LA-U dell'OLIVO
Marzo 28, 2024, 06:22:13 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 [2] 3 4
  Stampa  
Autore Discussione: BILL EMMOTT. -  (Letto 24413 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #15 inserito:: Agosto 08, 2011, 04:47:49 pm »

5/8/2011

L'imprenditore che non capisce l'azienda Italia

BILL EMMOTT

La turbolenza dei mercati finanziari è tale da farci quasi dare ragione al presidente del Consiglio: l’Italia appare come la vittima di questa crisi, non come la sua causa. Perché in parte è vero: la crescita economica si sta indebolendo ovunque nel mondo ricco, l’America ha evitato il default del debito, ma solo attraverso un compromesso fragile e i governi della zona euro non sono riusciti a dare una soluzione esauriente al problema della Grecia, l’incapacità di rimborsare i propri debiti. Ma non siate troppo solidali con Silvio Berlusconi. L’Italia, o meglio il suo governo, ha la sua parte di colpa.

Il presidente del Consiglio ha ricordato al Parlamento che lui è un uomo d’affari. Ma poi ha dimostrato di aver dimenticato ciò che un business di successo richiede: la conoscenza dei ricavi dell’azienda, il controllo dei suoi costi, e una gestione che abbia un piano strategico credibile. Nel suo attuale ramo d’impresa, e cioè il governo dell’Italia, egli non ha messo in opera nessuna di queste tre cose. Ecco perché l’Italia oggi è nell’occhio del ciclone.

Il premier ha dimostrato di non capire l’amministrazione dei ricavi quando ha sostenuto che l’Italia è solida perché le famiglie italiane hanno risparmi elevati e debiti bassi.

Questo è vero ma irrilevante dal punto di vista delle finanze del governo, perché quei risparmi a nulla servono per incrementare i suoi ricavi, e poco per rendere più facile il prestito, perché la maggior parte dei titoli vengono acquistati dalle banche e dagli stranieri.

Citare i risparmi delle famiglie come un punto di forza per le finanze pubbliche è come per un uomo d’affari citare la ricchezza dei suoi clienti o dei suoi dipendenti come prova della solvibilità della sua azienda. L’unico modo in cui questi risparmi privati potrebbero essere d’aiuto si verificherebbe se il governo dovesse aumentare drasticamente le imposte per aumentare i ricavi, o se obbligasse le famiglie a comprare il debito pubblico. Sicuri che solo i comunisti prenderebbero in considerazione una cosa del genere?

Egli non ha il controllo dei costi del governo, perché la manovra fiscale recentemente presentata dal suo ministro dell’Economia è rimasta vaga su come ridurre la spesa e ha differito i principali tagli fino a dopo il 2013. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che non può avere il pieno controllo perché il governo italiano è un grande debitore che anche con gli oneri finanziari ultimamente così bassi sta pagando il 4% del Pil ogni anno per i debiti di servizi che raggiungono il 120% del Pil, il secondo più alto nella zona euro dopo la Grecia. Se i mercati obbligazionari domandassero tassi di interesse più elevati per compensare i rischi che si assumono nel gestire il debito italiano, allora tali spese per gli interessi aumenterebbero, e non c’è nulla che il governo possa fare al riguardo.

Come la maggior parte dei leader politici intrappolati in questa situazione, il presidente del Consiglio ha accusato gli speculatori. Ma in quanto uomo d’affari deve conoscere la differenza tra speculatori e investitori o finanziatori. Sono gli investitori e i finanziatori che stanno causando problemi all’Italia, perché la valutano a rischio o incapace di buone prestazioni. Un buon imprenditore avrebbe risposto presentando a questi investitori un piano strategico credibile e spiegando come intendeva aumentare i ricavi e controllare i costi: in altre parole, stimolare la crescita economica e ridurre le spese. Ma un piano del genere non esiste, e questo governo ha perso ogni credibilità sulla sua capacità di produrne uno.

Il presidente del Consiglio ha ragione, questo sì, a chiedersi: perché ora? Il mio governo non è mai stato credibile, potrebbe dire per essere perdonato, perché proprio adesso i mercati finanziari si sono messi a fare questo casino?

La risposta è, in parte, che i mercati si comportano come branchi di animali, corrono tutti insieme nella stessa direzione, rassicurandosi così l’un l’altro. La tendenza occidentale, in questo luglio e agosto, è chiaramente cattiva: rallentamento della crescita, problemi crescenti di debito, politica disfunzionale, in molti Paesi, all’improvviso, e il branco è in fuga da questo.

L’altra risposta è l’euro. È ironico, in un certo senso. Quando fu lanciata la moneta unica, nel 1999, i suoi sostenitori dicevano che avrebbe avuto due grandi effetti: sarebbe servito come strumento di pressione sui Paesi membri perché liberalizzassero le loro economie per compensare la perdita di svalutazione della moneta come strumento politico; e avrebbe dato una disciplina ai mercati obbligazionari richiedendo tassi di interesse più elevati ai Paesi a maggior rischio.

Nulla di tutto questo è accaduto durante i primi dieci anni di corso della moneta, ma ora questi effetti si stanno entrambi manifestando. È solo che stanno accadendo più improvvisamente e violentemente di quanto chiunque vorrebbe.

Inoltre, la pressione per la liberalizzazione e la disciplina dei mercati obbligazionari è rafforzata dall’esatta natura delle operazioni di soccorso che la Germania sta conducendo per la Grecia. Il vertice di emergenza del 21 luglio ha concordato su un nuovo salvataggio, ma anche sul fatto che il debito della Grecia debba essere ridotto facendo sì che i creditori privati estendano la durata delle loro obbligazioni e accettino tassi di interesse più bassi.

Vedendo questa proposta, che non è ancora pienamente attuata, agli investitori viene naturale chiedersi: se dobbiamo sopportare questi fardelli per la Grecia, per chi altri potremmo doverlo fare questo in futuro? La risposta, naturalmente, è chiunque abbia debiti di governo così alti da poter diventare insostenibili nei prossimi anni. In altre parole, l’Italia. Perché l’unica cosa veramente solida è il livello elevato del debito del governo.

 [Traduzione di Carla Reschia]

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9064
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #16 inserito:: Agosto 10, 2011, 11:43:39 am »

10/8/2011

L'impotenza di un sistema fragile

BILL EMMOTT

Non ci penserà molto spesso ma tornando a casa in anticipo dal suo soggiorno italiano per farsi carico dell’emergenza, il premier britannico, David Cameron, deve aver pregato di trovare il classico tempo dell’estate inglese: pioggia, preferibilmente scrosciante.

Perché la sensazione dominante nel governo e nelle forze di polizia è l’impotenza di fronte all’improvviso scoppio di disordini e illegalità nelle principali città della Gran Bretagna. È tanto difficile spiegare queste sommosse, quanto sarà per David Cameron venirne a capo. Solo la pioggia sembra in grado di poterle spegnere in fretta.

Le spiegazioni svaniscono rapidamente per diventare mere descrizioni. Ciò che è scioccante a proposito degli eventi che si sono sviluppati negli ultimi quattro giorni è aver dimostrato ai cittadini britannici quanto vicino alla superficie della società ci siano violenza, disprezzo per la legge e addirittura disprezzo per le comunità locali.

Proprio come in Francia nel novembre 2005 quando le rivolte si diffusero e durarono per settimane, non c’è alcuna ragione evidente per cui gli scontri siano cominciati ora, e quindi nessuna risposta plausibile alla domanda su quando potrebbero cessare.

I disordini iniziati sabato nel povero quartiere suburbano di Londra Tottenham avevano almeno una causa: la rabbia e l’incomprensione per l’uccisione da parte della polizia di un uomo del posto al momento dell’arresto. La violenza e i saccheggi di ieri, in decine di periferie e città, non avevano alcun motivo apparente al di là del fatto che i giovani si copiavano l’un l’altro, nella convinzione che la polizia non sarebbe stata in grado di fermarli, e che incendiare automobili ed edifici o rubare dai negozi è divertente, in un certo senso, se si pensa di poter farla franca.

C’è, ovviamente, una spiegazione generale: la disoccupazione e un senso di disperazione di fronte a un’economia stagnante. Ma il tasso di disoccupazione britannica, al 7,7% della forza lavoro, non è particolarmente alto per gli standard europei o americani: la statistica equivalente in Italia è l’8%, in Francia è il 9,5% e negli Stati Uniti è il 9,2%. Tutti noi abbiamo tassi di disoccupazione più elevati per i giovani che per i più anziani e in questo senso la situazione inglese non è peggiore di altre.

Una spiegazione allettante è la tensione razziale, perché era chiaramente il fattore principale la volta scorsa quando nelle città inglesi si innescava la rivolta, nel 1981, quando Margaret Thatcher era primo ministro. C’è chiaramente di nuovo un elemento di questo genere, perché il giovane che è stato ucciso a Tottenham era nero, e la zona è nota da tempo per i cattivi rapporti tra la polizia e la locale comunità afro-caraibica. Eppure la maggior parte degli esperti di ogni provenienza concorda sul fatto che le relazioni razziali in Gran Bretagna nel 2011 sono molto meglio di quanto lo fossero trent’anni fa.

Inoltre, il modo in cui i disordini si sono diffusi nelle notti successive non ha mostrato ulteriori contenuti razziali. L'unico elemento comune sono stati i giovani, generalmente incappucciati, intenti a distruggere e saccheggiare. Non c’è stato alcun ovvio bersaglio politico o istituzionale: niente multinazionali, niente banche, non il governo, nemmeno la polizia.

Così, che conclusioni dovrebbero trarre i britannici, e che cosa dovrebbero pensare gli altri Paesi della Gran Bretagna? La prima conclusione deve essere quella di condividere qualsiasi giustificazione possano avere i britannici. La nostra società è più fragile di quanto pensassimo. Le nostre famiglie sono più deboli di quelle italiane, per esempio, e anche la fedeltà alle comunità locali è debole. Le principali vittime della violenza sono stati i vicini, piccoli commercianti, i servizi delle comunità locali. Chiaramente ai rivoltosi non importa nulla di tutto questo.

Una seconda conclusione porta inevitabilmente a rinnovare le preoccupazioni sulla povertà e la disuguaglianza. Nessun governo può permettersi di ignorare le disparità nella società britannica, e deve fare tutto il possibile per ridurre questi margini. Il guaio è che farlo richiede molto tempo, se pure è possibile. Ed è inevitabilmente reso più difficile nel breve termine se si deve anche tagliare la spesa pubblica.

Terzo punto, e più immediato, tuttavia, dev’essere la preoccupazione per la sicurezza, la legge generale e l’ordine. David Cameron e il suo governo dovranno valutare la possibilità di utilizzare metodi di polizia più duri, compresi i cannoni d'acqua e i veicoli blindati. Quasi certamente, egli capovolgerà un elemento della recente politica del governo: dovrà aumentare forze di polizia anziché ridurle, come previsto in precedenza dal suo piano.

Con i Giochi Olimpici in programma a Londra entro un anno, il pensiero di tumulti in quell’occasione, capaci di danneggiare la reputazione della Gran Bretagna in tutto il mondo, deve dargli gli incubi. Più di tutto, però, come per il primo ministro francese nel 2005, Dominique de Villepin, e il suo collega allora ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, la sensazione principale di David Cameron dev’essere di impotenza. Ecco perché pregherà per la pioggia.

[Traduzione di Carla Rieschia]
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9081
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #17 inserito:: Ottobre 06, 2011, 04:45:30 pm »

5/10/2011

Ecco perché il delitto di Perugia è diventato un caso unico

BILL EMMOTT

Avendo trascorso la maggior parte di settembre a Perugia, so che di solito è deliziosamente isolata dal mondo, seppure piena di studenti stranieri, uno dei quali, in quel periodo, era questo giornalista inglese.

Almeno, la città dava questa sensazione fino a che improvvisamente piazza Matteotti si è riempita di camper delle tv quando in Corte d’appello si è aperto il processo d’appello a Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Mi è stato detto che qualcuno nella sala stampa del tribunale mi ha riconosciuto passeggiando per la città e ne ha dedotto che ero interessato al caso Knox. La verità è che non lo ero. Ma il mondo lo era.

Tutti dovrebbero sentirsi dispiaciuti per la famiglia della vittima dell’omicidio, Meredith Kercher, la cui uccisione è diventata quasi un dettaglio nella vasta copertura mediatica di questo processo. Ma dovremmo anche dispiacerci per tutte le vittime degli altri omicidi e per le loro famiglie, perché i processi contro coloro che sono accusati delle loro morti si svolgono ogni giorno, senza destare nemmeno un centesimo dell’interesse suscitato nei media dal caso Kercher.

