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Autore Discussione: ALBERTO BISIN -  (Letto 22849 volte)
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« inserito:: Settembre 26, 2008, 12:59:51 pm »

26/9/2008
 
La catena della sfiducia
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Le decisioni che il Congresso e il Senato americano stanno per prendere saranno determinanti nel limitare, o meno, l’effetto che la crisi dei mercati finanziari avrà sull’economia reale. Il mondo politico ha reagito alla crisi con una prontezza che è frutto di responsabilità, ma anche di panico.

Il piano di salvataggio proposto dal Tesoro e dalla Fed, e discusso ieri dalle Camere, è molto poco popolare presso l’opinione pubblica. È visto infatti come l’espressione di una classe dirigente dalla dubbia reputazione morale che presenta il conto ai contribuenti. Anche moltissimi economisti hanno espresso riserve. Vi sono infatti ragioni per dubitare che il piano abbia i risultati sperati, che possa rilanciare il mercato del credito e quindi l’economia americana.

Per comprendere queste riserve è bene chiarire quali sono gli elementi fondamentali di questa crisi. La politica monetaria della Fed ha garantito dal 2001 bassi tassi di interesse, permettendo alle banche di offrire credito a condizioni estremamente favorevoli. I consumatori si sono indebitati per finanziare l’acquisto di beni durevoli, in particolar modo immobili. Non solo: le banche hanno fatto enorme uso della leva finanziaria, mantenendo il rischio del credito in minima parte e distribuendolo nei mercati finanziari in forma cartolarizzata. A loro volta vari titoli derivati hanno permesso ai detentori di assicurare il valore delle cartolarizzazioni (Aig aveva posizione prevalente in questo mercato), e così via; costruendo una complessa catena di posizioni finanziarie legate soprattutto ai valori degli immobili su cui sono stati accesi mutui. Il crollo dei valori immobiliari negli Stati Uniti ha provocato il crollo di valore di questi titoli.

Molte banche e istituzioni finanziarie detengono ora attività il cui valore è crollato. Inoltre, la catena finanziaria è così vasta e complessa che nessuno realmente conosce il valore delle proprie attività e tantomeno di quelle di altre banche. In queste condizioni il mercato del credito si congela: nessuno si fida a prestare danaro a nessun altro per timore che quest’ultimo sia particolarmente esposto, alla fine della catena, al rischio dei rendimenti sui mutui.

Per limitare i danni della crisi sull’economia reale è quindi necessario ristabilire la trasparenza delle posizioni finanziare di banche e altre istituzioni finanziarie per permettere al mercato del credito di tornare a operare efficientemente. Solo dopo che abbiano individuato le proprie perdite in modo trasparente le banche potranno ricapitalizzarsi e tornare a investire nell’economia reale. In un certo senso, questo è l’obiettivo del piano appena approvato da Senato e Congresso: comprare buona parte delle cartolarizzazioni sui mutui e dei titoli derivati ad essi legati oggi in portafoglio alle banche così da renderne trasparenti i bilanci.

Sembra una grande idea. Ma ci sono due ordini di problemi. Il primo è il prezzo a cui questi strumenti finanziari saranno acquistati. Il piano originario prevedeva che fossero comprati a prezzi superiori a quelli oggi di mercato, considerati frutto del panico e lontani dai loro «valori reali». Questo sarebbe un diretto sussidio alle banche a spese dei contribuenti, una ricapitalizzazione a fondo perduto. È invece bene distinguere l’operazione di salvataggio immediata dal processo di ricapitalizzazione delle banche, così da incentivare le banche stesse a ristrutturarsi per meglio operare la ricapitalizzazione sul mercato. Il secondo problema che il Tesoro si troverà ad affrontare è che le banche conoscono meglio del Tesoro stesso il valore dei titoli in proprio possesso. Avranno incentivo quindi a vendere al Tesoro quelli di minor valore e più rischiosi, in modo da poter esse stesse godere del loro futuro incremento di valore una volta che la crisi sia risolta. Questo incentivo potrebbe limitare l’effetto del piano sulla trasparenza dei bilanci delle banche e potrebbe invalidare il meccanismo di salvataggio stesso.

Il piano approvato è certamente perfettibile in sede legislativa. Ma soprattutto sarà importante valutarne l’attuazione, una volta scomparsa l’emergenza di questi giorni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:16:43 am »

7/11/2008
 
Macchè Roosevelt
 
ALBERTO BISIN

 
I mercati finanziari non sembrano condividere le emozioni dei giovani che martedì sera a New York hanno invaso le piazze, felici e inebriati, all’urlo di «Yes, We did» (a Union Square, dov’ero io, sotto un’immensa bandiera). Ma quella di Wall Street non è mancanza di fiducia nei confronti di Obama. La verità è che i mercati sono in una fase di volatilità elevatissima. Scontano una grande incertezza: quanto profonda sarà la recessione? Quanto cambierà la politica economica?

I progetti che hanno maggiormente contribuito all’elezione di Obama sono progetti di lungo periodo: importanti e visionarie riforme di sanità e scuola di cui gli Stati Uniti hanno grande bisogno. Meno si sa invece di come Obama intenda intervenire sull’economia nel breve periodo. La crisi finanziaria ha colto entrambi i candidati di sorpresa alla fine della campagna elettorale. Obama è apparso intelligente, freddo, riflessivo, responsabile nella sua analisi della crisi, a differenza di McCain. Ma ora tutti, e i mercati finanziari con particolare ansia, attendono i dettagli di un piano d’intervento anti-congiunturale. Nemmeno il taglio dei tassi della Banca Centrale Europea di ieri sembra poter calmare l’attesa.

Non ci sono dubbi che Obama annuncerà uno stimolo fiscale a breve (che il Congresso voterà prima della sua inaugurazione). Nessun presidente, democratico o repubblicano, può fare a meno di questo tipo di interventi nel corso di una recessione. Ma l’elezione di un democratico ha rinvigorito coloro che suggeriscono interventi massicci, sia sul piano degli incentivi fiscali che su quello della spesa pubblica. I consulenti economici di Obama parlano di tagli fiscali immediati per 65 miliardi di dollari e di maggiore spesa per 135 miliardi. Molti suggeriscono un piano ancora più ambizioso per 300 miliardi di dollari in totale, che includa trasferimenti agli stati, un grosso sforzo di rinnovamento delle infrastrutture, spese nel settore energetico, oltre a interventi ai programmi di Welfare.

Questo è proprio ciò che temono i mercati. E per ottime ragioni. Politiche fiscali espansive anti-congiunturali hanno effetti minimi su consumi e investimenti. Durante una recessione i consumatori risparmiano per assicurarsi contro perdite di reddito nell’immediato futuro. Nella crisi presente, inoltre, le famiglie devono rivedere piani di consumo e investimento basati su stime della loro ricchezza, specie immobiliare, rivelatesi gravemente erronee. Ovvio quindi che lo stimolo fiscale di Bush, 107 miliardi di dollari nel gennaio 2008, sia stato in gran parte (circa l’80% secondo stime recenti) risparmiato dalle famiglie o utilizzato per ripagare debiti pregressi. Anche politiche di spesa hanno effetti limitati in una recessione: la spesa pubblica infatti non può che essere finanziata con future tasse, che i consumatori in gran parte anticipano e per cui risparmiano. Inoltre investimenti pubblici, per quanto produttivi, tendono semplicemente a «spiazzare» la spesa privata.

L’idea che politiche fiscali espansive possano limitare le recessioni non ha fondamento. Difficile ammetterlo ma è così. Le recessioni sono momenti in cui il sistema economico si «ripulisce». Le imprese che non producono reddito falliscono e liberano risorse che sono riallocate alle imprese più produttive. Questo processo è necessario perché un’economia sia sana e produttiva nel lungo periodo: non va assolutamente impedito. Nello stesso tempo, questo processo di «ripulitura» ha costi umani e sociali notevoli. Le risorse che sono liberate per essere riallocate non sono solo capitale finanziario, ma anche capitale umano, lavoratori. È qui che la politica economica deve intervenire, per finanziare interventi che «socializzino» nel breve periodo i costi di questa riallocazione, come ad esempio la disoccupazione.

