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« Risposta #15 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:56:29 am » |
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A FIL DI RETE
D'Eusanio, maschera del Carnevale tv
di ALDO GRASSO
Confesso che speravo di capire qualcosa di più sulla misteriosa morte della contessa Francesca Vacca Agusta rievocata a Ricominciare dall'ex compagno Maurizio Raggio (Raidue, lunedì, ore 21.05). Ma non sempre ricominciare significa cambiare vita, a volte significa semplicemente essere daccapo, l'eterno ritorno dell'uguale. A cominciare dalla conduttrice, Alda D'Eusanio, il volto tirato, quasi irriconoscibile, maschera perfetta, come direbbe il suo Omero Walter Siti, di quel continuo Carnevale che è ormai la tv. Raggio no, è incanutito, inquartato, intristito. Aveva 27 anni quando nel 1986 comincia a frequentare la ricca contessa Francesca Vacca Agusta (che di anni ne aveva 41); lui è figlio di un ristoratore del luogo, sono gli anni della Milano da bere e Portofino è il porticciolo della ricca borghesia milanese.
Poi nel 2001 il triste epilogo, con la misteriosa morte della contessa. Inizia così la più singolare soap opera che la cronaca abbia mia offerto alla consacrazione del piccolo schermo: nemmeno Balzac, nemmeno Maupassant, che di commedie umane e di spartizioni maledette se ne intendono, avrebbero potuto immaginare scene come quella dei finanzieri che fermano Raggio a Chiasso con due o tre testamenti in macchina. Per non parlare della scomparsa della contessa, del ritrovamento del cadavere a Marsiglia, dei patti segreti fra i pretendenti, dei molti misteri. È una storia popolare ma è anche una storia intricata e confusa che gira attorno a un patrimonio valutato intorno ai 35 miliardi e a un mare tempestoso di debiti. E a reclamarli, i primi e i secondi, sono in tanti, forse troppi, fra amanti, ex amanti, creditori, l'Ufficio tributi, avvocati, notai, fiorai, fornai, cognate, nipoti e dame di compagnia. E invece niente: nemmeno un accenno a Bettino Craxi, che pure con Raggio aveva avuto rapporti stretti. Un ricominciare che assomiglia molto a un modo di dire.
13 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:16:41 am » |
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A FIL DI RETE
Fiorello non riconosce il signor Berlinguer
Il rischio di un piccolo dramma umano
Durante il «Fiorello Show» (SkyUno, giovedì, ore 21.10) si è sfiorato un piccolo dramma umano. O forse no: inavvertitamente è andata in scena una storia edificante, un esercizio di ammirazione, pur all'interno di un'ominosa penombra televisiva. È successo questo. Fiorello scorge tra il pubblico l'attore Lorenzo Ciompi e comincia scambiare qualche battuta di prammatica. Con galanteria Ciompi segnala che accanto a sé siede Bianca Berlinguer.
E qui Fiorello si scatena: finalmente una comunista, una donna, una telegiornalista! Tra lei e Ciompi esiste qualcosa, c'è una storiaccia? A quel punto si manifesta il vero marito o compagno, seduto alla sinistra della Berlinguer: «Sono il fortunato ». Fiorello apprezza la galanteria ma non riconosce il marito. Tragedia! Ora le ipotesi che si fanno sono due. La prima: a Luigi Manconi, il marito, questa botta di anonimato ha creato un trauma da cui difficilmente si riprenderà.
Il ragazzo è vanitoso anzichenò e poi ha un passato mica da ridere: sardo anche lui, lottacontinuista, sociologo, già portavoce nazionale dei Verdi, esponente del Pd, sottosegretario nel governo Prodi. Mica cotiche. Ha scritto a lungo sui giornali, ha collaborato in tv con Andrea Barbato e Gad Lerner, grande amico di Sofri e Fabio Fazio, ha vergato articoli di musica sotto lo pseudonimo di Simone Dessì. Una volta l'ho sentito con le mie orecchie rimproverare Oliviero Beha perché lo invitava poco in tv. La seconda ipotesi è ancora più interessante. Luigi Manconi è lo pseudonimo di Simone Dessì, un ragazzo schivo, felice di vivere all'ombra di una moglie famosa, l'autore del profetico testo «Il dolore e la politica». Manconi è un idolo delle folle ma Dessì lo tempera, lo mitiga. Nei suoi accessi d'orgoglio vorrebbe non sottrarsi ai sotterfugi dell'apparire, della fama, ma Dessì lo costringe a indietreggiare. Persino da Fiorello.