Perché questo caso, al di sopra di tutti gli altri, ha attirato tanta attenzione? Anche il primo ministro britannico e il Dipartimento di Stato americano si sono sentiti in obbligo di rilasciare un commento ai media sul verdetto. Bene, questo di per sé fornisce un primo indizio: perché il processo è stato internazionale e questo da subito lo ha reso anche politico.

E’ facile dimenticare che la persona che rimane in carcere per l’omicidio di Meredith Kercher è originaria della Costa d’Avorio, perché i media di quel Paese sono minimi. Questo non vale per i media americani e britannici, tuttavia, né tanto meno per i media italiani. Con una vittima britannica e imputati americani e italiani l’interesse dei media era assicurato in partenza, in più quel che accade in questi casi è che i media nazionali iniziano a montarsi a vicenda, riprendendo l’uno i reportage dell’altro, rispondendo ai rispettivi servizi e alimentando i reciproci pregiudizi.

Perché è strano ma vero che molte persone, in tutti i nostri Paesi, si sentono particolarmente sospettose, o hanno semplicemente paura, della polizia e dei sistemi giudiziari stranieri. Gli italiani che leggono le accuse americane sull’incompetenza della polizia italiana e dei pubblici ministeri italiani, o le affermazioni sul sistema giudiziario «medievale» in vigore in Italia, potrebbero giustamente risentirsi e difendersi contrattaccando. Sarebbero certamente giustificati indicando i molti errori giudiziari che si verificano in America, tali da portare persino alla esecuzione (qualche volta) di uomini innocenti (e, molto più raramente, di donne).

Eppure non c’è bisogno di prendere queste critiche in modo personale, anche se i tentativi di Silvio Berlusconi durante i suoi 17 anni in politica di minare la credibilità della magistratura italiana potrebbero aver favorito questo tipo di pregiudizio. Basta ripensare alla prima risposta dell’opinione pubblica e dei media francesi all’arresto di Dominique Strauss-Kahn, allora a capo del Fmi, con l’accusa di aver violentato una donna delle pulizie in un albergo di New York, nel maggio scorso.

Immediatamente in Francia ci fu chi disse che la giustizia americana è scorretta e che il modo americano di trattare i sospetti arrestati è primitivo (se vi ricordate, ammanettarono Strauss-Kahn davanti alle telecamere). Ora che è stato liberato e che i capi d’imputazione sono stati abbandonati, quelle accuse sono svanite.

Oppure, in un contesto britannico, possiamo richiamare alla memoria un caso precedente che tenne banco per anni sulle pagine dei nostri giornali, la scomparsa nel 2007 di una bambina piccola, Madeleine McCann, in vacanza con i genitori in Portogallo. Molto presto i media britannici iniziarono ad accusare la polizia portoghese di incompetenza, pregiudizio o peggio. Gli stranieri, dopo tutto, sono bersagli facili ed attraenti. E i sistemi giudiziari sono particolarmente spaventosi perché oltre a strane leggi, procedure e linguaggi, mettono in gioco temi fondamentali: la vita e la libertà.

C’è, tuttavia, un’altra ragione per cui il caso Kercher, ormai ampiamente conosciuto come il caso di Amanda Knox, ha raggiunto una tale straordinaria celebrità internazionale. E’ perché ha coinvolto delle donne e per di più giovani e attraenti. La stragrande maggioranza degli omicidi è commessa da uomini, anche se molte delle vittime sono donne. È abbastanza raro avere un imputato di sesso femminile, anche se era solo uno dei tre accusati. Ecco perché, a prescindere dalla sua nazionalità americana, i due uomini coinvolti sono apparsi assai meno esposti, almeno nella copertura dei media internazionali.

Il caso, naturalmente, verte anche su sesso e droga, benché questo sia tristemente vero per molte cause penali. I mezzi di comunicazione e i loro lettori e spettatori, amano le storie esotiche, e questa di certo lo era, che coinvolgono la vita privata e l’evidente dissolutezza di giovani donne attraenti che vivono in un Paese lontano e che, allo stesso pubblico, appare come una terra romantica.

In altre parole, la storia è apparsa anche come uno stereotipo sull’Italia, pur se solo una delle persone coinvolte è effettivamente italiana. Quello stereotipo, il comportamento licenzioso, persino immorale, negli ultimi anni è stato molto presente nelle menti degli osservatori stranieri dell’Italia. E, una volta che il processo è diventato un circo mediatico, gli avvocati di entrambe le parti hanno sfruttato questi stereotipi. L’idea, incoraggiata dalla cultura delle veline e del bunga-bunga, che le donne siano o madri o puttane o streghe, sicuramente sta dietro la descrizione fatta dal procuratore la scorsa settimana della signorina Knox come una lussuriosa creatura diabolica.

Spiegata in questo modo, come un processo con una combinazione esplosiva di imputati internazionali, donne e Italia, pare ovvio che questo sarebbe stato un grande evento. Eppure me ne sento ancora sorpreso e un po’ triste. Forse alla fine la mia sorpresa riflette il mio giudizio di parte essendo io un genere di giornalista piuttosto diverso.

Mi ricordo nel 1997, quando arrivò una domenica mattina arrivò la notizia della morte della principessa Diana. Chiesi subito a un collega: «Pensi davvero che venerdì questa sarà ancora una grande storia?». (Il giorno di pubblicazione di The Economist). Certo che lo era. E’ diventato il numero più venduto del giornale, almeno fino all’11 Settembre.

Traduzione di Carla Reschia
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9282
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #18 inserito:: Ottobre 23, 2011, 11:50:41 am »

23/10/2011

Le tre mosse per centrare la via d'uscita

BILL EMMOTT

Quando, negli Anni 90, i politici del mio Paese litigavano furiosamente sul fatto che la Gran Bretagna dovesse o meno adottare l’euro, a volte mi stupiva che persone apparentemente sane potessero eccitarsi tanto per qualcosa di tanto noioso e tecnico come un sistema di valuta. Ora, vedendo ogni prossimo vertice dei governi europei annunciato come uno sforzo drammatico per salvare il mondo da un disastro finanziario causato dall’euro, mi rendo conto che sbagliavo. Dice una maledizione cinese: «Possa tu essere condannato a vivere in tempi interessanti», e non c’è dubbio, staremmo tutti meglio se l’euro tornasse a essere noioso.

Purtroppo, non vi è alcuna possibilità che questo accada nell’immediato. Il motivo, che poi è la ragione per cui sia il Consiglio europeo di oggi sia la riunione dei leader mondiali al G-20 in Francia ai primi di novembre sono drammaticamente importanti, è che i problemi veri non sono affatto quelli tecnici. Riguardano invece la politica, le forme di governo, la condotta dei politici e la loro affidabilità e credibilità.

Anche questo, tuttavia, complica il lavoro di questi incontri per trovare una soluzione, e rende ancora più difficile per gli osservatori esterni o, in realtà, per i governi stessi, valutare se le soluzioni annunciate saranno davvero efficaci. È facile descrivere il problema dell’euro in termini apparentemente tecnici. La Grecia è in bancarotta, questo significa che il suo governo non può permettersi di continuare a pagare gli interessi sui suoi debiti, ciò a sua volta significa che le banche che hanno acquistato titoli di stato greci stanno per perdere soldi, se la Grecia, alla fine, dovesse andare in default. Poiché questo default è ormai visto come inevitabile, e ne hanno anche parlato apertamente i funzionari e i politici di Bruxelles e Berlino, gli investitori hanno iniziato a preoccuparsi della solvibilità di altri governi che sono grandi debitori e anche di quella delle banche che hanno loro prestato denaro.

Quindi tutte le persone coinvolte nell’euro sanno cosa si deve fare. Le banche europee devono essere rese più forti raccogliendo nuovo capitale, in modo che possano resistere a eventuali perdite sui titoli greci. Altri Paesi fortemente indebitati - Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda – devono essere «separati», nel gergo odierno, e cioè agli investitori deve essere data la certezza che non andranno in default, anche se la Grecia si rivelerà insolvente. E poi la Grecia ha bisogno di andare in default, almeno per dimezzare i propri debiti.
Pare semplice, vero? Il problema, tuttavia, con questo programma tripartito, è la sequenza secondo cui deve essere messo in atto.

Per rendere questo esercizio di salvataggio dell’euro conveniente per i contribuenti che copriranno le perdite delle banche e offriranno prestiti soccorrevoli ai Paesi e per gli investitori privati a cui viene chiesto un maggior capitale, l’ordine giusto in cui fare tutto questo è cominciare con la «separazione». Una volta chiarito che l’Italia e gli altri non causeranno perdite del debito sovrano, la quantità di capitale necessario per rafforzare le banche sarà minore. E poi, fatta la separazione e rafforzate le banche, sarà possibile gestire con facilità un default della Grecia.

Questa però non è la sequenza in cui ci si sta approssimando a questo programma. E non è la sequenza preferita dai politici tedeschi. La sequenza effettivamente in atto comincia dalla Grecia, con un misto di punizione per i greci colpevoli di essere stati mutuatari stravaganti e di aver mentito circa la vera dimensione del loro deficit e dei loro debiti, e con un primo tentativo di condividere con i finanziatori privati le perdite causate dalla Grecia. Questo è stato l’approccio seguito dai leader europei, durante l’incontro del 21 giugno, quando su sollecitazione tedesca la ristrutturazione del debito greco è stata avviata costringendo i finanziatori privati a tagliare «volontariamente» il 20% del valore dei loro prestiti.

Ciò ha portato a speculazioni di mercato su future «volontarie» perdite su crediti per i debiti di altri Paesi e ha spaventato tutte le istituzioni finanziarie che concedono prestiti alle banche europee, motivo per cui oggi vi è la necessità di aumentare il capitale delle banche.

La sequenza di eventi era sbagliata in parte perché era condotta dalle pressioni del mercato, ma anche a causa delle pressioni politiche nel Nord Europa, specialmente in Germania. Quindi la domanda per il summit odierno è se ora la sequenza possa essere modificata, iniziando con il principio della separazione, quindi passando alla ricapitalizzazione delle banche, e concludendo con il default greco. Apparentemente dall’annuncio del vertice sembra di capire che s’intende fare così. Ma la politica rimane un grosso ostacolo.

A parole il principio della «separazione» fa sembrare le cose facili. Si prende un po’ di filo spinato e dei paletti e si recinta la Grecia. Questa è la metafora. La maggior parte dei Paesi vuole che questo sia fatto aumentando i fondi disponibili al fondo di salvataggio dell’Unione europea, noto come Fondo europeo di stabilità finanziaria, per metterlo in condizioni di prestare all’Italia, alla Spagna o al Portogallo danaro bastante a convincere i mercati finanziari che non saranno mai insolventi riguardo ai loro debiti.

Il problema politico con la «separazione» nasce a causa di una domanda fondamentale che sta dividendo i Paesi della zona euro. Si tratta di sapere se in una zona a moneta unica è necessario che i membri si assumano la responsabilità collettiva di tutti i debiti governativi emessi in euro. Quando fu lanciato l’euro nel 1998, la responsabilità collettiva fu deliberatamente respinta.

Una mossa verso la predominante proprietà collettiva dei debiti, attraverso il Fondo europeo di stabilità finanziaria, potrebbe rovesciare tale decisione qualora implicasse che il Efsf non dovrebbe solo prestare denaro in caso di emergenza, ma potrebbe doverlo fare anche in futuro. Lo stesso varrebbe se i membri della zona euro decidessero di autorizzare l’emissione di euro-obbligazioni con garanzia collettiva, come è stato proposto da Giulio Tremonti e da altri.

Cosa c’è di sbagliato nella responsabilità collettiva? Significa, ad esempio, che i contribuenti tedeschi finirebbero per condividere la responsabilità per le pensioni pubbliche italiane o spagnole. O, più importante, la responsabilità di affrontare qualsiasi futura stravaganza da parte di un qualsiasi membro della zona euro. Ciò significa che la responsabilità collettiva porta con sé un grande azzardo morale, un grande pericolo perché potrebbe incoraggiare in futuro il cattivo comportamento dei governi.

In teoria, questo pericolo può essere affrontato istituendo regole rigorose in materia di prestiti e di deficit di bilancio. Ma questo è quel che, teoricamente, è stato fatto nel 1998, e le regole non hanno funzionato. Le nuove regole potrebbero essere stabilite da un trattato piuttosto che solo con un accordo intergovernativo, ma anche questo non ne garantirebbe l’applicazione. I fan dell’integrazione europea dicono che ci deve essere anche un Tesoro europeo, che gestisca un’unione fiscale. Ma questo solleva le stesse domande.

