veramente compreso la natura dei problemi italiani e capito che continuare le vecchie politiche non è una soluzione. Sarà la prova per comprendere se la domanda di nuove idee da parte degli elettori, di nuova responsabilità e anche di facce nuove verrà soddisfatta. E, per quel che riguarda l’Occidente, sarà un test per mostrare se la nostra fiducia nella capacità delle democrazie di correggere gli errori ha un fondamento. Il Presidente Monti ha ragione a dimettersi e anticipare questo esame. È un test che non può e non deve essere più rimandato. 

da - http://lastampa.it/2012/12/10/cultura/opinioni/editoriali/un-paese-che-rifiuta-la-realta-VWctYjX6PXo5opfRdGTDgK/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 18, 2012, 06:03:00 pm »

Editoriali
18/12/2012 - le idee

Il Giappone e la sindrome cinese

Bill Emmott

M i sentivo un po’ strano. Domenica pomeriggio, grazie a un collegamento video, dal cuore della campagna inglese sono stato trasportato dall’altra parte del mondo e anche nel mio passato. 

Ho preso parte a un dibattito televisivo sulle elezioni in un Paese in crisi economica e politica – e, no, non era l’Italia bensì il Giappone. 

 

Il primo commento dei presentatori del programma sulla tv di Stato giapponese, la Nhk, è stato il più inesatto: «Gli occhi del mondo sono puntati sul Giappone», hanno detto. Non lo sono: poche persone, in Europa almeno, sapevano che domenica si votava in Giappone e ad ancora meno ne importava qualcosa. Abbiamo le nostre crisi, sia politiche che economiche, di cui preoccuparci, e il Giappone non accende più la nostra immaginazione come quando vivevo lì come corrispondente estero, negli Anni 80. Eppure, il voto è stato piuttosto drammatico, e contiene alcuni segnali importanti per noi europei.

 

Il primo messaggio è che quando un Paese è da vent’anni in difficoltà economiche, vale per il Giappone proprio come per l’Italia, ecco, la politica può diventare estremamente volatile. Tre anni fa, il partito che aveva dominato la politica giapponese per mezzo secolo, il Partito liberal democratico (Ldp), era stato umiliato alle elezioni, scacciato da un partito nuovo, più giovane, apparentemente più progressista, il Partito democratico del Giappone (Dpj). Gli esperti scrissero che l’Ldp era finito. Ora, tre anni dopo, l’Ldp torna al potere con un voto a valanga ancora più massiccio di quello grazie al quale fu sconfitto nel 2009. Silvio Berlusconi può senza dubbio essere un po’ rassicurato dal risultato del Giappone.

 

Novità e giovinezza sono belle cose, indica l’esempio giapponese, ma se un governo non mostra competenza, chiarezza ed efficienza, in particolare di fronte a una catastrofe straordinaria come lo tsunami che nel marzo 2011 uccise circa 20.000 persone e causò l’incidente nucleare all’impianto di Dai-ichi, a Fukushima, che non ha ucciso nessuno, ma spaventato milioni e di persone ed è costato miliardi, sarà buttato fuori alla prima occasione.

 

Il secondo messaggio, tuttavia, è che singoli temi popolari, come il sentimento anti-nucleare, per gli elettori sono meno importanti della competenza. Perché l’Ldp, che ora è assai potente in Parlamento, è il gruppo più filo-nucleare in Giappone, ed è il partito che può più giustamente essere incolpato per la relazione troppo stretta e negligente tra il governo e l’industria nucleare di Fukushima che ha reso possibile l’incidente.

Vi è, tuttavia, un terzo messaggio che può servire a spiegare perché la competenza e la professionalità alla fine hanno convinto gli elettori a dare all’Ldp un’altra possibilità. Ed è che la forza più potente in ogni elezione è la paura. Nel caso del voto giapponese del 2012, c’è stata la paura di un inarrestabile declino economico, perdurando l’incompetenza del governo del Dpj e le continue faide interne. Ma era la Cina la paura principale.

 

La Cina non è in procinto di invadere o attaccare il Giappone. Ma durante l’anno scorso la nuova superpotenza mondiale è diventata sempre più assertiva, aggressiva perfino, sulle sue storiche rivendicazioni territoriali nei mari che circondano le sue lunghe coste, in particolare il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale. Rivendicazioni che a noi in Europa, a migliaia di chilometri di distanza, sembrano piuttosto assurde, dal momento che riguardano solo un sacco di rocce e scogli disabitati, ma si tratta anche di risorse petrolifere e di gas sottomarino. Si è tentati di pensare che l’importanza di queste controversie sia stata esagerata, e che il buon senso prevarrà e che presto sarà raggiunto una sorta di ragionevole compromesso.

 

Non è questa la sensazione in Asia, soprattutto nei piccoli Paesi attorno al Mar Cinese Meridionale come le Filippine, e nemmeno in un Paese grande come il Giappone. Perché a loro è chiaro che queste rivendicazioni territoriali non sono solo sulle risorse e non sono assurde. Sono importanti per la Cina sia per motivi di prestigio nazionale sia per strategia militare. E formulando le sue rivendicazioni in maniera sempre più intransigente e assertiva, la Cina sta cercando di fare quello che gli israeliani fanno quando costruiscono nuovi insediamenti nei territori occupati dei palestinesi: stanno creando una nuova realtà sul terreno, o, nel caso della Cina, sul mare.

