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Autore Discussione: ALBERTO BISIN -  (Letto 21324 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:53:41 pm »

19/5/2010

L'inguaribile malattia italiana
   
ALBERTO BISIN


In Italia, ad ogni occasione in cui i governi hanno qualcosa da farsi perdonare dai cittadini, il ministro delle Finanze di turno promette fuoco e fiamme contro l'evasione fiscale. Qualcuno forse ancora ricorda, nel 2006, le proposte dell'allora viceministro Visco al riguardo, in cinquantacinque (55!) punti. E le stime del ministro Padoa-Schioppa nello stesso periodo: 100 miliardi di euro da recuperarsi in 5 anni. Oggi è il turno del ministro Tremonti che, in occasione di una prevista stretta fiscale, promette: «Dovranno preoccuparsi solo i falsi invalidi e gli evasori».

Purtroppo l'evasione in Italia è elevata ed è rimasta abbastanza costante negli anni. Per quanto le stime statistiche di fenomeni per loro natura sotterranei, come l'evasione e l'economia sommersa, siano necessariamente imprecise, si può dire che in Italia il sommerso sia nell’ordine del 26% del Prodotto interno lordo (al 2003), e che sia leggermente cresciuto nel corso del decennio precedente (23% nel 1990).

Si può anche osservare che queste percentuali sono paragonabili a quelle di Grecia (28% al 2003) e Spagna (22%), mentre sono enormemente superiori a quelle ad esempio degli Stati Uniti (8-9%).

Sulla maggior efficienza del fisco americano rispetto a quello italiano pesano certo molti fattori: dalla qualità generale della pubblica amministrazione Usa allo specifico sistema di raccolta dati e di controllo delle dichiarazioni fiscali, dalla severità (e, ancora, l'efficienza) del sistema giudiziario americano al sistema di valori dei cittadini americani stessi, che non sono certo dei santi ma hanno più senso civico di noi italiani.

Ma la questione dell'evasione e del sommerso in Italia non si spiega solo con una certa inettitudine della nostra amministrazione fiscale e giudiziaria, ma piuttosto con una carenza di volontà politica. Questo perché l'evasione e il sommerso in Italia non sono distribuiti più o meno omogeneamente sulla popolazione. Più che altrove, infatti, in Italia sono i lavoratori indipendenti ad essere in grado di evadere o eludere le tasse. La lotta all'evasione significa quindi scontrarsi con lobby potenti come ad esempio quelle dei commercianti e delle professioni. Ma i disincentivi politici alla lotta all'evasione sono ancora più netti se si considera la distribuzione geografica dell'evasione. La realtà, per quanto «incorretta politicamente», è che una larga parte dell'evasione, soprattutto dell'evasione totale, è al Sud del Paese, e cioè nelle regioni più povere. Una indagine dell'Agenzia delle Entrate stima, per il periodo 1998-02, che l'imponibile Irap evaso sia nell'ordine del 38% per Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna (e addirittura del 48% per la Calabria), mentre sia nell'ordine del 17% in Piemonte, Emilia Romagna, Veneto (e addirittura del 11-12% in Lombardia), in linea con Francia e Germania. Per quanto si prendano questi dati con le pinze, si capisce come il problema dell'evasione sia intimamente legato a un problema ancora più vasto e complesso come la questione meridionale (e la connessa questione del controllo criminale di una parte significativa dell'economia del Sud). Il federalismo fiscale potrebbe senz'altro essere almeno in parte una soluzione, ma purtroppo poco si intravede di buono nella Legge Delega approvata il maggio scorso dal Parlamento.

Ma come se non bastasse, vi è un'altra ragione per cui è difficile politicamente agire sull'evasione in Italia. La pressione fiscale sull'economia intera è ormai a livelli difficilmente sopportabili, oltre il 40% (quella sul lavoro è al 44% contro il 34% della media comunitaria nel 2007). Dato il sistema fiscale italiano, tassare per intero gli evasori significherebbe schiacciare il freno sull'economia del Paese. Sono proprio i lavoratori indipendenti e le industrie del sommerso ad avere infatti maggiore flessibilità nel ridurre ore lavorate ed impiego. Dico questo, naturalmente, non per argomentare che sia desiderabile chiudere un occhio sull'evasione, assolutamente no, se non altro per fondamentali ragioni di giustizia ed equità (che ha ben esposto ieri Antonio Scurati su queste colonne). Lo dico invece per spiegare perché il problema dell'evasione sia legato a quello della spesa pubblica. I costi in termini di crescita economica di una seria lotta all'evasione sarebbero fortemente ridotti solo qualora la spesa pubblica fosse tagliata sufficientemente in modo da lasciare spazio a una diminuzione significativa della pressione fiscale. Fa bene quindi il ministro Tremonti, oggi, a collegare la lotta all'evasione ad una riduzione del «peso della mano pubblica» dove «c'è una vasta area di spesa improduttiva» con un «uso non appropriato del denaro pubblico». Purtroppo la lotta all'evasione non è possibile senza affrontare di petto la questione meridionale e senza attaccare la spesa pubblica lì dove fa male: le pensioni, per dirne una, e non certo solo quelle d’invalidità.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7370&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:32:35 am »

18/6/2010

Un facile capro espiatorio
   
ALBERTO BISIN

Al Consiglio Ue la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha richiesto a gran voce una tassa sulle banche. Quale coraggio, quale visione politica: ardire di proporre ai politici europei una nuova tassa! Peccato, voli aerei gratuiti ai politici d’Europa e alle loro famiglie saranno lasciati al prossimo incontro.

Scherzo per evitare di disperare davanti alle sorti europee. Il motivo della disperazione non è la tassa in sé. I banchieri si sanno difendere molto bene, troppo bene, e confido che la proposta cadrà nel dimenticatoio della politica populista o comunque sarà annacquata a sufficienza da non avere effetti rilevanti. Mi preoccupa invece il modello interpretativo del funzionamento delle economie di mercato e dei rapporti tra mercato e politica che sta dietro questa proposta. Esso è inetto ed incoerente. Non si tratta di distorsioni ideologiche: il governo italiano, ed il ministro Tremonti in particolare, sono asseriti fautori dello stesso modello, così come lo sono l’amministrazione Obama e il presidente Sarkozy.

Il modello ha due ingredienti concettuali fondamentali. Il primo è che Stati e mercati combattono per il controllo del sistema economico globale, ognuno con i propri strumenti: tasse per gli Stati e capitali speculativi per i mercati. Il secondo è che l’obiettivo dei mercati è il profitto, mentre quello degli Stati è il bene dei cittadini. Il modello fornisce una chiara interpretazione delle recenti politiche della Ue per fronteggiare la crisi finanziaria: la buona politica europea ha prima salvato i cittadini greci e spagnoli dall’ecatombe indotta dalle banche cattive e dai loro accoliti, gli ancor peggiori speculatori - ed ora richiede i giusti danni alle banche, in forma di tassa e naturalmente per conto dei cittadini. Naturalmente il governo tedesco non è il solo a favorire questa interpretazione: il ministro Tremonti non perde occasione per vantare la primogenitura intellettuale di queste politiche e il premier Berlusconi propone se stesso come motore primo della salvezza universale a mezzo dell’intervento europeo sui mercati dei titoli greci e spagnoli.

Il successo di questo modello interpretativo tra i politici è facilmente spiegabile col fatto evidente che permette ad essi di additare facili capri espiatori per il proprio comportamento irresponsabile e soprattutto per la propria incapacità di regolamentare quei mercati finanziari che, invece di combattere, essi proteggono e favoriscono ad ogni occasione. Ma il modello resta inetto ed incoerente perché basato sulla fondamentale incomprensione del funzionamento sia dell’economia di mercato che del sistema politico democratico. Prima di tutto, l’economia di mercato, proprio perché l’obiettivo dei mercati è il profitto, funziona solo quando associata alla responsabilità individuale, quando imprenditori, imprese, e società rischiano i capitali propri. Inoltre, il sistema politico democratico è da parte sua anch’esso motivato dal profitto. Se il profitto monetario della classe politica è spesso considerato corruzione, ed è in quanto tale illecito, il profitto elettorale è invece motivazione principe dell’azione politica, e spesso affatto in linea con il bene dei cittadini tutti.