Ogni altra forma di spesa ha effetti reali limitati sulla recessione oggi, e ha invece costi notevoli in termini di tasse, e quindi di attività economica, in futuro. A questo proposito è bene chiarire, ad esempio, che le politiche di Roosevelt, il New Deal che molti oggi raccomandano a Obama, non hanno affatto salvato il paese dalla crisi del 1929 come molti pensano, ma hanno piuttosto avuto un effetto fondamentale nell’allungare la recessione dopo il 1933.

Saprà Obama distanziarsi dalle politiche classiche «tassa e spendi» del partito democratico? Tutto gioca contro di lui, la crisi finanziaria, la recessione, il Congresso a maggioranza democratica, gli intellettuali organici del partito. Ma Obama ha dimostrato abilità, intelligenza, e capacità analitiche e critiche fuori dal comune in questa campagna. Dopotutto tornare a Roosevelt, saltando non solo Reagan ma anche Clinton, che cambiamento sarebbe?

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 17, 2008, 03:36:09 pm »

17/12/2008
 
Scuola, il bicchiere mezzo vuoto
 
ALBERTO BISIN
 
In questi giorni il governo ha deciso di rallentare la marcia della riforma della scuola. Il raffreddamento degli animi forse permetterà un’analisi pacata dei nuovi dati riguardanti il confronto internazionale dei risultati scolastici in matematica e scienze, pubblicati in questi giorni (TIMSS. Trends in International Mathematics and Science Study, 2007). All’indagine hanno partecipato più di 400 mila studenti di quarta elementare e di terza media, da 59 nazioni. I risultati sono comparabili con quelli delle precedenti indagini: 1995, 1999 e 2003. Una mole importante che merita un’analisi approfondita. Alcuni indicazioni di massima riguardo all’Italia si possono però già trarre: 1) i ragazzi italiani di quarta elementare fanno meglio di quelli di terza media, in termini relativi rispetto agli altri paesi; 2) i risultati dei ragazzi italiani non sono significativamente cambiati rispetto al 2003 in matematica, ma sono migliorati in scienze, significativamente solo alle elementari; 3) l’Italia si trova nella media dei Paesi sviluppati solo per quanto riguarda le scienze, alle elementari; assolutamente non in matematica, né alle elementari né alle medie; 4) i pochi dati disaggregati disponibili dimostrano notevole variabilità dei risultati, molto meglio al Nord (specie al Nord-Est) che non al Sud e Isole (per un’analisi più approfondita riferisco al post di Andrea Moro, economista di Vanderbilt University, su noisefromamerika.org).

O forse un’analisi pacata è invece semplicemente impossibile in Italia. In riferimento a questi dati la Cisl Scuola annuncia nel sito: «La scuola primaria italiana si conferma su livelli di eccellenza nel confronto internazionale». Lo stesso Invalsi (l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo d’Istruzione e Formazione) definisce i risultati nelle scienze di «assoluta eccellenza». Giudizi sempre soggettivi. E c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto. Ma il bicchiere contiene al più i risultati in scienze in quarta elementare. Come può essere mezzo pieno? Che valore ha un vantaggio nelle conoscenze scientifiche in quarta elementare che è poi perso in terza media? A che servono buone conoscenze scientifiche se quelle matematiche sono scarse? La realtà è che i dati Timss 2007 dipingono una scuola italiana abbastanza in difficoltà ma in modo molto eterogeneo, con punte di assoluto rispetto e casi davvero drammatici. La riforma della scuola elementare e media in Italia non può consistere nell’imposizione all’intero sistema scolastico di procedure didattiche come il maestro unico, su cui non si ha nemmeno rilevante evidenza statistica. È necessario invece identificare cosa funziona e cosa non funziona nelle singole scuole e nei singoli insegnamenti. È qui che questi dati, soprattutto nella versione disaggregata per scuola che sarà resa pubblica a febbraio, dovrebbero essere utili. A cosa si deve il successo relativo delle scienze alle elementari? A cosa i pessimi risultati della scuola media? A cosa si deve il successo relativo del Nord-Est? A cosa il miglioramento significativo dei ragazzi sloveni in matematica dal 2003 al 2007? E quello dei ragazzi inglesi o del Minnesota? È necessaria molta flessibilità d’intervento per evitare di distruggere quello che c’è di buono. Nessuna ragione d’imporre nulla di nuovo, per esempio, alle scuole del Veneto o dell’Emilia Romagna, i cui risultati sono in media tra i migliori d’Europa (in scienze alle elementari sono a livello di Cina e Hong Kong).

Una vera riforma consiste invece nel lasciare più indipendenza alle scuole, ai presidi, alle famiglie. I presidi devono essere messi in condizione di trasferire risorse significative dagli insegnanti incapaci a quelli capaci. Devono poter assumere bravi insegnanti, anche tra quelli ora a tempo determinato, e devono poter limitare ore e salario di quelli che lavorano poco e male. I presidi di scuole in difficoltà devono anche essere messi nelle condizioni di innovare e sperimentare nuovi strumenti didattici. Naturalmente è necessario prima di tutto rendere i presidi responsabili delle proprie decisioni: mettere in piedi sistemi di valutazione delle scuole standardizzati, sulla base dei quali dare loro incentivi anche estremi (ottimi salari in caso di successo, licenziamento in caso di risultati inadeguati rispetto a standard nazionali da definirsi). Questi incentivi devono servire ad attrarre menti fresche, idee nuove, e buone capacità organizzative anche nelle scuole peggiori. È opportuno infine lasciare alle famiglie la massima libertà di scegliere la scuola che ritengano più appropriata per i figli: non tutti i ragazzi sono uguali, non tutte le famiglie hanno le stesse idee. Ed è pensando a quanto una riforma di questo tipo sia necessaria e al contempo impossibile e improponibile in Italia che non riesco nemmeno a vederlo mezzo vuoto il bicchiere.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 24, 2009, 11:30:24 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 07, 2009, 04:36:01 pm »

7/1/2009
 
Obama gioca la carta delle tasse
 
ALBERTO BISIN
 

Il piano economico dell’amministrazione Obama contro la crisi sarà ufficialmente presentato domani sera, ma già lo si discute sulla base di anticipazioni precise. Nessuna sorpresa riguardo all’entità dell’intervento pubblico che richiederà una (a mio parere eccessiva) esposizione fiscale per circa 750 miliardi di dollari in due anni. Le maggiori sorprese riguardano invece la composizione dell’intervento. Pur senza entrare nei dettagli, si nota un importante riaggiustamento rispetto a quanto proposto da Obama in campagna elettorale: la spesa pubblica diretta è sostituita in modo sostanziale da sgravi fiscali a famiglie e imprese (per circa 300 miliardi di dollari in due anni). Il piano sarà per questo aspramente criticato. Si dirà (e già si dice) che sgravi fiscali hanno generalmente effetti limitati in una recessione qualora famiglie e imprese tendano a risparmiare invece che a spendere il nuovo reddito disponibile. Si dirà che proprio questo è accaduto in occasione dei tagli fiscali di Bush la scorsa primavera. Queste critiche sono dovute all’idea comune ma incorretta che in una recessione sia compito principale della politica economica sostenere i consumi: se i consumatori non cambiano l’auto, lo Stato provveda ad acquistare, ad esempio, nuove auto per i dipendenti pubblici (o ad assumere nuovi dipendenti pubblici a cui fornire auto).

Non è così. Innanzitutto è ovviamente importante dare impulso anche agli investimenti, non solo ai consumi. Le imprese in difficoltà, in una recessione, non sono solo quelle che producono auto, scarpe, medicinali ma anche quelle che producono tondini di acciaio, semi-lavorati in pelle, nuove molecole chimiche. Ma questa è precisazione ovvia, si dirà. Perché non lasciare comunque allo Stato il compito di sostenere direttamente consumi e investimenti durante una recessione? Perché intervenire per mezzo di tagli fiscali che sono solo in parte consumati e investiti? Per due ragioni fondamentali. Primo, perché il risparmio non resta inutilizzato, ma è reinvestito dal sistema finanziario. E poi perché i consumatori conoscono meglio dello Stato i propri bisogni e le imprese sanno meglio discriminare i progetti di investimento più produttivi data la domanda dei consumatori.