 

Il Giappone non vede una fine scontata della pressione cinese e del suo appetito per una «nuova realtà». Due giorni prima delle elezioni politiche, un aereo di vigilanza cinese ha violato lo spazio aereo giapponese sopra le isole contese, per la prima volta da quando le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono state ripristinate nel 1972. È come se la Cina stesse facendo notare al Giappone che le isole contese non possono essere difese e quindi sarebbe meglio se il Giappone semplicemente accettasse che oggi la Cina è responsabile della zona e lì può fare quello che vuole.

 

Questo è ovviamente inaccettabile per il Giappone che possiede le isole contese in accordo ai termini del trattato di pace di San Francisco del 1951, in base al quale i vincitori della Seconda guerra mondiale sistemarono le questioni in sospeso, e che in ogni caso le deteneva fin dal 1895, senza che nessuno, prima, le avesse ufficialmente rivendicate. Il governo del Dpj si è mostrato fermo sulla questione, ma messo sotto pressione ha vacillato. L’Ldp durante la sua campagna elettorale ha promesso una linea più dura. Alla fine, gli elettori giapponesi sembrano aver deciso che, per quanto non si fidino dell’Ldp per tutta la corruzione del passato, si fidano ancora meno della Cina.

 

Ciò non significa che ora ci sarà un deliberato scontro tra i due giganti economici dell’Asia. Ma significa che entrambi probabilmente non scenderanno a compromessi, cosa che aumenta il rischio di uno scontro accidentale al largo del Mar Cinese Orientale. Se qualcosa del genere dovesse accadere metterebbe gli Stati Uniti in una posizione scomoda, perché a norma del Trattato di Sicurezza nippo-statunitense sono tenuti a difendere il territorio giapponese in caso di attacco.

 

Alla Cina va bene che il Giappone ora abbia un governo più nazionalista e piuttosto di destra. Infatti, mentre la verità è che è stata la Cina a mostrarsi aggressiva, cercando di cambiare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e in quello orientale, la sua posizione ufficiale è che è stato il Giappone a provocare la disputa. Ora, userà ogni occasione per ritrarre il nuovo governo come una sorta di ritorno al passato militarista del Giappone.

 

Alla fine del mio dibattito televisivo post-elettorale sulla Nhk, a tutti gli intervenuti è stato chiesto di scrivere una parola o una breve frase su cui pensavano che il nuovo governo giapponese dovesse concentrarsi. L’hanno chiesto a me per primo e ho scritto la semplice parola «economia», sostenendo che se il nuovo governo non risolverà i problemi economici del Giappone, non sarà in grado di fare progressi nemmeno negli altri campi.

Poi è toccato al partecipante cinese, un illustre ex ambasciatore chiamato Wu Jianmin, un uomo che da giovane era l’interprete francese per il primo ministro Zhou Enlai durante l’era di Mao. Ha scritto «sviluppo pacifico», dicendo che il governo giapponese ha bisogno di concentrarsi su questo e non causare alcun problema internazionale. L’implicazione era intelligente e chiara: egli sosteneva che il Giappone era l’aggressore, con il rischio di ritorno al militarismo. Questa è una sciocchezza. Ma la Cina moderna è altrettanto abile nell’uso della propaganda come durante i giorni del presidente Mao.

 

Traduzione di Carla Reschia 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/18/cultura/opinioni/editoriali/il-giappone-e-la-sindrome-cinese-tYqakDRvhfAv5ImnWz6lOL/pagina.html
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:21:22 pm »

Editoriali
15/01/2013

Le questioni che il Pd non può evitare

Bill Emmott

A distanza di oltre un mese, forse non è sorprendente che il mondo esterno, sia in Europa che negli Stati Uniti, non abbia ancora davvero iniziato a prestare molta attenzione alle elezioni in Italia. Ma a questo osservatore straniero sembra che l’attenzione del mondo finora sia stata piuttosto contraddittoria. Da un lato, una sorta d’inorridita perplessità per l’invadenza della campagna di Silvio Berlusconi, insieme con una certa preoccupazione per la posizione apparentemente debole nei sondaggi del preferito dagli stranieri, Mario Monti. Ma d’altra parte, lo spread, un indice certo dell’umore degli investitori verso l’Italia, a livelli molto benigni e rassicuranti.

 

Sarà fondamentale non essere troppo rilassati o rassicurati dallo spread deliziosamente basso, se rimarrà così con l’approssimarsi del voto. 

 

L’Italia è stata favorita da una fase mondiale di ottimismo sui mercati finanziari, spinti soprattutto da pareri positivi sulle prospettive per l’economia degli Stati Uniti e da una risoluzione del braccio di ferro sulla politica di bilancio degli Stati Uniti, ma anche dai pareri positivi sulla stabilità dell’euro-zona. Ma i mercati finanziari sono volubili. Possono cambiare umore molto rapidamente. Questo cambiamento di umore potrebbe essere provocato dagli eventi in Grecia, in Spagna o in Germania, per esempio. O anche dalle elezioni italiane.

 

I media stranieri sono colpevoli quanto quelli italiani nella loro ossessione per Berlusconi. I loro titoli o i loro sommari sottolineano doverosamente come lui e i suoi fallimenti nel governo in oltre otto degli ultimi dieci anni siano al centro della situazione economica e politica in Italia. Ma poi il volume della loro copertura finisce per giocare a suo favore, dandogli l’attenzione che è stato così bravo a utilizzare come strumento politico. Malgrado le molte menzogne dette durante il suo incontro televisivo con Michele Santoro, ha raggiunto il suo obiettivo: attenzione.