Se si comprende questo, si comprende allora che la politica europea non ha salvato i cittadini greci e spagnoli, ma piuttosto le banche che al governo greco e a quello spagnolo hanno irresponsabilmente elargito generosi finanziamenti. In questo modo la politica europea ha protetto le banche; ma non tutte, solo quelle che non hanno saputo fare il proprio mestiere. Ed ora propone di tassarle; tutte naturalmente. Non c’è niente male come salvataggio universale: tassare i comportamenti responsabili per finanziare quelli irresponsabili. E non è tutto qui. Perché i proventi di un’eventuale tassa sull’attività bancaria, prima di riversarsi nei forzieri dei banchieri amici, passano naturalmente da quelli dei governi e lì rimangono attaccati in buona parte. E qui siamo alla seconda fondamentale incomprensione, quella riguardante i sistemi politici democratici. Nella ricerca del successo elettorale, i governi hanno una accentuata tendenza alla spesa pubblica, eccessiva, inefficiente, e soprattutto clientelare. La tassa sull’attività bancaria proposta dal Consiglio Ue, quindi, favorisce doppiamente comportamenti irresponsabili, socializzando le perdite delle banche e incrementando le risorse che gli stati possono devolvere alla spesa. Non resta molto da dire, considerando che è proprio la spesa senza controllo a costituire la maggiore minaccia alla crescita economica europea. Complimenti alla cancelliera Merkel e al Consiglio Ue tutto.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7489&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 01, 2010, 05:26:51 pm »

28/6/2010

Ci può salvare la chiarezza dei mercati
   
ALBERTO BISIN

Il G20 si presenta come una tenzone tra gli Stati Uniti, favorevoli a politiche fiscali espansive, e l’Europa, trainata invece dalla Germania su posizioni più rivolte al rigore delle finanze pubbliche.

In realtà questa contrapposizione, pur reale, è a ben vedere meno chiaramente delineata di quanto non sembri. Innanzitutto gli Stati Uniti favoriscono sì politiche di stimolo fiscale, ma in Europa. Il presidente Obama sa bene che lo spazio per un altro stimolo fiscale nel suo Paese è minimo. Il Congresso, pur controllato dai Democratici, deve affrontare un’elezione che si presenta durissima proprio perché le politiche fiscali espansive dell’amministrazione, e i deficit di bilancio che ne sono conseguiti, hanno rinvigorito l’opposizione repubblicana e la sua base libertaria. Lo scarso rigore finanziario dell’amministrazione ha addirittura portato alle dimissioni Peter Orzasg, il direttore dell’ufficio del Congresso che controlla le coperture di spesa e gli effetti economici del bilancio (il Congressional Budget Office), noto per la serietà e l’imparzialità delle sue analisi.

L’Europa da parte sua è in condizioni finanziarie ben più precarie di quelle degli Stati Uniti.

I ministri finanziari della Ue hanno guardato in faccia con terrore il rischio di non riuscire a rifinanziare i propri debiti in scadenza a tassi ragionevoli. Questa crisi ha le sue radici nella insostenibilità a medio periodo di voci di spesa consolidate da politiche di bilancio irresponsabili che in alcuni casi hanno la loro origine alcuni decenni or sono: nel caso dell’Italia, agli anni di Craxi. Nonostante le avance interessate dell’amministrazione americana, quindi, bene fa la cancelliera Merkel a rifiutarle gelidamente.

Nella contrapposizione tra Stati Uniti e Germania vi è un aspetto assolutamente fondamentale che pare essere dimenticato da molti commentatori. Politiche fiscali espansive hanno maggiori possibilità di avere effetti di stimolo sull’economia privata qualora il Paese in cui sono adottate abbia un basso carico fiscale e sane condizioni di bilancio (un basso rapporto debito/Pil). In questo caso le prospettive di crescita rendono relativamente meno dannoso un aumento del debito così come un eventuale aumento dell’imposizione in futuro. Per quanto gli Stati Uniti abbiano seri problemi di bilancio e un elevato debito pubblico, essi hanno una carico fiscale ben meno elevato rispetto all’Europa. Se il presidente Obama non può quindi aumentare la spesa né le tasse in un anno elettorale, questo non significa che convenga farlo all’Europa. Anzi, l’Europa non è proprio in condizioni di farlo, trovandosi invece nella drammatica necessità di ridurre la spesa pubblica che è la prima causa della sua scarsa crescita. L’eccessivo carico fiscale nei Paesi Ue disincentiva infatti gli investimenti produttivi e finanzia invece una spesa pubblica ormai volta a supportare un settore pubblico inefficiente e scarsamente produttivo e, in Italia, le rendite di una parte del settore privato che evade le imposte.

Al G20, però, non si discute solo di politiche fiscali, ma anche di regolamentazione finanziaria. A questo proposito il progetto di riforma del Financial Stability Board diretto dal governatore Draghi prevede l’adozione di misure più restrittive di controllo della leva finanziaria (il cosiddetto Basilea3) così come varie altre misure di regolamentazione del rischio sistemico e di trasparenza. Queste sono misure assolutamente necessarie per un equilibrato sviluppo dei mercati finanziari, a loro volta necessari a una ripresa vigorosa. Le grandi banche internazionali sono tenacemente contrarie all’adozione di Basilea3, perché il controllo della leva inciderebbe duramente sui loro margini di profitto. Ma il controllo della leva avrebbe invero effetti importanti per l’economia globale in termini di riduzione dei rischi. Allo stesso modo, la trasparenza sui mercati dei derivati è fondamentale per ridurre quello che si chiama il «rischio di controparte», il rischio di trovarsi a far affari con una controparte eccessivamente esposta al rischio sistemico. Proprio questo tipo di rischio ha portato nei momenti più intensi della crisi nel 2008 al congelamento dei mercati finanziari nell’incertezza generale riguardante quali banche detenessero «titoli tossici» in quantità. Sulla determinazione che i membri del G20 dimostreranno nel far accettare queste misure ai mercati finanziari dovrà essere giudicato, a mio parere, il successo di questa riunione. Mercati finanziari ben regolamentati possono avere una funzione volano sulla crescita economica futura cento volte più rilevanti di qualunque intervento di stimolo fiscale su cui i Venti possano trovare un accordo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7529&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:57:26 am »

11/8/2010

La sterzata che serve all'America

ALBERTO BISIN

La Federal Reserve ha dovuto ammettere ieri quello che ormai stava diventando chiaro a tutti gli osservatori dell’economia americana: la ripresa ha perso fiato e i dati che provengono dai mercati sono preoccupanti. Insomma, son problemi seri.

Da un lato, non si può certo argomentare che la politica economica sia con le mani in mano: la politica monetaria della Fed è fortemente espansiva e di conseguenza l’economia americana nuota nella liquidità; e l’enorme stimolo di politica fiscale varato l’anno scorso prevede ancora spese per centinaia di miliardi di dollari quest’anno. Ma ciononostante non si intravedono spinte inflazionistiche e l’economia rimane anemica, come in stallo, con un tasso di disoccupazione che non accenna a diminuire. A osservare il mercato del lavoro più da vicino la situazione non migliora affatto: non solo la disoccupazione è stabile, ma si nota un significativo aumento della disoccupazione di lungo periodo, che grava drammaticamente soprattutto sulle famiglie di classe media. La disoccupazione è a più lungo periodo, tipicamente, quando il mercato del lavoro passa attraverso una fase di aggiustamento e riconversione: i settori potenzialmente in crescita non trovano manodopera qualificata, mentre altri settori riducono significativamente la domanda di lavoro.