Domande strettamente politiche. Umberto Bossi potrebbe davvero accettare che il suo amato federalismo fiscale sia sovvertito da una forma sovrannazionale di unione fiscale? Silvio Berlusconi accetterebbe di ricevere istruzioni da un Tesoro europeo sull’aumento delle tasse o i tagli alla spesa pubblica? Lo accetterebbe la Francia? Ne dubito.

La reazione politica contro le decisioni imposte collettivamente, contro il dover pagare per la stravaganza degli altri, da diversi anni si sta diffondendo attraverso i Paesi Bassi, la Germania, la Finlandia e perfino nel nuovo Stato membro della Slovacchia. È molto difficile credere che questa reazione sarà superata in tempi brevi. L’umore politico è andato nella direzione opposta rispetto all’unione fiscale, alla responsabilità collettiva e a una più profonda integrazione.

Quindi non possiamo aspettarci che questa richiesta di integrazione, di responsabilità collettiva, sia accolta al vertice di oggi, se mai potrà esserlo. L’istinto politico, soprattutto nel Nord Europa, rimane fortemente a favore di responsabilità nazionale separate riguardo ai debiti.

Al contrario, ci sarà probabilmente un altro tentativo di eludere questa domanda e di prendere tempo. I fondi a disposizione del Efsf saranno aumentati ma la Germania insisterà per regole che limitino l’uso di tali fondi. Poi si aspetterà per vedere come reagiscono i mercati. Se reagiscono con calma le banche saranno ricapitalizzate e alla Grecia sarà consentito di andare in default abbastanza velocemente.
Allo stesso tempo i politici terranno le dita incrociate. Sperando che l’Italia davvero guarderà ai mercati come se fosse separata dalla Grecia. Purtroppo, se la crescita economica s’indebolisce e la paralisi politica che circonda il governo italiano si prolunga, è improbabile che i mercati restino fiduciosi a lungo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9351
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #19 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:10:58 am »

2/11/2011
 
Inseguendo la credibilità perduta
 
BILL EMMOTT
 
Cosa vuol dire «credibilità»? In uno dei suoi film Groucho Marx ha detto che la credibilità, insieme all’integrità, sono fondamentali nella vita, e che se riuscite a fingerle non avrete problemi. I mercati finanziari stanno mostrando di ritenere che, quando il 26 ottobre scorso i leader dei governi dell’Eurozona hanno annunciato una soluzione «completa» della crisi del debito sovrano, stavano fingendo.

La sfida ora consiste nel ricostruire la credibilità perduta.

Il motivo immediato per la perdita di fiducia da parte dei mercati finanziari è la Grecia, visto che il referendum sul salvataggio annunciato dal governo di Atene aumenta la probabilità di un default sul debito del Paese, unica opzione rimanente nel caso gli elettori respingessero il piano. Ma il problema maggiore riguarda non la Grecia, ma gli altri debitori in difficoltà dell’Eurozona, in primo luogo l’Italia.

Se la Grecia fosse l’unico problema dell’Eurozona la soluzione sarebbe semplice: se gli elettori greci non gradiscono le condizioni per avere sostegno finanziario, possono uscire dall’euro. Il problema è che la Grecia non è la sola. Il piano «completo» del 26 ottobre presupponeva, in qualche modo, di «isolarla» dagli altri grandi indebitati. Ma questo tentativo di innalzare una barriera è fallito. E, almeno nella visione dei mercati, il fallimento è da attribuire sia ai Paesi che hanno cercato di costruire la barriera, che a quelli che si trovavano dall’altra parte, in primo luogo l’Italia.

I costruttori della barriera hanno fallito perché non sono riusciti a mettersi d’accordo per stanziare una somma sufficiente per proteggere l’Italia. In altre parole, non hanno fornito denaro sufficiente per comprare la quantità di titoli emessi dall’Italia che servisse a compensare il gap creato dalle vendite delle banche e delle assicurazioni, oggi e potenzialmente nel futuro. Non ci sono riusciti non per avarizia. Il fatto è che, per ragioni diverse, né la Francia, né la Germania si sentivano in grado di assumersi la responsabilità collettiva - implicita nell’impegno che avrebbero dovuto prendere - per il debito presente e futuro dell’Italia.

E’ una situazione che difficilmente sarà soggetta a cambiamenti, anche nel caso il dramma in corso diventasse un’autentica emergenza. Né la cancelliera Angela Merkel, né il Presidente Nicolas Sarkozy pensano che i loro elettori accetteranno costi e sacrifici da pagare a livello nazionale per questa responsabilità collettiva. Perciò hanno scelto di continuare con la loro strategia dell’ultimo anno: stanziare un po’ di soldi nella speranza di comprare tempo.

Ma il tempo non può essere comprato facilmente quando viene a mancare la credibilità. Se i mercati potessero essere convinti che, in caso di vera emergenza, la Germania e la Francia accetterebbero la responsabilità collettiva, la strategia di comprare tempo potrebbe funzionare. Ma le democrazie sono entità trasparenti. Così come tutti sanno che la Grecia dovrà dichiarare default, tutti sanno cosa gli elettori tedeschi pensano dell’idea di assumersi il debito italiano o quello portoghese.

La democrazia italiana ha numerosi difetti, ma da questo punto di vista è identica a quella tedesca: è trasparente. Ed è per questo che, nonostante le misure di austerità adottate in estate, e nonostante la lettera d’intenti che il governo italiano ha scritto la settimana scorsa sulle misure da prendere riguardo al debito e alla crescita, agli investitori sembra di sapere già come andrà a finire. Pensano che solo poche - se non nessuna - delle misure proposte verranno realizzate perché sanno che la coalizione di governo è divisa al riguardo. Sanno che i sindacati si oppongono alle riforme del mercato del lavoro e sono abbastanza certi che nell’aprile del 2012 - cioè molto prima che la maggior parte delle misure proposte possa venire introdotta - si terranno elezioni politiche anticipate.

Se il governo di Silvio Berlusconi si fosse costruito, da tempo, una reputazione di serietà, di fedeltà alle promesse fatte, di capacità di prendere decisioni dolorose, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Gli investitori avrebbero creduto che le misure per tagliare il debito e rilanciare la crescita sarebbero state prese, e non si sarebbero preoccupati per l’eventualità di elezioni anticipate. Ma l’esperienza fa pensare ai mercati l’opposto: che il governo non è serio, e che farà il possibile per evitare decisioni dolorose.

Stavolta, potrebbe anche essere ingiusto. Ma è troppo tardi per lamentarsi. La vita è ingiusta. Soprattutto quando la credibilità è svanita. Qualunque cosa ne pensasse Groucho Marx, è troppo tardi per fingerla.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9388
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #20 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:00:15 pm »

13/11/2011

Perché l'Italia può farcela

BILL EMMOTT

Guardare l’Italia negli ultimi anni è stato come guardare un incidente d’auto al rallentatore. O forse un’analogia migliore, più inglese sarebbe quella di paragonare il Bel Paese al Titanic. E’ forte, piena di gente ricca e ben costruita ma il proprio autocompiacimento la sta portando lentamente verso un iceberg. Ora, però, bisogna cambiare analogia. Dobbiamo chiederci che cosa può fare il professor Mario Monti per rianimare e curare il malato italiano. Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha sicuramente ragione quando ha detto, venerdì, che «l’Italia ha un rendimento economico potenzialmente elevato ma ha bisogno di enormi sforzi per realizzarli in modo strutturale e permanente».

Questo è molto simile a quello che ha detto il professor Monti negli ultimi mesi nei suoi articoli e nei suoi discorsi sempre più schietti. In verità, la forza economica dell’Italia ha giocato un ruolo alquanto contraddittorio durante la lunga fase di preparazione a questa crisi. Molti economisti hanno giustamente detto che i «fondamentali» del Paese sono buoni: alti livelli di ricchezza e di risparmio delle famiglie, basso debito privato, un sistema bancario stabile e una bilancia commerciale favorevole per i manufatti. In questo senso, l’Italia non è come la Grecia. Eppure i politici hanno abusato di tale argomento usandolo per suggerire che non c’era bisogno di fare molto. Il limite dell’argomento dei «fondamentali» inizia con il fatto che quando il problema è una crisi di fiducia nel debito sovrano, questi punti di forza sono quasi irrilevanti. Il problema è il fatto che il governo italiano deve 1,9 trilioni di euro, una cifra pari al 120% del Pil, lo stesso livello del 1994 quando Silvio Berlusconi entrò in politica. Tutto ciò che importa a coloro che prestano denaro al governo italiano è se il governo è in grado di onorare i debiti. La ricchezza privata e il basso indebitamento delle imprese sono rilevanti sotto questo profilo solo se questo significa che il governo può raccogliere più tasse dal settore privato o convincere i risparmiatori ad acquistare più titoli di stato.

Eppure, il più significativo fatto «fondamentale» mostra perché ciò è difficile: l’economia in Italia è cresciuta appena del 3% nel decennio 2001-2010, mentre in Francia è cresciuta del 12%. In questo senso l’Italia non è come la Grecia: è peggio. Il reddito pro capite della Grecia è cresciuto in media di circa il 2% all’anno nel 2001-2010, mentre in Italia in realtà è precipitato. L’Italia si sentiva e in qualche modo sembrava forte e ricca, ma in realtà, non solo stagnava ma s’impoveriva. I redditi delle famiglie sono più bassi di quanto non fossero dieci anni fa. Il debito del governo è più grande di quanto non fosse allora. L’idea che il Paese fosse comunque in una bella posizione è stata utilizzata, dal Presidente del Consiglio, dai suoi ministri e, a volte, da dirigenti d’azienda anche come pretesto per evitare la necessità di decisioni difficili. Il buon argomento «fondamentale» è, comunque, corretto nel modo in cui l’ha usato il Presidente Van Rompuy: il potenziale dell’Italia rimane forte.

Questo è il motivo per cui questa crisi finanziaria è tanto una tragedia come un crimine: modesti ma costanti cambiamenti fatti anno dopo anno, negli ultimi dieci anni o più, avrebbero potuto sia ridurre il debito pubblico e rendere il Paese meno vulnerabile sia liberare la naturale forza economica del Paese, rendendo il debito più gestibile, il tutto senza causare troppa pena. Il compito del nuovo governo sarà di fare questo, e non in maniera graduale e modesta, ma rapidamente e ambiziosamente. Nessuno, meno di tutti il professor Monti, si aspetta che questo sia facile. La parte più facile, infatti, sarà tagliare il deficit di bilancio più rapidamente rispetto ai piani che sono ora passati in Parlamento. Il forte senso nazionale della crisi finanziaria farà in modo che questo sforzo ottenga supporto, almeno per i prossimi mesi, nonostante le inevitabili proteste contro questo o quel taglio. Idealmente, l’austerità iniziale dovrebbe essere anche parte di un quadro più a lungo termine per ridurre il peso del debito pubblico dell’Italia fino a, diciamo, l’80% del Pil nei prossimi dieci anni.

Il problema per il nuovo governo, tuttavia, sarà simile a quello della Grecia: la riduzione fiscale potrebbe essere necessaria per ripristinare la fiducia degli investitori e ridurre gli oneri finanziari in Italia, ma rischia di precipitare il Paese nella recessione, forse anche in modo grave tanto più che il resto dell’eurozona è destinato, secondo Mario Draghi nella sua prima conferenza stampa come presidente della Banca centrale europea, a una «lieve recessione». Una recessione italiana potrebbe deprimere ulteriormente le entrate fiscali, rendendo più difficili gli obiettivi di bilancio e innescando un circolo vizioso al ribasso. Quindi ciò che è necessario è una combinazione di austerità e di riforma che solleciti i veri punti di forza del Paese, agevolando la crescita. E’ probabile che la vita del governo Monti sarà troppo breve per poter attuare un programma di riforma davvero profondo. Ma potrebbe avviare le cose in quella direzione e porre le basi per le riforme.

Poi, qualunque sarà il governo eletto nel 2012 o nel 2013 sarebbe in una posizione migliore per realizzarle. L’Italia può davvero accettare la riforma? Questa è una domanda che mi viene spesso rivolta dai miei amici non italiani. Grazie al viaggio in giro per l’Italia che ho fatto per il mio libro, «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» (pubblicato un anno fa da Rizzoli) ho fiducia che la risposta sia sì. La mia fiducia comincia, infatti, a Torino. La riforma richiede la costruzione del consenso e una visione di un futuro migliore da condividere. Questo, mi pare, è ciò che il sindaco Valentino Castellani ottenne a Torino negli Anni 90, quando formò l’equivalente cittadino di un «governo tecnico», poi il piano è stato esteso e realizzato dal suo successore, un politico più convenzionale, Sergio Chiamparino. La crisi finanziaria e politica di Torino ha portato al cambiamento. Lo stesso può accadere a livello nazionale. La fede in un tale cambiamento richiede anche esempi di successo di aziende che si sono costruite un ruolo di leader non solo in campo nazionale ma anche mondiale e possono ispirare gli altri. Troppo spesso, i commenti sul successo italiano si limitano ai produttori di piccole e medie dimensioni.