Aldo Grasso 16 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 30, 2009, 12:01:36 pm » |
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Fiorello più libero senza pubblico
Senza pubblico.
È andato in scena senza pubblico, lui che viene scioccamente accusato di essere un animatore di pubblici. Recitare con la platea vuota è come camminare sull’orlo dell’abisso con gli occhi bendati, giocare una partita di calcio a porte chiuse, ma soprattutto fregarsene delle pie intenzioni di quelli che inneggiano al pubblico sovrano. Causa partita Champions fra Barcellona e Manchester, il teatro-tenda di Piazzale Clodio, dove ogni sera Fiorello si esibisce, è stato chiuso al pubblico. Per una volta, provvidenzialmente. Perché Fiorello, dialogando solo con la sua coscienza (e con quella di Cremonesi), si è potuto liberare di un fantasma triste. Una sera, agli esordi del Fiorello Show, lo spettacolo si è concluso con qualche minuto d’anticipo. Molti ci hanno ricamato sopra (la più simpatica delle conclusioni era del tipo «Fiorello è finito»); la verità è che Fiorello era infastidito dal pubblico delle prime file, quello che a teatro continua a telefonare, che è lì per esserci e non per vedere.
Così Fiorello ci ha regalato una specie di seduta d’analisi in cui ci ha presentato l’audience ideale, il pubblico che non c’è, la mirabile figura dello spettatore assente (SkyUno, giovedì, ore 21,15). Detesto gli artisti che ammiccano verso il pubblico (o il popolo) perché, da veri demagoghi, esaltano nel pubblico «l’informe umano», che è come concorrere a mantenere il povero nella sua povertà o l’ignorante nella sua ignoranza. Per questo Fiorello ha fatto riapparire il pubblico solo per intonare con Amedeo Minghi l’inciso di «trottolino amoroso» (l’essenza stessa dell’informe umano, direbbe Pasquale Pannella). Ha scritto Alfred Polgar: «Il pubblico di teatro (o della tv): la massa disomogenea della gente di città che ogni sera viene spinta a teatro dalla noia, dalla curiosità o dal bisogno di sottrarsi all’insulsaggine della propria esistenza, non ha assolutamente gusto, nemmeno cattivo». Si può fare senza, per una sera.
Aldo Grasso
30 maggio 2009 da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 15, 2009, 11:42:06 am » |
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A fil di rete
Bignardi e Calabresi: intervista difficile
L' intervista più lunga realizzata da Daria Bignardi, 40 minuti. All'«Era glaciale» (Raidue, venerdì, ore 22.55) era ospite Mario Calabresi, da poco direttore de La Stampa, per presentare il suo ultimo libro La fortuna non esiste - Storie di uomini e di donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi (Mondadori). Hanno parlato di tutto: di Obama, di Noemi, di Papa Wojtyla, della visita romana di Gheddafi, del presunto tesoro nascosto di Gianni Agnelli, di Lapo, del caso Amanda, dell'incontro di Licia Pinelli con Gemma Capra, sua madre. Il tempo è volato. Hanno anche taciuto, e forse il non detto è stato più importante e decisivo delle molte parole spese. Calabresi ha una dote invidiabile: degli uomini sa cogliere il lato che unisce, la forza che serve loro per andare avanti, anche dopo tracolli stordenti, lo spirito che deve animarli nel sanare le ferite passate ma, nello stesso tempo, nel conservare la memoria di quelle ferite.
Il suo precedente libro, Spingendo la notte più in là, è stato qualcosa di più di un evento editoriale: una sorta di risarcimento pubblico soprattutto nei confronti delle vittime del terrorismo. La nostra società (politici, intellettuali, media, organizzazioni varie) si è molto occupata di chi ha ucciso, ma molto poco di chi è stato ucciso, delle loro famiglie, dei tanti drammi umani. Fra le vittime, non tutte hanno avuto il coraggio di rialzarsi ma tutte hanno riconosciuto in Calabresi la voce che ha ridato loro dignità e forza per continuare. Il non detto dell'intervista è che Daria Bignardi (mai così timorosa come l'altra sera) è la nuora di Adriano Sofri. Un atto di «pacificazione sottintesa». P.S. Calabresi si è dichiarato juventino. Nessuno è perfetto. P.P.S. La Bignardi ha detto che la sua famiglia vanta un santo in Paradiso. Lo sospettavamo.