Ad esempio, il mercato richiede infermieri e infermiere mentre si ritrova con un eccesso di muratori e falegnami. Vari indicatori della domanda di lavoro per settore (ad esempio il rapporto tra il numero di annunci di lavoro posti dalle imprese e il tasso di disoccupazione) sembrano confermare questa ipotesi, e cioè che l’economia americana sia nel mezzo di una difficile riconversione industriale, che la rallenta.

Ma non è tutto qui. La lentezza della ripresa deriva anche dall’insuccesso della politica fiscale i cui effetti di stimolo paiono essere stati tutto sommato molto ridotti. In parte questo insuccesso è dovuto ad una non efficiente distribuzione della spesa. Ad esempio, gli interventi di spesa in infrastrutture non hanno contribuito ancora significativamente alla ripresa perché essi tendono ad avere effetti ritardati, nonostante le rassicurazioni dell’amministrazione che dichiarava di avere scelto progetti «pronti allo scavo» (shovel-ready). Ma soprattutto, la politica fiscale tende ad avere effetti estremamente ridotti quando le famiglie e le imprese temono un incremento della pressione fiscale a breve termine. Purtroppo questo è esattamente il caso negli Stati Uniti. Tutti si aspettano un aumento delle tasse dopo le elezioni per il rinnovo del Congresso e del Senato il prossimo novembre. L’aumento della pressione fiscale è reso abbastanza inevitabile dalla situazione del bilancio pubblico, che risente delle spese militari relative alle due guerre dell’era Bush e delle esplosive proiezioni di spesa per sanità e pensioni relativamente al prossimo decennio. Per quanto l’amministrazione Obama abbia in gran parte ereditato questa situazione di bilancio, essa è responsabile di non averne fino ad ora compresa la gravità. A tal punto l’amministrazione ha sottovalutato i problemi di bilancio che per mesi essa ha spinto il Congresso a «sfruttare la crisi» per iniziare ad instaurare un sistema di welfare di cui il Paese ha bisogno nel medio periodo ma che invece rischia di indurre una crisi, ora, nel momento in cui il Paese può meno sopportarla. Enorme errore questo, che ha portato il Congresso a non potere approvare nuovi sussidi alla disoccupazione di lungo periodo di cui il mercato del lavoro ha disperatamente bisogno.

Se, come credo, le ragioni della lentezza della ripresa sono in parte strutturali e in parte dovute alle aspettative di un prossimo inasprimento fiscale, alla politica monetaria rimane poco spazio di manovra.

L’annuncio di ieri sui tassi era dovuto e sostanzialmente atteso. Certamente la Fed tornerà a quella politica di «quantitative easing» che ha avuto notevole successo nelle prime fasi della crisi: acquisterà cioè titoli a medio periodo con l’obiettivo di abbassare l’intera struttura dei tassi, non solo quelli a breve sotto il suo diretto controllo. Cercherà anche di ingenerare aspettative espansive facendo intendere che non alzerà i tassi al minimo avviso di inflazione. Ma tutto questo non può che avere ora effetti di secondo ordine.

Anche un eventuale nuovo stimolo fiscale, di cui sempre più insistentemente si parla, avrà effetti scarsi se prima non si risolvono i problemi di bilancio, specie quelli gravissimi riguardanti la spesa sanitaria pubblica per gli anziani (Medicare). Purtroppo non è concepibile che questo avvenga prima delle elezioni, che già si dimostrano in salita per il partito democratico. In vari casi, da Reagan a Clinton, i risultati delle elezioni di rinnovo del Parlamento hanno indotto il Presidente a un notevole cambiamento di rotta politica. Aspettiamo con ansia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7698&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #34 inserito:: Agosto 23, 2010, 06:02:37 pm »

23/8/2010

Per le banche regole mondiali stringenti
   
ALBERTO BISIN

La crisi finanziaria ha convinto molti economisti ed osservatori della necessità di regole più stringenti cui sottoporre i mercati finanziari. Negli Stati Uniti l’amministrazione Obama e il Congresso hanno prodotto una riforma della struttura di regolamentazione dei mercati. Tale riforma ha redistribuito il potere di regolamentazione attraverso varie agenzie e ha definito linee generali di vigilanza ed intervento sulla carta abbastanza ambiziose. Dico «sulla carta» perché, come spesso accade, saranno i dettagli dei regolamenti attuativi della riforma a determinarne gli effetti più importanti. Non è ancora chiaro ad esempio cosa succederà di Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie governative che assicuravano i mutui e che tanto hanno contribuito a finanziare la bolla immobiliare. Soprattutto non è ancora chiaro quanto le autorità riusciranno ad ottenere quella trasparenza nelle operazioni sui mercati di strumenti finanziari «over the counter» senza la quale ogni strumento di regolamentazione è sostanzialmente inefficace. Per queste ragioni, l’attività di lobby delle grandi banche per influire sui regolamenti attuativi è intensissima. Sarebbe bene che l’amministrazione Obama e il Congresso, questa volta, non cedano.

Un altro elemento fondamentale della regolamentazione finanziaria internazionale sono i nuovi requisiti di patrimonializzazione e liquidità per le banche, i cosiddetti Basilea 3, che saranno discussi al prossimo G-20 di Seoul a novembre. Si tratta di regole più stringenti riguardo alla proporzione di capitale che le banche dovranno mantenere in attività sicure e liquide a garanzia dei propri investimenti a rischio. Poiché, come anche questa crisi ha dimostrato, i governi difficilmente permettono alle banche di fallire - o di essere ricapitalizzate in un regime di amministrazione controllata - è necessario limitare i rischi cui esse si espongono e di cui è costretto a rispondere il contribuente. La Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) ha prodotto nei giorni scorsi uno studio sugli effetti di queste nuove più stringenti regole, secondo cui i vantaggi di Basilea 3 per l’economia globale sarebbero ben superiori ai costi. D’altro canto, l’Institute of International Finance (Iif), organizzazione delle maggiori banche internazionali, stima costi elevati per le banche e per i paesi che adottino Basilea 3, suggerendo che essi potrebbero strangolare il mercato del credito e quindi la ripresa.

Per comprendere come si spieghino queste differenze di analisi e giudizio è necessario, ancora una volta, entrare nei dettagli. Banche maggiormente capitalizzate dovrebbero rendere meno intense e soprattutto meno frequenti le crisi finanziarie. Lo studio Bri calcola che i Paesi industriali abbiano in passato sopportato in media una crisi finanziaria ogni 20-25 anni. I requisiti di Basilea 3 sarebbero in grado di portare questi paesi a una crisi ogni 30-35 anni. Questo sarebbe un vantaggio importante nel lungo periodo. Più stringenti requisiti di capitale e liquidità rendono più costosa però l’attività di intermediazione delle banche, che devono mantenere una maggior proporzione del proprio capitale essenzialmente inattiva. Questi costi sono associati soprattutto alla fase di transizione, in cui le banche dovranno accumulare nuovo capitale e liquidità.

Per quanto le stime delle determinanti delle crisi finanziarie siano soggette ad elevato errore statistico, non è sull’analisi statistica che gli studi della Bri e dell’Iif non concordano. La differenza sostanziale sta nel fatto che la Bri stima esclusivamente gli effetti di lungo periodo di Basilea 3, mentre al contrario lo studio dell’Iif si riferisce esclusivamente al periodo di transizione, in cui i costi per le banche sono elevati e i vantaggi ancora da realizzarsi. Entrambi gli studi portano quindi, retoricamente, acqua al proprio mulino: a favore di Basilea 3 la Bri e contro di esso le grandi banche internazionali.