Molti sono eccellenti, ma non è sufficiente avere l’eccellenza in un settore che rappresenta appena un quinto dell’economia. E le piccole imprese spesso non sono in grado di competere a livello globale. Quindi ciò che occorre è un successo più ampio, in tutti i settori del business del Paese, e la creazione di aziende più grandi. Gli esempi ci sono, in settori nuovi come in quelli vecchi: la leadership di Luxottica nel mercato mondiale negli occhiali da sole, Ferrero per il cioccolato, ma anche Technogym per i centri benessere, Autogrill nella ristorazione di massa e duty-free al dettaglio, e la Rainbow, nell’animazione per i bambini. Quello che queste aziende dimostrano anche, però, è che gli ostacoli alla crescita sono molti e vari. E, in quanto eccezioni, mostrano quanto gli ostacoli impediscano alle altre imprese di emularli. Primi della lista la legislazione in materia di lavoro che scoraggia le imprese dall’assumere lavoratori e le pratiche di lavoro che rendono le aziende italiane meno produttive rispetto ai Paesi vicini.

Ma così sono le regole restrittive e i cartelli che fanno aumentare i costi e impediscono alle imprese di entrare in nuovi campi, rendendo più gratificante espandersi all’estero che in patria, in Italia. Il tipo di programma di riforma necessario per innescare il potenziale d’Italia è quello che elimina diritti, tutele e privilegi da una gamma molto ampia di gruppi e organizzazioni. Come si arriverà a questo è molto controverso. Quindi sarà necessario costruire attentamente il consenso, un processo reso più difficile dalla legge elettorale vigente, che incoraggia la polarizzazione e si focalizza sulla personalità. Come è stato ampiamente discusso, è vitale una riforma di questa legge elettorale. Tale consenso sarà inoltre essenziale per la grande riforma delle leggi sul lavoro che è necessaria per realizzare un mercato unico del lavoro, coniugando flessibilità e sicurezza. Questo richiederà una collaborazione tra governo, sindacati e associazioni dei datori di lavoro che non è mai facile. Eppure è stato fatto in passato per eliminare la scala mobile, quindi potrà sicuramente essere fatto di nuovo. Il più grande, necessario sforzo dovrà essere l’accurata rimozione dei diritti e dei privilegi che ostacolano la concorrenza e l’innovazione. In «Forza, Italia», proponevo che il nuovo governo italiano si rivolgesse a un uomo che aveva appena compilato un rapporto per la Commissione europea sul modo di approfondire il mercato unico europeo, chiedendogli di fare lo stesso per l’Italia, e poi incaricarlo della sua applicazione. Il nome dell’uomo era professor Mario Monti. Egli ora dovrà trovare qualcun altro per fare quel lavoro, ma almeno sa cosa vuole che sia fatto.

Traduzione di Carla Reschia
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9427
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #21 inserito:: Dicembre 08, 2011, 05:29:26 pm »

8/12/2011

Una medicina salvavita per l'euro

BILL EMMOTT

Purtroppo una buona giornata non salverà l’euro né lo salveranno le pie promesse di comportarsi meglio in futuro. Di sicuro il piano di austerità italiano e i propositi franco-tedeschi di unione fiscale rappresentano un progresso. Ma da fare c’è molto di più.
Come ha detto il presidente del Consiglio, l’Italia ha fatto la sua parte, ma solo la sua prima parte. Quella più vitale - le liberalizzazioni per affrancare energie, che indubbiamente ci sono, da investire nella libera iniziativa e nella crescita - deve ancora arrivare. Però l’euro deve sopravvivere, per rendere quelle misure possibili ed efficaci.

Sopravviverà? Sì, oggi sembra più probabile di quanto non sembrasse una settimana fa. Ma in un paio di settimane la situazione potrebbe essere di nuovo nera. Perché queste proposte di unione fiscale, o «unione di stabilità» come piace dire ai tedeschi, in verità sono solo la promessa di non ripetere in futuro una crisi come questa. Equivalgono a portare un infartuato in terapia intensiva e limitarsi a leggergli testi di medicina su come evitare il prossimo infarto. Non è così che supererà la crisi.

Qualche medicina migliore arriverà a breve se la Banca Centrale Europea decidesse che, con la promessa unione fiscale, non corre più rischi comprando grandi quantità di bond italiani e spagnoli. Questo però fornirebbe un aiuto solo temporaneo, come un respiratore artificiale. Non renderà più sano il paziente.

La malattia dell’euro nasce, anzitutto, dall’insostenibile combinazione di debito enorme e crescita bassa o negativa in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e, fino a poco fa, Irlanda. Ma ci sono altre due concause. Una è l’accettazione esplicita, anche tra i leader politici dell’eurozona, che la Grecia ha bisogno di un forte sconto sui suoi debiti, probabilmente anche superiore a quello già concordato. Questo getta dei dubbi sul rischio dei debiti di altri Paesi. La seconda è la profonda divisione all’interno dei governi dell’eurozona sulla forma dell’unione monetaria: deve comportare solo regole fiscali o anche una qualche forma di responsabilità collettiva sui debiti sovrani?

Sulla base di quanto è stato annunciato finora, la Germania è risolutamente attaccata alla sua posizione: l’euro dev’essere un sistema solo di regole e mai di responsabilità collettiva. Questa è una decisione logica e legittima, ma lascia aperte molte domande. Perché questa volta le regole dovrebbero essere credibili? Un trattato, delle sanzioni automatiche e la Corte europea di giustizia colpiscono in modo positivo, ma non è scontato che funzioneranno meglio del vecchio Patto di stabilità e crescita, beffato nel 2002-2003. Le sanzioni automatiche, poi, si limiterebbero a punire Paesi già in difficoltà economiche, sicché perché dovrebbero essere efficaci? Potrebbero solo produrre una nuova crisi.

La domanda successiva è se le regole fiscali attualmente proposte risolvano il vero problema. Se l’Europa si fosse data queste regole e la loro rigorosa applicazione quando, nel 1999, fu lanciata la moneta, certamente a Italia, Grecia e Belgio non sarebbe stato consentito di entrare nell’euro. Ma Irlanda, Spagna e pure Francia e Germania, tutte oggi con debiti molto più alti di quanto le regole non «permettano» per la crisi economica del 2008-2010, oggi sarebbero punite. Con che risultato?

Se quelle regole fossero state applicate negli anni 2008-2010, la crisi europea sarebbe stata ancora più profonda, dato che ai governi sarebbe stato proibito di contrastare il crollo della domanda privata con un supporto fiscale. Se invece quelle regole fossero state accantonate, che cosa ne sarebbe stato della loro credibilità?

C’è poi anche il problema cruciale di come l’eurozona possa spostare la sua credibilità dal punto in cui si trova adesso, con molti Paesi che hanno un debito pubblico pari o superiore al 100 per cento del Pil, alla Nuova Utopia del 3 per cento annuo del deficit di bilancio rispetto al Pil e del 60 per cento del debito pubblico, sempre rispetto al Pil. Per usare una metafora dell’aviazione, la «rotta di avvicinamento» a questa condizione futura avrà un ruolo cruciale nel costruire la credibilità. E inevitabilmente quella rotta, e lo stesso trattato, richiederanno un periodo lungo per essere negoziati e applicati.

Questo lascia ancora la necessità urgente, per il paziente-euro tanto malato, di una medicina salvavita a lungo termine. A me pare che questo debba implicare due interventi eccezionali. Il primo deve fare una distinzione - definitiva - tra la Grecia e gli altri Paesi fortemente indebitati. Non farla, attraverso politiche sia nazionali sia dell’eurozona, è la causa dei bond italiani lanciati oltre il 7% di interesse. La via più chiara è anche una via rischiosa: espellere la Grecia dall’euro.

L’altra medicina salvavita necessaria è una qualche forma di garanzia collettiva per i debiti sovrani, o almeno per una parte. Con l’unione fiscale in cammino, e la Grecia sulla strada dell’esclusione, sarebbe possibile per la Germania lasciar cadere il suo veto precedente su questa evoluzione. Potrebbe progettare di farlo comunque, magari con uno stretto limite di tempo per la garanzia, legato a programmi di riforma e austerità fiscale. I rating sui debiti dell’eurozona saranno comunque declassati, sicché questo non è più un buon argomento contro la «messa in comune» dei debiti. Se e quando essa avverrà, potremo dire con certezza che l’euro sopravviverà.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9528
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #22 inserito:: Dicembre 10, 2011, 04:39:08 pm »

Esteri

10/12/2011 - Intervista



Ex direttore di The Economist Bill Emmott ha diretto The Economist, il più autorevole tra i settimanali economici, dal 1993 al 2006.

È nato nel 1956, vive tra Londra e il Somerset

Emmott: scelta stupida, ma questo patto non decollerà mai


Andrea Malaguti
corrispondente da Londra


Bill Emmott, perché David Cameron non ha firmato il trattato?
«Egoismo. Motivi di politica interna. Il tentativo di tranquillizzare l’ala più conservatrice del partito. In definitiva ha fatto una scelta stupida, così come stupido è stato in passato il comportamento di altri Paesi europei. A cominciare da quello della Germania, per cui l’euro deve essere un sistema di regole e mai una responsabilità collettiva. In quanto a egoismo Berlino non è stata seconda a nessuno».

Quanto ha inciso la difficoltà di rapporti tra Cameron e Sarkozy?
«Zero».

I due non si amano.
«Se è per questo neppure la Merkel e Sarkozy si amano, ma stiamo parlando di un problema personale che non riguarda gli incontri istituzionali. A Bruxelles ciascuno rappresenta il proprio Paese».

Basta la politica interna a giustificare la scelta di Londra?
«Sì, perché il Regno Unito non crede che questo trattato avrà mai un’attuazione effettiva. Ci vorranno mesi di negoziazione e alcuni Paesi dovranno ricorrere a un referendum per farlo passare».

Anche lei la pensa così?
«Suppongo che trovare una mediazione tra ventisei Stati sarà quasi impossibile, forse ci riuscirà il gruppo dei diciassette».

Il Regno Unito verso l’isolamento. Anzi, solo.
«L’Inghilterra è stata spesso su posizioni diverse da quelle di Bruxelles. Non c’è niente di nuovo sotto il sole e questo tipo di isolamento non è pericoloso. Si può gestire come al solito. Frasi come: “Europa a due velocità”, sono un po’ generiche».

Perchè allora la scelta di Cameron è stata stupida?
«Perché ha fatto un grosso danno di immagine alla Gran Bretagna, scommettendo sul fatto che in un periodo relativamente breve il suo comportamento sarà dimenticato a livello internazionale».

Almeno non sarà costretto a cedere alle pressioni dei conservatori per un referendum che sleghi l’Inghilterra dall’Europa.
«Questo è il vero vantaggio secondario che ha ottenuto. Ha allentato la morsa e si è rimesso al centro del suo partito. Ora per lui sarà meno complicato gestire la politica interna».

Compreso il rapporto con Nick Clegg, europeista convinto e suo vice al governo?
«Compreso. Per Clegg era importante evitare il referendum e ora mi sembra più preoccupato degli effetti dei tagli ai dipendenti pubblici. Quello sarà il vero terreno di confronto».

Ed Miliband sostiene che Cameron ha messo a nudo tutta la sua debolezza in Europa.
«Il leader laburista, con queste dichiarazioni, fa solo il suo dovere di capo dell’opposizione».

Tony Blair avrebbe fatto la stessa cosa?
«Sì, ma in un altro modo».

Cioè?
«Non avrebbe insistito sulla necessità di difendere la City e sopratutto non si sarebbe fatto condizionare da questa forma di nazionalismo radicale».

La City come ha reagito?
«Con equilibrio. Per loro non cambia tanto. Erano e restano il centro del mondo finanziario europeo».

Non c’è il rischio che quel centro si sposti a Francoforte?
«Non vedo né il rischio né il motivo».

Tanto rumore per nulla?
«In parte è così. Questo accordo risolve il problema sbagliato. Attraverso l’accordo fiscale cerca di prevenire nuovi guai ma non risolve quelli presenti».