Il Pil non è tutto. Un’economia efficiente produce i beni che i consumatori desiderano, anche in recessione. Se i consumatori non cambiano l’auto, produrre e dare loro auto è inefficiente. E così è produrre beni pubblici (ponti, strade, parchi) in eccesso rispetto a quanti se ne sarebbero prodotti in assenza della recessione. Un esempio estremo può forse chiarire questo punto: la Germania prima della prima guerra mondiale e l’Unione Sovietica dopo la seconda avevano livelli di Pil relativamente elevati, ma non erano certo economie efficienti: producevano soprattutto armamenti, non beni di consumo per soddisfare i bisogni dei cittadini.

Intervenire sul reddito disponibile dei consumatori attraverso sgravi fiscali, invece che non sul consumo, ha un altro vantaggio fondamentale: permette alle famiglie di ridurre nella misura che esse desiderino il proprio indebitamento. L’eccessivo indebitamento delle famiglie americane è una delle cause prime della crisi economica. E per questo gli Stati Uniti non usciranno dalla crisi fino a che il debito accumulato dalle famiglie non sia ridotto in misura almeno comparabile alla perdita di valore della loro ricchezza, specie immobiliare.

In altre parole, agendo per mezzo di sgravi fiscali si permette al sistema finanziario di allocare consumi e investimenti a quei consumatori e a quelle imprese che non avrebbero potuto consumare e investire in assenza del piano anti-crisi. Limitare il ruolo dei mercati finanziari nell’allocazione efficiente dell’intervento pubblico è possibile solo in parte, ad esempio mirando direttamente una parte dei tagli e sussidi fiscali alle famiglie in difficoltà, a quelle più colpite dalla crisi. È bene invece lasciare ai mercati la decisione riguardo a quali imprese sia opportuno sostenere e quali lasciare fallire, per evitare quei meccanismi di scelta politica inefficiente che noi italiani ben conosciamo.

Gli sgravi fiscali previsti dal piano di Obama sono visti dai democratici come un compromesso per avere il supporto di una parte dei Repubblicani al Congresso. Ma se anche così fosse, resta il fatto che questa amministrazione sembra capace di ridare un significato positivo alla parola «compromesso», adottando le idee migliori dell’avversario politico per guadagnarne il supporto.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Gennaio 29, 2009, 11:06:10 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 29, 2009, 11:06:38 pm »

29/1/2009
 
Presidente Obama, basta Keynes
 
ALBERTO BISIN
 

Ieri è apparsa sul New York Times una lettera aperta al presidente Obama. Ha l’obiettivo di rimarcare che il consenso al piano di stimolo fiscale proposto dalla sua amministrazione è meno vasto di quanto egli non creda, almeno tra gli economisti accademici.

L’iniziativa, originata dai premi Nobel Ed Prescott e Vernon Smith, è stata sottoscritta da numerosi altri economisti, oltre 200, tra cui io stesso.

Sebbene la lettera sia formalmente indirizzata al Presidente, essa ha anche altri destinatari. L’elezione di un democratico alla Casa Bianca in un momento di grave crisi economica ha infatti indotto molti economisti di scuola keynesiana ad argomentare sulla stampa sempre più apertamente a favore di politiche economiche di espansione fiscale. Queste politiche comportano una maggiore spesa pubblica e vari interventi diretti di sostegno a industrie in difficoltà. Alcuni commentatori, tra cui purtroppo Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2008 ed editorialista del New York Times, hanno preso a sostenere pubblicamente che la professione degli economisti sia concorde nel ritenere necessari questi tipi di intervento. Krugman (sul New York Times del 26 gennaio) è giunto a tacciare di «malafede» qualunque economista sostenga il contrario.

In realtà sono ormai più di vent’anni che le teorie economiche keynesiane, su cui è fondata la necessità di grossi stimoli fiscali durante una recessione, sono completamente screditate in accademia. Lo sono da un punto di vista teorico, perché presuppongono comportamenti severamente miopi e irrazionali da parte dei consumatori e degli imprenditori. Lo sono anche da un punto di vista empirico, semplicemente perché non funzionano. Anche gli economisti neo-keynesiani, molti dei quali alla Federal Reserve come Ben Bernanke, hanno abbandonato gli studi di politica fiscale e ormai da anni si occupano essenzialmente di politica monetaria.

Ma, naturalmente, la lettera non vuole unicamente aprire una battaglia all’interno dell’accademia. Questa battaglia è stata persa dai keynesiani da ormai molto tempo. Il suo obiettivo è piuttosto quello di influenzare le scelte del Presidente su quali tipi di spesa inserire nel piano di stimolo fiscale. Non credo di azzardare sostenendo che molti firmatari della lettera non siano affatto contrari in linea di principio al piano. Molti ritengono che alcuni capitoli di spesa possano provvedere a colmare delle importanti carenze nei servizi pubblici americani, dalla sanità all’istruzione. Se questa è la motivazione vera del piano, però, gli interventi fiscali debbono essere il più possibile limitati a migliorare quei servizi pubblici che davvero siano carenti.

Spendere per spendere, tanto in recessione qualunque spesa aumenta la domanda e sostiene l’economia, è una ricetta fallimentare. Tagli fiscali a famiglie e imprese sono interventi di gran lunga più efficienti. È vero che, ora come ora, i tagli fiscali andrebbero in larga parte a incrementare i risparmi, non a sostenere i consumi. Ma questo perché le famiglie e le imprese americane negli ultimi dieci anni hanno consumato tanto e risparmiato poco, godendo di capitale a buon mercato dalla Cina e da altri investitori internazionali. Inoltre, i loro pochi risparmi sono stati ridotti del 20-30% dal crollo dei valori immobiliari e del mercato azionario nel corso dell’anno passato. Sostenere artificialmente i consumi delle famiglie e rallentare il declino di industrie malate non è la via alla soluzione della crisi. Da questa crisi si esce solo facilitando la riallocazione di capitale e lavoro alle industrie più produttive. Quali queste siano è compito dei mercati finanziari identificare. Per questo gli interventi dell’amministrazione Obama e della Federal Reserve sui mercati dei capitali saranno critici nel favorire o no la rapida soluzione della crisi. Molto più che non qualsiasi intervento di spesa pubblica.

Questa è una crisi economica profonda e in un certo senso di nuova natura, perché nata sulle ceneri della finanza e del mercato immobiliare. Non è bene affrontarla con idee e politiche vecchie, che hanno già ripetutamente dimostrato i propri limiti.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 09, 2009, 11:52:09 am »

Usa, finanziare le banche non gli azionisti
 
9/2/2009
 
 
ALBERTO BISIN
 

Il ministro del Tesoro dell’amministrazione Obama, Tim Geithner, presenterà domani al Paese il prossimo piano di intervento sui mercati finanziari. Il piano precedente, cui Geithner aveva contribuito in veste di governatore della Fed di New York, ha avuto alcuni successi e molti insuccessi. Il successo principale è che ha domato il panico sui mercati finanziari dell’autunno scorso. L’insuccesso principale è che il credito delle banche al settore privato è rimasto ingessato.

Perché le banche tornino a offrire credito ai privati è necessario che il governo intervenga con chiarezza sui loro bilanci, che le obblighi a dichiarare e a vendere al Tesoro le attività «tossiche» che esse possiedono. Su questo verterà il piano Geithner. L’elemento discriminante sarà il prezzo a cui queste attività verranno acquistate. Più alto il prezzo, rispetto ai valori di mercato, minore sarà l’ammontare della ricapitalizzazione di cui le banche necessiteranno per poter tornare nel mercato del credito. Gli azionisti delle banche vogliono naturalmente limitare il più possibile l’entità di questa ricapitalizzazione: essa implica diluire - far scendere di valore - il loro capitale.