Aldo Grasso 14 giugno 2009
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:20:02 pm » |
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Il commento
La passione dei politici per la tv, ultimo palcoscenico del non fare
Intervistato da Lucia Annunziata, nel corso della trasmissione In mezz’ora, il ministro Giulio Tremonti ha lanciato un monito: «Un po’ di calma, un po’ meno televisione, un po’ meno show sarebbero utili per tutti». Pronunciato dall’«editore» della Rai, l’invito vale il doppio e, sembra di capire, non riguarda solo il clima di esagerazione mediatica che rischia di alimentare la paura della crisi. È il classico invito rivolto a nuora perché suocera intenda. Sì, certo, con meno tv, meno show e con una maggiore attenzione alle cose reali, l’uscita dal tunnel sembrerebbe più agevole. Invece, l’impressione è che alcuni politici amino il palcoscenico più del dovuto, si comportino spesso come attori da soap opera, e che il «velinismo» sia il loro orizzonte estetico. In questo senso, la storia della rappresentazione della politica sembra arrivata al suo compimento, con il disfacimento della politica medesima. Che ha trasformato se stessa in scontro virtuale.
Il passo ulteriore (camminiamo sull’orlo del burrone) è che la politica diventi un sistema autoreferenziale, non più speculazione sulla realtà ma realtà essa stessa, dove i segni vivono di mobilità perpetua, disancorati da ogni referente, prigionieri dei sondaggi. «Un po’ di calma, un po’ meno televisione, un po’ meno show» potrebbe essere lo slogan ideale per i giorni che ci attendono. Buona parte della politica è ormai ridotta a talk show (morta l’ideologia, la politica è sospesa tra la formazione del consenso e la modalità televisiva del problem solving) e l’uomo di governo assomiglia sempre di più a un conduttore voglioso solo di amministrare il «suo» pubblico. Se al talk uniamo poi il Bagaglino, l’invito di Tremonti assume un’urgenza inaspettata. Da tempo abbiamo imparato che le immagini televisive ci informano non tanto sul loro oggetto quanto sulla società che le guarda; il loro significato è ben lungi dall’essere chiaro. Dobbiamo perciò temere sia un nuovo sistema mediatico assolutistico in cui l’anchorman- politico è sovrano irresponsabile, sia il nostro conformismo dell’abiezione, l’accondiscendenza nei confronti di questo sistema.
Ogni demiurgia televisiva si sviluppa sempre a spese della lucidità. E della concretezza.
Aldo Grasso
29 giugno 2009 da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 11, 2009, 04:09:40 pm » |
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Risposta alla stroncatura di Marianna Rizzini sul «Foglio»
Quelli che «Fiorello non è più Fiorello»
Il suo show è un fenomeno con pochi eguali nella storia della nostra tv. Eppure c’è chi non è contento
Quasi ogni sera, Skyuno (canale 109) ripropone un’antologia dello spettacolo «Fiorello Show». Difficile staccarsene: Fiorello dimostra di aver ormai raggiunto la piena maturità artistica, proprio in un esperimento dove aveva tutto da perdere. Per la natura della pay tv (diversa, è utile ripeterlo, dalla tv generalista), per la difficoltà di coniugare spettacolo teatrale con le esigenze della tv, per la voglia di sperimentarsi in un universo sempre più transmediale. Basta fare un piccolo esperimento: confrontare il florilegio di «Supervarietà» che Raiuno offre tutte le sere con quello di Fiorello per capire che forse ci troviamo di fonte a un fenomeno con pochi eguali nella storia della nostra tv. Eppure c’è chi non è contento. Ho tenuto (per leggerlo e rileggerlo: sbagliarsi nei giudizi è molto facile, mi ripeto sempre) un lungo pezzo di Marianna Rizzini apparso tempo fa sul Foglio. Un duro attacco, una stroncatura, una demolizione del mito Fiorello. Con un accorato appello finale: «Fiorello, per favore, torna a esser Fiorello».
Già, ma quale Fiorello? C’è un Fiorello più Fiorello di quello attuale? A leggere e rileggere il pezzo della Rizzini la colpa principale di Fiorello sarebbe stata quella di aver concesso una intervista a Vanity Fair. Fossi stato Fiorello, a Vanity Fair e a un funzionario Rai l’intervista non l’avrei mai concessa: giusto per non andarmi a infilare nella guerra tra Sky e Mediaset e raccontare ancora una volta il gran rifiuto al Cavaliere («non sapevo che avevo incrinato la sacralità del potere del Cavaliere»). Su questo ha ragione la Rizzini. Fossi Fiorello (magari!) non rilascerei interviste e men che meno mi farei catturare da questi giochini politici. Ma il Fiorello in onda è lì, basta vederlo. Se il suo spettacolo fosse stato recensito nelle cronache teatrali, il paragone sarebbe stato con il Teatro Tenda di Vittorio Gassman o di Gigi Proietti. Quelli i punti di riferimento. Non certo l’universo della sinistra vanitosa.