Beh, non è poco.
«Neanche molto. Se fosse stato in vigore nel 2008, quando c’è stata la crisi di Lehman Brothers, non sarebbe comunque stato sufficiente per evitare il disastro. E sono sicuro che neppure la Germania lo avrebbe rispettato. Quando sei dentro l’emergenza ti affidi a soluzioni d’emergenza».

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/433789/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #23 inserito:: Gennaio 15, 2012, 11:32:17 am »

15/1/2012

Quel che Monti dovrebbe dire

BILL EMMOTT

L’indisciplina degli Stati membri che ha portato alla crisi dell’euro, ha scritto nel giugno scorso un saggio, è nata da «una malsana cortesia reciproca e dall’eccessiva deferenza verso gli Stati membri di grandi dimensioni». Questo saggio è il professor Mario Monti, autore di un blog per il «Financial Times».
Ora che è il presidente Monti, e ora che la crisi dell’euro si sta di nuovo intensificando, è tempo che segua il suo stesso eccellente consiglio.

Dobbiamo sperare che, nei suoi incontri con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbia già parlato in modo chiaro e diretto. Se così non fosse, questo è ciò che dovrebbe dire.

«Cari colleghi, come ben sapete mi piace dire che io sono il più tedesco tra tutti gli economisti italiani. Bene, ora sarò anche americano e senza peli sulla lingua. Sotto la vostra guida, la zona euro non riesce ancora ad affrontare la realtà. Sì, noi italiani siamo stati molto, molto lenti ad affrontarla, ma ora stiamo lavorando sodo. Adesso tocca a voi.

«In un attimo tornerò alla realtà italiana perché il nostro lavoro, lo so, è appena iniziato. Ma se la zona euro prosegue così com’è allo stato attuale, il nostro lavoro sarà distrutto in ogni caso, perché le nostre banche e la valuta crolleranno. Ci sono due realtà che finora avete rifiutato di accettare e affrontare.

«La prima è che la Grecia getta ancora un’ombra fosca su tutti gli altri membri dell’eurozona. Perché? Perché chiunque sia in possesso di una calcolatrice tascabile, per non dire di un computer, può capire che non sarà in grado di rimborsare i debiti, anche se i creditori privati accetteranno un’enorme riduzione del valore dei loro prestiti. Le voci sulla riduzione per ora sono cessate, ma anche se alla fine si farà, la Grecia, secondo previsioni piuttosto ottimistiche, ridurrà semplicemente il suo debito pubblico al 120% del Pil entro la fine del decennio.

«Le finanze pubbliche italiane sono state sull’orlo di una crisi con gli oneri finanziari saliti a oltre il 7%. Siamo molto più deboli, in termini economici, di quanto ci siamo raccontati nel decennio passato, ma siamo ancora molto più forti della Grecia, quindi se siamo vicini a una crisi con il nostro debito al 120% del Pil, come sopravviverà la Grecia con oneri finanziari sempre maggiori e con un’economia molto più debole? Questo significa solo che ci sarà una nuova crisi greca ogni pochi mesi, che per contagio ci danneggerà tutti.

«Sappiamo tutti che, in primo luogo la Grecia non avrebbe dovuto essere autorizzata a partecipare all’euro, e la verità è che anche all’Italia non avrebbe dovuto essere consentito farlo, perché i nostri debiti erano troppo alti. Ma questa è storia. La realtà attuale è che ora la Grecia deve lasciare l’euro, perché altrimenti la sua insolvenza continuerà ad avvelenarci tutti. Dovrebbe farlo con tutto l’aiuto finanziario possibile che noi e il Fondo monetario internazionale possiamo offrire, ma il punto importante è che dovrebbe farlo presto.

«Quando ciò accadrà, gli altri Paesi altamente indebitati, prima fra tutti l’Italia, saranno duramente colpiti dalla speculazione dei mercati sul nostro prossimo default e successiva uscita di scena. Il lavoro principale per dimostrare che ciò non è vero sta a noi: in Italia occorre fare di più per dimostrare che abbiamo un piano credibile a lungo termine per ridurre il nostro debito pubblico al livello del Trattato di Maastricht, il 60% del Pil, probabilmente entro 10 - 15 anni, introducendo allo stesso tempo misure per far crescere di nuovo la nostra economia con un tasso medio annuo di almeno il 2%.

«Stiamo lavorando a questo, come sapete, e il mio governo si accinge a presentare la prossima fase del programma di riforme. Ma la seconda realtà è che abbiamo bisogno del vostro aiuto, sia per sopravvivere abbastanza a lungo perché le riforme producano il loro effetto, e ancora di più per sopravvivere all’inevitabile e auspicabile uscita greca dall’euro.
«Pubblicamente, avete dichiarato che il fiscal compact, il patto fiscale che tutti noi (tranne la Gran Bretagna) abbiamo accettato di 9 dicembre, è la soluzione che l’euro richiede. Ma cerchiamo di affrontare la realtà, non dobbiamo essere troppo educati e deferenti: sappiamo tutti che questo non è vero. Non è vero perché anche con un trattato non c’è motivo perché i mercati credano alle nostre promesse di contenere il disavanzo pubblico e (nel caso dell’Italia) dimezzare il debito pubblico in rapporto al Pil. Queste promesse sono necessarie e importanti, ma non sono sufficienti e non sono credibili.

«Non sono credibili a causa della Grecia, come ho già detto, ma anche perché il passaggio dal peccato alla virtù sta andando troppo per le lunghe. La politica e gli imprevisti sono destinati a intervenire, mettendo in forse le nostre promesse. E come ha sottolineato la Banca centrale europea, i mercati possono già vedere come tutti stiamo cercando di indebolire le disposizioni del trattato, per renderci più accettabile l’idea di mancare gli obiettivi del deficit e del debito. I mercati sanno che la Germania e la Francia nel 2003 hanno distrutto il patto di stabilità e crescita, quindi ci sta che diffidino ancora una volta di noi e delle nostre promesse.

«No, miei cari colleghi, questo fiscal compact non è sufficiente, né i miei piani nazionali di austerità e liberalizzazione dei piani basteranno per distinguere in modo sicuro l’Italia dalla Grecia quando quel Paese andrà in default. L’unico modo per risolvere questo problema, l’unico modo per far sì che l’inevitabile uscita della Grecia non sia un disastro, è che voi due, il che significa soprattutto la Germania, accettiate la responsabilità collettiva per i debiti della zona euro, emettendo eurobond garantiti congiuntamente.

«Questi eurobond possono avere una durata limitata nel tempo e devono essere subordinati sia al fiscal compact sia ai nostri piani di liberalizzazione interna. Ma senza di essi, l’euro semplicemente non sopravviverà. So che questo significherà che il credito di ognuno verrà declassato, proprio come lo è stata la Francia e che ci sarà un grande scontro nella politica tedesca. Mi dispiace di essere maleducato, ma come direbbero gli americani: Guardate in faccia la realtà. Svegliatevi e sentite l’odore del caffè. E voi sapete che il miglior caffè lo facciamo noi italiani».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9651
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #24 inserito:: Febbraio 09, 2012, 10:31:57 am »

9/2/2012

La possibilità di cambiamento adesso è reale

BILL EMMOTT

Il tempo, si dice, è un gran dottore, ma il modo in cui l’immagine dell’Italia all’estero si è trasformata nei tre mesi passati tra le dimissioni del presidente Silvio Berlusconi il 12 novembre e l’odierna visita del presidente Mario Monti alla Casa Bianca è stato a dir poco miracoloso.

Mi dispiace di essere sacrilego, ma, come molti miracoli, questo è un po’ un’illusione. Tuttavia, le illusioni sono importanti, e così, per questo miracolo, valgono tre parole: centralità, verità e possibilità.

Il miracolo è un’illusione perché un Paese non può cambiare così tanto in tre mesi.

Questo punto di vista non nasce, vi assicuro, perché io sia il tipo di scrittore straniero che preferisce pensare che la Costa Concordia rappresenti l’Italia meglio del presidente Monti: sarebbe assurdo. Piuttosto, si pone perché nessuno, e nessuna nuova legge o misura di bilancio, può cambiare una situazione così velocemente.

La maggior parte delle riforme economiche e istituzionali che sono necessarie non sono state ancora convertite in legge, figuriamoci attuate. E chiaramente resta una quantità enorme di resistenza ai cambiamenti che vengono proposti, in tutti i campi, sia il diritto del lavoro o la disciplina fiscale o la liberalizzazione dei mercati e delle professioni. Non si può assolvere un peccatore che non si è pentito, ha scritto Dante Alighieri, ed è tutt’altro che chiaro se il pentimento ci sia stato.

Anche così, la questione del cambiamento di rotta italiano ha raggiunto uno status di centralità, per questo il presidente Barack Obama sente il desiderio di incoraggiarlo. Per centralità si intende la percezione che il destino dell’Italia e il suo futuro siano improvvisamente importanti per il futuro dell’Europa e, a sua volta, per il futuro dell’Occidente nel suo complesso. Questo è precedente al 12 novembre, ma è diventato più urgente che mai in quel mese così caldo per i mercati obbligazionari.

Come i mercati obbligazionari avevano riconosciuto allora, l’Italia conta, tanto per gli americani come per i colleghi europei, prima di tutto per le sue dimensioni: sia come terzo maggior governo debitore al mondo (dopo America e Giappone) che come terza maggiore economia dell’eurozona (dopo Germania e Francia), una crisi del debito sovrano e una profonda recessione in Italia sarebbero veramente pericolose per tutti i Paesi ad essa strettamente legati, il che significa Europa e America.

L’ombra di una tale crisi è diventata più minacciosa a causa della crescente aspettativa di un default del debito greco, un’aspettativa che sta di nuovo crescendo. Questo non si traduce in rendimenti pericolosamente elevati dei titoli obbligazionari italiani, soprattutto perché un altro italiano assai stimato, Mario Draghi alla Banca centrale europea, ha scongiurato il pericolo di una crisi bancaria europea con la sua tempestiva e massiccia offerta alle banche di prestiti illimitati a tre anni.

L’Italia, però, è centrale anche per motivi diversi dal suo essere semplicemente una pericolosa bomba a orologeria economica. In primo luogo perché la sua stagnazione e paralisi politica nel corso degli ultimi 20 anni si presenta al resto dell’Occidente come un duro avvertimento ma anche come un’opportunità.

L’avvertimento riguarda il possibile lento, inesorabile declino se l’onere del debito non viene affrontato e se un’economia e una società perdono la capacità di evolversi, di cambiare, il tratto essenziale che i Paesi capitalisti democratici devono avere se vogliono sopravvivere e prosperare in questa epoca di grande fermento tecnologico e politico. L’opportunità, tuttavia è quella della ripresa e del rinnovamento, persino di un rinascimento, se la liberalizzazione s’impone e riprende un’evoluzione dinamica.

Se l’Italia potrà tornare a essere un’economia di mercato trainante, come durante gli Anni 50 e 60, allora c’è speranza per l’Europa e l’Occidente. Se non sarà possibile, gli oneri per gli altri Paesi saranno maggiori e più deboli le loro possibilità di successo.

L’Italia è strategica anche per la ragione che, in termini personali, stava dietro il famoso titolo di copertina «Inadatto a governare l’Italia», che volli quando ero direttore di The Economist, nel 2001. Ovvero che, durante vent’anni di politica dominata da Silvio Berlusconi, l’Italia ha reso evidente il pericolo che un governo democratico diventi ostaggio di grandi aziende, dei media e del potere personale. Le leggi vengono applicate iniquamente e piegate all’uso personale, il normale ruolo di regolamentazione del governo è sovvertito, la Costituzione è minata, e il flusso di informazioni è gravemente distorto.

Questo è importante – ancora oggi – soprattutto per l’Italia medesima, ma è anche esattamente la stessa preoccupazione che sovrasta la politica americana quando qualcuno si lamenta del potere di Wall Street o delle grandi compagnie petrolifere, o di altri lobbisti. È la paura corrosiva che lo strapotere possa distorcere o addirittura guidare le decisioni democratiche. La fine, almeno, di quel potere che aveva occupato Palazzo Chigi, è di grande importanza simbolica per le altre democrazie occidentali.

Uno degli effetti di quel potere, tuttavia, è la seconda parola determinante per questo miracolo: verità. Altri governi in Europa e certamente gli Stati Uniti sono giunti alla conclusione che non potevano fidarsi della parola dell’Italia con il governo Berlusconi. Non era il caso delle questioni militari, motivo per cui l’amministrazione Bush era cordiale con l’Italia, grazie ai dispiegamenti militari in Iraq e in Afghanistan. Ma valeva per tutto il resto.