Ma non vi è dubbio che l’analisi dello studio Bri sia la più rilevante, perché è nel lungo periodo che i vantaggi e i costi di una nuova regolamentazione finanziaria vanno valutati. Le grandi banche stanno probabilmente cercando di guadagnare potere contrattuale per chiedere un lento processo di attuazione della normativa in modo da distribuire nel tempo i costi del processo di ricapitalizzazione loro richiesto da Basilea 3. È bene che anche questa richiesta sia valutata con estrema attenzione. Le banche infatti mirano ad evitare di diluire il capitale degli azionisti, ma nell’interesse della ripresa economica è invece importante che la ricapitalizzazione avvenga a ritmi ben più accelerati di quanto non stia accadendo. L’esperienza del Giappone, che ha permesso a banche decotte di ricapitalizzarsi ai propri ritmi sostenendo una stagnazione economica per almeno un decennio, dà idea dei costi di questa strategia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7736&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 08, 2010, 05:19:44 pm »

8/12/2010

Un salvagente pieno di dollari per Obama

ALBERTO BISIN

Il presidente Obama ha raggiunto un accordo con il Congresso americano, ormai in mano ai repubblicani, per estendere per altri due anni i tagli fiscali decisi dall’amministrazione Bush. L’accordo prevede l’estensione dei tagli anche a coloro che dichiarino redditi superiori ai 250 mila dollari, cioè ai «ricchi». Nonostante solo meno del 5% della popolazione abbia redditi di questo tipo, da essi proviene più del 40% delle entrate fiscali relative alla tassa sul reddito. Di conseguenza il «regalo ai ricchi» è notevole, circa 315 miliardi di dollari in due anni. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si ricordi che lo stimolo fiscale del 2008, il più grande della storia del Paese, era di 800 miliardi in due anni. L’accordo raggiunto però agisce anche su altre voci fiscali, riducendo i contributi pensionistici, alcune imposte alle imprese, e soprattutto la tassa sull’eredità. Infine, l’accordo prevede anche nuova spesa, nella forma di sussidi al credito per gli studi e soprattutto di una estensione di 13 mesi dei sussidi alla disoccupazione. Il tutto, secondo le prime stime, per altri 500 miliardi in due anni. Un secondo stimolo.

Senza un compromesso tra il presidente e la maggioranza repubblicana al Congresso le tasse sarebbero salite per tutti i contribuenti, un risultato inaccettabile in un momento in cui la ripresa, se anche presente, è apparentemente ancora estremamente debole. Qualunque siano le ragioni politiche che hanno motivato Obama ad accettare, essenzialmente in toto, le condizioni poste dal Congresso, gli effetti economici dell’accordo sono difficili da prevedere. Abbassare le aliquote fiscali in una recessione ha effetti positivi, perché incentiva l’attività economica, che risulta al margine più produttiva. Abbassare le aliquote ai «ricchi», per quanto abbia effetti distributivi non desiderabili, ha un importante effetto di gettito: sono soprattutto i ricchi infatti a lavorare meno quando le tasse sono più alte, proprio perché possono permettersi di farlo. (I ricchi hanno anche tipicamente maggiore facilità ad eludere le tasse, e maggiori incentivi a farlo ad aliquote elevate).

Allo stesso tempo, l’estensione dei sussidi alla disoccupazione è anche importante quando, come in questa situazione congiunturale, il mercato del lavoro sia particolarmente poco reattivo. Sia perché tali sussidi provvedono ad una necessaria assicurazione sociale, che perché essi contribuiscono in modo abbastanza diretta al consumo aggregato. D’altra parte gli 800 e oltre miliardi di mancate entrate e nuova spesa non possono che venire dall’indebitamento. Non vi sarebbe nulla di male, a questo servono i debiti, se non fosse che il Paese è già pesantemente indebitato e se le previsioni di crescita della spesa pubblica (da sanità e pensioni soprattutto) non fossero fuori controllo. In queste condizioni, l’accordo appare come un compromesso tra democratici e repubblicani, spesa ai primi e meno tasse ai secondi, senza un piano di rientro dal debito e soprattutto senza una coerente visione di politica economica per il Paese. L’incertezza che ne risulta riguardo ai piani di risanamento della finanza pubblica per i prossimi 10 anni, quali spese saranno tagliate e quali tasse saranno aumentate, rischia di dar vita ad un effetto boomerang.

Si rischia cioè che l’effetto espansivo della misura sia compensato in larga parte da timori di nuove tasse future che possano avere effetti di raffreddamento dell’attività economica. La situazione economica degli Stati Uniti, da questo punto di vista, non è essenzialmente diversa da quella dell’Europa: entrambe abbisognano di una politica fiscale espansiva nel breve periodo che eviti però percorsi di indebitamento non sostenibili. Sono necessari quindi vincoli alla spesa futura che siano credibili oggi, come riforme serie e incisive di sanità e pensioni, riforme che la classe politica, in America come in Europa, sembra in gran parte incapace di perseguire.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8179&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 05, 2011, 11:24:50 am »

5/4/2011

La sfida del lavoro

ALBERTO BISIN

Chi si occupa di politica negli Stati Uniti ripete da sempre il ritornello che un Presidente in carica vince le elezioni di secondo turno se l’economia tira e soprattutto se il tasso di disoccupazione è sufficientemente contenuto.

Questo è anche quello che pensa l’amministrazione Obama, che non a caso ha lanciato la campagna elettorale poco dopo le buone notizie sulla creazione di posti di lavoro relative al mese di marzo (230 mila nuovi posti netti nel settore privato).

La ripresa non è vibrante come forse Obama sperava fosse, ma sembra quanto meno ben avviata: i posti di lavoro netti nel settore privato creati negli ultimi 13 mesi sono un milione e ottocentomila, e di questo passo il tasso di disoccupazione inizierà a scendere in maniera visibile (è oggi appena sotto il 9%, rispetto al 10,6% all’apice della recessione). La discesa del tasso di disoccupazione fino ad ora è stata molto lenta perché le statistiche non considerano disoccupati coloro che pur non avendo lavoro non lo cercano attivamente. Costoro però tipicamente ritornano a cercare lavoro (e quindi a essere contabilizzati nelle statistiche della disoccupazione) quando la ripresa si fa sentire. Si stima che a tutt’oggi questi lavoratori scoraggiati ammontino al 2,2% e che per ridurre il tasso di disoccupazione dell’1% siano necessari nuovi posti di lavoro netti per circa il 2% della forza lavoro.

Nelle aspettative più rosee il tasso di disoccupazione potrebbe essere attorno all’8% prima delle elezioni presidenziali del 2012. Sarà questo sufficiente per Obama? Se è vero che negli ultimi 50 anni nessun Presidente in carica è stato eletto con un tasso di disoccupazione superiore al 7,5%, è anche vero che questa recessione è stata particolarmente profonda e così è percepita dagli elettori americani. L’amministrazione Obama quindi cercherà di evidenziare il tasso a cui la disoccupazione decresce piuttosto che invece il tasso di disoccupazione in sé. Ed infatti proprio sulla decelerazione della disoccupazione si è soffermato Obama lo scorso fine settimana dichiarando che da questo punto di vista solo la ripresa del 1984 aveva fatto altrettanto.

È importante notare che la politica fiscale non potrà essere di aiuto a Obama. Lo stimolo del 2008 ha avuto effetti a breve abbastanza limitati e un nuovo stimolo sarebbe politicamente impossibile (i Democratici hanno perso nel 2010 il controllo del Congresso) e dannoso da un punto di vista economico, perché rischierebbe di sostituirsi alla ripresa privata. La politica monetaria, d’altro canto, potrebbe innestare inflazione e quindi ridurre i salari reali (che già oggi sono in fase calante). Una discesa moderata dei salari dovuta a una inflazione controllata potrebbe quindi favorire la ripresa, riducendo il costo del lavoro per le imprese. Il problema è che l’inflazione è tipicamente difficile da controllare senza agire drasticamente sui tassi e quindi negativamente sugli investimenti. E un’inflazione fuori controllo danneggerebbe invece la classe media il cui voto è fondamentale per Obama, riducendone il potere d’acquisto in modo sostanziale. La Federal Reserve quindi cammina su un filo sospeso e molto dipenderà dalla sua abilità a rimanere in equilibrio fino alle elezioni. I Repubblicani, da parte loro, cercheranno invece di spostare il dibattito sul debito pubblico e in particolare cercheranno di trasformare le elezioni, chiunque sia il loro candidato, in un plebiscito sulla desiderabilità di una massiccia presenza dello Stato nell’economia. Un altro ritornello favorito da coloro che osservano la politica americana da vicino è che la maggioranza del Paese è su posizioni sostanzialmente conservatrici in economia e che una minoranza importante (capace di spostare il pendolo delle elezioni partecipando più o meno attivamente al voto) è pronta alle barricate sulla questione.

