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Autore Discussione: Marco Simoni. La politica del sindacato  (Letto 2241 volte)
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« inserito:: Settembre 29, 2008, 11:59:42 pm »

La politica del sindacato

Marco Simoni


Quale rapporto tra i sindacati e la politica? Quale il ruolo del sindacato nel disegno di politica economica alternativo al centrodestra? Le vicende recenti, dalla manifestazione contro il governo, alla vicenda Alitalia, agli attacchi di Berlusconi alla Cgil, hanno riportato queste domande cruciali in primo piano.

Una cosa è certa, senza un chiaro rapporto con i sindacati nessun partito o coalizione di centrosinistra può vincere le elezioni e governare per il tempo necessario a spostare gli equilibri della distribuzione nella direzione di una maggiore uguaglianza ed inclusione.

Questa conclusione deriva dalla semplice osservazione di vent’anni di governi di centrosinistra in Europa. Esistono, a grandi linee, due modelli possibili tra cui l’Italia ha oscillato negli ultimi quindici anni. Il primo è un modello nei quali i sindacati rimangono lontani dalla politica. Esso tende a prevalere laddove il sindacato è frammentato e diviso internamente, e il rapporto con i governi di centrosinistra rimane episodico o relativo a specifiche questioni di reciproco interesse. L’esempio tipico è quello del governo del New Labour in Inghilterra. La maggioranza dei sindacati inglesi ha sempre appoggiato Blair alle elezioni. Il suo governo ha allargato i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali, molti ministri e deputati avevano un passato da sindacalisti. Questo tuttavia non ha significato un rapporto stretto di negoziazione su ogni questione di politica economica perché, data la frammentazione del sindacato inglese, le contrattazioni si sarebbero tradotte nella impossibilità di concepire e attuare un disegno organico di sviluppo economico e riforma dello stato sociale.

Il modello opposto, quello dei Paesi del nord Europa, si basa al contrario su un sindacato estremamente coeso, che fa del referendum tra i lavoratori il principale strumento per risolvere le controversie interne al fine di raggiungere sempre, se serve a maggioranza, una piattaforma unitaria. In questo secondo modello è proprio la coesione interna a consentire al sindacato di avere un ruolo centrale nella formazione delle politiche economiche, cui tuttavia corrisponde una parallela responsabilità nella gestione del mercato del lavoro, la partecipazione in strutture bipartite locali di formazione professionale, la gestione delle indennità di disoccupazione, e più in generale il governo della “flessibilità”.

In questo secondo modello i sindacati hanno minore libertà di azione nel mercato del lavoro, il conflitto sociale è ridotto, in cambio di un ruolo centrale nella formazione delle politiche. Nel modello inglese, i sindacati sono più marginali nel dibattito pubblico, ma più liberi nel conflitto sociale, riuscendo spesso a strappare salari medi più alti, a fronte di uno stato sociale più debole.

Questa lunga premessa mi serve non per auspicare la prevalenza di un modello sull’altro anche in Italia, ma per sottolineare come la reciproca incertezza sulla strada da prendere, incertezza che ha riguardato tutti gli attori coinvolti, abbia comportato due conseguenze molto serie. Dal punto di vista economico stiamo soffrendo i difetti di entrambi i modelli senza godere dei loro benefici. Elevata conflittualità sociale, ma salari bassi. Grande influenza dei sindacati nelle aziende, senza un’alta produttività. Estrema flessibilità del lavoro, ma poche opportunità. Dal punto di vista politico, una mancanza di chiarezza sul ruolo del sindacato ha impedito la costituzione di un blocco sociale di sostegno alle politiche di centrosinistra, mantenendo l'Italia nel guado politico ed economico in cui il centrodestra ha interesse a rimanere: in cui le diseguaglianze aumentano, aumentano esclusi e precari, le fratture sociali e territoriali si approfondiscono.

Il periodo della concertazione negli anni ‘90 aveva fatto presagire lo sviluppo di un modello “coordinato” in cui i sindacati fossero impegnati in prima linea a governare i fenomeni economico-sociali connessi alla globalizzazione. Si trattò tuttavia di un tentativo molto imperfetto perché l’unità sindacale, condizione fondamentale, cessò presto di essere una prospettiva ragionevole; perché i sindacati non assunsero funzioni di governo del mercato del lavoro che corrispondevano al loro ruolo nazionale; perché, di conseguenza, le politiche concertate lasciavano fuori i nuovi occupati, i giovani e le donne, la parte moderna che doveva trainare lo sviluppo dell’epoca globalizzata. A seguito di ciò, le riforme degli anni ‘90, aggravate da Berlusconi certo, ma fondate dall’Ulivo, hanno fatto sviluppare un mercato del lavoro duale, diviso tra protetti e precari, tra i quali è fatalmente diventato impossibile trovare una sintesi che si tramutasse in linguaggio politico comprensibile.

La maggiore frammentarietà del mondo del lavoro contemporaneo si è dunque tramutata in frattura politica, sulla cui base hanno prosperato i miti di Berlusconi e la propaganda della Lega. Non è un caso che le politiche di centrodestra tendano ad approfondire la frattura, ad aggravare la condizione dei precari, ad attaccare la funzione unificante della scuola e dello stato sociale: è su queste fratture che si fonda la presa della loro propaganda. Per questa ragione, l’idea di una politica democratica di segno opposto sarà in grado di trovare il necessario consenso elettorale e sociale solo attraverso una rinnovata chiarezza del suo rapporto con il sindacato, e del ruolo economico e sociale delle organizzazioni dei lavoratori.




Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.24   
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