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« Risposta #15 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:36:31 am » |
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2/6/2009 Usa-Cina, voglia d'equilibrio ALBERTO BISIN Il ministro del Tesoro americano Tim Geithner è in Cina. La visita è importante perché rappresenta il tentativo dell’amministrazione Obama di delineare coordinatamente con la Cina gli equilibri che le due economie si troveranno ad affrontare una volta che la crisi economica sia risolta. Naturalmente, il solo fatto che il governo americano proponga alla Cina soluzioni concordate ai disequilibri economici globali è un riconoscimento al ruolo sempre più fondamentale che l’economia cinese giocherà nel garantire la crescita economica nei prossimi decenni. Ma anche astraendo da considerazioni sui possibili futuri equilibri strategici, le questioni economiche sul tappeto sono estremamente complesse. Si tratta di iniziare a definire un nuovo ordinamento del mercato dei cambi e una strategia che permetta un ribilanciamento della bilancia commerciale della Cina nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dell’Europa. A partire dal 2000 l’economia cinese ha prodotto enormi e crescenti avanzi di bilancia commerciale, cioè ha esportato beni più di quanti ne abbia importati, per un valore che il Fondo Monetario Internazionale stima in circa 440 miliardi di dollari nel 2008. Normalmente, in economie di mercato, avanzi di questa entità tendono a riassorbirsi, più o meno rapidamente. L’aumento delle esportazioni genera ricchezza che tende ad essere in parte consumata in beni e servizi prodotti nell’economia stessa così come in beni di importazione. Un ruolo importante in questo meccanismo di aggiustamento ha anche il tasso di cambio, che tende ad apprezzarsi a fronte di avanzi commerciali, rendendo le esportazioni più costose e le importazioni meno costose. Tutto questo non avviene nel caso degli avanzi commerciali della Cina nei confronti del resto del mondo. I cinesi continuano ad accumulare risorse senza troppo aumentare i consumi e il cambio dello yuan si è apprezzato a partire dal 2006, ma solo del 15%. Perché? Innanzitutto perché la Cina non è un’economia di mercato; il governo controlla attivamente il tasso di cambio dello yuan, impedendone l’apprezzamento rispetto al dollaro e all’euro che il mercato richiederebbe. Il governo cinese controlla anche rigidamente lo sviluppo industriale del Paese, favorendo i settori che producano beni per l’esportazione rispetto a quelli orientati alla domanda interna. E così i consumatori cinesi, davanti a mercati e prezzi distorti a sfavore del consumo, risparmiano massicciamente: il 50% del prodotto interno lordo nel 2007. Per avere un’idea di cosa questo significhi, basta pensare che il tasso di risparmio in Italia negli Anni 60, notoriamente elevatissimo, non raggiungeva il 30%. Questo spiega cosa il ministro Geithner è andato a chiedere alla Cina: un apprezzamento dello yuan rispetto al dollaro e una politica industriale più favorevole al consumo interno e alle importazioni, che possa agire da traino dell’economia globale nel prossimo decennio. O è la Cina (con l’India) a produrre crescita globale, o ci aspetta un decennio di relativa stagnazione. I consumatori americani, le cui spese hanno in larga parte sostenuto la crescita globale nel decennio passato, saranno infatti costretti in futuro ad aumentare i risparmi per ripagare i debiti pubblici e privati che essi hanno accumulato. Nonostante il tono ben più conciliante dell’amministrazione Obama, rispetto all’amministrazione Bush, le autorità cinesi non hanno tutte le carte a proprio favore. Nel lungo periodo la Cina favorirà lo sviluppo di una moneta internazionale di riserva alternativa al dollaro, e gli Stati Uniti hanno necessità di rallentare e coordinare questo inevitabile processo con le autorità cinesi. Ma nel breve periodo il governo cinese ha investito gli enormi avanzi di bilancia commerciale accumulati in questi anni in attività finanziarie americane (700 miliardi di dollari, soprattutto titoli di debito pubblico). Un forte indebolimento del dollaro avrebbe quindi effetti drammatici sull’economia cinese. Un’inflazione sostenuta negli Stati Uniti permetterebbe di scaricare sui cinesi una parte sostanziale del costo di ripagare il debito pubblico americano. Il ministro Geithner cercherà di rassicurare le autorità cinesi a questo proposito, ma la minaccia inflazionistica resta chiara e forte, e rappresenta la carta che gli americani giocheranno per convincere la Cina ad accettare le proprie richieste. In buona sostanza entrambi i paesi hanno interesse ad un riequilibrio degli scambi nell’economia globale del prossimo decennio, per poter meglio governare l’inevitabile spostamento del baricentro dell’economia a favore della Cina e delle altre economie asiatiche. alberto.bisin@nyu.edu da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 28, 2009, 06:36:43 pm » |
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28/7/2009 E il Nord continua a pagare ALBERTO BISIN La battaglia che si sta combattendo in questi giorni all’interno del Pdl sul partito del Sud è principalmente una lotta di potere interna. Ma non è solo questo.
In gioco è infatti la sostenibilità del sistema economico italiano. Il reddito pro-capite della Lombardia (dati Eurostat 2005) è circa il doppio di quello della Campania, della Calabria o della Sicilia. Così è con alti e bassi sin dagli Anni 60, anche a fronte di interventi fiscali dal Nord al Sud di notevolissima entità. Per esempio, dai dati del ministero delle Finanze (elaborazione Centro Studi Sintesi, 2005) risulta che l’eccesso di spesa pubblica sui tributi raccolti da Stato e Regioni (disavanzo pubblico totale per Regione) è pari a quasi duemila euro pro-capite in Campania, a oltre tremila in Calabria, a tremila e cinquecento euro in Sicilia. I contribuenti lombardi invece versano allo Stato cinquemila euro pro-capite in eccesso di quanto ricevano; e duemila i piemontesi.
Le tasse hanno un’importante funzione redistributiva, dai più ricchi ai meno ricchi, ed è quindi naturale che in Italia il Nord sussidi il Sud. Ma flussi di questa entità sono sostenibili solo se temporanei, se finalizzati a investimenti per lo sviluppo. I sussidi della Germania Ovest all’Est dopo l’unificazione sono un chiaro esempio. Non è questo il caso in Italia, almeno dagli Anni 60. La spesa pubblica nel Sud ha un forte carattere clientelare e ha alimentato una classe di politici e amministratori locali tra le peggiori d’Europa. La gestione della questione rifiuti in Campania, della spesa sanitaria in Calabria, Puglia, e ancora Campania sono casi eclatanti ma niente affatto anomali. Per quanto l’intero Paese sia caratterizzato da un sistema pubblico enormemente inefficiente, la situazione al Sud è addirittura indegna di un Paese sviluppato.
Si è parlato molto della sanità in questi giorni, e molti osservatori hanno notato come sia proprio nelle Regioni in cui la spesa sanitaria è maggiormente fuori controllo che i servizi sanitari sono carenti e i malati sono costretti a curarsi altrove. Una situazione simile si ha anche nell’istruzione. I risultati della valutazione delle università recentemente ripresi dal ministro Gelmini sono chiari: le università superiori alla media italiana in termini di ricerca, insegnamento, e capacità di attrarre fondi sono distribuite quasi esclusivamente al Nord e quelle inferiori alla media al Sud. I test Pisa (Ocse, 2006), che misurano i livelli di apprendimento per alunni di 15 anni, danno risultati chiari: se in matematica gli studenti lombardi stanno a livello dei francesi e dei tedeschi, gli studenti siciliani e campani competono con i turchi e i thailandesi.
Alcuni osservatori notano che la capacità delle università di attrarre fondi e l’apprendimento scolastico dei ragazzi di elementari e medie non sono indipendenti dal reddito della Regione in cui risiedono. Risultati peggiori al Sud sarebbero quindi inevitabili. È vero, ma è inutile nascondersi dietro paraventi sottilissimi: le differenze nei risultati sono enormi, e solo in minima parte giustificabili dalle differenze di reddito. La verità è che la spesa pubblica è gestita al Sud in modo spaventosamente clientelare e quindi inefficiente. E così è anche per le entrate (dati Agenzia delle Entrate, medie 1998-2002): per ogni euro Irap dichiarato, si evadono 93 centesimi in Calabria, 60 in Sicilia e in Campania, 13 in Lombardia e 30 in Piemonte.