Già questa settimana i Repubblicani presenteranno alla Camera un progetto per la riduzione della spesa di 4 mila miliardi di dollari in 10 anni, che agisce in modo sostanziale su Medicare e Medicaid, i programmi pubblici di assicurazione sanitaria rispettivamente per gli anziani e gli indigenti. Secondo le indiscrezioni della stampa, il progetto prevederebbe la trasformazione dell’assicurazione sanitaria pubblica per queste categorie di cittadini in sussidi all’acquisto di un’assicurazione privata. Il progetto, abbastanza centrista pur se coerente con una filosofia politica conservatrice, potrebbe rappresentare, assieme alle recenti proposte della commissione parlamentare sul deficit, il cuore del programma economico del candidato repubblicano. In mancanza di una crescita molto vivace dell’economia, sarà su questi temi che Obama dovrà confrontarsi, evitando di farsi posizionare troppo lontano dal centro.

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« Risposta #37 inserito:: Aprile 21, 2011, 06:08:04 pm »

21/4/2011

Un Paese senza energia

ALBERTO BISIN

Il dibattito seguito su questo giornale all’editoriale di Luca Ricolfi sul differenziale di crescita tra Sud e Nord del Paese ha degli aspetti sconcertanti. Ricolfi, come fa da tempo, produce dati che evidenziano realtà poco conosciute della questione meridionale nel Paese: il Sud cresce ad un tasso leggermente superiore a quello del Nord ed evade maggiormente il fisco. I dati (Istat) si riferiscono, più precisamente, alla crescita del Pil pro-capite dal 1995 al 2007 e all’evasione in percentuale delle imposte pagate. Ai dati, il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, risponde: «La povertà al Sud, in questi anni, è sempre aumentata e questo lo sanno tutti, soprattutto chi vive nel Mezzogiorno». Questo lo sanno tutti, dice. In questa risposta sta tutto il disprezzo della politica e del sindacato per i dati, tutta la mancanza di serietà del dibattito economico nel nostro Paese.

Mentre Bonanni sta con la testa sotto la sabbia, è bene cercare di capire cosa sta succedendo. Ricolfi suggerisce che proprio la minore pressione fiscale possa aver permesso all’economia meridionale di crescere più velocemente. A questo proposito è bene notare che se così fosse non ci sarebbe da stupirsi perché è in generale vero che economie meno tassate crescono maggiormente. Inoltre, è bene notare che le differenze di evasione fiscale tra Nord e Sud non sono di poco conto. L’Agenzia delle Entrate, sulla base di dati Istat, ha stimato recentemente una percentuale di reddito evaso per imposte pagate pari all’11 per cento a Milano, Torino, Genova, Roma, e al 66 per cento a Caserta, Reggio Calabria, e Messina.

Ma c’è di più: il pubblico (i cui dipendenti non possono evadere) conta per il 40% circa del reddito al Sud e molto meno al Nord (tra il 20 e il 25%). Si capisce quindi che la pressione fiscale sul reddito privato sia al Nord probabilmente superiore al 50%. Giusto per avere un senso di cosa questo significhi, la pressione fiscale in Svezia è del 46%, in Danimarca del 48%.

Detto questo, è possibile, come suggerisce Gianfranco Viesti in un altro contributo al dibattito, che la crescita del Sud stia raffreddandosi (ma anche questa è un’affermazione apparentemente non basata su alcun dato reale, una previsione). Ed è notoriamente difficile produrre relazioni causali. È possibile quindi che non sia stato lo «sconto» sulle tasse a far crescere il Sud più del Nord. Ma è fuori di dubbio che la pressione fiscale al Nord sia devastante per la sua economia e che questo non sia (o sia in minor misura) per il Sud.

Questo significa quindi che ogni proposta di riduzione delle aliquote associata ad una diminuzione della spesa pubblica dovrebbe essere ben accetta. (Le dichiarazioni del ministro Tremonti di ieri sull’oppressione delle imprese vanno finalmente nella direzione corretta, anche se rappresentano una inversione a U per il ministro). Significa anche che le ragioni della mancanza di crescita del Sud (che se anche cresce più del Nord cresce pochissimo, soprattutto rispetto al suo potenziale che è molto elevato proprio a causa della sua povertà relativa in Europa) hanno radici ben più profonde che non la politica fiscale del governo. Osservo infine che coloro che, come Viesti, sostengano che vi sia «un mito dietro alla parola sprechi» del settore pubblico, potrebbero provare a convincere i cittadini italiani che i servizi pubblici che essi ricevono sono pari a quelli svedesi. Perché, o è così, oppure la differenza sono sprechi.

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« Risposta #38 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:08:31 pm »

25/7/2011

L'America non è la Grecia


ALBERTO BISIN

Il presidente Obama sta negoziando coi repubblicani al Congresso un accordo su spesa e debito pubblico. Le negoziazioni procedono febbrilmente perché, in mancanza di un accordo in tempi brevissimi, il governo federale potrebbe non essere in grado di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e gli interessi sul proprio debito in esistenza. In questo caso, da un punto di vista letterale, gli Stati Uniti non farebbero fronte ai propri debiti e sarebbero quindi «in default». Come la Grecia.

Per quanto noi europei troviamo rassicurante immaginare gli Stati Uniti mentre nuotano in acque turbolente quanto le nostre, la situazione reale è ben diversa. Il default degli Stati Uniti, qualora avvenisse, sarebbe dovuto all’impossibilità di sorpassare un tetto legale all’indebitamento che il Congresso ha posto e che il Congresso può alzare con un voto e un tratto di penna: sarebbe quindi una questione legale, puramente contabile e avrebbe un significato soprattutto simbolico. I mercati non si sognano nemmeno di limitare il credito agli Stati Uniti, né di richiedere tassi elevati o crescenti per sottoscriverlo. Infatti i tassi sui titoli del Tesoro Usa sono stabili da tempo a livelli storicamente bassi; i tassi sui titoli a 6 mesi e oltre sono addirittura scesi nell’ultimo mese.

La ragione dell’impasse legislativa sta nel fatto che il Congresso a maggioranza repubblicana è in una posizione di forza contrattuale notevole: rifiutandosi di votare l’innalzamento del tetto costringe l’amministrazione ad affrontare una crisi fiscale e un potenziale default che, per quanto simbolico, rappresenterebbe una figuraccia per Obama. In altre parole, i repubblicani stanno essenzialmente ricattando l’amministrazione Obama per ottenere che il governo si vincoli a quei tagli di spesa che essi considerano fondamentali per la crescita del Paese. In realtà un innalzamento del tetto sul debito pubblico tale da evitare il default fino al 2012 è già sul piatto della contrattazione, essendo stato offerto ieri dal presidente della Camera Boehner. Ma è un boccone avvelenato perché se Obama lo accettasse si aprirebbe una nuova stagione di negoziazioni proprio prima delle prossime elezioni presidenziali.

