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« inserito:: Settembre 30, 2008, 12:14:40 pm » |
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I MERCATI
Il post-moderno debutta in economia
Per sua natura è «al di là del bene e del male» e se ne infischia della distinzione tra vero e falso, presunto idolo del passato
Inutile consultare i grandi economisti classici per capire la crisi attuale. Basta rileggere Il tulipano nero di Alexandre Dumas e lo spirito del capitalismo scenderà su di noi. L’alfa e l’omega è la speculazione, dinamica conquistatrice e opzione su un avvenire prospero da un lato. Dall'altro spirale perversa di speranze, accumulo di crediti ottenuti in base a pronostici ultra-ottimistici, castelli di carta spazzati via al sopraggiungere del primo fallimento. Prima una speculazione trasformata in molla positiva, venti anni di globalizzazione, un arricchimento non solo di alcuni ma della maggioranza del pianeta — vedi la Cina — poi patatrac, ecco la minaccia di un crollo proporzionale al successo precedente. Su scala un po' diversa, la logica dell'euforia speculativa sui tulipani evocata da Dumas annuncia quelle piramidi di crediti fittizi che sono i subprime.
Il capitalismo è la mutualizzazione dei pericoli e delle speranze. Da cui nascono il dinamismo e simultaneamente la speculazione sulla speculazione; la regolamentazione prudente e la trasgressione imprudente delle vecchie regole; la condivisione dei rischi e l'audacia di rischiare meglio di altri. Da cui nascono i fallimenti individuali o collettivi, che punteggiano un'espansione impossibile da controllare in anticipo, ma che da tre secoli è inaffondabile, malgrado successivi e giganteschi soprusi. Inutile contrapporre un capitalismo industriale ritenuto saggio e una sfera finanziaria destinata alla follia. Lo stesso progresso industriale, che certo non somiglia a un fiume tranquillo, alterna continuamente creazione e distruzione, abbandono delle vecchie forze produttive ed esplosione di nuove fonti di ricchezza. La finanza incoraggia questo movimento di distruzione creatrice, che definisce secolo dopo secolo l'occidentalizzazione del mondo.
Nulla di originale dunque nelle bolle che minacciano d'implosione l'economia planetaria, se non nell'incuria con la quale le si è lasciate gonfiare. Eppure, gli avvertimenti non sono mancati. Negli Stati Uniti (Enron) come in Francia (Crédit Lyonnais, Bnp), fenomeni di euforia finanziaria locali ma rovinosi hanno messo allo scoperto, non importa se ai vertici di imprese pubbliche o private, dirigenti napoleonici che credevano potersi permettere di tutto. E alcuni funzionari hanno lanciato le proprie imprese all'assalto di Hollywood, senza tuttavia trascurare i vantaggi personali, e già allora il contribuente dovette pagare i cocci rotti. Il problema non è tanto il tipo di tecnica finanziaria, che ormai ci promettono sarà controllata, quanto lo stato d'animo generale che ne ha consentito la fioritura sfrenata. Nei consigli di amministrazione ritroviamo il leitmotiv postmoderno: non c'è rischio, niente di male, come dimostrano i paracadute dorati.
Dalla fine della guerra fredda, la promessa di un mondo placato diffonde, urbi et orbi, l'annuncio di una storia senza sfide, senza conflitti, senza tragedie, che autorizza tutto e qualsiasi cosa. Una bolla speculativa si regge su una scommessa che si conferma da sé. È «performativa », secondo il linguista Austin. Per lo speculatore, accordare crediti significa far esistere. «La seduta è aperta!», proclama il presidente di un' assemblea—è vero per il solo fatto che lo dice —: la realtà si regola sul dire, mentre nei casi ordinari il dire, che non è più performativo ma indicativo, si regola sulla realtà. La bolla finanziaria accumula crediti su crediti e si arricchisce della propria auto-affermazione. Si rinchiude in un rapporto autoreferenziale e progressivamente abolisce il principio di realtà: sono effettivi soltanto i prodotti finanziari che i miei investimenti inventano.
Simile fantasma di onnipotenza napoleonica non anima solamente i trader, ma anche coloro che li lasciano rischiare; non solamente i titolari degli istituti finanziari,ma le autorità politiche, universitarie e mediatiche, che non si preoccupano di nulla. L'ideologia performativa — una cosa diventa vera per il solo fatto che la diciamo — governa l'occidentalizzazione del pianeta dalla fine della guerra fredda: poiché il campo avverso si è disgregato, l'avvenire ci appartiene e i pericoli fondamentali sono svaniti. Si può riconoscere nel diniego «performativo» di ogni riferimento al reale la follia chiusa dell'«immaginazione». Il postmoderno, che si istituisce «al di là del bene e del male» e se ne infischia della distinzione tra vero e falso, presunto idolo del passato, dà libero sfogo alla propria immaginazione e abita una bolla cosmica. L'euforia non è minore in materia politica che in manipolazione borsistica.
Ci sono voluti quasi dieci anni perché Bush, Condoleezza Rice, Blair e il quai d'Orsay scoprissero che Putin non è il good guy e il democratico in erba di cui si erano infatuati. Probabilmente, ci vorranno altri dieci anni prima che si proceda a una fredda valutazione delle due svolte decisive che hanno segnato la fine del XX secolo: la riunificazione di una grande parte d'Europa che, dalle rivoluzioni democratiche di Georgia e Ucraina, inquieta oltremodo il Cremlino. E l'emergere della Cina, che modifica da cima a fondo l'equilibrio mondiale. Da un lato, il «miracolo economico» suscitato dalla riforma di Deng Xiao Ping relega in maniera definitiva l'economismo collettivista marxista nel museo delle cere: il vantaggio dell'economia di mercato oggi salta agli occhi.
Dall'altro, un miracolo economico così enorme non garantisce affatto democrazia e coesistenza politica. Non dimentichiamo che i due miracoli economici più importanti del XX secolo, Germania e Giappone, sono all'origine dei 50 milioni di morti della Seconda guerra mondiale. Auguriamoci che il brivido anticipatore di una crisi universale ci offra l'occasione di uscire dalla bolla mentale post moderna, di raffreddare l'euforia dei nostri pii desideri e di osare finalmente guardare la verità in faccia. Ma temo così di enunciare un pio desiderio in più.
André Glucksmann traduzione Daniela Maggioni 30 settembre 2008
da corriere.it
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