 

Tutto questo è abbastanza prevedibile. Ciò che si sta rivelando più difficile da analizzare per gli osservatori stranieri è quello che dovrebbero capire esattamente dalla lista del senatore Monti e dei suoi sostenitori politici. E cosa dovrebbero fare di Pier Luigi Bersani, che si sentono obbligati a descrivere come un «ex comunista», e che tuttavia, se lo spread è, dopo tutto, un’indicazione, essi ritengono attuerà una politica fiscale responsabile.

 

Non si tratta solo degli osservatori stranieri, naturalmente. Ma, ancora, l’affermazione di Corrado Passera che non si candida a causa del modo in cui le liste vengono spartite ha catturato l’attenzione internazionale, perché, come ex banchiere di rilievo internazionale è abbastanza noto, soprattutto alla City e a Wall Street. E siamo preoccupati come molti italiani di ogni vicinanza politica al Vaticano. Il senatore Monti resta molto stimato all’estero, e sicuramente molti hanno ancora grandi aspettative su di lui. Ma c’è un po’ di delusione e di preoccupazione.

 

Bersani, per contro, è una figura ampiamente sconosciuta a livello internazionale e questo è probabilmente un vantaggio. Sappiamo che si è speso per una cauta liberalizzazione come ministro di alto livello nel governo Prodi del 2006-08. Sappiamo anche, e si noti, che la lista del Partito Democratico rispecchia la sinistra più di quanto non facciano il centro o il blocco Renzi. Quindi c’è una certa preoccupazione. 

 

Questa preoccupazione sarà stata certo un po’ mitigata dall’intervista rilasciata da Stefano Fassina al Financial Times del 13 gennaio. Sembrava confermare che un’amministrazione Bersani sarebbe più centrista che di sinistra, favorevole al patto fiscale europeo e intenzionata ad «aprire il mercato delle assicurazioni, delle farmacie e dei servizi legali». Questo è un programma piuttosto limitato per la liberalizzazione, che riecheggia la riforma Bersani del 2006-08, ma è almeno un inizio.

 

Su La Stampa, il 4 dicembre avevo posto sei domande al signor Bersani, intese ad accertare se egli comprende veramente la natura dei problemi dell’Italia. Perché pensa che la crescita economica in Italia sia stata così lenta? Come si creano posti di lavoro? Perché tanti italiani emigrano? Capisce la responsabilità della sinistra per la distruzione della meritocrazia?

 

Ovviamente né lui né qualcuno del suo staff ha risposto. Ma le risposte a queste domande sono fondamentali se gli italiani e il mondo esterno devono avere fiducia in un governo guidato da Bersani. Sul sito web del mio film, www.girlfriendinacoma.eu domani inizierò un conto alla rovescia fino a quando il signor Bersani risponderà, almeno ad alcune delle mie domande. Fino a quando non lo farà e fino a quando le risposte non saranno convincenti, ci sarà un’ombra sulle prospettive per il prossimo governo, un’ombra sulla fiducia internazionale per Bersani medesimo.

 

Non è un caso che la non-così-segreta speranza internazionale sia che il senatore Monti esca bene dal voto, tanto da imporre il suo ritorno in Palazzo Chigi dopo il 24 febbraio. Come cresce la consapevolezza dell’improbabilità che ciò accada, cresce la preoccupazione su ciò che l’onorevole Bersani pensa davvero, sa e capisce.

 

Traduzione di Carla Reschia 

 da - http://lastampa.it/2013/01/15/cultura/opinioni/editoriali/le-questioni-che-il-pd-non-puo-evitare-mw1rbgICIVmGgrJv1dZ8TN/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:20:34 pm »

Editoriali
01/03/2013

Il messaggio del voto all’Europa

Bill Emmott

Gli stranieri, in particolare i giornalisti e i politici, amano le battute e le semplificazioni, ecco perché molti sono ricorsi alla parola «pagliacci» per descrivere lo sbalorditivo risultato elettorale in Italia, dal tedesco Peer Steinbrück alla rivista inglese, The Economist. 

 

Ma è un grosso errore farsi beffe di questo risultato, o di Beppe Grillo personalmente. L’Europa, come l’Italia, ha bisogno invece di prenderlo molto sul serio.

 

Benché l’esito sia stato notevole per il modo in cui ha disatteso le prime previsioni di voto e nel pasticcio parlamentare che ha prodotto, non è stato davvero sorprendente. Molti elettori erano in crisi, crisi finanziaria; molti elettori, a volte gli stessi che erano in crisi, a volte diversi, avevano un disperato bisogno di cambiamento, di speranza in qualcosa che potesse infine cambiare la politica italiana o il governo italiano.

 

Questa situazione è particolarmente evidente in Italia, dove la sofferenza e il desiderio di cambiamento sono particolarmente acuti. Ma accade anche in altri paesi. Così, quando le elezioni premiano un candidato che ha ascoltato il dolore e si è concentrato solo su un modo per alleviarlo, e un altro candidato che si trova praticamente da solo a parlare di cambiamento, gli altri Paesi europei devono prestare attenzione. 

 

Il fatto che il primo sia Silvio Berlusconi e il secondo Beppe Grillo è un peccato per l’immagine internazionale dell’Italia, ma pazienza. Quell’immagine passerà.