Gli Stati Uniti non sono la Grecia, quindi. E nemmeno la Spagna o l’Italia. I problemi di bilancio di questi Paesi sono infatti reali ed imminenti, nel senso che essi non trovano investitori disposti a finanziare il proprio debito, se non a spread elevati rispetto a Paesi i cui conti siano in ordine, come la Germania. Ciò non toglie però che gli Stati Uniti abbiano un problema fiscale serio ed importante, in parte dovuto alle spese militari e ai tagli fiscali dell’ultimo decennio così come alle spese per lo stimolo fiscale dopo la crisi del 2008. Inoltre, in prospettiva, la spesa per pensioni e sanità (dovuta quest’ultima sia al pre-esistente sistema sanitario per gli anziani che alla nuova riforma Obama) appaiono fuori controllo. Ma proprio il tetto legislativo al debito pubblico costringe gli Stati Uniti ad affrontare il loro problema fiscale oggi, ben prima che i nodi vengano al pettine. Qualunque cosa si pensi del ricatto a cui i repubblicani stanno sottoponendo l’amministrazione Obama, e qualunque cosa succeda nei prossimi giorni, gli Stati Uniti usciranno da questa crisi con un accordo che limiterà l’eccessiva spesa pubblica di qui a due anni almeno. Una soluzione politica ad un problema economico, che medierà tra le esigenze e le preferenze delle diverse classi di cittadini rappresentati da democratici e repubblicani, ben prima che i mercati operino pressione sul governo perché questo avvenga. Per quanto il meccanismo istituzionale del tetto al debito pubblico generi queste crisi un po’ fasulle, più contabili che altro, esso sembra in grado di raggiungere un obiettivo importante: costringere le parti a ridurre la spesa sedendosi ad un tavolo negoziale prima dell’emergenza.

E’ proprio questo che è mancato e ancora manca all’Europa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9017
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 02, 2011, 11:43:26 am »

2/8/2011

Le colpe cerchiamole in casa

ALBERTO BISIN

Un’altra giornata di passione in Borsa. Nei mercati italiani in particolare: record di perdite alla Borsa di Milano e nuovo record sullo spread tra i titoli del Tesoro italiano e quello tedesco. Lungi da me provare a interpretare il crollo di ieri o a prevedere se oggi la Borsa rimbalzerà. Ad ogni prima lezione di economia finanziaria gli economisti insegnano che l’andamento di Borsa giorno per giorno è essenzialmente imprevedibile. Quanto sta succedendo sui mercati finanziari in Europa e negli Stati Uniti da alcuni mesi è però perfettamente comprensibile.

Come ho argomentato su queste colonne la scorsa settimana, la questione del default Usa era ed è irrilevante. Esso sarebbe stato un default tecnico, una questione fondamentalmente legislativa e contabile. La prova di questo è che i tassi sui titoli americani sono rimasti bassi e invariati durante l’intera fase di negoziazione: gli investitori non hanno cioè mai cessato di prestare allegramente al Tesoro americano. Quegli osservatori che in questi giorni, senza badare a questi fatti, hanno correlato il possibile default Usa con la volatilità delle Borse europee, stavano evidentemente cercando di convincere se stessi oltre che i lettori.

La controprova è che le Borse sono crollate anche ieri dopo l’annuncio dell’accordo al Congresso.

L’andamento delle Borse in Europa e negli Stati Uniti ha una motivazione chiara: la ripresa economica è ovunque anemica o inesistente e i mercati scontano una crescita futura inferiore alle previsioni. Negli Stati Uniti in particolare i dati sull’occupazione fanno temere il peggio. Il rischio di una sorta di decennio di bassa crescita stile Giappone anni ‘90 è sempre più elevato e i mercati naturalmente ne risentono. La spesa e l’indebitamento pubblico americano influiscono sui mercati mondiali solo nel medio-lungo periodo, se è vero che essi sono una delle cause della scarsa crescita.

Anche la situazione italiana è chiara: basta non avere paura di guardare in faccia i fatti, anche quando non ci piacciono. Il Paese non cresce da almeno 15 anni. Le cause strutturali della mancata crescita sono ovvie ai più: il mercato del lavoro è ingessato e conflittuale, i servizi pubblici sono inefficienti (basti pensare alla giustizia civile), il carico fiscale è soffocante e reso iniquo dall’evasione, le rendite e la corruzione sono rampanti, il sistema produttivo è mal posizionato nella competizione internazionale. Nulla di nuovo; ma in generale una congiuntura mondiale sfavorevole ha effetti più gravi sui Paesi più deboli e quindi i mercati caricano sull’Italia maggiormente che su altri Paesi gli effetti del ridimensionamento della crescita globale (che l’Italia abbia retto meglio di altri in Europa la recessione e la crisi è refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso).

Infine, l’Italia ha un debito pubblico ipertrofico che la espone ad ogni tempesta finanziaria e che nessun governo ha mai tentato seriamente di affrontare (che l’Italia abbia mantenuto i conti in ordine in questi ultimi anni è un altro refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso). Se è vero che la ricchezza privata italiana è elevata, è anche vero che il carico fiscale è tale da non lasciare alcun reale margine di manovra fiscale che non comporti ingenti (e dolorosi) tagli alla spesa. La manovra di luglio ha chiaramente dimostrato che il Paese ed il suo sistema politico non sono in grado di produrre quell’inversione nella politica fiscale che sarebbe necessaria: invece di affrontare il problema, o anche solo di riconoscerlo, il governo ha deciso di rimandare a dopo le elezioni, prevedendo di perderle, ogni reale aggiustamento.

La questione degli speculatori che affossano il nostro debito e le nostre banche (che tanta parte di quel debito hanno in portafoglio), mi spiace dirlo, non è che una favola per anime semplici: chi si appresti a prestare denaro al Tesoro italiano richiede tassi elevati perché la crisi della Grecia, l’incapacità dell’Unione Europea a gestirla, e soprattutto la manovra fiscale di luglio hanno reso più probabile che i conti italiani non siano riordinati a medio termine. Non fossimo nell’euro avremmo già svalutato (cioè ripagato i debitori con valuta deprezzata, che equivale ad un parziale default). Senza riordinare i conti, una qualche forma di default parziale è inevitabile e chi presta soldi all’Italia lo fa solo ad un tasso che sconti una probabilità di tale default.

La retorica anche poco originale del capro espiatorio, siano gli Stati Uniti che fanno default o gli speculatori che fanno soldi, non ci aiuterà. È il momento dei fatti.

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« Risposta #40 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:30:05 am »

25/9/2011

2011-2008, errori in fotocopia

ALBERTO BISIN

Cosa sta succedendo all’economia mondiale? Gli spread sui debiti sovrani, Paesi che rischiano di fallire, Borse che crollano... Naturalmente è difficilissimo a dirsi. Per questo è il momento di fare un passo indietro e cercare di capire. In particolare, ci sono notevolissime similarità tra la crisi finanziaria che oggi attanaglia l’Europa e quello che è successo nel 2008 nei mercati finanziari Usa.

C’è quindi molto da imparare dai comportamenti e dagli errori del Tesoro e della Fed Usa dal 2008 a oggi. Ma è importante imparare la lezione giusta. Non sono convinto, purtroppo, che questo stia succedendo. Mi pare anzi che le autorità europee stiano ripetendo molti degli errori compiuti Oltreoceano.

Entrambe le crisi finanziarie, quella americana del 2008 e quella europea di oggi, sono il risultato di una enorme accumulazione di debito, o della facile elargizione di credito, che è l’altra faccia della stessa medaglia. Nel primo caso il credito è stato incanalato verso il mercato immobiliare, alimentando una grossa bolla finanziaria. Nel secondo caso, invece, il credito ha alimentato il debito sovrano di vari Paesi europei.