Per questo essi chiedono che il Tesoro intervenga puramente acquistando le attività «tossiche» a valori sopra mercato, senza assumere capitale azionario in proporzione al sussidio implicito nell’intervento. Questo farebbe, almeno in parte, la «bad bank» di cui si parla con insistenza in questi giorni come figura centrale del nuovo piano Geithner.

Sarebbe un enorme errore. La «bad bank» dovrebbe favorire, non limitare, la ricapitalizzazione delle banche. Per questo il capitale del Tesoro dovrebbe essere offerto a fronte di capitale di rischio, diluendo direttamente il capitale degli azionisti. In altre parole, gli azionisti delle banche non dovrebbero essere sussidiati. Non solo per una questione etica, che pure esiste, ma per una fondamentale questione economica. Deve essere chiaro agli azionisti presenti e futuri che il rischio azionario è reale, che non può essere addossato ai contribuenti. Se così non fosse ci troveremmo a breve con un mercato finanziario ancora fuori controllo. I prezzi delle attività «tossiche» sono bassi perché gli investimenti sottostanti sono in larga parte falliti. Nuovo capitale deve servire a finanziare investimenti nuovi, non a coprire le perdite degli azionisti sugli investimenti falliti.

Il Tesoro e la Fed sono apparsi sin dall’autunno troppo preoccupati nel difendere Wall Street. Purtroppo le indiscrezioni che trapelano sul nuovo piano non paiono indicare un cambiamento di rotta. Questa resistenza a costringere le banche ad affrontare le proprie perdite fa sì che esse non abbiano incentivi a capitalizzarle fino a che non sia chiaro quanta parte ne assumerà il Tesoro. È anche questa situazione di stallo a essere responsabile della scarsa attività delle banche nel mercato del credito privato. Una situazione simile, che si è protratta per anni, ha costituito una delle cause principali per cui la recessione dell’inizio degli anni 90 in Giappone è durata un decennio. Il Tesoro argomenta che il fallimento delle grandi banche avrebbe tali conseguenze sistemiche sui mercati da essere catastrofico. Ma non è necessario farle fallire. Entrando nel loro capitale azionario il governo ne eviterebbe il fallimento e allo stesso tempo eviterebbe di sussidiare gli azionisti. Sarebbe una «nazionalizzazione» delle banche? Il termine «nazionalizzazione» è usato da chi difende Wall Street, perché nulla terrorizza gli americani come l’economia socialista. Ma se il capitale privato non entra nelle banche, lo fa il capitale pubblico, fino a che non torni il privato. Non c’è nulla di socialista in questo, a patto che il governo non ostacoli il capitale privato qualora esso diventi disponibile in futuro.

Il presidente Obama fa ora la voce grossa contro i manager delle grandi banche, agendo contro i loro salari milionari. Ma la battaglia economica più importante si gioca sugli azionisti, non sui manager. Coprire le perdite agli azionisti oggi significa incoraggiare i futuri manager ad assumere rischi irresponsabili, visto che non dovranno risponderne agli azionisti. Questo punto è tanto evidente che è difficile supporre che gli economisti dell’amministrazione Obama non lo comprendano. Perciò si parla sempre più ad alta voce del controllo di Wall Street sul Tesoro e la Fed, di una sorta di conflitto di interessi. La banca di investimenti Goldman Sachs, ad esempio, ha avuto un ruolo centrale al Tesoro durante l’amministrazione Bush e sembra averlo mantenuto nell’amministrazione Obama. Se fossimo in Italia penserei già male. Se continua così non resterà altro da pensare nemmeno qui.
 
da lastampa.it
 
« Ultima modifica: Febbraio 26, 2009, 03:34:57 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:29:56 am »

24/2/2009
 
A una condizione

 
ALBERTO BISIN
 
In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma...», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmomeglio la notte.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:35:33 pm »

26/2/2009
 
Un aiuto solo a chi lo merita
 
ALBERTO BISIN
 
Le autorità monetarie e finanziarie di tutto il mondo stanno elaborando piani d’intervento sul sistema bancario per incentivarne la ricapitalizzazione, con la speranza che il capitale fresco si traduca in nuovo credito all’economia reale. In Italia le operazioni di ricapitalizzazione saranno incentrate sulla sottoscrizione da parte del Tesoro di obbligazioni emesse dalle banche a tassi tra il 7,5 e l’8,5%.

Con i Tremonti-bond il Tesoro non entra quindi negli organi di controllo delle banche, anche se chiede una serie di vincoli di destinazione del capitale come contropartita alla sottoscrizione delle obbligazioni e promette un «attento monitoraggio». Nessun salvataggio a spese dei contribuenti quindi, ma piuttosto un’operazione «leggera», coerentemente con le ripetute rassicurazioni che il sistema bancario italiano è relativamente solido. L’operazione è anche coerente con i vincoli che ci impone la situazione della finanza pubblica italiana. Il nostro debito pubblico e i differenziali di tasso che su di esso paghiamo, saliti dai 25 punti base alla fine del 2007 ai 120 punti base circa di oggi, suggeriscono enorme cautela negli interventi di spesa. L’attenzione del ministro Tremonti a questi aspetti, anche in sede di politica fiscale, è garanzia di responsabilità. È difficile però esprimere un giudizio più articolato sull’operazione del Tesoro senza una chiara valutazione della situazione patrimoniale delle banche. I Tremonti-bond saranno sufficienti a ricapitalizzare con successo le banche solo se queste sono davvero in condizioni di relativa solidità. Altrimenti ci troveremmo di fronte a una manovra di temporeggiamento, all’anticamera di un intervento più sostanziale del Tesoro nei mercati bancari, una prospettiva questa molto preoccupante vista la storia del Paese.

Come stanno quindi le banche italiane? Appaiono davvero meno esposte di quelle europee e americane nei confronti di attività finanziarie strutturate oggi illiquide, le cosiddette attività tossiche. Ciononostante, specie quelle di grandi dimensioni, sono sotto la media europea in termini del coefficiente di solvibilità, una media delle attività ponderata per il loro rischio, richiesta dagli accordi Basilea II (da un’analisi Ricerche e Studi Mediobanca, ottobre 2008). Più in generale, la valutazione della situazione patrimoniale delle banche è resa complessa dalla notevole opacità dei bilanci, situazione addirittura peggiorata dall’avvento di Basilea II e dei nuovi principi contabili. A questo proposito, le partecipazioni non di maggioranza delle banche rappresentano un elemento di particolare preoccupazione, perché non è chiaro se e quanto siano sopravvalutate.

Il mercato non sembra purtroppo condividere l’ottimismo del governo italiano. La capitalizzazione di Borsa di Unicredit è scesa dai 75 miliardi di euro del dicembre 2007 ai meno di 14 di oggi, a fronte di una valutazione di bilancio del patrimonio netto di circa 56 miliardi (al 30 settembre 2008). Nel caso di Unicredit il mercato sconta la sua esposizione in Europa Centro-orientale, il cui valore è difficile da valutare correttamente a causa della particolare fragilità macroeconomica e finanziaria di questi Paesi. Ma il Monte dei Paschi di Siena ha visto la propria capitalizzazione ridursi da 15 a 5,5 miliardi di euro circa e il Gruppo Intesa Sanpaolo da 57 a 20 circa.

In conclusione, i Tremonti-bond rappresentano una cauta operazione finanziaria per ricapitalizzare le banche, di cui esse hanno enorme bisogno. Ciononostante gli istituti di credito hanno ad oggi tentato di fare a meno dell’intervento del Tesoro. Può essere che i tassi richiesti sui Tremonti-bond siano reputati troppo elevati. O può anche essere che le banche temano che l’emissione di bond le esponga a indesiderati interventi di controllo politico da parte del Tesoro. Non credo che le banche abbiano oggi altra scelta. La congiuntura finanziaria non potrebbe essere peggiore in tutto il mondo. Tentativi di ricapitalizzazione sui mercati finanziari sono destinati a fallire, così come sono falliti recentemente. Ma una maggiore trasparenza sui piani finanziari del governo, soprattutto il riferimento a un chiaro e vincolante piano di uscita del Tesoro dalle banche una volta che la crisi finanziaria sia risolta, potrebbe rendere i Tremonti-bond più appetibili per le grandi banche maggiormente esposte. Infine, una maggiore trasparenza nei bilanci delle banche sarebbe anche opportuna per limitare l’incertezza che i mercati in questo momento scontano enormemente. A questo proposito il Tesoro e la Banca d’Italia potrebbero vincolare la sottoscrizione dei Tremonti-bond a un’esplicita pubblica attività di valutazione e monitoraggio della situazione patrimoniale delle banche, sulla linee dello stress-test delineato dal Tesoro americano.