 

Il messaggio serio per l’Europa non sta nel dettaglio dei programmi politici di Grillo o di Berlusconi, né in alcun pericolo immediato per l’euro. Il messaggio grave sta nel fatto che esigere austerità fiscale, anno dopo anno, in tutti i Paesi dell’Eurozona, non può funzionare a lungo in termini politici a meno che non si accompagni a un messaggio positivo di speranza, di nuove opportunità, di un futuro più luminoso per i figli e i nipoti.

 

E’ il messaggio che il presidente Mario Monti non è riuscito a trasmettere. Né Pier Luigi Bersani, tanto più che il suo Pd incarnava i vecchi modi di fare politica. Ma è anche il problema con l’incalzante messaggio che viene da Berlino e dal cancelliere Angela Merkel: la disciplina di bilancio, al fine di raggiungere la competitività non è un messaggio che ispiri o motivi le persone. Può andar bene per un anno o due. Ma la crisi dell’euro sta arrivando al suo terzo anno.

 

Impari o meno la lezione, il mondo ora guarderà l’Italia, e in particolare a Berlusconi e a Grillo, in uno stato di nervosa fascinazione. Chi conosce la politica italiana può fare un ragionevole tentativo di prevedere come si comporterà Berlusconi: sfrutterà la sua posizione politica per il massimo guadagno e starà già cercando di capire quali deputati e senatori di altri partiti, in particolare del M5S, potrebbero essere persuasi a cambiare bandiera e ad unirsi al Pdl.

 

Nessuno tuttavia, all’estero certamente, ma probabilmente anche in Italia, sa prevedere il comportamento di Grillo. Forse nemmeno lui potrebbe, dal momento che questa è una situazione nuova anche per lui, e si starà chiedendo come diavolo farà a mantenere il controllo dei suoi 162 parlamentari, della maggior parte dei quali non sa quasi nulla. Certo, ha necessità di dettare l’agenda, concentrandosi su alcune aree chiave della riforma che può esigere dal Pd e dal Pdl. Ma quali e con quali rischi? Queste sono le domande più insidiose.

 

Naturalmente è un momento di pericolosa instabilità, e, naturalmente, i mercati finanziari hanno ragione a essere preoccupati per l’Italia. Tuttavia, dato il discredito della classe politica in questi ultimi anni, dato il forte senso d’irrealtà o di negazione che ha così spesso dominato il dibattito politico ed economico, è anche un momento molto eccitante.

 

Forse è più facile da dire per un non-italiano che per un italiano. Noi non dobbiamo convivere con le conseguenze. Ma se l’Italia davvero deve svegliarsi, allora l’allarme probabilmente deve suonare un po’ come questo, tanto forte è stata la resistenza dei partiti politici, delle federazioni di grandi imprese e dei sindacati alla necessità di un cambiamento. In passato allarmi di questo tipo sono stati ignorati, o tacitati e potrebbe accadere di nuovo. Se ciò dovesse accadere, tuttavia, gli effetti potrebbero essere davvero gravi. Non ci sarebbe alcun conforto nel fatto che siano stati opera di un pagliaccio.

 

Traduzione di Carla Reschia 

da - http://www.lastampa.it/2013/03/01/cultura/opinioni/editoriali/il-messaggio-del-voto-all-europa-5UqqVU8OFN2FEr9Y4rkCCK/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Aprile 10, 2013, 06:39:20 pm »

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Crisi, Emmott: “Italia al collasso, Beppe Grillo è un rantolo di fine corsa”

L'ex direttore dell'Economist e autore del docu-film "Girlfriend in a coma" al Fatto Quotidiano: "Se mi chiedi parole per raccontare questa crisi, la prima che mi viene in mente è la collusione, la connivenza. È come se larga parte del Paese fosse stato socio occulto di questa deriva"

di Antonello Caporale
10 aprile 2013



“Se state annegando in una crisi che definite senza precedenti è perché gli argini della società civile non hanno retto. In Italia si è verificato un collasso di tutti gli organi vitali della comunità: prima la politica certo. Ma poi la Chiesa, poi la famiglia, infine
l’informazione. Un birillo caduto sull’altro, un effetto domino disastroso. Non c’è istituzione salva, integra, degna. Alla fine, del vostro Paese resta il corpo scheletrito, ridotto alla fame. Lo scuoti ma non ricevi segnali di vita. Lo osservi e lo trovi immobile, insensibile a qualunque sollecitazione. Il voto a Beppe Grillo non è altro che un sussulto, un rantolo di fine corsa, un moto di rabbia e impotenza insieme”.

In coma. Se il termine della vita è la morte, il coma è quell’anticamera, è il momento che lo precede, la malattia che invade ogni cellula e la immobilizza, lo stadio che annuncia la probabile fine corsa. La parola che viene in mente a Bill Emmott, co-autore del film “Girlfriend in a Coma” scritto insieme ad Annalisa Piras che lo ha diretto e prodotto. Dal coma si può uscire, ma è una impresa titanica. Ci aspetteranno anni di dolori e a dircelo è un amico dell’Italia, una persona che si sente fidanzato con l’Italia: la ama ma non la riconosce più. Emmott è stato il primo osservatore oltre frontiera ad accorgersi di un problema, divenuto poi pericolo, chiamato Silvio Berlusconi, il primo a metterlo in prima pagina catalogandolo come “unfit”: inadatto, inadeguato a governare. Emmott dirigeva l’Economist a quel tempo e quella copertina sollevò una nube così alta che ancora adesso si scorge dietro la sua sagoma di londinese mite, col pizzetto e il passo del gentlman. Bill torna sempre qui da noi. Due, tre volte l’anno. Dalla Toscana divaga per la penisola: “in treno è facilissimo. Con Frecciarossa raggiungi ogni città quando vuoi.