Non è necessario credere ai riti celtici con l’acqua del Po o essere fautori del ritorno della Serenissima per comprendere che squilibri fiscali come quelli evidenziati, accompagnati dalle divergenze nella qualità dei servizi di cui si è detto, non abbiano nulla a che fare con la solidarietà né con un’equa redistribuzione delle risorse. Tali squilibri sono insostenibili nel medio periodo, specie in un Paese gravato da un debito pubblico enorme e da un fisco tanto asfissiante quanto inefficiente. In questa situazione, il governo irrigidisce giustamente i cordoni della spesa e la classe politica che rappresenta il Sud fa quello che è stata eletta per fare: chiede finanziamenti, sussidi, e posizioni di governo da cui poter elargire finanziamenti e sussidi.
Per questo la rigidità finanziaria del ministro Tremonti è tanto impopolare quanto importante. Data la situazione in cui versa l’amministrazione locale nel Mezzogiorno, il governo fa bene nel breve periodo ad accentrare i centri di spesa per investimenti al Sud. Ma una riproposizione della Cassa del Mezzogiorno sarebbe un grave errore. Nel medio periodo è necessario che gli elettori siano, in ogni parte del Paese, responsabili fiscalmente della spesa dei propri amministratori. Solo allora gli amministratori locali e i governatori regionali saranno eletti sulla base della loro capacità di favorire lo sviluppo e non di produrre sussidi. Ne guadagnerà il Nord, ma soprattutto il Sud. da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 30, 2009, 09:17:54 am » |
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30/7/2009 Confusione fra speranza e analisi ALBERTO BISIN Sta davvero finendo la crisi? I «germogli verdi» di cui si parla da qualche mese stanno finalmente fiorendo? Così sembra voler suggerire il governo americano.
Molti paiono disposti a crederci. C’è però una bella espressione inglese che rende l’idea di cosa rappresentino le dichiarazioni ottimiste dell’amministrazione americana di questi giorni: «wishful thinking», confusione tra speranza e analisi razionale. Il presidente Obama spera di stare intravedendo la fine della crisi per l’ovvio motivo che nessun Presidente accumula popolarità quando l’economia non cresce. Ma ad Obama la fine della crisi oggi porterebbe ben altri vantaggi politici. Innanzitutto egli potrebbe argomentare che il suo piano fiscale ha avuto l’effetto di stimolo desiderato. Da qui il Presidente prenderebbe poi spinta per provare a convincere il Paese ad accollarsi una ulteriore enorme voce di spesa pubblica, quella necessaria per riformare il sistema sanitario. Nel suo discorso ieri Obama ha abbastanza esplicitamente proposto proprio questa connessione: la crisi sta finendo e quindi cominciamo a fare sul serio col sistema sanitario. Non è quindi sorprendente che il governo americano tenda a confondere la speranza con l’analisi. Questo non significa però che la crisi non stia realmente per finire. Significa che non lo sappiamo. Certo non siamo vicini ad aver recuperato i posti di lavoro persi sino ad ora. Ma abbiamo forse finito di perderne? Cerchiamo di fare ordine tra speranza e analisi economica, ben coscienti che l’analisi economica produce al meglio previsioni probabilistiche, cioè condite da notevole incertezza.
Innanzitutto proviamo a imparare dal passato, dai dati statistici sulla durata e la profondità delle precedenti recessioni. Se fossimo nel 1981, una delle peggiori crisi del dopoguerra negli Stati Uniti, staremmo cominciando a crescere in questo trimestre. Inoltre, l’uscita da una recessione è tipicamente preceduta da un mercato mobiliare in fermento, cosa che indubbiamente sta avvenendo. Infine, le scorte sono ai minimi e quindi si prevede una crescita degli investimenti dopo l’estate, e anche il mercato immobiliare, una delle cause della crisi, si è mosso nel primo trimestre 2009. Fin qui tutto bene.
Ma questa recessione è strutturalmente diversa da quelle attraverso cui l’economia americana è passata nel dopoguerra. Per tante ragioni, ma per due in particolare. Innanzitutto, la profondità della crisi finanziaria che ha dato il via alla recessione non ha avuto precedenti dopo il 29. In secondo luogo, l’economia americana non è così dominante a livello mondiale come lo è stata negli ultimi sessanta anni. La crescita della Cina sembra oggi necessaria a sostenere una vera ripresa negli Stati Uniti. Prima di poter prevedere l’uscita dalla crisi con una certa fiducia, quindi, è necessario convincersi che il sistema finanziario sia tornato a operare con efficienza e che la crescita in Cina sia solida e duratura.
Su entrambi questi punti gli economisti hanno dubbi rilevanti. Gli interventi del Tesoro americano per la stabilizzazione del sistema finanziario hanno inciso in modo anche profondo ma non a sufficienza da spingere le maggiori banche alla rapida ricapitalizzazione che era necessaria. La Federal Reserve di New York, per bocca del presidente Dudley, prevede una ripresa lenta esattamente per questa ragione: «Il sistema finanziario è ancora nel mezzo di un processo prolungato di aggiustamento. La disponibilità di credito bancario sarà quindi ristretta per ancora un po' di tempo e questo avrà l’effetto di limitare la velocità della ripresa». Un rapporto della Federal Reserve di St. Louis, a sua volta, suggerisce cautela nell’interpretare i recenti dati moderatamente positivi sulla disponibilità totale di credito bancario, per varie precise ragioni economiche e statistiche. Per quanto riguarda la Cina, poco si conosce e si comprende, per scarsità di dati accurati e per le ovvie difficoltà ad analizzare un sistema economico relativamente unico in termini di interazione tra privato e pubblico. Ma la rapida crescita dei mercati azionari cinesi (16% in Luglio allo Shanghai Composite, ad esempio) ha ingenerato in alcuni osservatori il timore di una bolla speculativa. Le politiche monetarie e creditizie estremamente espansive della banca centrale, la People’s Bank of China, aggiungono poi argomenti a chi dubita che la crescita dei valori azionari sia sostenuta dai fondamentali dell’economia cinese. È in generale difficile fare previsioni in economia. Prevedere la fine di questa crisi lo è in modo ancora maggiore, a causa della sua unicità. È ancora troppo presto per un giudizio cauto e razionale. da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 14, 2009, 11:42:46 am » |
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14/8/2009 Un trimestre non fa primavera ALBERTO BISIN Continuano a rincorrersi gli annunci della fine della crisi e dell’inizio della salvifica ripresa: il presidente Obama la settimana scorsa, poi la Fed, e infine ieri la Banca Centrale Europea. Anche i mercati azionari, che tipicamente anticipano la ripresa rispetto al ciclo economico, paiono quantomeno ottimisti.
Ma veniamo da un anno di politiche monetarie estremamente espansive in tutto il mondo e i mercati sono carichi di capitali investiti in liquidità e quindi assetati di rendimenti e di rischio. Le banche centrali poi, come del resto i governi, dopo un anno di brutte notizie hanno tutto l’interesse a diffondere la buona novella dell’imminente ripresa. I governi, in particolare, sono pronti a dichiarare il successo delle proprie misure di stimolo fiscale.
Commentando l’ottimismo del presidente Obama la scorsa settimana, su queste colonne, argomentavo che in realtà poco sappiamo su quando inizierà la ripresa. E nulla è cambiato. Continuiamo a saperne poco. E’ notizia di ieri, ad esempio, che la Francia e la Germania, unici in Europa, hanno segnato un andamento del Pil addirittura positivo nel secondo trimestre del 2009. Questo ha colto tutti gli osservatori completamente di sorpresa. Appunto: le previsioni a breve termine, in condizioni difficili come quelle in cui si trova l’economia mondiale, sono un terno al lotto.
Il caso di Francia e Germania è interessante perché suggerisce un sano scetticismo non solo nei confronti delle previsioni di breve periodo, ma anche nei confronti degli effetti degli stimoli fiscali. La Francia ha attuato politiche di una certa entità, ma tutti ricordano i lamenti dell’Europa sull’esiguità degli interventi della Germania.
Insomma, meglio prendere questi proclami come ottimismo dovuto e interessato, senza rallegrarsi troppo per la Francia e la Germania né deprimersi per l’Italia e la Spagna. Meglio invece cercare di guardare al medio periodo o addirittura al lungo periodo: è più importante e ne capiamo di gran lunga di più. Sappiamo innanzitutto che sistemi economici di mercato hanno una notevole capacità ad uscire dalle crisi cicliche: le imprese e i settori meno produttivi sono ridimensionati e capitale e lavoro sono riallocati verso imprese e settori in cui si prevede forte crescita. La riallocazione è costosa, ma non è un trimestre che fa la differenza, almeno in economie sviluppate con un sistema di sicurezza sociale ragionevolmente efficiente.