La reazione alla crisi del 2008 da parte della Fed e del Tesoro ha avuto due fasi. Nella prima fase le autorità americane, temendo i riflessi politici ed economici di una politica di salvataggio incondizionata del sistema finanziario, hanno lasciato che Lehman Brothers fosse travolta dal panico dei mercati. Nella seconda fase, dopo che il fallimento di Lehman aveva portato al panico, appunto, e quindi al congelamento dei mercati monetari, la Fed e il Tesoro hanno garantito i debiti di banche e banche di investimento, assumendosi ogni rischio pur di salvare il sistema finanziario. Se è vero che questi interventi hanno evitato il collasso del sistema finanziario stesso, è anche vero che ad oggi il mercato del credito negli Stati Uniti è rimasto anemico ed ora manca di contribuire efficacemente alla ripresa dell’economia. Questo è in parte dovuto proprio al fatto che il salvataggio incondizionato del sistema finanziario non ne ha permesso la rigenerazione: banche poco capitalizzate non investono per timore che una nuova crisi torni a sgretolare le proprie attività a bilancio, in molti casi ancora contabilmente sopravvalutate. E così la liquidità che la Fed continua a immettere nel sistema finanziario (in quantità mai viste precedentemente) torna alla Fed stessa come depositi delle banche, invece di entrare nel sistema economico.

Si dirà (e si dice) che il panico dopo Lehman dimostra che non si poteva fare altrimenti. Ciò non è assolutamente vero. Il fallimento di Lehman infatti è stato gestito malissimo; o meglio, non è stato gestito per niente. Una ordinata ristrutturazione del debito delle banche insolvibili ed una loro ricapitalizzazione guidata dalle autorità era la strada alternativa più ragionevole, che le autorità Usa non hanno purtroppo intrapreso.

La Bce e le autorità europee, di fronte alla situazione della Grecia, hanno giustamente deciso di evitare la prima fase della reazione Usa: non hanno cioè lasciato la Grecia in pasto al panico dei mercati. Ma invece di passare ad una ordinata ristrutturazione del suo debito, hanno seguito la via americana, il salvataggio incondizionato, della Grecia e di chiunque si trovasse in seguito in una situazione simile. Questa strategia, pur non avendo funzionato nel medio periodo, negli Stati Uniti ha almeno evitato il peggio nel breve periodo. Questo perché l’intento del Tesoro Usa di salvare il sistema era credibile, cioè il Tesoro aveva le risorse e il potere politico per farlo. In Europa, invece questa strategia era più difficilmente credibile: qualora alla Grecia si fossero aggiunti altri Paesi, le risorse per il salvataggio generale sarebbero mancate, e così la volontà e il potere politico per farlo. Ed ora siamo qui, dopo mesi e mesi di crisi, senza un piano serio per la ristrutturazione ordinata del debito greco, con i mercati che scommettono sulla incapacità delle autorità di resistere, a rischiare un default disordinato e quindi un dopo-Lehman in Europa.

Ma c’è un’altra differenza tra la situazione del 2008 in Usa e quella di oggi in Europa. I mutui verso cui il sistema finanziario americano era esposto erano diventati tossici a causa dello scoppio della bolla finanziaria, contro cui nulla si poteva fare al momento. In Europa, la situazione della finanza pubblica della Grecia è forse irreparabile, ma quella dell’Italia e degli altri Piigs non lo era affatto. È diventata critica a causa delle politiche irresponsabili ed incompetenti di alcuni governi, primo tra tutti quello italiano, che hanno provato a gettare sabbia negli occhi all’Europa e ai mercati alle prime avvisaglie di difficoltà, confidando sulla garanzia europea cui nessuno realmente crede.

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« Risposta #41 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:52:23 am »

28/9/2011

L'evasione brucia anche i talenti

ALBERTO BISIN

La questione dell’evasione fiscale in Italia torna periodicamente ad essere centrale nella discussione politica. Si prospettano tuoni e fulmini contro gli evasori, si stimano entrate stratosferiche nelle casse pubbliche come conseguenza di rinnovati sforzi alla lotta all’evasione, e poi nulla succede: gli evasori evadono e i lavoratori dipendenti pagano.

La battaglia all’evasione è ovviamente prima di tutto una battaglia di giustizia, equità, e anche di civiltà, nel senso che è difficile fondare una società civile su una distribuzione così eterogenea del carico fiscale come in Italia. Stime più o meno accurate danno un sommerso in Italia dell’ordine del 26% del Prodotto interno lordo.

Detto questo, compito di un economista è cercare di andare oltre le questioni etiche e se possibile valutare l’impatto di politiche economiche vere o presunte. A questo proposito vari economisti, tra cui io stesso su queste colonne e Michele Boldrin su «Il Fatto», hanno provato a portare l’attenzione del dibattito sul fatto che l’evasione fiscale si colloca, nel nostro Paese, nel contesto di una elevatissima pressione fiscale, e che questo implica che una efficace lotta all’evasione debba essere associata ad una riduzione del carico fiscale per avere effetti positivi sull’economia del Paese. Luca Ricolfi lo ha ben spiegato l’altro ieri, con dovizia di argomentazioni, in un editoriale su queste colonne che ha generato un interessante dibattito.

Conviene sempre dare un’idea della questione di cui si dibatte attraverso i numeri di riferimento. Uno studio, ormai non aggiornatissimo, dell’Agenzia delle entrate stima che le tasse evase corrispondano al 38% delle tasse pagate. La pressione fiscale in Italia nel 2012 sarà di circa il 43% (punto decimale in più o in meno). Un paio di passaggi algebrici implicano quindi che se tutti pagassero le tasse, ceteris paribus, la pressione fiscale raggiungerebbe il 60%. Nessun Paese al mondo, che io sappia, ha una pressione fiscale del genere. La Svezia è al 46%. Non vi è dubbio che gli effetti sulla competitività delle nostre imprese sarebbero notevoli e che notevoli sarebbero anche gli effetti recessivi dovuti al fatto che l’incidenza delle nuove tasse cadrebbe comunque sui consumatori.

Stefano Lepri, ieri su queste colonne, argomenta che gli effetti del recupero dell’evasione sulla competitività delle imprese italiane sarebbero in realtà ridotti perché la lotta all’evasione avverrebbe in modo graduale, perché le imprese che evadono producono beni per il mercato interno e sono protette. Purtroppo questi argomenti non cambiano affatto la questione in modo sostanziale. Se le imprese che evadono sono protette dalla concorrenza internazionale avranno più spazi (potere di mercato) per riversare l’incidenza delle nuove tasse sui consumatori. Non si scappa: o non possono aumentare i prezzi, e quindi falliscono, o possono farlo e quindi pagano in larga parte i consumatori.

Il commento di Lepri però tocca un punto fondamentale: l’evasione è un costo per la struttura produttiva italiana. Questo perché le imprese che evadono il fisco tendono a rifuggere «da tecnologie avanzate, o da una organizzazione aziendale stabile, su vasta scala, con prezzi chiari, perché attirerebbero l’occhio del fisco». Concordo assolutamente. Io aggiungerei anche che l’allocazione dei talenti in Italia è inefficientemente distorta dall’evasione: troppo lavoro autonomo, a tutti i livelli, dai negozianti agli avvocati.

E’ difficile stimare i costi di queste distorsioni, ma sono probabilmente elevatissimi. Esse costituiscono una imprescindibile ragione in favore di una lotta serrata all’evasione (come se le ragioni di giustizia ed equità non fossero sufficienti). E’ importante farlo notare. Allo stesso modo, è fondamentale anche notare che la lotta all’evasione senza una appropriata riduzione del carico fiscale avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9250
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 12, 2011, 12:14:17 pm »

11/10/2011 - LE RAGIONI DEL PREMIO

Le aspettative come motore dell'economia

ALBERTO BISIN

Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato quest’anno a Tom Sargent, della New York University, e a Chris Sims, di Princeton.

Tom Sargent è uno dei padri della macroeconomia moderna, assieme a Bob Lucas, Ed Prescott, Neil Wallace e pochi altri. Per macroeconomia moderna si intende quella macroeconomia che deriva il comportamento delle variabili aggregate (inflazione, Pil, etc.) dal comportamento degli individui; e che riconosce che il comportamento degli individui è influenzato in modo fondamentale dalle loro aspettative sull’andamento futuro del sistema economico.