Da noi non esistono treni così veloci (se si esclude il Londra-Parigi)”. È il primo encomio in tanta desolazione. “Potrei risponderti che il treno veloce non è una questione dirimente. Non cambia la faccia del tuo Paese”. Che conosci così bene da definirlo come una tua girlfrend.
Del resto “Girlfrend in a coma”,  è l’ultimo amaro atto d’accusa nel quale riepiloghi vent’anni di storia, la ricomponi attraverso le facce del potere, sfingi spesso immobili, occhi di vetro che assistono all’oltraggio della legalità e della Costituzione. Ma il tuo film recinta la vicenda berlusconiana dentro l’opera collettiva di una classe dirigente collusa e nel panorama asfissiante di una società che mormora, non parla, ama le mezze verità e le mezze vergogne, si produce in mezzi inchini e mezzi dinieghi.

Bill, non abbiamo altro da fare che morire? Possibile che non scorga altro, la società italiana è complessa e possiede energie ancora vitali secondo me. “Tutto quel che è accaduto non è stato un caso, non un incidente della storia. La forza pirotecnica del berlusconismo, e le smargiassate, e la grandiosità dei suoi conflitti e anche del suo potere che si è espanso e ha attecchito profondamente nella cultura del Paese, è il risultato di una larga compromissione della borghesia, degli intellettuali. Se mi chiedi parole per raccontare questa crisi, la prima che mi viene in mente è la collusione, la connivenza. È come se larga parte del Paese fosse stato socio occulto di questa deriva. Ho detto che la condizione di salute mi sembra peggiore di quel che una veduta meno prossima della mia possa intuire. Non c’è solo crisi politica e non è questione di recessione economica. C’è di più”. In Inghilterra non sarebbe stato possibile, ho capito bene? “Abbiamo avuto leader carismatici, dotati di una forza particolare. Chi può dimenticare il carisma di Churchill? E oggi come non si può rievocare il governo e il pugno della Thatcher? Perfino il mandato di Tony Blair è stato sostenuto da un ampio movimento di opinione favorevole. Ma questi tre signori hanno sempre avuto di fronte contropoteri eccellenti, una bilancia che distribuiva su diversi pesi gli interessi in campo. L’informazione britannica è molto più rigorosa e tenta sempre di fare il proprio mestiere. Puoi dirmi che la Rai è come la Bbc?”. No, la Rai non è affatto la Bbc: “Ci troviano d’accordo, allora. E quale altro potere ha retto in Italia durante questo ventennio? C’è un parallelismo significativo tra la decadenza della politica, l’appannamento del suo senso etico, e l’ondata di malcostume che ha piegato la Chiesa, infiltrando dentro quella comunità l’odore dei soldi e della corruzione. Un pilastro della società civile è così venuto a mancare e proprio nel momento in cui c’era più bisogno che restasse in piedi. Ecco perchè la crisi da voi è più profonda, più seria e più grave”.

Una società più debole e più incattivita: “Rabbia, sa esprimere solo la rabbia. Il voto al Movimento 5 Stelle altro non è che una esplosione legittima ma piuttosto confusa di ribellione”. Ho visto il tuo film. Eri al Quirinale, mi pare, e la cinepresa ha fatto una panoramica degli invitati a una cerimonia di Stato. “Quel popolo di potenti radunati al Quirinale è la cornice dentro la quale l’anomalia si è sviluppata.
Non ci sono innocenti, questo mi pare assodato”. Siamo tutti “unfit”? “Di sicuro un gran numero lo è”.

dal Fatto Quotidiano del 9 aprile 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/10/crisi-emmott-italia-al-collasso-beppe-grillo-e-rantolo-di-fine-corsa/558165/
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« Risposta #42 inserito:: Giugno 09, 2013, 11:01:45 am »

Editoriali
09/06/2013

Tra Usa e Cina un futuro fianco a fianco

Bill Emmott


A tutti noi piacciono le narrazioni semplici. Eppure anche i nostri racconti preferiti spesso si contraddicono l’un l’altro. E’ idea comune che quando sorge un nuovo potere ci sarà inevitabilmente da mettere in conto un conflitto con i poteri dominanti esistenti. Il centenario, che cadrà l’anno prossimo, dell’inizio della prima guerra mondiale tra la Germania e le vecchie potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ha convinto molti che oggi questo rischio esista tra la Cina e gli Stati Uniti.

 

Un’altra narrazione, particolarmente amata dai giornalisti, e in contraddizione con la prima, è l’idea che la diplomazia personale tra i leader di queste grandi nazioni sia ciò che fa la differenza e determina se ci sarà uno scontro o una collaborazione. Se solo Guglielmo di Germania e re Giorgio V d’Inghilterra si fossero incontrati a giugno o luglio del 1914, come hanno appena fatto nel loro vertice californiano di due giorni il presidente americano Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping, forse non sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale poche settimane più tardi. E la storia del 20° secolo sarebbe potuta essere completamente diversa.

Le storie parallele sono come una gara tra un dramma greco classico, in cui la tragedia deve inesorabilmente accadere nonostante gli avvertimenti del coro, e un classico film di Hollywood in cui gli eroi salvano la situazione conducendo al lieto fine. 