La ripresa avverrà quindi. Ma la questione più importante è un’altra: quanto vigorosa sarà questa ripresa? Quanto rapidamente si tornerà ai livelli di disoccupazione precedenti alla crisi? Purtroppo a questo proposito è ad oggi impossibile essere ottimisti. Prima di tutto, a livello globale, non si è intervenuto con la necessaria forza sul mercato del credito: si sono limitate le perdite agli azionisti delle banche, ma proprio per questo il sistema finanziario non è ancora capitalizzato a dovere e quindi contribuisce stentatamente alla riallocazione del credito verso imprese e settori produttivi. In secondo luogo, la ripresa non potrà che essere tarpata dai vincoli di bilancio dei governi che hanno generosamente fatto ricorso alla spesa pubblica e al debito: in un paio di anni non potremo non vedere una qualche combinazione di nuove tasse e inflazione. Anche la ristrutturazione dei rapporti commerciali della Cina con Stati Uniti ed Europa appare procedere a rilento, così come la nuova struttura regolativa dei mercati finanziari. Tutto questo non fa sperare in una ripresa rapida.
La situazione per l’Italia è purtroppo ancora più scura. Non tanto per la crisi, contro cui possiamo fare poco altro che aspettare, ma piuttosto perché le prospettive di crescita del Paese sono caratterizzate da limiti strutturali che persistono da decenni e ci condannano alla stagnazione: un sistema pubblico ipertrofico e inefficiente, un mercato del lavoro ancora troppo poco flessibile, in cui perdere il lavoro spesso significa non trovarne un altro, una situazione pensionistica esplosiva che garantisce rendite e privilegi alle generazioni precedenti il baby boom, una questione meridionale drammatica che costringe il Nord a un enorme carico con minimi effetti su servizi pubblici e investimenti al Sud, un fisco esoso e ingiusto che punisce i lavoratori dipendenti, una scuola e un’università che troppo spesso proteggono gli insegnanti a scapito degli studenti.
Non continuo per carità di patria. Ma questi sono i temi economici importanti da affrontare, non se la ripresa inizierà nel primo e o nel secondo trimestre 2010. da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:26:45 pm » |
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26/8/2009
Con Bernanke Obama sceglie la continuità ALBERTO BISIN
Ben Bernanke rimarrà a dirigere la Federal Reserve. L’annuncio del presidente Obama era atteso e non poteva essere altrimenti. In un momento in cui politici ed esperti ostentano ottimismo sull’andamento dell’economia, il licenziamento dell’artefice delle linee di politica monetaria e finanziaria durante la crisi sarebbe parso illogico.
Bernanke si è trovato a gestire una grave crisi economica congiunturale, grave per intensità ma soprattutto perché anticipata da un repentino crollo del sistema finanziario. Questo crollo ha portato, l’autunno scorso, al fallimento di alcune banche e pressoché al congelamento dei mercati del credito interbancario.
Dalla fine degli Anni 70 la teoria economica ha sviluppato meccanismi di politica monetaria efficaci per dominare l’inflazione e far fronte alle crisi economiche congiunturali. Ma molto meno sappiamo riguardo a come affrontare le crisi del sistema bancario e finanziario (che però fortunatamente sono meno frequenti: l’ultima, connessa al crollo di Long Term Capital Management nel 1998, vista oggi appare poco o nulla).
Bernanke ha affrontato la crisi economica con i metodi classici della politica monetaria: ha iniettato liquidità nell’economia stampando moneta. Più precisamente, la Fed, scambiando moneta per titoli del Tesoro a breve, ne ha ridotto i tassi di interesse. Quando i tassi sui titoli del Tesoro a breve hanno raggiunto lo zero, la Fed ha continuato a iniettare liquidità nel sistema scontando diverse attività finanziarie, anche non a breve. Questa strategia, chiamata «quantitative easing», è stata la più rilevante innovazione che Bernanke ha portato la Fed ad attuare nel corso della crisi. Il «quantitative easing» ha avuto notevole successo, riuscendo ad appiattire la curva dei rendimenti e soprattutto a dare all’economia fiducia nel fatto che la Fed restasse saldamente in sella al controllo della liquidità. Ciò si è verificato a dispetto di alcuni osservatori ed economisti (primo fra tutti Paul Krugman) che avevano preconizzato l’inasprimento della crisi ed una pericolosa spirale deflazionistica dovute all’inefficacia della politica monetaria in un contesto di «trappola di liquidità» di keynesiana memoria.
Dove Bernanke ha agito in modo meno efficace, a mio avviso, è a riguardo della crisi finanziaria. Per quanto, come dicevamo, le crisi finanziarie siano questioni complesse in teoria e pochi fossero i precedenti che potessero guidare la risposta della Fed, Bernanke sembra aver accettato le politiche favorite da banche e Tesoro. Ha supportato vari costosissimi e poco trasparenti bailout e ha permesso alle banche di affrontare la ripresa, quando arriverà, con capitale insufficiente e irrisolti problemi strutturali di bilancio. Il sistema creditizio resta quindi poco vivace e questo potrà avere effetti negativi importanti sulla velocità e la stabilità della ripresa. Purtroppo un precedente a questo proposito esiste: il Giappone degli Anni 90, ridotto alla stagnazione anche a causa di un sistema bancario che non fu ricapitalizzato all’uscita dalla crisi.
Vedremo se Bernanke troverà il modo di agire a ripresa avviata sostenendo allora nuove forme di capitalizzazione del sistema bancario e creditizio, pur senza poter più agitare il bastone del commissariamento e del fallimento. Il rischio è che non riesca a farlo e che quindi, per ovviare ai colli di bottiglia del sistema creditizio, si trovi obbligato a sostenere la ripresa continuando la politica monetaria espansiva dell’anno passato. In questo caso ci troveremmo probabilmente ad affrontare tassi di inflazione che non si vedevano negli Stati Uniti da un pezzo. Se a questo aggiungiamo la tentazione di ogni governo ad inflazionare eccessi di debito, evitando così di introdurre nuove tasse o di affrontare tagli di spesa, ci rendiamo conto che la prospettiva dell’inflazione non è così lontana come potrebbe apparire oggi.
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 15, 2009, 10:25:44 am » |
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15/9/2009
Il nuovo fronte ALBERTO BISIN
I discorsi del presidente Obama sono uno spettacolo. Quello di ieri a Wall Street sul futuro del sistema finanziario non fa differenza.
Chiaro, diretto, a momenti duro coi banchieri che lo ascoltavano, ma senza toni troppo aggressivi. Un nuovo sistema di regolamentazione della finanza dovrà essere messo in piedi al più presto, dice il Presidente. Esso limiterà il potere economico delle banche, ma i dettagli della nuova regolamentazione saranno definiti con i banchieri, non contro i banchieri.
Questo nuovo sistema di regolamentazione dei mercati finanziari avrà l’obiettivo di limitare il rischio sistemico e di intervenire presso le banche che lo producano. In altre parole, si darà ai regolatori, in principal modo alle autorità monetarie, potere per intervenire sulle scelte di quelle banche che, per la loro dimensione o per la quantità di rischio che esse assumono, possano avere effetti devastanti sull’intero mercato finanziario. Il caso di Aig, la società di assicurazione che è stata salvata dall’intervento del Tesoro a settembre dell’anno scorso, è un caso da manuale. Aig aveva assunto una quantità tale di rischi sul mercato immobiliare che, in caso di fallimento, avrebbe generato fallimenti a catena nelle sue controparti, cioè nelle società che con Aig avevano assicurato le proprie posizioni. Al momento del crollo del mercato immobiliare il Tesoro ha dovuto quindi necessariamente salvare Aig a spese dei contribuenti, per evitare una possibile implosione del sistema finanziario nel suo complesso. Ebbene, le nuove regole che il Presidente vuole far passare al Congresso, se fossero già state attive l’anno scorso, avrebbero in linea di principio permesso alla Fed di costringere Aig, prima del crollo, ad accumulare maggior capitale a fronte dei rischi assunti.