Annunci, promesse, affermazioni, dichiarazioni d’intenti: i governi stranieri erano arrivati ad attribuire loro la credibilità di uno spettacolo teatrale. E’ stato triste vedere il presidente Berlusconi perseverare in questa abitudine nella sua intervista con il Financial Times, pubblicata il 4 febbraio, dove ha di nuovo fatto la sua promessa, impossibile da credere, di lasciare la politica in prima linea, ripetuto le sue incredibili smentite sul bunga-bunga, solo per tenere quella frase agli occhi dell’opinione pubblica, e reiterato gli attacchi alla Costituzione italiana che mettono in risalto l’inadeguatezza del suo potere.

Sono stato particolarmente colpito da quell’intervista, bisogna ammetterlo, perché recentemente sono stato trascinato nel solito balletto dal presidente Berlusconi in persona. A dicembre, a un evento al Quirinale, quando gli avevo detto che stavo girando un documentario sull’Italia, aveva detto spontaneamente che «era a mia disposizione» per un’intervista. In seguito ha negato di aver mai offerto una intervista filmata, sostenendo che doveva essere stato un malinteso.

Al contrario, ogni parola che dice il presidente Monti è ritenuta degna di fede dai governi stranieri. Sanno che affronta enormi difficoltà. Ma pensano che valga la pena di parlargli e di sostenerlo, perché possono credere a ciò che dice.

E questo ci porta alla possibilità. L’illusione della trasformazione miracolosa dell’immagine dell’Italia è che certamente l’Italia non si è trasformata, né è fuori pericolo dal punto di vista finanziario o economico. La recessione peggiorerà le finanze pubbliche, rendendo più che possibile il varo di un altro pacchetto di misure fiscali entro la fine dell’anno se si devono continuare a sostenere i mercati obbligazionari e a ottemperare agli obiettivi di bilancio della zona euro. La liberalizzazione e la riforma del lavoro sarà difficile da attuare, e ci vorranno molti anni perché abbia un effetto significativo sulla crescita economica. Tanto la parte politica come quella economica di questo processo sono irte di pericoli.

Ma ciò che è cambiato è che ora c’è una reale possibilità di cambiamento. C’è qualcosa da sollecitare e in cui sperare. Il governo Monti, e il sostegno parlamentare e pubblico che lo circondano, rappresentano per l’Occidente una luce brillante di possibilità in un paesaggio altrimenti oscuro. Alla fine, il Paese che ha più o meno inventato il capitalismo moderno, che ha dato origine al Rinascimento che ha prodotto l’uomo moderno, si sta risvegliando dopo un lungo sonno catatonico. Questa è una buona ragione per prestare attenzione, e offrire un caloroso benvenuto a Washington.

traduzione di Carla Reschia

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9753
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #25 inserito:: Febbraio 28, 2012, 05:37:30 pm »

28/2/2012 - LA CRESCITA CINESE

Stavolta Pechino deve rischiare

BILL EMMOTT

La Cina è uno di quei Paesi, e di quelle economie, che ti fanno venire le vertigini. Appena ti sembra di aver colto le regole base di come funziona la Cina e la direzione nella quale sta andando, tutto cambia. Può essere frustrante per gli osservatori stranieri e i concorrenti, ma non deve certo sorprendere. Il fatto che l’economia cinese cresce del 10 per cento l’anno significa che ogni sette anni il suo Pil raddoppia. E non è possibile senza cambiare radicalmente, sia sul piano sociale sia su quello economico.

Dunque, il cambiamento in Cina è routine. Ora, in un nuovo rapporto intitolato «Cina 2030», la Banca Mondiale afferma che il Paese è giunto a un punto di svolta.

Potrebbe - dicono gli autori del documento - continuare a crescere rapidamente per i prossimi due decenni, seppure a un tasso più moderato del 6-7 per cento annuo, e potrebbe conseguire questo risultato senza distruggere l’ambiente di tutto il pianeta o la propria società. Ma solo a condizione di un cambiamento sostanziale.

Le proposte di cambiamento contenute nel rapporto della Banca Mondiale sono piuttosto comuni e convenzionali, sia perché l’argomento è già stato affrontato da altri analisti, sia perché il rapporto è stato scritto in collaborazione con i rappresentanti del governo cinese. La questione più interessante non riguarda le proposte in sé - che consistono essenzialmente nel diventare più innovativi, verdi, egualitari e privatizzati - bensì quanto il cambiare possa davvero restare l’eterna routine cinese.

In linea di principio, è possibile. Uno dei motivi è che si tratta di un Paese così vasto e vario. Lo sviluppo può migrare geograficamente, e lo sta facendo, esattamente come fanno già i lavoratori cinesi. Con una popolazione di 1,3 miliardi di persone, la Cina è quattro Americhe in un solo Paese. E come gli Stati Uniti nella loro storia hanno spesso fatto grandi progressi in alcune regioni, spostando sia la localizzazione che la natura della crescita, così la Cina può fare altrettanto. E ciò le conferisce una flessibilità interna.

La seconda ragione è il grande pragmatismo, che risale all’ascesa alla guida del Paese di Deng Xiaoping nel 1978. «Non importa se il gatto è nero o bianco, basta che dia la caccia ai topi», disse in una sua famosa frase. E quindi, le politiche sono cambiate, rispondendo ai problemi che sorgevano come alle nuove opportunità che si aprivano. Il Partito comunista cinese in realtà non ha un’ideologia che vada oltre l’imperativo di conservare il proprio potere e sopravvivere.

Negli ultimi decenni sono state scritte tonnellate di libri e articoli che predicevano l’imminente collasso della Cina. Di solito, l’argomentazione si basava sull’idea che il Paese stesse applicando politiche economiche sbagliate, o che stava andando incontro alla destabilizzazione politica e a una rivolta contro il Partito comunista. Tutte queste previsioni si sono rivelate sbagliate. Le previsioni economiche di regola hanno sottovalutato la flessibilità della Cina, la sua capacità di assorbire i problemi, gli choc e gli sprechi. Le previsioni politiche hanno sottovalutato la flessibilità e la resistenza del Partito comunista, così come la tolleranza dei cinesi nei confronti di un governo autoritario, a condizione che i loro redditi e le loro opportunità continuassero a migliorare.

Ma non si può contare in eterno né sulla flessibilità, né sulla resistenza, nel campo economico come in quello politico. In realtà, la maggiore preoccupazione è - o dovrebbe essere - la possibilità che la flessibilità e la resistenza possano venire in contraddizione l’una con l’altra, in modi che la Banca Mondiale è stata costretta a descrivere in modo fin troppo educato.

La forza e la resistenza del Partito comunista e dei suoi strumenti di governo sono stati costruiti in una maniera brillante: fin dalla morte di Deng nel 1997, il partito si è trasformato dalle sue vecchie origini ideologiche e rivoluzionarie dei tempi di Mao, per diventare essenzialmente una burocrazia meritocratica. Nessuno può più avere il potere che avevano avuto il presidente Mao e poi lo stesso Deng. Ora i leader sono soggetti a rigidi limiti temporali di mandato, e tutte le cariche nel partito vengono sottoposte a regolare rotazione. Uno di questi avvicendamenti incombe quest’anno, quando il presidente Hu Jintao e il suo premier, Wen Jiabao, si ritireranno al 18˚ Congresso in autunno, dopo nove anni in carica, e verranno sostituiti - o almeno così si pensa - da Xi Jinping e Li Keqiang. Questa rotazione al vertice, insieme a quella di tutte le cariche di partito, serve a tenere la corruzione almeno parzialmente sotto controllo, e a evitare devastanti lotte di potere. Finora, questo sistema ha funzionato in maniera superba.

L’altra cosa che fa questo sistema, però, è incoraggiare la timidezza e la gradualità. Il presidente Hu è stato al potere per quasi dieci anni, ma non lascerà riforme o trasformazioni maggiori associate al suo nome. La Cina non pratica più «grandi balzi in avanti» promossi con risultati devastanti da Mao negli Anni 50. La sua burocrazia è troppo conservatrice. Nessuno vuole correre rischi, o almeno così appare.

Il tipo di proposte avanzate dalla Banca Mondiale, e discusse da analisti e funzionari cinesi, richiede invece dei rischi. Nelle ultime settimane si è assistito a un improvviso attacco di sincerità da parte di funzionari legati alla Banca centrale cinese, che hanno esortato una liberalizzazione più rapida dei mercati del capitale, addirittura della convertibilità della moneta. Ma questo sarebbe rischioso. E’ poco probabile che la leadership uscente voglia correre un tale rischio, e non sappiamo ancora se la nuova dirigenza sarà più spavalda.

Il pragmatismo e il diffuso desiderio di continuare a crescere, a tirare ancora più cinesi fuori dalla povertà e a trasformare la Cina in un Paese ricco, potrebbero alla fine spingere la burocrazia a essere più flessibile. Ma ciò non è inevitabile. I sistemi, anche quelli di maggior successo, possono diventare calcificati e bloccati. E’ accaduto al Giappone negli Anni 80 e, in maniera diversa, sta accadendo all’Italia. Interessi particolari si trincerano. L’establishment diventa conservatore. E questa è oggi la maggiore minaccia alla crescita, anche della Cina.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9824
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #26 inserito:: Marzo 11, 2012, 10:59:50 am »

11/3/2012

Il dopo Fukushima, depressi e disillusi nel Paese del grande choc

BILL EMMOTT

E’ stato un anno di straordinarie ondate emotive. Quando si diffuse la notizia del terremoto, poi dello tsunami e dell’incidente nucleare nel Nord-Est del Giappone, l’11 marzo 2011, la prima reazione fu un misto di shock, stupore e solidarietà.

ome poteva un Paese ricco e sviluppato essere improvvisamente devastato da una catastrofe naturale di tale portata, nel bel mezzo di un normale venerdì pomeriggio? Grazie alla capillarità degli smartphone e delle fotocamere digitali, questo è stato anche uno dei disastri naturali più ripresi nella storia, così tutti potemmo assistere con orrore all’onda che spazzava via l’entroterra, abbattendo edifici alti e trascinando con sé flotte di auto e di barche.

Come s’iniziò a capire che erano rimaste uccise migliaia di persone - il numero ufficiale oggi, un anno dopo, è 19 mila, di cui più di tremila ancora elencate come disperse - la nostra reazione fu di tristezza. Ma poi il film mostrò la risposta della popolazione all’emergenza, e il rapido intervento delle forze armate giapponesi e della polizia. Questo mutò la nostra emozione in ammirazione, soprattutto per lo stoicismo mostrato dalla gente.

Ma l’ammirazione si tinse rapidamente di paura, quando si diffuse la notizia dell’incidente nucleare alla centrale energetica di Dai-ichi, a Fukushima. I reportage televisivi non si concentrarono più sulla costa devastata, ma si spostarono sull’esplosione a Fukushima e l’eventualità di una nuova Cernobil. Alcuni residenti stranieri, tra i quali purtroppo anche alcune ambasciate europee (ma non quelle inglesi e italiane), cominciarono a lasciare Tokyo.

Poi, accadde una cosa strana. O almeno, è strana per un giornalista che è infinitamente curioso degli altri Paesi e dei postumi delle crisi. La cosa strana è che, non appena divenne chiaro che la centrale elettrica Dai-Ichi di Fukushima in realtà non stava per esplodere provocando ulteriori devastazioni, gli stranieri persero interesse per il disastro giapponese. Le troupe televisive fecero le valigie e se ne andarono. Il Giappone fu più o meno di nuovo dimenticato.

Non, naturalmente, dai 120 milioni di giapponesi. Da allora le loro emozioni hanno continuato a oscillare in modo incontrollabile. In questo momento sembra che queste emozioni siano dominate da due sentimenti principali: depressione, nella grande area devastata, per la mancanza di progressi nella ricostruzione di città e villaggi, e disillusione, al confine della diffidenza, verso il governo.

È difficile stabilire quanto si debba essere critici per la lentezza dei progressi nella ricostruzione. Dopo tutto, il terremoto che ha sconvolto L’Aquila ha avuto luogo nel 2009 e la città italiana non è ancora stata ricostruita. La devastazione giapponese è stata su scala molto più vasta, ha distrutto completamente comunità, porti e terre coltivate lungo una striscia costiera fino a dieci chilometri di larghezza e oltre 300 di lunghezza. In quella zona, gli edifici non erano solo danneggiati, come accade in un terremoto. Sono stati completamente distrutti, come colpiti da decine di bombe atomiche. Per questo non potevano essere ricostruiti, nemmeno in parte, in appena un anno.