 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 15, 2009, 09:48:00 am »

15/3/2009
 
Obama, terapie senza strategia
 
ALBERTO BISIN
 

Barack Obama ha raccolto in eredità una crisi economica complessa e preoccupante. Si è mosso con rapidità, attivando un piano di stimoli fiscali, uno di intervento sui mercati finanziari e immobiliari, e proponendo le linee guida del bilancio per i prossimi due anni.

Nonostante si sia insediato alla Casa Bianca da meno di due mesi, non è quindi troppo presto per cominciare una verifica.

Larry Summers, economista di fama, ex presidente di Harvard e mente economica principe dell’Amministrazione, è intervenuto nei giorni scorsi al Brookings Institute cercando di fornire alla stampa e agli osservatori una visione d’insieme delle politiche economiche dell’Amministrazione. Purtroppo ha dovuto giocare in difesa, a mio parere senza successo.

L’economia americana non dà segni di ripresa. Dall’inizio di gennaio la Borsa ha perso più del 20%. Questo, nonostante non manchino le buone notizie: il prezzo del petrolio è sceso di due terzi dai picchi dell’estate 2008, i mercati finanziari sono inondati di liquidità, i tassi di interesse interbancari sono tornati a livelli quasi normali, i valori immobiliari sono al livello precedente alla bolla (l’indice Case-Shiller ha perso il 27%), gli investimenti in scorte sono sull’orlo della ripresa. Ma l’economia non riparte. Non è certo il caso di distribuire meriti e colpe, come molti osservatori politicamente schierati ormai fanno, ma le politiche dell’amministrazione Obama, nel complesso, non aiutano.

Lo stimolo fiscale è solo in parte mirato alla recessione. Anche gli osservatori più generosi con l’Amministrazione accettano che non più di metà dello stimolo avrà effetti nel giro di due anni. Purtroppo lo stimolo non contiene incentivi all’offerta di lavoro, anche perché i tagli alle tasse della classe media non avverranno nella forma di tagli alle aliquote.

Gli interventi sui mercati finanziari non hanno avuto altro effetto che quello di tenere in vita banche e assicurazioni in crisi di intossicazione, senza agire sulle cause dell’intossicazione, e soprattutto senza effettuare quegli interventi dolorosi ma necessari perché tornino a operare con efficienza. Il tutto senza la fondamentale trasparenza, dando l’impressione che gli obiettivi dell’Amministrazione siano quelli di salvare Wall Street. Il gigante assicurativo Aig è al quarto intervento di salvataggio, che include 70 miliardi di dollari dei contribuenti. L’Amministrazione, che ormai possiede il 78% della società, non esclude un quinto intervento e rifiuta di rendere pubblici quali dei tanti creditori di Aig siano stati saldati, e perché. Gli interventi su Citigroup, la maggiore banca del Paese, appaiono anch’essi interventi di emergenza, senza un piano e una strategia di fondo. Gli stress test, i controlli sui bilanci delle banche, sono iniziati assurdamente tardi e non danno risultati apparenti.

Infine il bilancio per i prossimi anni proposto dall’Amministrazione ha avuto un effetto devastante sull’umore dei mercati. È pieno di quelle spese inutili, che gli americani chiamano «pork», contro cui Obama e McCain si sono scagliati in campagna elettorale. Il bilancio prevede enormi investimenti in sanità, istruzione, energia, prospettando nuove tasse nel momento peggiore per l’economia. Nonostante il bilancio preveda interventi importanti, introduce anche dannose restrizioni e vincoli all’attività privata. Il caso della scuola è il più chiaro. Il bilancio prevede enormi spese ma limita i crediti privati all’istruzione (che quasi ogni studente accende in questo Paese) e inserisce forti vincoli ai programmi di vouchers che permettono agli studenti meritevoli e bisognosi di studiare nelle scuole che preferiscono, invece di essere costretti alle scuole pubbliche dei distretti in cui vivono.

Obama ha grande abilità nell’articolare una visione del futuro dell’America che è di grande ispirazione per la società civile. Lo ha fatto ripetutamente in campagna elettorale e lo ha fatto anche nei giorni scorsi in un discorso sul futuro della scuola. In un certo senso Obama incarna questo futuro. Ma le discariche della politica sono piene di idee meravigliose e visionarie che sono fallite perché male applicate. La visione di Bush di una società in cui ogni cittadino possedesse un’abitazione è finita nei mutui subprime rilasciati con criminale facilità per gonfiare i profitti dei banchieri. La visione di Obama di un’istruzione di qualità per ogni americano rischia di finire con quei ragazzi cui non sarà permesso di frequentare una scuola privata per garantire il posto agli insegnanti della scuola pubblica del ghetto in cui vivono.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 24, 2009, 05:04:15 pm »

24/3/2009
 
Rischiare con i soldi degli altri

 
ALBERTO BISIN
 
Il ministro delle Finanze americano T. Geithner ha ieri illustrato il suo nuovo piano di intervento sui mercati finanziari americani. L’obiettivo è quello di favorire la vendita a investitori istituzionali delle attività «tossiche» ancora nei bilanci delle banche. Le banche assumerebbero delle perdite anche consistenti ma, liberate da queste attività, potrebbero raccogliere capitale privato fresco sul mercato per poi tornare a fare le banche.

Il piano non pare nella sostanza molto diverso da quello precedentemente proposto da H. Paulson, richiedendo un grosso intervento della finanza pubblica per sostenere i prezzi delle attività «tossiche» delle banche, che il governo ritiene sottovalutate dal mercato. Il piano Paulson prevedeva che il Tesoro acquistasse direttamente queste attività a prezzi generosi. Il piano Geithner invece prevede che il Tesoro entri per il 50% in fondi di investimento privati che le acquistino. Il Tesoro fornirà inoltre grossi incentivi a questi fondi di investimento, nella forma di crediti agevolati con una implicita garanzia su buona parte di quel 50% del capitale che sta ai privati investire.

In modo diretto o in modo indiretto il Tesoro sostiene comunque i prezzi delle attività «tossiche» e quindi gli interessi degli azionisti delle banche che le possiedono. Per questo, nell’euforia dei mercati di oggi, sono state le grosse banche come Citigroup a registrare i maggiori guadagni.

Più volte ho sostenuto su queste colonne che il Tesoro sembra aver internalizzato gli obiettivi degli azionisti delle grosse banche. I dettagli di questo intervento non sembrano affatto contraddire questa impressione. Lo stesso fatto che l’amministrazione abbia per così dire «nascosto» il supporto ai prezzi delle attività «tossiche» nell’estensione di crediti agevolati ai fondi privati fa pensare a una operazione di marketing politico, davanti a una opinione pubblica sempre più giustizialista nei confronti delle banche.

Ho anche sostenuto che gli obiettivi degli azionisti delle banche non siano affatto in accordo con gli interessi dei contribuenti e che rischino di rallentare la ripresa dell’economia. Il fatto che i fondi di investimento cui contribuirà il Tesoro per il 50% saranno gestiti da privati lascia ancora più perplessi. In generale quella di finanziare attività di investimento per quote così elevate senza averne un almeno parziale controllo è una ricetta fallimentare. I manager sono necessariamente attratti da rischi eccessivi quando gestiscono denaro altrui. Il Tesoro garantisce a parole una qualche forma di supervisione, ma la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato finora ogni intervento del Tesoro, dalla prima richiesta di fondi Tarp al Congresso fino ai diversi e ripetuti salvataggi di AIG, lascia poco sperare.