Limitare il rischio sistemico nei mercati finanziari è necessario, ma, al di là dei dettagli, la questione fondamentale è come esso sia misurato. Obama non ne ha parlato: il suo era un discorso e non un seminario. Ma la questione non è affatto puramente tecnica. Nei momenti caldi della crisi l’anno scorso, si è avuta molto chiaramente l’impressione che la Fed e il Tesoro brancolassero nel buio. Non conoscevano quali fossero le posizioni di bilancio delle maggiori banche e istituzioni finanziarie. Molte di queste posizioni erano state aperte sui mercati chiamati Over-The-Counter, che non sono propriamente mercati quanto piuttosto una collezione di transazioni bilaterali note solo alle controparti. Lasciare alla Fed l’autorità per intervenire, arbitrariamente, sul rischio sistemico è bene solo se si richiede maggiore trasparenza ai mercati. Purtroppo, a quanto si conosce della nuova regolamentazione richiesta al Congresso, essa non agisce con la necessaria fermezza sulla questione della trasparenza.
Ma non è solo della trasparenza delle banche che i mercati finanziari hanno bisogno. È altrettanto importante che il regolatore segua regole chiare e agisca sulla base di informazioni il più possibile disponibili pubblicamente. Soprattutto quando al regolatore sia dato un potere di intervento così esteso come quello che si prevede verrà attribuito alla Fed. Il caso Aig è ancora esempio lampante. Per quanto l’intervento di salvataggio della Fed e del Tesoro sia stato motivato dal rischio sistemico, le autorità non hanno ritenuto di comunicare chi fossero le controparti di Aig che avrebbero potenzialmente innescato la catena di fallimenti (e che avrebbero quindi maggiormente guadagnato dal salvataggio di Aig). Solo dopo mesi di pressione del pubblico e del Wall Street Journal si è saputo che la banca più esposta verso Aig era Goldman Sachs (banca per cui il ministro del Tesoro aveva lavorato anni, prima di darsi alla attività politica). Difficile in queste condizioni che i mercati si fidino del regolatore. Anche nel corso dello stress test delle banche, operato questa primavera dal Tesoro, l’informazione fornita al pubblico è stata minima e le rassicurazioni sullo stato delle banche non hanno quindi avuto l’effetto desiderato. In queste condizioni i mercati necessariamente vanno in ebollizione cercando di anticipare le mosse e le motivazioni del regolatore, che finisce per essere «catturato» da lobby e potentati e quindi per vedere la propria efficacia molto ridotta.
Si discuterà ancora molto su come meglio regolamentare il sistema finanziario. È bene comunque che il Presidente abbia posto la questione con forza. Il Congresso è così concentrato a trovare un accordo sulla riforma del sistema sanitario che si temono ritardi significativi su qualunque altra legislazione. Forse Obama ha posto la questione dei mercati finanziari semplicemente per aprire un nuovo fronte di dibattito, visti gli insuccessi di quello sulla riforma della sanità. Qualunque sia la sua motivazione, non si può non applaudire il rinnovato vigore con cui chiede di affrontare le questioni finanziarie.
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:30:11 am » |
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13/10/2009
Il Nobel per l'economia sceglie la "governance" ALBERTO BISIN
Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato quest’anno a Elinor Ostrom e a Oliver Williamson per le loro ricerche sulla «governance» delle istituzioni. E’ bene partire proprio dal significato di questo termine inglese. Il termine è spesso usato, anche in italiano, con riferimento al sistema di norme e strutture organizzative di controllo di una impresa societaria. Ma più in generale la «governance» non è altro che l’insieme dei meccanismi che governano il funzionamento di una istituzione, come una impresa, ma anche un sistema politico, un mercato, o semplicemente un parco pubblico.
Oliver Williamson, negli Anni 70, ha sviluppato una teoria dell’impresa come struttura organizzativa gerarchica atta a ovviare alla inefficienza di espliciti rapporti contrattuali e di mercato in alcuni contesti. Qualora ad esempio i contratti di approvvigionamento di una impresa siano resi complessi dalla necessità di controllarne la qualità, l’impresa opterà più facilmente per una struttura verticalmente integrata (producendo cioè al proprio interno tutti i semilavorati necessari alla produzione finale). Questa analisi è stata in seguito formalizzata, da Oliver Hart ad Harvard e da molti altri, e ha dato vita a una letteratura teorica ed empirica molto attiva che spazia tra economia, finanza, e scuole di legge (da qui prende avvio in parte la disciplina nota come «Law and economics»).
La ricerca di Elinor Ostrom si concentra invece sull’analisi della «governance» di un particolare tipo di beni pubblici, quelle risorse cui vari individui hanno accesso senza averne esclusiva proprietà. Si pensi ad esempio al caso di aree di pesca, pascoli, foreste, fonti d’acqua. In tutti questi casi lo sfruttamento delle risorse porta vantaggi privati agli individui (che godono del pesce pescato o dell’acqua raccolta) ma comporta costi pubblici per tutti gli individui che hanno accesso alle risorse (un pesce pescato dal mio vicino è un pesce in meno per me). E’ noto da tempo che in questi contesti lo sfruttamento non regolamentato delle risorse può essere inefficiente (ci si può ricondurre addirittura a citazioni da Tucidide e Aristotele; ma l’analisi moderna deriva da Pigou, economista inglese a cavallo tra l’800 e il ’900). Ed è noto dagli Anni 60 (dai lavori di Aumann, Fudenberg, Levine, Maskin e altri) che sotto alcune condizioni teoriche, individui razionali (ed egoisti) tendano a costituire sistemi di «governance» delle risorse pubbliche che ne evitino l’inefficiente eccessivo sfruttamento. Il contributo principale di Elinor Ostrom è consistito nel raccogliere e analizzare una grande mole di dati, casi-studio, racconti etnografici, che documentano l’esistenza di tali sistemi di «governance». A questo proposito le sue ricerche utilizzano concetti di economia e di scienze politiche (specialmente di teoria dei giochi) e dati da antropologia, biologia ed ecologia, sociologia, per produrre una ricca classificazione dei vari meccanismi di «governance» dei beni pubblici.
Se soprattutto Oliver Williamson ha avuto un importante impatto sulla disciplina, entrambi i premi Nobel di quest’anno ne sono chiaramente ai margini, specie da un punto di vista metodologico. Entrambi infatti hanno privilegiato un approccio ben più «umanistico» e istituzionale di quanto non fosse pratica consolidata nella disciplina, anche negli Anni 70. Non è certo la prima volta che il Comitato premia questo tipo di approccio all’economia: i lavori di Williamson e Ostrom sono nel solco di quelli di Ronald Coase (Nobel nel 1991), di Thomas Schelling (nel 2005), e di Douglass North (nel 1993). Ciononostante è difficile evitare di pensare che con questo premio il Comitato abbia voluto significare una certa sfiducia nei confronti della formalizzazione delle discipline economiche, in un momento in cui molti osservatori hanno preso ad attaccarla. L’anno scorso su queste colonne, in occasione del conferimento del premio a Paul Krugman, esprimevo il timore che il Nobel per l’economia diventasse un riconoscimento politico, come quello per la pace. Un po’ politico lo è stato anche quest’anno, nell’avere evitato nomi più centrali nella disciplina. Ma almeno non è andato a Obama.
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:25:18 am » |
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17/12/2009
Ben Bernanke è l'uomo dell'anno ALBERTO BISIN
Ben Bernanke si è trovato l’autunno scorso a gestire una situazione davvero da incubo.
Nel giro di pochi giorni i mercati finanziari hanno rischiato di implodere, con conseguenze inimmaginabili per l’economia mondiale. La Fed, di cui Bernanke era governatore dal 2006, sembrò essere colta di sorpresa. Col senno di poi, a implosione scongiurata, mi sembra però di poter dire che la politica monetaria della Fed abbia avuto una funzione importante nel limitare i danni della crisi.
Prima di tutto la Fed ha agito con le misure standard della politica monetaria di fronte a una crisi finanziaria: essenzialmente per mezzo di operazioni di mercato per abbassare i tassi di interesse a breve sul mercato dei titoli di Stato. Una volta raggiunti tassi zero a breve, senza effetti rilevanti sui tassi a medio e lungo termine e quindi sul mercato del credito e sull’economia reale, la teoria monetaria tradizionale suggerisce la creazione di inflazione, per far scendere a livelli negativi i tassi reali. Questa è stata la politica monetaria seguita ad esempio dal Giappone negli Anni 90. La Fed invece ha combinato questa politica monetaria tradizionale con politiche «non convenzionali», a cui probabilmente si deve in buona parte la relativamente ordinata uscita dalla crisi dei mercati. L’idea di queste politiche è semplice: agire direttamente sui tassi di interesse a medio-lungo termine, iniettando liquidità in modo mirato in quei mercati finanziari che più ne hanno bisogno e che più sono connessi col sistema creditizio e con l’economia reale (mercati del credito immobiliari, del credito all’istruzione, e finanche mercati del credito alle imprese).