 

La realtà, tuttavia, è diversa dalle tragedie greche e anche dai film di Hollywood. E’ più imprevedibile, ma anche più rassicurante. Questo è il modo di valutare le relazioni Usa-Cina, e non solo il fatto che il presidente Obama e il nuovo capo di Stato cinese si siano seduti insieme in maniche di camicia e senza cravatta sotto il sole californiano raccontandosi qualche barzelletta.

 

C’è abbastanza posto nel mondo perché queste due superpotenze coesistano l’una accanto all’altra e evitando i conflitti. Perché, mentre durante la Guerra fredda l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti avevano ideologie assai distanti tra loro e modi molto diversi di concepire la realtà, lo stesso non vale per l’America e la Cina. In realtà, nonostante gli uni abbiano una democrazia e gli altri un regime autoritario a partito unico, gli americani e i cinesi hanno una visione molto simile del mondo.

 

Questo è dimostrato, infatti, dal modo in cui, nonostante i reciproci timori e sospetti, sembrano piuttosto ammirarsi a vicenda. Entrambi i paesi hanno la cultura dell’impresa individuale, del capitalismo, del desiderio di arricchirsi e di reinventarsi in continuazione. In Cina quella cultura è stata messa in ombra dal comunismo del presidente Mao Xedong ma sin dai primi Anni 80 è in ripresa e si sta sempre più riaffermando.

Entrambi sono anche Paesi prevalentemente assorbiti dai loro affari interni.

 

La Cina si autodefinisce il «regno di mezzo» perché per tantissimi secoli si è ritenuta al centro del mondo. Eppure, nella sua lunga storia non è mai stata una potenza imperiale o coloniale, tranne che nei confronti dei territori ai propri confini, come il Tibet. Vuole proteggere il proprio territorio, cosa che a volte ha significato espanderlo.

L’America, in fondo, è uguale: protetta dai suoi due oceani, ha davvero sempre voluto essere lasciata in pace, fin dai tempi di George Washington, che mise in guardia i suoi connazionali contro «i coinvolgimenti stranieri». Dal 1941 questo non è stato più possibile e gli Stati Uniti da allora naturalmente si considerano una potenza globale. Ma non si sono mai trovati a loro agio nel ruolo. Non sono mai stati un impero nel senso europeo della parola: il loro predominio è fatto di influenza, di regole, di idee, piuttosto che di territori coloniali.

 

Certo, l’America è una potenza più idealista di quanto sia mai stata e probabilmente sarà nel corso di questo 21° secolo la Cina grazie alla sua forza crescente. E’ improbabile che ci sia un insieme di «valori cinesi» o principi politici che la Cina cercherà di imporre agli altri. Ma anche l’America ha oscillato tra una politica estera fondata sugli ideali e una più dura realpolitik, e di solito quest’ultima ha avuto il sopravvento.

Per questo motivo non occorre immaginare come inevitabile la tragedia greca, ovvero lo scenario da 1914 di uno scontro inevitabile. I sorrisi tra il Presidente Obama e il presidente Xi erano genuini e accoglienti, ma non perché il loro rapporto possa disinnescare la bomba a orologeria nel rapporto Usa-Cina. Bensì perché quella bomba a tempo, in quanto tale, non c’è.

 

Ci sono, tuttavia, e sono reali e importanti, delle tensioni che regolarmente devono essere risolte. Allo stato delle cose queste comprendono reciproche accuse di cyber-spionaggio o cyber-attacchi, e, più pericolose, delle tensioni tra la Cina e gli alleati asiatici degli Stati Uniti, il Giappone e le Filippine, per le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale.

E queste questioni territoriali in effetti hanno qualcosa che ricorda il 1914. La Prima guerra mondiale, ricordiamocelo, non è iniziata a causa di uno scontro diretto tra Germania, Francia e Gran Bretagna, ma perché l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, ha fatto sì che gli austro-ungarici dichiarassero guerra alla Serbia.

 

In modo analogo, uno scontro in mare tra la Cina e le Filippine o, peggio ancora, uno scontro tra Cina e Giappone, ha il potenziale per costringere le grandi potenze a confrontarsi. E queste rivendicazioni territoriali riguardano in realtà il controllo strategico degli oceani, piuttosto che le isole specificamente oggetto della controversia. Una questione importante al riguardo è se la Marina degli Stati Uniti dovrebbe essere libera di pattugliare attorno alle coste della Cina, o se dovrebbe invece essere ricacciata verso le sue basi a Guam o alle Hawaii, o direttamente verso la madrepatria.

 

I segnali che arrivano su queste controversie, tuttavia, oggi sono più incoraggianti rispetto a sei o 12 mesi fa. Sia la Cina che l’America sembrano capire quanto alta è la posta in gioco. Entrambe hanno cercato di calmare i toni. La settimana scorsa a Singapore, durante una grande conferenza su difesa e sicurezza, è emerso che le navi da guerra cinesi stanno navigando all’interno delle acque territoriali di Guam, il che implica che la Cina ha deciso di non mettere al bando le navi americane bensì di emularle.

 

Quando si tratta di grandi potenze non ci può essere alcun dubbio: più si parla meglio è e la questione cruciale è avere regolari comunicazioni da ambo le parti circa le intenzioni, gli interessi e le pre-occupazioni. Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti e la Cina hanno enormemente ampliato la quantità di tempo che trascorrono a parlare tra loro e questo primo grande vertice tra i presidenti Obama e Xi ne è stata una felice conseguenza.