A cercare il bicchiere mezzo pieno, si può notare che quantomeno l’amministrazione ha chiaro che agire è necessario per evitare di ripercorrere gli errori che hanno portato il Giappone ad un decennio e più di crescita ridotta. L’euforia dei mercati può essere addotta proprio a questo. L’attesa di un piano di intervento aveva finora portato ad uno stallo sui mercati finanziari che rischiava di avere gravissime conseguenze in una crisi recessiva come quella in cui si trova l’economia mondiale. A questo si aggiunga che l’economia dà i primi segni di recupero (addirittura nei mercati immobiliari secondo dati di ieri), e si vedrà come mercati estremamente volatili abbiano reagito positivamente, dopo essere crollati il mese scorso davanti ad un piano identico nella sostanza anche se meno dettagliato (il primo piano Geithner). Fatico comunque a credere che questi interventi siano sufficienti ad avere positivi e duraturi sui mercati finanziari. Mi rincuora che le autorità monetarie e finanziarie europee appaiano meno propense ad azzardati interventi di salvataggio.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 31, 2009, 03:43:47 pm »

31/3/2009
 
Il pugno di Barack
 
ALBERTO BISIN
 
Il presidente Barack Obama ha delineato ieri il piano d’intervento della sua amministrazione nei confronti dell’industria automobilistica in grave crisi. Il piano comporta l’utilizzo di fondi pubblici in supporto della domanda di automobili durante la recessione. Ma comporta anche interventi diretti nella gestione di General Motors e Chrysler.

Le due società in maggiore difficoltà hanno già ricevuto dal dicembre scorso oltre 17 miliardi di dollari di aiuto a spese dei contribuenti. Prima di ricevere nuovi fondi pubblici Gm sarà molto probabilmente costretta a una rapida procedura di fallimento, guidata dal governo, che permetterà di ridurre e ristrutturare l’indebitamento e di pianificare un nuovo modello di sviluppo. L’amministrazione Obama è inoltre intervenuta direttamente richiedendo le dimissioni dell’amministratore delegato di Gm e indicando la partnership con la Fiat come condizione essenziale per la ristrutturazione di Chrysler. Per quanto questo intervento diretto del governo nella gestione di Gm e Chrysler possa apparire come una indebita intromissione negli interessi privati degli azionisti, esso pare invece appropriato in questo particolare caso. Innanzitutto perché le società sarebbero in fallimento senza aiuti statali, ed in questo caso gli azionisti perdono il controllo. E poi, almeno nel caso di Gm, il consiglio di amministrazione ha dimostrato assoluta mancanza di indipendenza nei confronti del management: l'amministratore delegato, Rick Wagoner, ha goduto dei favori del consiglio fin dal 1994, nonostante la quota di mercato di Gm negli Stati Uniti sia scesa dal 33,2% al 18,8% e nonostante il valore di mercato della società sia passato dai 70 dollari ad azione del 2000 ai 4 di oggi.

La decisione dell’amministrazione Obama di utilizzare la normativa riguardante la procedura di fallimento per ristrutturare le due società mi pare coraggiosa. Questa normativa permette infatti di agire con determinazione sia su coloro che possiedono obbligazioni delle società che sui sindacati e i creditori. A ognuna di queste parti sarà richiesto di convertire una parte dei propri crediti (o, nel caso dei sindacati, dei benefici in termini di assicurazione sanitaria e pensioni) in azioni. Si parla di due terzi delle obbligazioni e metà dei benefici assicurativi e pensionistici.

Gli obbligazionisti hanno potere contrattuale limitato, se non nullo, in questa situazione. Il successo della ristrutturazione di Gm e Chrysler dipenderà invece da quanti sacrifici l’amministrazione sarà disposta a richiedere ai sindacati. Un nuovo modello di sviluppo di Gm e Chrysler non può infatti prescindere dalla considerazione che i salari orari che esse hanno contrattato coi sindacati sono notevolmente superiori a quelli che ad esempio Toyota paga ai propri lavoratori non sindacalizzati (70 dollari l’ora contro 46 nel caso dei lavoratori con maggiore esperienza); per non parlare di assicurazione sanitaria e pensione.

Nel discorso di ieri Obama ha esplicitamente addossato la colpa del fallimento dell’industria dell’auto alla sua leadership, «a Washington come a Detroit», senza affrontare direttamente le questioni sindacali. Ha letto questo fallimento come l’incapacità di innovare nella produzione di automobili più efficienti e «pulite». Questa interpretazione è condivisibile solo in parte. Non è corretto dimenticare che alla radice della crisi sta soprattutto l’irresponsabilità di manager e sindacati che hanno firmato contratti finanziariamente non sostenibili, nella speranza e nella convinzione che nessuna amministrazione avrebbe avuto il coraggio di non intervenire pesantemente in aiuto dell’auto. In queste condizioni, produrre automobili competitive passava in secondo piano rispetto al mantenimento della pace sindacale e al supporto da parte della politica locale e federale.

La crisi ha portato l’amministrazione Obama a dover affrontare il rapporto tra politica e oligarchia economica, nel mercato dell’auto come nella finanza, laddove grandi società private hanno potuto evitare la competizione di mercato sostituendola con rendite «gentilmente loro offerte» dalla politica. Fino ad ora purtroppo l’amministrazione non ha saputo, a mio parere, intervenire con la forza e l’indipendenza di giudizio necessarie a strozzare queste rendite e ristabilire il funzionamento di mercati efficienti. Non lo ha fatto giorni fa con le grandi banche. Ha fatto meglio ieri con l’industria automobilistica. Vedremo se saprà farlo domani con i potenti sindacati dell’auto (e dopodomani con quelli degli insegnanti).
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 14, 2009, 02:53:41 pm »

14/4/2009
 
  L'abbaglio statalista

ALBERTO BISIN
 
Molti osservatori credono di vedere nella crisi economica e finanziaria di questi tempi la fine del liberismo. La crisi sarebbe la prova che mercati poco regolamentati sono intrinsecamente instabili e forieri di sciagure. La crisi sarebbe inoltre chiaro indizio della fine della posizione dominante dell’economia americana nel mondo.

Ad argomenti di questo tipo si sono appellati il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, quando richiesero a gran voce istituzioni sovrannazionali di regolamentazione dei mercati finanziari globali. Lo stesso presidente Obama, per quanto poco disposto a cedere agli isterismi revanchisti del governo francese, sembra abbracciare l’idea che solo attraverso un ritorno a massicci interventi statali le magnifiche sorti e progressive dell’economia possano essere rinvingorite.

Questa prospettiva è a mio parere errata. Oggi noi vediamo la crisi e la disoccupazione che non accenna a fermarsi, in Europa come negli Stati Uniti. Ma dimentichiamo che da decenni la disoccupazione nella statalista Europa è circa 4 punti percentuali più alta che negli Stati Uniti, patria del liberismo. Oggi noi vediamo Londra e New York, centri della finanza irrazionale ed esuberante, in ginocchio. Ma dimentichiamo che l’Inghilterra ha ripreso a crescere grazie alle politiche liberiste di Margaret Thatcher e ha un reddito pro capite almeno del 15% superiore al nostro. Oggi noi vediamo l’Irlanda indebitata e in grave crisi, e così alcuni Paesi dell’Est come l’Estonia. Ma dimentichiamo che 30 anni fa l’Irlanda aveva un reddito pro capite pari a quello del nostro Sud mentre oggi è più del doppio. Oggi noi vediamo la crisi colpire i Paesi poveri nel mondo. Ma dimentichiamo che nel 1970 il 38% della popolazione mondiale viveva sotto la linea della povertà, mentre nel 2000 questa percentuale era del 19%.