Tuttavia, quello che ho provato quando a ottobre ho rivisitato parte della zona devastata, la stessa che avevo visitato meno di un mese dopo lo tsunami, è stata la mancanza di speranza, la sensazione che le città non saranno mai ricostruite. I detriti sono stati eliminati, ma si trovano ancora in enormi cumuli. Per i residenti evacuati sono stati costruiti alloggi temporanei, ma spesso lontano dalle loro vecchie case. Sono sempre in corso di elaborazione e discussione piani per ricostruire le comunità, ma finora ben poco è stato messo in pratica.

Lo stesso accadrebbe nella maggior parte dei Paesi occidentali, forse in tutti. La politica e la burocrazia si aggrovigliano l’una con l’altra, soprattutto di fronte a un compito di tale portata. In Giappone, però, le persone hanno imparato ad aspettarsi di più. Sono cresciute credendo che il loro Stato, il loro governo, fossero efficienti e fattivi. Quello Stato, dopo tutto, aveva ricostruito il Giappone dopo il 1945, facendone uno dei Paesi più sicuri, più confortevoli e più ricchi del mondo.

La disillusione verso lo Stato giapponese, per la politica come per la burocrazia, cresce ormai da due decenni. Nel 1990, l’incapacità di rispondere con successo alla crisi finanziaria che aveva colpito il Giappone scosse la fiducia della gente nel governo, così come una serie di scandali, inclusi diversi piccoli incidenti nucleari. Ora, però, la confusione del dopo disastro, combinata in modo dirompente con la crisi della centrale nucleare Dai-Ichi di Fukushima, ha distrutto la fiducia nel governo, quasi come lo tsunami ha distrutto le comunità costiere.

Il contrasto con il settore privato è stato netto. La ferrovia ad alta velocità a gestione privata e l’aeroporto di Sendai, nella zona colpita dallo tsunami, sono stati riparati e riaperti nel giro di tre mesi. Il mondo, e i produttori giapponesi nel resto del Paese, inizialmente sono rimasti sconvolti vedendo la dipendenza delle case automobilistiche e delle aziende di elettronica da componenti chiave realizzati in fabbriche che si trovavano nel Nord-est del Giappone.

In un primo momento, i proprietari di quelle fabbriche danneggiate avevano previsto che sarebbero state riaperte in un lasso di tempo di cinque-sei mesi dopo il disastro. In realtà, la maggior parte è stata riaperta molto prima. È stata una straordinaria prova di ciò che il settore privato giapponese può fare nel caso di una crisi, quando ognuno si rimbocca le maniche e si mette al lavoro.

La risposta politica e del governo è stata l’opposto. Inizialmente, la crisi ha prodotto forti richiami dei politici al senso di unità nazionale, inviti a sospendere i giochi politici e a dare una risposta collettiva al disastro. Ma quella prima coesione è durata solo poche settimane.
Da allora la politica è tornata allo stato disfunzionale, erratico e disunito in cui si trovava prima dell’11 marzo. Il Giappone ha cambiato il suo primo ministro cinque mesi dopo il disastro, e sia l’opposizione sia le grandi fazioni all’interno del partito di governo hanno costantemente manovrato per tentare di forzare la mano verso le elezioni. In un tale clima non sorprende che la pianificazione per la ricostruzione sia stata lenta, figuriamoci la sua attuazione.

Questo ha anche rallentato la ripresa economica. Di solito dopo le catastrofi naturali, il Pil in un primo momento cade, ma poi rimbalza rapidamente perché il denaro viene speso in grandi quantità per la ricostruzione. Qualcosa del genere è successo subito, ma è stato neutralizzato dalle incertezze sulla politica e il governo, che hanno scoraggiato gli investimenti aziendali.

La più grande e più duratura fonte di sfiducia, delusione e incertezza è stata l’energia nucleare. Un trend positivo è stato rappresentato dalla maggiore apertura da parte del governo e da un coinvolgimento più attivo delle organizzazioni non profit e delle fondazioni nell’indagare che cosa è andato storto. Ma è stata scioccante la rivelazione di quanto fossero addomesticati e inadeguati i controlli di prevenzione per gli incidenti nucleari, della rete di complicità tra legislatori, politici, media e affari per coprire i pericoli, di quanto il Paese sia stato vicino a un disastro ancora peggiore.

Questo fa sì che in Giappone delusione, sfiducia e persino rabbia siano le eredità emotive più durature dell’ultimo anno. Ci vorrà molto tempo prima che quelle emozioni svaniscano. Tuttavia, un’altra emozione importante non dev’essere trascurata: è la tristezza per la sorte di quelle 19 mila persone in quel giorno incredibile di marzo, un anno fa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9871
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #27 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:01:28 pm »

11/4/2012

I mercati chiedono altre risposte

BILL EMMOTT

A dare retta ai mercati finanziari, la differenza tra un felice recupero e un imminente disastro risiede in 80.000 posti di lavoro in America, un Paese con una forza lavoro di 155 milioni di persone, oltre che in alcune notizie leggermente negative dalla Cina. Naturalmente questo non può essere vero, soprattutto da un punto di vista europeo. Eppure, lo spavento post-pasquale dei mercati ci ricorda qualcosa che è reale.

È un errore prestare troppa attenzione, di là di una divertita ammirazione o dell’orrore, ai movimenti giornalieri o settimanali nei mercati azionari, obbligazionari o valutari. La ragione è semplice. E cioè che l'arte del trading finanziario non ha nulla a che fare con l'individuazione di reali tendenze economiche.

È un’arte che ha semmai a che fare con l’interpretazione della psicologia di un branco di animali, che è una buona approssimazione per gli operatori finanziari.

Per fare soldi, devi indovinare da che parte si metterà a correre la mandria. Che cosa succederà il giorno o la settimana o il mese successivo alla vostra attività non è del minimo interesse.

E quindi un calo improvviso delle azioni o un aumento degli spread obbligazionari non indica che nell’economia mondiale sia cambiato qualcosa di sostanziale. L'economia statunitense sembrava avere una crescita moderata, di circa il 2-2,5% annuo, anche prima che i dati sui posti di lavoro a marzo provocassero una piccola delusione. Anche l’economia cinese stava già rallentando prima delle notizie un po' deludenti sull'inflazione e gli ordini di produzione.

Eppure, dietro a tutto questo e al comportamento nervoso del mercato delle obbligazioni europee e delle azioni, si cela una verità fondamentale. Ovvero che né i problemi di debito sovrano della zona euro nel suo complesso, né quelli dell’Italia, in particolare, sono stati risolti.
E ogni nuovo dato sulla crescita nell'eurozona e sulla disoccupazione oggi suggerisce che la recessione nell' area dell'euro, e in particolare nell'Europa meridionale, sta peggiorando.

La crisi del debito sovrano è per metà semplice aritmetica e per metà ha a che fare con la volontà politica. La semplice aritmetica dice che se le economie di Spagna e Italia quest’anno andranno incontro a una recessione più grave di quanto previsto appena un paio di mesi fa, una o entrambe mancheranno gli obiettivi per ridurre i loro disavanzi pubblici. Ciò significa che se il presidente Monti è davvero determinato ad attenersi al patto fiscale europeo che ha firmato a dicembre, avrebbe bisogno di varare un'altra serie di manovre di bilancio, aumenti del prelievo fiscale e tagli di spesa.

La mia scommessa è che questo probabilmente accadrà: che egli dovrà infrangere la promessa di non praticare quest’anno ulteriori tagli di bilancio. E qui entra in gioco la volontà politica. I mercati, il che significa le persone che comprano e vendono titoli di Stato, devono scommettere se la Spagna e l'Italia faranno o meno ciò che è necessario per rispettare i loro impegni nell’eurozona. Di per sé, è chiaro, ovviamente, che il premier Monti abbia davvero questa volontà politica. Ma non può essere considerato isolatamente.

Le prime grandi questioni politiche che incombono sui mercati provengono da altri Paesi. Certamente dalla Grecia, dove i sondaggi d'opinione indicano che i principali vincitori delle prossime elezioni parlamentari del 6 maggio saranno i piccoli partiti anti-riforma e anti-austerità. Ma anche dalla Francia, dove una vittoria del socialista François Hollande al secondo turno delle elezioni presidenziali in quello stesso giorno potrebbe destabilizzare l’accordo fiscale della zona euro.

Ma vi sono questioni politiche anche in Italia. Come Monti sa molto bene, le riforme condotte a termine durante i suoi quattro mesi in carica appaiono notevoli solo in confronto a quelle dei tre governi che l’hanno preceduto. Non lo sono rispetto alla dimensione del compito.

Ha avviato un importante ma modesto programma di liberalizzazione, ha dato un piccolo stimolo alle forze della concorrenza, e, se riuscirà a diventare legge, ha varato una riforma importante ma non epocale delle leggi sul lavoro. Nessun acquirente di titoli di Stato italiani può averne tratto la conclusione che le prospettive di crescita economica dell'Italia siano state così trasformate.

Il calo dei rendimenti dei titoli di Stato italiani deve qualcosa alla credibilità e alle riforme del governo Monti ma molto di più all’enorme sussidio da parte della Banca centrale europea, sotto forma di prestiti triennali agevolati alle banche europee che sono state convinte, soprattutto quelle italiane, a prendersi un po’ di più del debito italiano.

Così non dovrebbe sorprendere nessuno che le cattive notizie economiche abbiano convinto gli operatori finanziari a scommettere che il branco del mercato obbligazionario sarebbe scappato dall’Italia. Era una buona e facile scommessa a breve termine.

La domanda è se potrebbe anche diventare una buona scommessa a lungo termine. La risposta giace nella profondità della recessione italiana, nelle onde politiche che emergono dalla Grecia e dalla Francia, nella capacità del governo Monti di far passare ulteriori riforme, e, in definitiva, dalla possibilità che questa fase di riforme possa durare. Se si crede che sarà giusto, nel migliore dei casi, un fenomeno passeggero, questione di un anno, una transizione tra una politica vecchia e una ancora più vecchia, allora non ci può essere alcun dubbio: la mandria fuggirà in preda al panico.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9982
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #28 inserito:: Maggio 06, 2012, 04:56:40 pm »

6/5/2012

La nuova via dell'Europa nasce dai voti di protesta

BILL EMMOTT

La democrazia è, essenzialmente, un meccanismo di controllo, di responsabilità. Dunque le elezioni sono l’occasione per esprimere la rabbia, per protestare, per punire chi è stato al governo nei periodi difficili. Il voto di oggi, in Francia, Grecia, Italia e Germania, così come le consultazioni locali il 3 maggio in Gran Bretagna, sarà principalmente un momento di protesta. Ma potrebbe anche costituire un punto di svolta.

La protesta non sorprende considerando che gran parte dell’Europa occidentale è alla sua seconda recessione nel giro di cinque anni, i disoccupati sono almeno un decimo della forza lavoro e la disoccupazione giovanile è al 30% in Italia e 50% in Spagna e Grecia.

E in particolare non sorprende perché c’è così poco in cui sperare o essere ottimisti. La politica dei governi dell’Eurozona è dominata
dall’austerità fiscale, dalla riduzione dei deficit di bilancio attraverso l’aumento delle tasse e dalla riduzione della spesa pubblica.
Per quei Paesi, come l’Italia, con un debito pubblico così ingente che i creditori non sono più disposti a finanziarlo salvo che non sia tagliato, l’austerità è inevitabile, ma garantisce recessione, disoccupazione e mancanza di speranza, almeno quando è l’unica politica e viene presentata come la sola strada percorribile.

Le politiche pubbliche dominate dall’austerità, il mantra sulla disciplina fiscale come unica direzione possibile, sono ciò che rendono le elezioni di oggi, in particolare quelle in Grecia e in Francia, un potenziale punto di svolta. La difficoltà nel prevedere ciò che porteranno, tuttavia, deriva dal fatto che la Grecia e la Francia potrebbero, potenzialmente, indirizzare l’Europa su nuove vie.

Le elezioni parlamentari greche sono importanti perché nel corpo dei 17 Paesi dell’Eurozona, la Grecia è la parte più malata, l’arto in cancrena. La sua economia è in recessione per il quarto anno consecutivo.
Nonostante i diversi massicci salvataggi finanziari e i grossi sconti sul suo debito pubblico da parte dei creditori privati, la Grecia con ogni evidenza continua a non riuscire ad affrontare il suo attuale livello di debito. Si dovrà scovare qualche nuova soluzione.

Come in tutte le elezioni europee oggi in Grecia i partiti estremisti e di protesta hanno buone prospettive. Ma mentre un largo consenso per il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo non trasformerà la politica italiana o cambierà le politiche del presidente Monti, molti voti agli estremisti greci, inclusa, soprattutto, l’ultra-destra dell’Alba d’oro, potrebbero trasformare la politica greca e il suo percorso se basteranno a fare sì che i due principali grandi partiti, Nea Demokratia e il socialista Pasok, non saranno in grado di avere la maggioranza in una coalizione.