Non è necessario che il 21° secolo sia sanguinoso e tragico come il 20°, e uno scontro tra la Cina e l’America è largamente evitabile. Da un punto di vista europeo questo è desiderabile così come il fatto che i presidenti abbiano avuto un così lungo vertice. Quello che è, o dovrebbe essere, più preoccupante è che nessuno dei due sembra desiderare di spendere così tanto tempo ed energie a parlare con gli europei. Noi evochiamo il passato, non il futuro.

Traduzione di Carla Reschia 

da - http://www.lastampa.it/2013/06/09/cultura/opinioni/editoriali/tra-usa-e-cina-un-futuro-fianco-a-fianco-RvcZD8q0X9S8YUpacWu4ML/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Luglio 21, 2013, 10:02:17 am »

Editoriali
21/07/2013

Letta è ok ma la City resta scettica

Bill Emmott

Non c’è nulla che noi scettici, sospettosi e talvolta un po’ insulari britannici amiamo di più di chi, arrivando a farci visita, parla la nostra lingua, e non solo in senso lessicale. È senz’altro il caso del presidente Enrico Letta impegnato questa settimana nel suo Grand Tour delle istituzioni londinesi, dal numero 10 di Downing Street ai media internazionali come il «Financial Times» e «The Economist», dagli investitori e analisti finanziari della City agli intellettuali e agli opinionisti . 

Perché alla fine, sembrava proprio uno di noi, con il suo ottimo inglese, i modi eleganti, le sue idee sul libero mercato. Il suo colpo da maestro, nella capitale che di recente ha celebrato il funerale di Margaret Thatcher, è stato quello di annunciarci per l’autunno il suo piano per la privatizzazione del patrimonio pubblico. Se c’è una cosa che potrebbe rendere credibili ai cinici finanzieri della City tutti i suoi proclami sulla riduzione del debito pubblico italiano, la riforma della politica e la liberalizzazione dell’economia, ecco, sarebbe esattamente un piano di privatizzazione.

Eppure, meglio non sognare troppo. Perché un’altra caratteristica britannica è che noi seguiamo le notizie internazionali, soprattutto leggendo il FT.

Questo significa che, dietro la calda accoglienza (in una per noi insolita ondata di caldo estivo) e i sorrisi pieni di ottimismo di quanti l’hanno accolto, aleggiava un bel po’ di scetticismo. L’attenzione era puntata soprattutto sullo strano caso di Alma Shalabayeva.

Il Kazakistan ha gettato un’ombra sulla visita a Londra di Letta, molto più di quanto abbia fatto il comportamento incivile e barbaro di Roberto Calderoli. Non che abbia giovato all’immagine internazionale dell’Italia, ma praticamente nessuno a Londra ha mai sentito parlare di Calderoli e chi ne sa qualcosa pensa la Lega Nord sia sgradevole ma irrilevante. Nessuno, peraltro, aveva mai sentito parlare della signora Shalabayeva e di suo marito Mukhtar Ablyazov, ma la loro storia ha avuto grande risonanza. 

«Consegna speciale», così l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha definito questa deportazione, è un termine che fa male a Londra, giacché riteniamo che il nostro governo sia stato coinvolto in qualcuna di queste procedure extragiudiziali illegali durante il passato decennio, durante la «guerra al terrorismo» guidata dagli Stati Uniti. Ma abbiamo anche una fede particolarmente radicata nello Stato di diritto, e nel rispetto dell’asilo politico.

Inoltre, è appena giunta a termine in Gran Bretagna un’annosa vicenda riguardante l’estradizione di un islamista radicale giordano, Abu Qatada, dopo oltre un decennio di battaglie legali per poterlo espellere e rimpatriare in Giordania dove doveva essere processato. A Londra la gente si chiede, se ci sono voluti dieci anni per ottenere il diritto di espellere Abu Qatada, come mai ha potuto la polizia italiana espellere la signora Shalabayeva e sua figlia nel giro di due giorni, senza alcuna possibilità di appello?

Il caso kazako, tuttavia, piace ad alcuni euroscettici britannici perché conferma una delle loro più radicate convinzioni, vale a dire che il problema con l’Unione europea è che siamo solo noi britannici a obbedire alle regole, mentre tutti gli altri le ignorano. Non importa che non sia vero, né che in questo caso la normativa in questione siano i diritti umani e le convenzioni dell’Onu, piuttosto che qualcosa che ha a che fare con l’Ue. Gli euroscettici britannici amano essere confermati nelle loro credenze.

E tuttavia non è questo il motivo principale per cui il caso kazako ha oscurato il successo della visita del presidente Letta. La ragione principale è che, per tutti quelli che prestano attenzione al governo italiano, il caso kazako ha dimostrato come, nonostante l’agenda coraggiosa e le sagge promesse, né le istituzioni di governo, né la coalizione siano più capaci, affidabili e responsabili di prima.

E’ stato un brutto anno per la diplomazia italiana: la cattiva gestione del caso dei marò in India ha offuscato l’immagine di competenza del governo Monti. Ora il caso kazako suggerisce che, anche quando è ministro degli Esteri una persona ammirata a livello internazionale come Emma Bonino, non ha davvero alcun potere o influenza. Che il ministro dell’Interno, responsabile della deportazione, sia uomo di Silvio Berlusconi non è passato inosservato, tanto più che uno dei messaggi del presidente Letta diceva, almeno implicitamente, che erano finiti i tempi in cui immagine dell’Italia era plasmata da Berlusconi.