Potrei continuare con altri «Oggi noi vediamo... Ma dimentichiamo...». Noto invece che questo esercizio retorico risulta particolarmente facile usando l’Italia come riferimento rispetto ai Paesi più liberisti. Questo naturalmente perché l’Italia ha uno dei sistemi pubblici più inefficienti del mondo sviluppato. L’istruzione e la sanità hanno qualche isola felice, ma la giustizia è imbarazzante, l’amministrazione politica locale in molte aree è invasa dalla criminalità organizzata, la classe politica centrale è tra le peggiori e più costose d’Europa, la spesa pubblica è fuori controllo, e il sistema fiscale permette tassi di evasione inimmaginabili nel resto del mondo civile. Se gli Stati Uniti possono ragionevolmente concepire un nuovo ruolo dell’intervento pubblico nello Stato, in Italia lo Stato ha avuto ininterrottamente un ruolo centrale nel sistema economico. Dal corporativismo fascista allo statalismo democristiano, dalla social-democrazia della sinistra riformista all’anti-mercatismo del ministro Tremonti. Se gli Stati Uniti hanno spazio per allargare il ruolo dello Stato, l’Italia ha spazio solo per ridurlo. Soprattutto al Sud, dove la presenza dello Stato è più massiccia e la sua inefficienza è di conseguenza molto maggiore. Il danno più profondo che la crisi possa fare all’economia italiana è proprio quello di rallentarne il già lentissimo passaggio verso una economia di mercato.

Ma anche negli Stati Uniti la battaglia per uno Stato interventista efficiente è impari. Anzi, già vi si osservano preoccupanti segnali di «italianizzazione». I generosi fondi federali allo Stato di New York, che dovevano servire a garantire che scuole e ospedali superassero la crisi, sono risultati in una quantità di spese clientelari come mai si era visto. Il Tesoro, che siede su migliaia di miliardi di dollari per ricapitalizzare il mercato finanziario, è ostaggio di una oligarchia di banchieri che richiede sussidi per socializzare le perdite passate e garanzie contro possibili perdite future. Così come l’autorità «indipendente» preposta alle regole di contabilità delle società, che accorda nuovi meccanismi che permettono alle banche bilanci «allegri» e «creativi». Tutto questo non per sostenere che la mancanza di regolamentazione della finanza non stia alla radice della crisi. Migliori meccanismi sovrannazionali di regolamentazione della finanza sono certamente desiderabili. Ma la soluzione drastica di ritorno allo Stato che molti governi sembrano oggi favorire sarà dannosa per gli Stati Uniti, e molto più per l'Italia che ha uno Stato tremendamente inefficiente e rischia di trovarsi con le banche controllate dai prefetti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:40:46 pm »

22/4/2009
 
Mercati e trucchi contabili
 
ALBERTO BISIN
 

Molti osservatori economici tirano il fiato in questi giorni: il peggio della crisi finanziaria sembra finito, le maggiori banche americane addirittura segnano profitti per il primo trimestre. Alcuni si estendono fino a prevedere una ripresa economica a partire dall’estate.

In verità previsioni di questo tipo sono statisticamente così imprecise da essere poco più di un esercizio divinatorio. Possiamo però analizzare una delle ragioni principali di tale ottimismo: i risultati positivi delle banche, Citigroup e Bank of America in particolare. Purtroppo, così facendo, ci accorgiamo che i loro risultati trimestrali positivi sono in parte fittizi, dovuti a trucchi contabili.

Le nuove norme istituite dall’istituto preposto alla definizione delle regole contabili delle società (il Financial Accounting Standards Board) hanno permesso alle banche di contabilizzare le attività «tossiche» ancora nei propri bilanci, non al valore di mercato, ma ad un valore che le banche stesse ritengono accurato in presenza di una crisi di liquidità. In sostanza le banche hanno una certa libertà nel sopravvalutare rispetto al mercato le proprie attività.

Un altro trucco contabile permette alle banche di sottovalutare le proprie passività, come il debito obbligazionario. Il valore di mercato delle obbligazioni di una società in crisi, a rischio di fallimento, è basso - proprio perché il mercato attualizza il rischio di fallimento. Permettere alle banche di contabilizzare il proprio debito al valore di mercato, come accade in questi giorni, significa in un certo senso permettere loro di cancellare buona parte dei propri debiti dal bilancio con un tratto di penna. In altre parole, nel caso estremo di una società in fallimento non ci sono debiti, ma questo ovviamente non significa che la società sia in buona salute. Insomma, non è difficile segnare profitti se le regole contabili permettono di sopravvalutare le attività e sottovalutare le passività.

Questi trucchi sono purtroppo parte di una generale tendenza alla mancanza di trasparenza del governo americano in materia finanziaria. Il Tesoro ha infatti direttamente favorito, se non richiesto, l’istituzione di queste nuove norme contabili. Esso sembra inoltre intenzionato addirittura a cambiare le condizioni del proprio intervento nei mercati finanziari, da azioni privilegiate a ordinarie, per manipolare i risultati dello stress test delle banche che esso stesso sta conducendo. La misura del capitale delle banche utilizzata nello stress test infatti include azioni ordinarie ma non azioni privilegiate. Il Tesoro finirà quindi per addossare ai contribuenti un’altra significativa frazione di rischio del sistema finanziario e finirà per sottomettere l’attività delle banche a maggiore controllo politico (le azioni ordinarie, a differenza di quelle privilegiate, hanno diritto di voto). Tutto questo solo per manipolare un indice contabile e controllare l’informazione finanziaria da rendere pubblica?

Questa mancanza di trasparenza è estremamente deleteria per l’andamento dei mercati finanziari. I risparmiatori e gli investitori non hanno modo di distinguere chiaramente le buone notizie dalle cattive. Alcune banche infatti hanno certamente migliorato la propria situazione, ad esempio approfittando della liquidità iniettata dalla Fed nel sistema, ma in queste condizioni è difficile se non impossibile capire quali di esse lo abbiano fatto. La volatilità del mercato riflette anche e soprattutto questa incertezza di fondo.

A questo proposito gravissima è anche la versione italiana dei trucchi contabili americani, insita nelle recenti norme che permettono alle società quotate di riacquistare fino al 20 per cento delle proprie azioni e che esentano dall’Offerta Pubblica di Acquisto l’azionariato di controllo (che passasse dal 30 al 35 per cento). L’unica funzione di queste norme è quella di mantener saldi i gruppi di controllo delle imprese quotate ad azionariato diffuso. In un mercato azionario come quello italiano, già caratterizzato dalla concentrazione del controllo e da un certo sprezzo per gli interessi degli azionisti di minoranza, queste norme vanno nella direzione opposta a quella desiderabile. Tendono infatti ad inibire quello sviluppo e quella competizione nei mercati dei capitali che sono necessari per sostenere una duratura crescita dell’economia italiana una volta che quella mondiale sia ripartita.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 08, 2009, 05:05:09 pm »

8/5/2009

Banche Usa l'occasione mancata
   
ALBERTO BISIN


La giornata di ieri sembrerebbe aver segnato una svolta nella crisi finanziaria: la Banca Centrale Europea ha abbassato il tasso di interesse di riferimento al suo minimo storico, e il Tesoro americano ha pubblicato i risultati dello stress test sui bilanci delle principali banche.

Purtroppo non è così, siamo ancora in alto mare. Innanzitutto, le misure classiche di politica monetaria, come la riduzione dei tassi, hanno effetti minimi su una crisi finanziaria profonda come quella in cui ci troviamo. La Fed ha ridotto i tassi negli Stati Uniti essenzialmente a zero mesi orsono, senza effetti significativi sulla disponibilità di credito a famiglie e imprese.

Lo stress test dei bilanci delle banche americane operato dal Tesoro ha invece un obiettivo fondamentale.

Eliminare gli ostacoli che la situazione finanziaria delle banche frappone alla ristabilizzazione dei flussi di credito, senza i quali uscire dalla recessione è impresa titanica anche per economie di mercato ben sviluppate. Nonostante le intenzioni, però, anche questo intervento rappresenta una grande occasione perduta piuttosto che non la svolta necessaria alla crisi.