Una vera e propria rivoluzione rispetto alla macro keynesiana della fine degli Anni 70, che va sotto il nome di «aspettative razionali». Il contributo di Sims e Sargent alla rivoluzione è consistito soprattutto nello sviluppo dei metodi econometrici, cioè metodi di statistica economica per studiare empiricamente gli effetti delle politiche economiche in modelli con aspettative razionali. Sargent ha fatto anche molto altro, ma a questi contributi in particolare è stato dato il premio Nobel (Lars Hansen, di Chicago, purtroppo è stato immeritatamente escluso).

Prima di Sargent, Sims e delle aspettative razionali, i rapporti di causa ed effetto in macroeconomia erano semplici da identificare: quello che viene prima causa quello che viene dopo. Ma con le aspettative razionali, quello che viene dopo (meglio, le aspettative su quello che viene dopo) causa quello che viene prima. Le aspettative di investitori, consumatori e imprese riguardo alle politiche monetarie e fiscali future, al tasso di inflazione, e alla dinamica del debito pubblico e del suo finanziamento, hanno effetti immediati su consumi e investimenti e quindi sul tasso di crescita dell’economia.

Sargent e Sims sono stati tra i primi a riconoscere le difficoltà enormi che questo comporta per un economista che voglia misurare, nei dati, gli effetti delle politiche economiche. La questione se una politica fiscale espansiva, ad esempio le migliaia di miliardi di stimolo fiscale messe in cantiere dall’amministrazione Obama, causi una diminuzione del tasso di disoccupazione - e di quale entità - è molto più complessa di quanto non possa apparire a prima vista. E questo proprio perché le aspettative di consumatori e imprese possono giocare un ruolo perverso: attese di tasse e inflazione in seguito ad una politica fiscale finanziata a debito tenderanno ad avere effetti recessivi oggi. E quindi quando si osservi un tasso di disoccupazione ancora elevato dopo una spesa pubblica molto espansiva, come purtroppo accade oggi, cosa possiamo concludere? Che il meccanismo delle aspettative sta frenando gli investimenti e quindi l’economia? O che la crisi sarebbe stata molto più grave senza stimolo? Le poche (e spesso discutibili) risposte a questa domanda sono dovute ai metodi statistici sviluppati da Sargent e Sims. Ma ancora più importante è che le loro analisi ci hanno portato a riconoscere il problema e quindi a provare ad affrontare direttamente le difficoltà.

I lavori di Sargent e Sims sono anche alla base della rivoluzione nella pratica della politica monetaria in tutto il mondo dagli Anni 70 e 80, che ha portato le banche centrali ad operare il più possibile con regole chiare e trasparenti e con obiettivi indipendenti dall’influenza dei governi. Dalla stessa logica economica provengono le critiche, sempre più insistenti di questi tempi, alla incertezza associata alla politica fiscale Usa: come sarà finanziato il rientro dal deficit e dal debito? Con quale composizione di tagli alla spesa e nuove tasse? Con quali nuove tasse? Tutta questa incertezza infatti certamente contribuisce alla riluttanza delle imprese ad investire e delle banche a finanziare gli investimenti, con effetti deleteri potenzialmente importanti sulla crescita economica.

Mi si permettano, per concludere, alcune note personali e certo parziali su Tom Sargent, che è mio collega a NYU. Tom è un intellettuale vero, uno di quelli che potrebbero passare la vita a parlare con banchieri e politici, mentre invece passa il tempo al lavoro e con gli studenti (i suoi studenti si contano a centinaia). Vederlo ai seminari, o alle lezioni di un giovane professore, in ultima fila, col suo cappello da baseball, che prende appunti, incute timore (meglio: terrore) ma anche fiero rispetto per la sua eccezionale curiosità intellettuale. Sentirlo ai consigli di facoltà argomentare senza mai gettare la carta «Io sono Sargent», è grande lezione di umiltà. La mia generazione di economisti gli deve moltissimo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9307
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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 30, 2012, 11:08:35 pm »


29
ott
2012

Gli esodati e la matematica attuariale



Ogni tanto e’ utile guardare ai problemi in modo un po’ distaccato, addirittura professorale. Si vedono cose che l’emotivita’ annulla. Vorrei provare a guardare in questo modo alla questione degli esodati. Credo il risultato giustifichi la prova.

Per far questo pero’ e’ necessario un esempio, diciamo cosi’, astratto – che identifica quello che a me pare il punto economici cruciale della questione esodati, tralasciando tutti i dettagli pur importanti.

In buona sostanza, la questione degli esodati creata dalla Riforma Fornero riferisce al trattamento pensionistico differenziato di due tipologie astratte di lavoratori: alla prima (non-esodati) si chiede di andare in pensione piu’ tardi di quanto pianificato con una pensione essenzialmente uguale; alla seconda (esodati) si chiede di attendere piu’ di quanto pianificato per ricevere la pensione, anche in questo caso essenzialmente uguale. (Non e’ proprio cosi’, ma astraggo, come promesso).

Nel primo caso, il lavoratore essenzialmente lavora gratuitamente (perde la pensione ma ha il salario) per un periodo di tempo. Nel secondo caso, il lavoratore esodato non lavora (e non prende salario). In prima approssimazione pero’, il taglio nella pensione dell’esodato e’ essenzialmente lo stesso del non-esodato.

La distinzione fondamentale quindi non e’ in quanto la riforma fiscale colpisce i due lavoratori: il problema e’ che l’esodato, se non avesse risparmi, non avesse accesso ad un lavoro, non avesse accesso a credito da parenti, amici, banche, sistema previdenziale, potrebbe avere problemi a tirare la fine del mese mentre aspetta la pensione.

Che fare quindi? Dare la pensione agli esodati quando l’avevano pianificata e’ certamente possibile ma significa limitare i risparmi di bilancio della riforma (la spesa pensioni in Italia era – ed in parte ancora e’, ma questo e’ un altro discorso – eccessiva; non si poteva fare a meno della riforma – si poteva fare meglio, ma anche questo e’ un altro discorso). Non solo, ma questo significherebbe caricare il costo della riforma Fornero sui non-esodati, non un esempio di equita’. Inoltre molti degli esodati probabilmente troveranno lavoro, avranno risparmi, insomma, non avranno problemi a tirare la fine del mese (o non li avranno piu’ di quanto non li abbiano alcuni non-esodati).

Ma c’e’ un’altra possibilita’ – piu’ corretta e giusta a mio parere. E’ la seguente: dare agli esodati la pensione al momento in cui l’avevano pianificata, in modo che non abbiano problemi a tirare la fine del mese mentre la aspettano; ma dare loro una pensione ridotta in modo attuarialmente neutro (cioe’ in modo che il loro monte pensioni sia lo stesso, a parita’ di altri parametri di quello dei non-esodati). La riduzione sarebbe relativamente piccola: data una pensione di 20.000 Euro l’anno (circa 1.666 Euro al mese), due anni di aggiustamento attuariale al 2%, assumendo una speranza di vita alla pensione di 20 anni, comporterebbero una riduzione di circa 140 Euro al mese (di 120 con un tasso di interesse del 4%).

Concludo e riassumo: la questione degli esodati non e’ che essi sono danneggiati dalla riforma piu’ di chiunque altro – e’ che il danno per loro non e’ ben ripartito nel corso della pensione ma piuttosto concentrato in quegli anni in cui, senza lavoro, aspettano la pensione. La soluzione di questo problema non e’ di ridurre il danno, ma invece di ripartirlo meglio nel corso della pensione.

Alberto Bisin

da - http://liberoscambio.blogautore.repubblica.it/2012/10/29/gli-esodati-e-la-matematica-attuariale/
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