Al di là delle ombre, peraltro, l’affettuoso consenso britannico per il presidente Letta era venato di simpatia ma pieno di scetticismo. Uno scetticismo solidale per quanto riguarda l’economia e soprattutto l’euro: gli inglesi sanno che lo spazio di manovra dell’Italia è limitato e che ogni speranza poggia su un qualche cambiamento nella politica tedesca dopo le elezioni di settembre, di cui nessuno può essere sicuro.

Ma sulla stabilità del governo, e sulla sua capacità di svolgere il programma impressionante e rassicurante tracciato dal presidente Letta, lo scetticismo di Londra era più profondo. Sappiamo che parla sul serio e ci è piaciuto quello che abbiamo sentito. Dubitiamo, però, che sia in grado di farlo. Tuttavia, per una volta ci auguriamo di essere smentiti.

traduzione di Carla Reschia 

da - http://lastampa.it/2013/07/21/cultura/opinioni/editoriali/letta-ok-ma-la-city-resta-scettica-1SDiJtGOTR224sHz3ZvHFM/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Agosto 04, 2013, 08:38:17 am »

Editoriali
03/08/2013

Perché il Pdl è “adatto” a stare al governo

Bill Emmott

Dopo che l’«Economist» pubblicò nel 2001 la famosa copertina con il titolo su Berlusconi «unfit» a guidare l’Italia, mi è stato fatto notare che questa parola non ha un equivalente preciso in italiano. Può darsi. Ma dopo la decisione della Corte di Cassazione, in molti continuano a chiedermi se un partito guidato da Berlusconi sia ora «inadatto» a far parte del governo Letta. Per quanto paradossale possa sembrare, la mia risposta è che il Pdl è «adatto» a far parte dell’attuale governo. Ma non necessariamente per molto tempo. 

I significati di «unfit», che si traduca come «inadatto» oppure no, sono diversi a seconda del caso. Sul fatto che Berlusconi fosse «inadatto» a guidare l’Italia non avevamo nessun dubbio a causa del suo conflitto di interessi. Ma poi si è mostrato incapace anche in un altro senso: perché non è stato in grado di riformare né risollevare l’Italia mentre era a Palazzo Chigi. La presenza del Pdl nel governo Letta suscita però dubbi su un altro tipo di idoneità. Dopo tutto, qual è lo scopo per cui è nato il governo Letta? 

È stato concepito come la soluzione a quasi tre mesi di stallo dopo le elezioni di febbraio. Non è stato pensato per una riforma rivoluzionaria del Paese, piuttosto come uno strumento per avere stabilità immediata in una situazione di grandi instabilità. 

Quindi, la domanda che ci si dovrebbe porre adesso è questa: la presenza del Pdl aiuta o ostacola il processo di riforme politiche che il presidente Napolitano ha chiesto al governo quando è nato nell’aprile scorso? La conferma della condanna a Berlusconi non cambia la risposta a questa domanda, a meno che il Pdl decida di cambiare il proprio atteggiamento.

Solo se il Pdl decidesse di cambiare, contestando in qualche modo la condanna del suo leader, sfidando la magistratura, bloccando le riforme e avanzando ulteriori richieste, diventerebbe chiaramente «inadatto» agli scopi dell’attuale governo. Se lo fa, il risultato più probabile, e preferibile, sarebbe quello di nuove elezioni, anche se ci potrebbe essere il tentativo di formare un nuovo governo.

L’establishment politico, che nel caso italiano tende a includere il media-system con le grandi corazzate dell’informazione, è sempre contrario all’idea di nuove elezioni. Porterebbero nuove incertezze, comporterebbero il rischio di nuove interruzioni e potrebbero favorire ancora una volta outsider come Beppe Grillo. I governi stabili sono preferibili. Tuttavia, queste non sono buone ragioni per opporsi a nuove elezioni se l’alternativa è la paralisi politica.

La ragione migliore per opporsi a eventuali nuove elezioni è che si terrebbero con la vecchia legge elettorale, con tutte le sue note carenze. La più seria delle quali è che grazie al premio di maggioranza, il risultato produrrebbe una scossa e forse un esito scandalosamente anti-democratico. Quindi, come osservatore che non fa parte dell’establishment politico italiano, io voterei per continuare con il governo Letta fino a che non si approvi una nuova legge elettorale.

Il Pdl è disponibile ad appoggiare una riforma del genere o a fare i compromessi necessari, rispettando la decisione della Cassazione? Nessuno al momento lo sa. L’unico modo di scoprirlo è provarci.

Alcuni membri del Partito democratico non saranno certo d’accordo o perché credono che candidarsi contro un partito guidato da un condannato porterebbe un vantaggio elettorale, o perché temono di coprirsi di vergogna per aver collaborato con il Pdl nella coalizione. 

Se il governo non combinerà nulla, quest’ultima preoccupazione sarebbe giustificata. Ma l’idea di poter avere un vantaggio elettorale rischia di ripetere lo stesso errore commesso dai suoi oppositori negli ultimi 20 anni: quello di sottovalutare Silvio Berlusconi.

Negli Anni Sessanta, il grande presidente riformatore americano, Lyndon B. Johnson, aveva un’ottima, seppur volgare, frase per descrivere questo tipo di situazione: «Meglio averli dentro la tenda che pisciano fuori, piuttosto che averli fuori che pisciano dentro. Almeno per un po’».

Traduzione di Merope Ippiotis

da - http://lastampa.it/2013/08/03/cultura/opinioni/editoriali/perch-il-pdl-adatto-a-stare-al-governo-zLeqboYuIYaitITrgu3YZK/pagina.html
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