E’ opinione diffusa nei mercati e in accademia che l’ispirazione per queste misure sia originata dallo stesso Bernanke, economista di prim’ordine oltre che governatore.
Naturalmente non è tutto oro quello che luccica. Uno dei meccanismi non convenzionali che la Fed ha disegnato per distribuire liquidità è consistito nell’acquistare titoli illiquidi a prezzi di gran lunga sopra-mercato. Assieme al salvataggio delle banche a opera del Tesoro, questo ha consentito ai grandi istituti di credito commerciale di ritardare le necessarie misure di ricapitalizzazione invise agli azionisti. Il rischio è quindi che queste iniezioni di liquidità, nel loro complesso, rallentino il ristabilirsi di condizioni di credito favorevoli agli investimenti e quindi, in un ciclo vizioso, favoriscano un sempre più largo intervento delle autorità monetarie e del Tesoro nella allocazione del credito. Un errore, quello dell’eccessivo intervento della politica nell’attività bancaria, che risulta poi, a crisi conclusa, difficile da correggere per l’ovvia propensione della politica e della burocrazia ad allargare le proprie aree di intervento.
Una politica monetaria efficace e innovativa quindi, quella della Fed, ma forse troppo attenta agli interessi di Wall Street, al punto da far temere in alcuni casi un grave conflitto di interessi. Un aspetto fondamentale su cui valutare la politica monetaria della Fed nel prossimo futuro sarà la sua capacità di scegliere il momento appropriato per iniziare a ritirare liquidità dai mercati. Per questa ragione si stanno mettendo a punto vari metodi statistici di stima delle aspettative di inflazione, da dati finanziari così come da indagini di mercato. Evitare di indurre aspettative di inflazione a medio-lungo periodo, diciamo oltre i tre anni, è condizione importante perché la ripresa dell’economia reale possa essere solida e duratura.
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:16:52 pm » |
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21/1/2010
Il ceto medio avvisa Barack ALBERTO BISIN
Le elezioni per il seggio di Ted Kennedy al Senato americano hanno visto la vittoria del candidato del Partito repubblicano. Il risultato è uno choc per l'amministrazione Obama, anche se non completamente inatteso.
Il voto è importante per ragioni simboliche: il Massachusetts è uno Stato tradizionalmente democratico e il senatore Kennedy, una istituzione della sinistra del partito, aveva detenuto il seggio, senza contendenti, fino alla sua recente morte. Ma è un'altra la ragione simbolica più importante che rende la sconfitta particolarmente cocente per il Presidente: il Massachusetts ha introdotto da alcuni anni un sistema di assicurazione sanitaria (quasi) universale simile a quello che Obama sta chiedendo e il Congresso sta votando per l'intero paese. Molti interpreteranno quindi la vittoria repubblicana come un plebiscito contro la riforma del sistema sanitario federale. Il fatto che il seggio passato ai repubblicani tolga ai democratici la maggioranza necessaria per passare la riforma senza compromessi aiuta questa interpretazione del voto di ieri. Soprattutto perché proprio su questi temi si è basata la campagna elettorale.
Ma il voto in Massachusetts è anche da interpretarsi come un voto di sfiducia nei confronti dell’amministrazione Obama. Una protesta nei confronti dei suoi insuccessi, o meglio dei mancati successi, in campo economico. Prima di tutto, il paese sta uscendo dalla recessione molto lentamente, molto più lentamente di quanto l'amministrazione stessa aveva previsto. La disoccupazione oggi negli Stati Uniti è addirittura superiore a quella che gli economisti della Casa Bianca avevano previsto «nel caso non si fosse attuato alcuno stimolo fiscale». È impossibile ancora (sulla base dei dati disponibili) sapere se la recessione fosse peggiore delle previsioni, o se invece gli effetti dello stimolo fiscale siano stati molto inferiori alle attese. Non c’è dubbio però che la spesa pubblica finanziata dallo stimolo sia stata concentrata più su interventi di medio-lungo periodo che non su quei progetti diretti a generare lavoro a breve termine che la giustificavano nella retorica dell’amministrazione. Infine, la decisione di procedere in parallelo con lo stimolo e la riforma della Sanità, anch’essa estremamente costosa in termini di risorse pubbliche, ha acceso quelle aspettative di alte tasse future che tipicamente inducono il settore privato a minore consumo e minori investimenti. Anche questo non aiuta certo una ripresa rapida ed efficiente.
L'immagine del fallimento della politica economica dell’amministrazione è accentuata poi dal fatto che il sistema finanziario è tornato a generare profitti, i banchieri a ricevere bonus milionari, ma il credito concesso dalle banche alle famiglie e alle imprese è ancora molto ridotto. A parte la reazione un po’ populista riguardo ai bonus, il fatto che il mercato del credito appaia relativamente bloccato è un problema vero. È anche corretto addurre questo problema alla politica economica dell’amministrazione Obama (e dell’amministrazione Bush precedentemente). Le banche sono restie ad assumere i rischi associati all'estensione di credito perché stanno ancora smaltendo i rischi accumulati fino alla crisi. Il salvataggio delle banche dello scorso anno, a condizioni estremamente favorevoli per gli azionisti, ha permesso loro di evitare di liquidare le perdite. I bilanci gravati da attività in perdita non permettono alle banche di ritornare in quantità sul mercato del credito.
La stessa riforma della sanità, che se dovesse riuscire avrebbe effetti epocali, è mal vista. A destra naturalmente, ma anche a sinistra, presso quella classe media che sperava in un più drastico e diretto intervento pubblico nel mercato della assicurazione sanitaria (quell’«opzione pubblica» che è stata discussa e poi abbandonata dall’amministrazione).
Il voto in Massachussetts credo dimostri che un cambiamento di direzione della politica economica americana sia necessario se i democratici vogliono evitare di perdere il Congresso alle elezioni dell'anno prossimo. Quanto meno Obama è stato avvisato in tempo.
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:47:16 pm » |
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28/1/2010
Protezionismo la tentazione mortale ALBERTO BISIN
Il presidente Obama si presenta all’annuale discorso al Congresso a camere riunite in una posizione difficilissima. Se l’anno scorso sembrava che egli potesse scalare le montagne e aprire gli oceani con la sola forza del pensiero, oggi sembra che qualunque cosa faccia sbagli. I suoi errori, almeno sul piano della politica economica, sono in effetti stati tanti e gravi. Il peccato capitale è stato pensare di potere sfruttare la crisi per trasformare l’economia e la società americana aumentando in modo permanente l’intervento del governo.
L’esatto opposto della strategia reaganiana di «affamare» lo Stato riducendo le tasse: «ingrassarlo» aumentando le spese senza copertura. Così si spiega l’uso dello stimolo fiscale per spese a lungo periodo, come i sussidi agli investimenti nell’economia «verde», la riforma sanitaria che accentua la spirale dei costi della sanità, gli enormi sussidi ai sindacati in ogni modo e forma, dal salvataggio dell’industria automobilistica, alla accettazione dei paletti da loro imposti alla riforma della scuola pubblica, alle esenzioni fiscali per forme di assicurazione sanitaria offerte dai datori di lavoro solo se in accordo con le parti sociali.
L’altro grande errore di Obama è stato quello di avallare un politica finanziaria che, pur facendo a momenti alterni la voce grossa con Wall Street, in realtà ne ha assecondato ogni desiderio. Ha accettato senza discutere la teoria che le banche fossero troppo grandi e interdipendenti perché il regolatore potesse intervenire razionalizzandone le posizioni senza ingenerare il panico. Ha riempito le banche di liquidità quando esse la richiedevano, senza imporre condizioni. Soprattutto ha garantito che le banche potessero sopravvivere mantenendo l'opacità delle proprie posizioni di bilancio per mezzo di trucchi contabili creativi.
Tutti gli errori di Obama vengono però ora al pettine. Lo stimolo fiscale non sembra aver gli effetti sperati e la disoccupazione è ancora dell’ordine del 10%. Il «Congressional Budget Office» (una specie di Ragioneria Generale abbastanza indipendente) produce stime del deficit pubblico pari al 9,2% del Pil per il 2010 (9,9% per il 2009), percentuali mai viste dalla seconda guerra mondiale. La reazione contro la riforma sanitaria, che i media hanno cercato di catalogare come frutto delle ossessioni di una frangia di repubblicani estremisti, ha invece addirittura intaccato l’invincibile fortino democratico in Massachusetts. Le banche, ottenuti i regali, trattano le intemperanze populistiche dell’amministrazione riguardo ai loro bonus con arroganza e supponenza. Il Congresso costringe il ministro del Tesoro Geithner a testimoniare, rivelando come e quanto egli abbia favorito banchieri amici, quando era a capo della Federal Reserve di New York e i mercati stavano implodendo.