Vediamo perché. Nei bilanci delle banche sono nascoste passività e rischi di enorme entità. Le stime recenti del Fondo Monetario Internazionale riportano 1000 miliardi di dollari di perdite in tutto il sistema finanziario, il 50% in capo alle banche, di cui solo 200 miliardi realizzati a bilancio. I creditori di ogni singola banca, specie gli azionisti, hanno interesse a mantenere queste passività nascoste fino a che la ripresa economica non se le porti via (o fino a che il governo non le addossi ai contribuenti). Ogni banca ha persino interesse a che le altre banche ripuliscano i loro bilanci, così da sostenere una ripresa economica che ne ripulisca il proprio. Lo stallo che questa situazione genera è estremamente dannoso per l’economia globale proprio perché una ripresa vivace e tempestiva è impossibile fino a che le banche non abbiano ripulito i propri bilanci e il mercato del credito non torni a operare efficientemente. È qui che lo stress test del Tesoro potrebbe intervenire: passare i bilanci delle banche ai raggi X, costringerle a realizzare le perdite e a ricapitalizzarsi in modo da poter sopportare anche i rischi derivanti da una rinnovata attività nei mercati del credito.

Ho usato il verbo «costringere» a ragion veduta. Come ho detto, le banche non hanno interesse a ripulire i bilanci, mentre il sistema economico ha interesse che lo facciano con celerità.

Lo stress test rappresenta una grande occasione persa per due ragioni. Prima di tutto, perché il Tesoro non ha prodotto un’analisi trasparente dei bilanci delle banche, ma anzi ne ha concordato i risultati con le banche stesse. In questo modo non si risolvono i dubbi degli investitori (cui spetterà la necessaria ricapitalizzazione) sul reale stato di solvibilità del sistema finanziario. Ma lo stesso test è una grande occasione perduta soprattutto perché il Tesoro non costringe le banche a nulla. Anzi, continua a prometter loro interventi e sussidi pubblici nel caso la ricapitalizzazione sul mercato privato fallisca. In questo modo si riducono enormemente gli incentivi delle banche a realizzare le perdite nascoste nelle pieghe dei loro bilanci.

La politica perseguita dal ministro Geithner è quindi la stessa iniziata dal ministro Paulson: salvare le banche prima di tutto. Stime della commissione di controllo del Congresso (Congressional Oversight Panel) riportano perdite dirette per i contribuenti dagli interventi sui mercati finanziari a oggi dell’ordine di 170 miliardi di dollari, cui vanno aggiunte garanzie assicurative valutabili in oltre 100 miliardi di dollari. Infine, i fondi di investimento a partecipazione pubblica e privata che acquisteranno le attività «tossiche» delle banche, annunciati ma non ancora istituiti, costeranno ai contribuenti secondo i più attenti osservatori 2 dollari per ogni dollaro investito dal settore privato. Questa politica non ha dato a oggi alcun significativo effetto positivo sui mercati finanziari e continuerà a non darne in futuro. Il Tesoro sembra continuare a proporsi di evitare a ogni costo di dichiarare alcune banche insolventi, per timore di una crisi sistemica nei mercati finanziari e forse anche per limitare le perdite di management e azionisti delle banche, cui il ministro Geithner è vicino per frequentazione e interessi politici. In questo modo però il mercato del credito rimane congelato e la ripresa economica più lontana e anemica. Era questo il momento per il Tesoro di sollevare la testa dalla sabbia e proporre come meglio affrontare il rischio sistemico invece di nasconderlo. Peccato, sarà per la prossima volta.

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 21, 2009, 02:59:22 pm »

21/5/2009

Benvenuta concorrenza fiscale
   
ALBERTO BISIN


La crisi economica è stata esacerbata da mercati finanziari regolamentati poco e male. Se è quindi indubbia la necessità di nuove forme di regolamentazione dei mercati dell’economia globale, è opportuno però sempre tenere a mente che a regolare sono e saranno governi e istituzioni internazionali, complesse burocrazie che agiscono sulla base di interessi politici e attraverso dinamiche non necessariamente in linea con gli interessi della collettività.

In particolare, i governi hanno una ben documentata tendenza all’eccessiva spesa pubblica. Questo perché essa si traduce in controllo delle risorse, potere, e in ultima istanza è meccanismo fondamentale al raggiungimento del consenso elettorale. Ed è così che anche un politico che ha fatto del modello anglosassone e del ridimensionamento del Welfare il suo cavallo di battaglia, come il presidente Sarkozy, cavalca ora invece l’anti-mercato. La stessa politica economica del centro-destra in Italia è passata dal liberismo ideologico, almeno a parole, del primo Berlusconi, alle più recenti posizioni interventiste del ministro Tremonti.

Ma anche i più attenti osservatori delle questioni economiche europee sembrano favorevoli a un ridimensionamento del ruolo del mercato. L’Economist, non certo fautore delle economie sociali dell’Europa continentale, sembra rivalutare il Welfare francese e tedesco. Persino Mario Monti, tra i più coerenti in Italia e in Europa a difendere concorrenza e mercato, ha auspicato in un editoriale sul Corriere di domenica un maggiore coordinamento delle politiche fiscali tra Paesi, per evitare che la concorrenza fiscale, «determinando una corsa all’abbassamento delle aliquote d’imposta», riduca il gettito, e quindi «il finanziamento di programmi sociali».

Quella della riduzione della concorrenza fiscale è questione importante, che sta a cuore a molti governi e che ha dominato le discussioni ai G20. Il governo americano ha mosso passi decisi in questa direzione, proponendo una modifica del regime fiscale delle società che in buona sostanza impedirebbe alle imprese multinazionali statunitensi di adottare regimi di tassazione più favorevoli di quello americano.

Vale la pena quindi di soffermarsi sui vantaggi e i costi della concorrenza fiscale un po’ più in dettaglio. La retorica populistica vuole che queste misure siano una difesa necessaria dalla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali. In realtà esse rappresentano innanzitutto una forma di protezionismo del mercato del lavoro interno dalla concorrenza di Paesi in via di sviluppo quali l’India e la Cina. Ma più in generale, quello che i governi temono maggiormente è la concorrenza fiscale di Paesi sviluppati, con moderne infrastrutture, ma a bassa imposizione, come l’Irlanda. La tassa sulle società (centrale, regionale e locale) è del 12,5% in Irlanda, mentre è del 34% in Francia, del 30% in Germania, e in principio del 39% negli Stati Uniti (anche se varie esenzioni ne permettono una riduzione notevole per la maggior parte delle imprese). Per garantire la competitività delle imprese nazionali, quindi, Francia, Germania, Stati Uniti, potranno essere costrette ad un «abbassamento delle aliquote d’imposta». A meno di raggiungere un accordo sul coordinamento delle politiche fiscali ad aliquote più elevate, che riduca sostanzialmente la concorrenza fiscale (includendo il più possibile i Paesi oggi a bassa aliquota e limitando i flussi di capitale e di investimenti diretti verso quelli che rifiutino l’accordo).

Ma è davvero auspicabile una siffatta limitazione della concorrenza fiscale? In un mondo perfetto, in cui i governi destinino la spesa pubblica ad un’efficiente produzione di beni pubblici, la concorrenza fiscale ha effetti dannosi, proprio perché limita la quantità di beni pubblici che possano essere finanziati. In un mondo imperfetto, in cui invece le istituzioni politiche tendano a favorire una dinamica incontrollata della spesa pubblica, la concorrenza fiscale ha invece un effetto positivo: impone un vincolo alla capacità impositiva dei governi e quindi alla spesa eccessiva ed inefficiente.

La limitazione della concorrenza fiscale ha quindi effetti opposti a seconda di quale sia il mondo in cui viviamo, di quanto le istituzioni politiche siano in grado di limitare la propria naturale tendenza alla spesa. Purtroppo non è difficile osservare quanto imperfetto sia il mondo reale. Ed è soprattutto in Europa che le istituzioni hanno permesso a spesa pubblica e a tassazione di raggiungere livelli tali da soffocare la crescita economica ormai da anni. È questo il caso dell’Italia, ovviamente. Ma anche di quei Paesi come la Francia e la Germania, che pure hanno un’amministrazione pubblica efficiente. E allora si agisca pure sulle Isole Cayman, ma ben venga la concorrenza fiscale dell’Irlanda.

da lastampa.it
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