Il modo più importante in cui tali soggetti potrebbero trasformare la politica greca è cambiare il rapporto di forze in Parlamento, orientandolo contro la prosecuzione dell’austerità e delle riforme, il che significa quasi certamente contro il proseguimento dell’adesione all’euro.

La maggior parte degli economisti privati hanno a lungo considerato che un completo default del debito greco sia più o meno inevitabile, ma hanno previsto che questo momento non sarebbe arrivato fino al 2013, quando l’austerità fiscale potrebbe essere progredita abbastanza da permettere al Paese di sopravvivere senza nuovi prestiti stranieri. Ma un voto di grandi proporzioni per i partiti estremisti oggi potrebbe avvicinare la data del default.
L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe, a parere di questo commentatore economico britannico almeno, salutare per l’euro, così come è bene, per un corpo umano, se un arto in cancrena viene amputato. Ma, proprio come in un’operazione chirurgica, ci sarebbero rischi, in particolare il panico dei mercati obbligazionari e forse nuovi crolli tra le banche europee. Sarebbe un momento molto pericoloso.

Vale anche per la Francia se questo Paese oggi elegge come suo presidente François Hollande, il socialista? No, non nello stesso modo. A differenza del presidente Nicolas Sarkozy, il signor Hollande è un tipico membro dell’élite francese, educato in una delle sue «grandes écoles». Non sarà un pericoloso radicale. Ma la sua elezione potrebbe cambiare tutto il dibattito europeo sulla crescita economica.

Una vittoria di Hollande causerà, questo sì, qualche pericolo a breve termine. Questo deriva dal fatto che a giugno in Francia si terranno anche le elezioni generali parlamentari, e così il signor Hollande saprà quanto potrà essere forte il suo governo solo dopo il voto di giugno.
Egli, in effetti, dovrà fare campagna elettorale ancora per un mese, nella speranza di influenzare i sondaggi e questo aumenterà l’incertezza che circonda l’Europa.

Principalmente, però, l’elezione di Hollande sarà importante perché promette di rilanciare o forse, per meglio dire, destabilizzare, le relazioni inter-governative centrali in Europa, che sono quelle tra Germania e Francia, prima di tutto, e poi tra questi due e gli altri grandi Paesi, il che significa Italia, Spagna, Paesi Bassi e, in modo più distaccato, Gran Bretagna.

François Hollande ha detto che vuole un nuovo accento sulla crescita e che per ottenerlo rinegozierà il trattato fiscale di dicembre.
La questione che rimane da risolvere è cosa questo può e vuole dire. Non significa una modifica delle norme che disciplinano il deficit di bilancio e il debito: la Germania non accetterà un tale cambiamento e la Francia non avrebbe il coraggio di chiederlo. Ma potrebbe significare due altre cose.

Un «patto per crescere», come ha chiesto il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, può significare soltanto una combinazione di liberalizzazione del mercato e maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture. La liberalizzazione del mercato, sotto forma di un esteso e approfondito Mercato unico europeo, è quello che ha chiesto a febbraio Mario Monti nella lettera agli altri governi europei, firmata anche dal britannico David Cameron e da altri nove. Finora la Francia si è opposta e il signor Hollande ha fatto una campagna contro la liberalizzazione.

L’altro aspetto, e cioè gli investimenti pubblici, è possibile solo se i Paesi con buoni rating e bassi costi finanziari decidono di finanziarli. Questo dovrebbe essere fatto attraverso una grande espansione della Banca europea per gli investimenti, con capitali provenienti principalmente dalla Germania e da altri creditori.
Perché la Germania dovrebbe essere d’accordo? La prima risposta è che i tedeschi, come tutti gli altri, si rendono conto che la recessione protratta a lungo è politicamente pericolosa. Più a lungo si va avanti, più i partiti estremisti ne trarranno vantaggio. La seconda risposta è che se la Francia dovesse fare un patto con l’Italia e gli altri Paesi, e almeno appoggiare la liberalizzazione del mercato, ci sarebbe la possibilità di un ritorno: più investimenti pubblici in cambio di una riforma più strutturale, che i tedeschi dovrebbero approvare.
In tali circostanze sarebbe difficile per la Germania bloccare una direzione completamente supportata da Mario Monti.

E la terza risposta è che anche la Germania andrà presto al voto, nell’autunno del 2013. Se per allora, la situazione economica europea sarà ulteriormente peggiorata, allora anche il Cancelliere Angela Merkel dovrà affrontare le proteste. I suoi partner di coalizione,
i liberaldemocratici, sono praticamente morti come partito politico.
Nel 2013 la sua scelta di un nuovo partner cadrà sul partito dei Verdi o su una grande coalizione con il partito socialdemocratico, il principale movimento di opposizione. Lei allora sarà in una posizione più forte se sarà vista come chi ha davvero salvato l’euro e con esso
l’economia europea. Le elezioni di oggi in Grecia potrebbero essere pericolose per questo progetto, le elezioni in Francia, lo metteranno in discussione, ma con la Francia, almeno, un accordo è possibile.

(Traduzione di Carla Reschia)

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10067
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #29 inserito:: Giugno 10, 2012, 11:22:02 pm »

10/6/2012

E' necessario affrontare la verità

BILL EMMOTT

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva ragione a dire, lo scorso novembre, al momento dell’insediamento del nuovo governo Monti, che era tempo di dire e guardare in faccia la verità. Purtroppo poche persone sembrano averlo ascoltato. Anche tra i governi leader della zona euro, dove è ancora più necessario affrontare la verità.
La necessità di affrontare la verità sull’Eurozona è la più urgente, in Italia se si continua a non riconoscere la verità, il fallimento potrebbe rivelarsi ancora più tragico.

La verità sull’Eurozona comincia con la situazione attuale. Ovvero che fin dall’inizio della crisi del debito sovrano, circa due anni fa, le politiche condotte da Germania e Francia e seguite dal resto della zona hanno rappresentato dei tentativi di rinviare il problema, per guadagnare tempo. La speranza era che nel tempo così guadagnato il piccolo Paese problematico, la Grecia, sarebbe riuscito a stabilizzare le sue finanze pubbliche, e anche i grandi Paesi problematici, Italia e Spagna, avrebbero messo sotto controllo i loro debiti riuscendo anche a riformare il loro mercato del lavoro e a stimolare la competitività.

Questa politica è servita a guadagnare tempo, ma quel tempo ormai è esaurito, per cui la politica è diventata controproducente. I Paesi dell’Europa meridionale sono intrappolati in una spirale economica discendente, una spirale di morte: i tagli di bilancio fanno rallentare le loro economie, un processo che scoraggia le imprese dal prestare o investire soldi, indebolendole ulteriormente. Il risultato in Spagna e in Italia è che due Paesi europei che nel 2008-10 potevano vantare la buona organizzazione e la solidità dei loro sistemi bancari ora hanno banche deboli e fragili. Il mercato immobiliare spagnolo continua a generare debiti sempre più alti mentre l’economia declina, che è poi il motivo che ha costretto il governo spagnolo a chiedere fondi internazionali per ricapitalizzare le banche. Quelle italiane detengono troppi titoli di Stato nazionali sul cui valore i mercati ora s’interrogano, e i loro clienti sono sempre più deboli.

La disciplina fiscale, secondo le regole del Trattato di bilancio inter-governativo lanciato lo scorso dicembre, è la grande idea dell’Eurozona per affrontare questi problemi. Alcuni la definiscono «un’unione fiscale». Ma la verità è che non si tratta affatto di un’unione fiscale, che richiederebbe un ministero delle Finanze comunitario che da Bruxelles imposti una politica che rifletta le situazioni economiche nei 17 Stati dell’Eurozona. Al contrario, il Trattato stabilisce solo un insieme condiviso di regole fiscali, da applicare quasi a prescindere dalla situazione economica di ogni Paese.

È possibile che si possa guadagnare ancora un po’ di tempo: forse grazie agli elettori greci che potrebbero anche non scegliere un governo anti-austerità, ma piuttosto uno che sostenga ancora il corso attuale; e forse, anche già questo fine settimana, grazie a un accordo a sostegno delle banche spagnole, che eliminerebbe uno dei più grandi timori su ciò che potrebbe accadere se i greci votassero per il partito di estrema sinistra Syriza e finissero per non onorare i loro debiti. La Spagna, almeno, non collasserebbe.

Ma la spirale discendente continuerebbe. Perché non si è fatto nulla per fermarla? Non è perché i politici tedeschi o francesi o gli altri non capiscano la situazione. È perché non sono ancora riusciti ad affrontare la verità sull’euro.

Il fatto è che nel 1999 la moneta unica è nata all’insegna della solidarietà, ma in una realtà di responsabilità nazionali separate. La pretesa della solidarietà ha fatto sì che le regole macro-economiche che erano state stabilite nel Trattato di Maastricht del 1992 fossero immediatamente distrutte, dal momento che avrebbero dovuto impedire nel 1999 l’adesione dell’Italia e nel 2001 quella della Grecia. La realtà della responsabilità nazionale - ciascuno deve fare i conti con i propri debiti e il proprio sistema bancario - ha fatto sì che la solidarietà fosse una finzione.

La verità superficiale su questo punto è che i tedeschi vogliono che la responsabilità resti nazionale, così come gli olandesi e alcuni altri, e che i francesi vogliono una solidarietà più vera. Una cosa sorprendente dei mercati dell’Eurozona nel corso dei due anni di crisi – il fatto che non siano mai stati veramente boicottati dagli investitori preoccupati - si spiega con il fatto che abbastanza investitori sembrano aver creduto che, alla fine, la Germania avrebbe ceduto e accettato la solidarietà.

Può essere. Ma stiamo esaurendo il tempo per scoprirlo. E intanto il problema potrebbe essere che il gusto per la solidarietà in Francia e in altri Paesi della zona euro, tra cui probabilmente l’Italia, è in declino. In molti Paesi la politica nazionale si sta rivoltando contro l’euro e le sue regole di austerità. Uno scenario da incubo potrebbe essere quello in cui i tedeschi finalmente accettano la solidarietà, proprio quando gli altri grandi Paesi sono costretti nella direzione opposta dalla rabbia dei loro elettori.

Nel breve termine, una soluzione basata su una qualche forma di solidarietà appare inevitabile: un salvataggio internazionale per le banche spagnole: idealmente qualche stimolo fiscale nei ricchi Paesi del Nord Europa, una forma limitata di obbligazioni garantite collettivamente, dedicate o agli investimenti nelle infrastrutture o al ripianamento della fetta maggiore del debito irlandese, portoghese e spagnolo, per esempio. Eppure, è importante ascoltare con attenzione la cancelliera Angela Mer-kel. Lei dice che l’Europa deve avere una maggiore integrazione politica ed economica. Ciò suggerisce chi vede i controlli collettivi, una cessione di sovranità, come pre-condizione per la solidarietà. Se è così, questo potrebbe rallentare il decorso delle cose, così come verificare se gli elettori della zona euro sono veramente disposti a vedere scomparire una maggiore autonomia. Questa non sembra essere l’opinione di Beppe Grillo, in ogni caso.

Perché a questo osservatore britannico sembra che in Italia la verità non sia stata accettata. Il governo Monti è in carica da sei mesi, il che potrebbe significare quasi due terzi del suo mandato, se i partiti politici insisteranno per elezioni anticipate a ottobre. Ma quante cose sono realmente cambiate?

Il principale risultato del governo Monti è stato quello iniziale: il rigore di bilancio. Questo è stato un grande obiettivo, che ha reso l’Italia l’unico Paese della zona euro davvero in grado di soddisfare le regole di bilancio. Ma non è stato accompagnato da alcuna sostanziale liberalizzazione del mercato, e neppure dalla pur molto discussa legge di riforma del mercato del lavoro. Gruppi di interesse di tutti i tipi, dai sindacati alle imprese agli stessi partiti politici, hanno bloccato il cambiamento.

Questa forse non è una sorpresa per gli italiani ormai logorati. Ma agli osservatori stranieri sembra una tragedia. Lo sarebbe davvero se l’Italia, già vulnerabile a causa del suo enorme debito pubblico, ponesse fine a quest’anno di governo tecnico con poche riforme sostanziali e un’economia e una società non meglio preparate ad affrontare qualunque tempesta possa arrivare dal resto dell'Europa.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10212
Registrato
Pagine: 1 [2] 3 4
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!