Davanti a tutto questo, e davanti al crollo della fiducia del Paese nei suoi poteri magico-religiosi, il presidente Obama sta tentando di reagire. Nelle parole la sua è una specie di inversione a U. Si preoccupa della spesa pubblica senza controlli e ne propone un parziale congelamento, è forse pronto a un compromesso sulla riforma sanitaria, propone una tassa punitiva sulle banche e annuncia di volerne controllare le dimensioni, per evitare di essere in futuro costretto ancora a salvarle in caso di crisi. Ma per ora queste sono solo parole. Anche la proposta di congelamento della spesa è relativamente irrisoria: si applicherebbe solo al 17% del bilancio, a spese che hanno visto un incremento del 25% l’anno scorso. Staremo a vedere se l'inversione è reale o solo il tentativo di cavalcare una diversa onda populistica.
Ma i problemi del presidente Obama non sono finiti qui. Il World Economic Forun di Davos rischia di dimostrare a tutti che gli Stati Uniti non hanno la forza di imporre una riforma della governance dei sistemi finanziari mondiali, né hanno la visione di un nuovo ordine commerciale e finanziario a cui la Cina possa contribuire attivamente. Al contrario l’amministrazione americana sembra ancora usare la Cina come capro espiatorio ai propri problemi. Per ora soprattutto a parole, minacciando sanzioni commerciali a meno che essa non proceda a rivalutare lo Yuan. Proprio ora che il governo cinese sembra muoversi verso politiche che accelerino lo sviluppo del consumo interno nel Paese! Basta che non si passi ai fatti (molti in Europa non aspettano altro). Non vorremmo dover annoverare anche il protezionismo tra i grandi errori della politica economica di Obama.
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:40:42 am » |
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2/3/2010
La corruzione penalizza l'intero sistema Paese
ALBERTO BISIN
Le notizie di corruzione all’interno della pubblica amministrazione hanno recentemente toccato la Protezione civile, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, la Regione Puglia, la Regione Campania, i Comuni di Napoli, Bologna, Milano.
E’ ovviamente difficile avere dati «reali» sull’entità del fenomeno, per sua natura non esposto alla luce del sole statistico. Anche la «mappa sulla corruzione» fornita al Parlamento dal Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Dipartimento della Funzione Pubblica si basa sulle denunce e produce quindi risultati distorti e per giunta poco compatibili, ad esempio, con quelli tratti dal Casellario giudiziale centrale dal giudice Davigo e Grazia Mannozzi.
La percezione di una situazione grave e in corso di peggioramento è però documentata da una ricerca di Transparency International, una delle organizzazioni internazionali più attive nello studio della corruzione: la percentuale degli intervistati che rispondono «sì» alla domanda «Il governo è molto o alquanto efficace nel contrastare la corruzione?» è scesa dal 27% del 2006 al 15% del 2008.
La corruzione è peraltro solo un lato della questione della diffusa illegalità dell’amministrazione pubblica in Italia. La commistione tra amministrazioni locali e criminalità mafiosa, soprattutto al Sud, è documentata dai 150 Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, di cui 12 dall’inizio di questa legislatura.
Così come è difficile misurare con precisione quanto sia estesa la corruzione nella pubblica amministrazione, è ancora più complesso valutarne i costi. Questo soprattutto perché ai costi diretti devono aggiungersi enormi costi indiretti quando la corruzione si fa diffusa. In un appalto truccato il contribuente finisce per pagare beni e servizi ad un prezzo che comprende le mazzette agli amministratori e una rendita all’impresa (che, pagando, si garantisce di non avere competizione). Questi sono i costi diretti.
Ma quando la corruzione diventa «sistema», la competizione ne risulta distorta, e l’intero sistema economico ne paga le conseguenze. Se gli appalti sono truccati, le imprese che li ottengono sono quelle che riescono a mantenere rapporti con la politica o con la criminalità organizzata. Imprese più efficienti ma meno «connesse» sono scalzate dal mercato. Gli imprenditori di successo sono quelli in grado di fornire vantaggi privati al politico di turno, non quelli in grado di produrre beni e servizi di qualità a basso prezzo per l’amministrazione pubblica. I casi recenti di imprenditori che guadagnano i favori del mondo politico organizzando feste e festini rappresentano un triste esempio di questo fenomeno di distorsione della competizione. Ma anche il fatto che i giovani più brillanti si iscrivano soprattutto a legge e non a ingegneria, in controtendenza col resto del mondo sviluppato, segnala un sistema economico e sociale in cui ha successo chi si sa muovere tra leggi, leggine, istituzioni, commissioni, stanze del potere.
Da annoverarsi tra i costi indiretti della corruzione è anche il disincentivo agli investimenti diretti esteri. Una delle ragioni per cui l’Italia ne riceve la metà della Francia è che le imprese straniere sanno che entrerebbero in un mercato distorto in cui faticherebbero a competere, e quindi preferiscono starne fuori. Tra parentesi, è importante notare che questa distorsione della competizione economica e della selezione delle imprese di successo è gravemente peggiorata dall’inefficienza della giustizia, specie quella civile, che non protegge in tempi ragionevoli quelle imprese che volessero competere onestamente sul mercato.
Un’altra categoria di costi indiretti della corruzione è la distorsione della competizione politica ed elettorale. La classe politica, in questo sistema, compete a livello locale attraverso il controllo economico del territorio. I politici locali sono di conseguenza selezionati non sulla base delle loro capacità o della loro onestà, ma al contrario sulla base della loro abilità ad incanalare fondi dal sistema centrale verso la propria regione e a controllarne la distribuzione sul territorio. Ed è in questo controllo della distribuzione di fondi ed appalti sul territorio che spesso i rapporti con la criminalità organizzata tornano utili.
Infine, questa distorsione della competizione politica favorisce l’ingigantimento del settore pubblico, che distribuisce fondi in cambio di controllo elettorale. Anche a questo dobbiamo un’amministrazione pubblica ipertrofica che controlla oltre il 50% del Prodotto interno lordo del Paese.
Altro che temere la «destabilizzazione del sistema» ad opera dell’attività giudiziaria, come ha dichiarato il ministro Scajola. E’ proprio questo «sistema» che condanna il Paese alla stagnazione ai margini del mondo sviluppato.
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:22:13 am » |
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10/3/2010
Fme, attento ai trucchi della politica ALBERTO BISIN
Il governo tedesco ha suggerito in questi giorni la creazione di istituzione europea in grado di affrontare le situazioni di crisi finanziaria dei Paesi membri. Per ora la proposta contiene essenzialmente il nome, Fondo Monetario Europeo, e poco altro. Questo è abbastanza indicativo di un atteggiamento tipico della politica: gettare «nomi» ai problemi nella speranza che i cittadini li prendano per «sostanza».
Il Fondo Monetario Europeo (Fme) dovrebbe poter permettere ai Paesi dell’Unione di aiutare i membri in difficoltà, come oggi la Grecia, senza richiedere l'intervento diretto della Banca Centrale Europea. Non sorprende quindi che la Bce abbia reagito negativamente, vedendo nel Fme un attentato alla propria indipendenza dalla politica.
Se l’obiettivo del Fme fosse davvero quello di aiutare quei Paesi che si trovassero domani nelle condizioni in cui oggi si trova la Grecia, esso sarebbe una pessima idea. La Grecia ha una spesa pubblica fuori controllo. Le sue difficoltà a piazzare il debito sui mercati finanziari sono dovute a questo. Non per niente la recente formulazione di un credibile piano di rientro ha avuto effetti immediati sui mercati. E' inutile urlare al lupo della speculazione finanziaria e dei mercati cattivi.
Il fatto che la Grecia abbia manipolato i dati sul debito pubblico segnala un sistema politico fallimentare, che necessita di riforme istituzionali importanti. Il fatto che la Grecia abbia dovuto manipolare i dati, però, è anche indice della solidità del sistema regolativo dell’Unione, che richiede indirettamente convergenza nelle politiche fiscali dei Paesi membri attraverso l'imposizione dei parametri di Maastricht.
Questi parametri, così come l’indipendenza della Bce dalla politica ed i suoi vincoli istituzionali, favoriscono una sorta di responsabilità finanziaria dei Paesi dell’Area Euro. Nel caso di crisi finanziaria (ci è passata anche l'Italia prima dell’Euro) un Paese ha tipicamente tre possibilità: agire efficacemente per ristabilire un equilibrio dei conti, dichiarare bancarotta, svalutare o monetizzare il debito. L’ultima opzione non è concessa ai Paesi dell’Area Euro, semplicemente perché è la Bce a stampare moneta non le autorità monetarie del Paese in crisi. L'uscita dall'Euro e la bancarotta pura e dura hanno conseguenze economiche durissime. E’ bene ricordare a questo proposito le ondate di inflazione negli Anni Settanta, in Italia, in America Latina, in Israele, e persino negli Stati Uniti. Non rimane quindi che il riequilibrio dei conti pubblici, che in generale ha conseguenze sociali gravi, conseguenze che già si intravedono ad esempio in Grecia. Ed è per questo che i Paesi dell’Euro tenderanno ad adottare politiche fiscali responsabili.
Aiutare oggi direttamente e incondizionatamente la Grecia sarebbe un errore. L’Europa è potente proprio nella sua capacità di permettere ad autorità monetarie indipendenti di rifiutare i richiami di breve periodo della politica. La questione finanziaria è un velo: la realtà è che la Grecia non è in grado di far fronte alle promesse di spesa, risultato di una politica fuori controllo.
Sarebbe quindi davvero inutile o addirittura controproducente un Fondo Monetario Europeo? Non potrebbe almeno avere la stessa funzione del Fondo Monetario Internazionale, quella di coordinare interventi finanziari di salvataggio condizionandoli a politiche fiscali di rientro da una crisi? Forse. Anche se non è chiaro, in questo caso, a cosa gioverebbe la duplicazione delle burocrazie. Sarebbe sufficiente invece che la burocrazia europea fosse in grado di accorgersi con rapidità quando un Paese membro trucca le carte.
A ben vedere il Fondo Monetario Europeo non sembra necessario a risolvere alcun pressante problema di politica economica. Questo non significa che non possa avere una funzione nella struttura istituzionale di politica economica e di regolamentazione dell’Unione Europea. Senza maggiori contenuti la proposta è impossibile da valutare con accuratezza. Rimane il timore che il Fondo Monetario Europeo possa facilmente diventare un meccanismo istituzionale per permettere alla politica di aggirare ex post i vincoli di bilancio oggi imposti dalle istituzioni dell’Europa.
da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 12, 2010, 09:49:50 pm » |
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12/4/2010
Petrolio il segnale di Obama
ALBERTO BISIN
Il prezzo del petrolio non raffinato (il «crudo») è salito dai 70 dollari al barile di ottobre agli 85 e oltre di questi giorni. Molti osservatori hanno cominciato a lanciare l’allarme: un sostanziale aumento del prezzo del petrolio potrebbe uccidere sul nascere la ripresa economica che i dati cominciano a far intravedere. Ma c’è davvero da preoccuparsi?
Il prezzo del petrolio non è una variabile indipendente, determinata da speculatori cattivi che pianificano la fine del mondo in sottoscala bui e fumosi. Il petrolio è essenzialmente una risorsa esauribile e quindi il suo prezzo è determinato prima di tutto dalle previsioni sulla domanda e sull’offerta futura. Quando si prevede un aumento sostenuto dell’attività produttiva globale, e quindi un aumento della domanda dei derivati del petrolio che sono utilizzati nella produzione industriale e nei trasporti, il prezzo del petrolio tende a salire. Non c’è dubbio che questa è la situazione in cui siamo in questo momento. I recenti dati sull’attività produttiva in India e Cina e anche negli Stati Uniti fanno pensare a una ripresa abbastanza solida quest’anno. Ma molti dubbi ancora persistono su quanto intensa e rapida sarà la ripresa, e questa incertezza alimenta la speculazione sul petrolio. Maggiore è l’incertezza sulle previsioni di ripresa, maggiore è l’attività speculativa perché gli speculatori scommettono l’uno contro l’altro.
Ma al di là delle fluttuazioni giorno per giorno, queste sì dovute alla speculazione, il prezzo del petrolio salirà qualora l’incremento di domanda dovuto alla ripresa non sarà compensato da un aumento dell’offerta.
Ma non ci sono ragioni rilevanti per temere una grossa rigidità dell’offerta nel breve-medio termine.
L’offerta è controllata al 40 per cento dai Paesi del cartello Opec. Questi Paesi, riunitisi a Vienna il 17 marzo, hanno deciso di mantenere le quote di produzione costanti, anche se alcuni di loro chiedono di poter aumentare la produzione effettiva e alcuni già lo fanno. Rappresentanti dell’Opec hanno dichiarato di considerare come obiettivo un prezzo tra i 75 e i 90 dollari a barile. Il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, si è spinto fino a dichiarare questi prezzi «quasi perfetti».
Inoltre la produzione dei Paesi che non appartengono al cartello è aumentata nel corso degli ultimi mesi. L’offerta mondiale di petrolio, quindi, cresce abbastanza rapidamente ed è ormai ai livelli del 2007. Dato lo sviluppo dell’offerta, se le previsioni della International Energy Agency - che stima un incremento della domanda per il 2010 di circa 70 mila barili al giorno, pari all’1,8 per cento rispetto al 2009 - sono corrette, non sembra il caso di essere particolarmente allarmati sugli effetti del prezzo del petrolio sulla ripresa. In condizioni economiche come quelle in cui ci troviamo, un aumento del prezzo del petrolio rallenta la ripresa economica, ma un rallentamento della ripresa riduce il prezzo del petrolio. Se la ripresa dovesse spegnersi, quindi, è più probabile che avvenga per mancanza di ossigeno che non per il prezzo del petrolio.
Naturalmente questo non significa che non ci possano essere tensioni sul mercato nel breve periodo. Ad esempio, un notevole collo di bottiglia si ha nella raffinazione: molte raffinerie hanno smesso di operare durante la crisi e il recupero della capacità produttiva è relativamente lento. I prezzi alla pompa quindi aumentano più rapidamente del prezzo del «crudo».
Ma anche i limiti alla capacità di raffinazione saranno presto superati. La vera questione petrolifera, naturalmente, si ha nel lungo periodo. Come rompere la dipendenza economica del mondo sviluppato dalle sostanze petrolifere e dai Paesi produttori? L’amministrazione Obama ha annunciato mercoledì che permetterà nuove esplorazioni petrolifere nel Golfo del Messico, in Alaska e fuori dalla costa atlantica. La decisione, che giunge dopo 20 anni di divieto, è importante non tanto per gli effetti sull’offerta (che si prevede saranno limitati) ma soprattutto per il suo effetto di segnale sulla determinazione degli Stati Uniti a limitare la propria dipendenza dalle risorse energetiche straniere. I democratici infatti, più vicini alle idee ambientaliste, sono stati fino ad ora tradizionalmente scettici rispetto alla necessità di nuove esplorazioni (erano i repubblicani, e Sarah Palin in particolare, a utilizzare durante la campagna elettorale per le presidenziali l’espressione «drill, baby, drill» con riferimento proprio alle piattaforme petrolifere off-shore). Il cambiamento di rotta dell’amministrazione Obama quindi è un segnale importante proprio perché inatteso. Speriamo sia solo l’inizio e aspettiamo di vedere il resto.
da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 07, 2010, 05:23:44 pm » |
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7/5/2010 L'Europa e la lezione sprecata ALBERTO BISIN I mercati finanziari internazionali sono di nuovo in ebollizione: i titoli di Stato di alcuni Paesi dell’area euro sono trattati come merce avariata, i loro rating declassati, le Borse e i mercati dei cambi ne risentono, e tutto crolla nel panico generale. Ieri addirittura la Borsa americana ha contribuito a scatenare le paure a causa di un banale errore - un operatore ha scritto «billion» (miliardi) invece di «million» (milioni) che ha causato una perdita del 9%, poi parzialmente recuperata. L’interpretazione di questi fatti appare ovvia: ancora una volta la speculazione finanziaria miete le sue vittime; prima i risparmiatori americani e oggi l’intera economia greca, e forse addirittura una larga parte dell’area euro. Ebbene, questa interpretazione dei fatti, pur apparendo ovvia, è assolutamente incorretta. Non perché gli speculatori non esistano. Esistono. E sono anche affamati di danaro, così come sono tipicamente rappresentati, dai disegni di Grosz a oggi. Ma non sono gli speculatori la causa dei mali economici di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e altri. Più semplicemente, alla radice di quello che sta succedendo sui mercati, sta la seguente considerazione: la Grecia chiede ai mercati (tanto) denaro in prestito, attraverso emissione di titoli e i mercati temono che la Grecia non sia in grado di ripagare i debiti e quindi chiedono di essere ricompensati per il rischio che corrono prestando alla Grecia. Quando compro banane al mercato, se temo che siano marce, chiedo uno sconto. Tutto qui, senza bisogno di immaginare speculatori con la bava alla bocca. La questione quindi diventa: hanno ragione i mercati a ritenere che la Grecia possa avere difficoltà a ripagare i debiti? La risposta è chiaramente sì. La capacità di un Paese di ripagare i debiti dipende da quanti debiti ha, a che ritmo crescono (quanto grande è il deficit), da quanto il sistema politico sia in grado di imporre tasse e tagliare le spese per rientrare dai debiti in futuro, e infine da quali siano le prospettive di crescita economica del Paese, perché una crescita vivace porta introiti fiscali e quindi una riduzione del debito senza impopolari interventi di politica economica. La Grecia ha un debito pubblico dell’ordine del 120% del Prodotto Interno Lordo, un enorme deficit (oltre il 13% del Pil), un sistema politico inefficiente, un settore pubblico che conta per oltre il 40% dell’economia, una spesa pubblica senza controllo e un forte sindacato che si oppone a ogni taglio di spesa. Inoltre, le prospettive di crescita del Paese sono tristemente molto flebili, in parte proprio a causa dell’inefficienza di politica e settore pubblico. Nessun Paese in Europa è in condizioni economiche paragonabili. Portogallo, Spagna e Irlanda hanno deficit simili, ma debito inferiore. L’Italia ha debito simile, ma deficit inferiore. Non è una sorpresa quindi che la crisi sia partita dalla Grecia. Se la crisi si espanderà ad altri Paesi, però, sarà comunque a causa della loro finanza pubblica irresponsabile, nel passato e nel presente. A questo proposito, il fatto che l’emissione di titoli di Stato spagnoli a cinque anni, ieri, sia stata un ragionevole successo fa ben pensare per il breve periodo. La retorica sugli speculatori cattivi è quindi ipocrita oltre che incorretta: non è un caso che siano sempre i Paesi che più hanno bisogno dei mercati per finanziare le proprie spese a lamentare l’avidità dei mercati stessi, quando questi rifiutano le banane avariate. Spiace infine osservare che la crisi finanziaria dell’anno scorso nulla abbia insegnato ai responsabili della politica europea. L’intervento, peraltro pasticciato e tardivo, in aiuto alla Grecia ha avuto due effetti, entrambi dannosi. Il primo, quello di convincere i mercati dell’incapacità dell’Europa di garantire l’imposizione di quelle regole, come i parametri di Maastricht, che ne garantiscono l’esistenza stessa. Il secondo, dimostrare che anche i più rigidi governi europei, come la Germania, sono pronti a tutto per le proprie banche, salvo poi lamentarne l’immoralità. Il salvataggio delle banche che hanno irresponsabilmente finanziato il debito greco, portoghese, spagnolo e irlandese (soprattutto banche tedesche e francesi), è infatti il vero obiettivo dell’aiuto alla Grecia. E così come durante la crisi finanziaria dell’anno scorso, i bilanci delle istituzioni sono pieni di titoli tossici. Ogni banca teme che la controparte nasconda una forte esposizione nei confronti dei titoli della Grecia e il mercato interbancario rischia di incepparsi, con gravissimi danni per l’economia reale. Ieri già le prime avvisaglie in questo senso. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7315&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #29 inserito:: Maggio 14, 2010, 12:21:40 am » |
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13/5/2010 Dagli Usa un aiuto interessato ALBERTO BISIN Fino all'altro giorno l'Europa stava per crollare sotto l'assedio della speculazione. Ma poi i capi di Stato e i ministri finanziari dell'Europa, per una volta unita, la Banca Centrale Europea, e il Fondo Monetario Internazionale, con un aiutino del presidente Obama e del suo ministro del Tesoro Geithner, sono intervenuti con grande successo in salvataggio dell'euro. Meno male che l'Europa c’è. E meno male che gli Stati Uniti arrivano in suo aiuto quando non c’è. Questa sembra essere la narrazione dei fatti che la politica e molti osservatori vorrebbero risuonasse nelle menti dei cittadini europei. Purtroppo non è così. La politica ha semplicemente rattoppato in fretta i danni che essa stessa ha prodotto all'economia europea. E l'aiuto degli Stati Uniti, naturalmente, è interessato. Innanzitutto, occorre ricordare quali siano le cause di questa crisi dell'euro. L'Europa, specie quella mediterranea, ha da decenni intrapreso un percorso di finanza pubblica difficilmente sostenibile. Chi più chi meno ha finanziato, emettendo debito pubblico, una settore pubblico ipertrofico, un sistema previdenziale assurdamente generoso, una evasione fiscale rampante. Molti Paesi europei, inoltre, hanno accolto la recente crisi economica e la recessione come un'ottima scusa per eccedere ancor più nella spesa pubblica, giustificando questa scelta con teorie economiche screditate da decenni. Il risultato è stato che quei Paesi che hanno raggiunto in questi anni di crisi deficit dell'ordine del 10% e più del Prodotto interno lordo, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, hanno avuto gravi difficoltà a piazzare nuove emissioni di debito ai mercati, se non al costo di un sostanziale premio al rischio. Altri Paesi, tra cui l'Italia, evitando saggiamente inutili interventi di spesa, hanno potuto invece navigare la crisi, senza immediati rischi. La responsabilità della crisi dell'euro di questi giorni è quindi tutta delle politiche fiscali irresponsabili, dei deficit di bilancio di oggi e dei debiti accumulati nel passato. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il loro interesse in una zona euro stabile è ovviamente dovuto principalmente alla globalizzazione dei mercati finanziari che rende ogni crisi finanziaria, anche locale, in prospettiva una crisi mondiale. Una ristrutturazione del debito della Grecia sarebbe dannosa per le banche, soprattutto tedesche e francesi, che tale debito detengono; e una crisi bancaria in Europa avrebbe immediate ripercussioni sulle ancora deboli banche americane. Ma non è solo per questo che l’amministrazione Obama ha marcato stretto la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy durante la crisi dell’euro. I maggiori giornali americani e molti osservatori si sono chiesti e si chiedono quanto i problemi di finanza pubblica dell’Europa oggi non presagiscano il futuro dell’economia statunitense nel medio periodo. L’amministrazione Obama, infatti, ha intrapreso un programma di grande espansione del settore pubblico, e di conseguenza dell’indebitamento. Pochi credono alle promesse di riduzione del deficit nel prossimo futuro che l'amministrazione produce in continuazione. E la Cina, il cui risparmio ha fino ad ora sostenuto una gran parte dei debiti pubblici e privati americani, non potrà continuare a lungo a produrre senza consumare. Con le elezioni del Congresso a novembre, il presidente Obama e i democratici non possono rischiare che una crisi dell’area euro apra una discussione sul modello di spesa pubblica di stampo «europeo» sui cui binari essi stanno mettendo gli Stati Uniti. Anche all’amministrazione americana conviene quindi sostenere di aver sventato una crisi dell’euro, dovuta agli arbitrari attacchi speculativi dei mercati. Ma i problemi veri, purtroppo, non hanno mai soluzioni finte. La crisi dell’Europa è una crisi di finanza pubblica e l’unica sua possibile soluzione sta nell’affrontare onestamente e drasticamente la questione della spesa pubblica. Ma per affrontare la questione della spesa pubblica occorre coraggio politico, merce tradizionalmente scarsa in Europa, specie nel Sud-Europa. Gli stessi Stati Uniti farebbero bene a sollevare la testa dalla sabbia e a ripensare alla sostenibilità dei propri programmi di spesa pubblica. Essi hanno però un vantaggio rispetto all'Europa: mentre l’Europa non ha essenzialmente alcuna possibilità di manovra sul lato delle entrate, che sono già a livelli di soffocazione, gli Stati Uniti in linea di principio possono rientrare aumentando le tasse. Nulla succederà sino alle elezioni, ma con ogni probabilità gli americani troveranno sotto l’albero di Natale una bella tassa sul valore aggiunto. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7345&ID_sezione=&sezione=
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