Aldo Grasso 11 luglio 2009
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:54:17 pm » |
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A fil di rete
Se il conduttore è un narcisista
Philippe Daverio se ne va in Messico, con la scusa di studiare la Vergine di Guadalupe e l’ostentazione esasperata del sangue, che — lo ripete più volte — trova le fondamenta nel sacrificio rituale degli Aztechi, e ci regala invece un problema teorico di non facile soluzione. Sotto le insegne di Passepartout , Daverio e due suoi amici, il gallerista milanese Jean Blanchaert (la controfigura di Karl Marx) e l’antropologo Franco La Cecla, scorazzano felicemente per il Messico: i murales di Diego Rivera al Palacio Nacional, il grande sito archeologico precolombiano di Teotihuacán, l’acropoli di Monte Alban, il Museo Nazionale di Antropologia, una sorta di cattedrale della cultura dove la datazione è un optional.
Tuttavia, ci spiega Daverio, in questo strano luogo si genera una identità secondo parametri molto particolari, lontani dalla consueta museologia: la sensazione diventa più importante del sapere. Qui non si deve capire o apprendere, ma si deve percepire la magia potente dell’antenato, con i reperti autentici posti in mezzo a un decoro teatrale che vuole soprattutto evocare. Non è questo il problema teorico: i guardiani del museo lasciano entrare la telecamera ma il conduttore resta fuori. O meglio: si possono riprendere le immagini ma è vietato al conduttore sovrapporre la propria immagine a quelle degli oggetti ripresi. Che è proprio la modalità tipica delle trasmissioni attuali, una scelta di scrittura ma anche una grande manifestazione di narcisismo.
È vero che un programma, una trasmissione storica, un reportage sull’arte dove non appare il conduttore fanno molto anni Cinquanta, ma forse è anche un segno di sobrietà, di distacco, di rispetto. Non è il caso di Daverio, ma ormai il conduttore si ritiene più importante delle cose che mostra; e dunque, mostra soprattutto se stesso. La lezione del Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico non va sottovalutata. Evocando un gusto rétro, mette in crisi la nostra «modernità» televisiva.
Aldo Grasso ©RIPRODUZIONE RISERVATA 04 agosto 2009
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 16, 2009, 04:23:32 pm » |
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Il meglio e il peggio del paradosso Timperi
Sciatto e inconsistente in tv, alla radio cerca di dare il meglio di sè
Il paradosso Timperi. Mi è capitato più volte di ascoltare su Radiouno una trasmissione che si chiama Il grano e il loglio e che si occupa della lingua italiana, dei suoi inciampi e delle sue risorse. Potendo contare sull’aiuto prezioso del prof. Francesco Sabatini, ordinario di Linguistica e presidente onorario dell’Accademia della crusca, il programma evoca i fasti di una fortunata trasmissione tv, Parola mia, condotta da Luciano Rispoli e dal mitico professor Gian Luigi Beccaria. A saperla trattare, la lingua italiana è piena di curiosità, di complessità ma anche di sorprese. La sorpresa più grande, tuttavia, è la conduzione di Tiberio Timperi: si vede che si sta impegnando, si prepara, ha soggezione del suo interlocutore e, quindi, anche del pubblico.
Perché, invece, il Timperi tv, quello che conduce i programmi di Michele Guardì, sembra, e sottolineo sembra, così sciatto, futile e inconsistente? Perché fa le smorfie, perché infila, una dietro l’altra, tutte quelle banalità? Se risolviamo il paradosso Timperi forse capiamo qualcosa di più della lingua televisiva. Da anni, Guardì continua a sfornare lo stesso, identico, mediocre programma, qualunque sia la maggioranza politica che governa la Rai. Non solo ha abbassato il livello della comunicazione tv ma dev’essere uno di quegli autori che chiedono ai conduttori il peggio di sé, nella convinzione che solo così si è popolari.
Al contrario, di fronte al prof. Sabatini, Timperi vuole fare bella figura e cerca di dare il meglio di sé. Senza saperlo, si adegua alla regola aurea del Servizio pubblico, quella formulata da John Reith: «Il broadcasting ha la responsabilità di portare nel numero più ampio possibile di case il meglio di ciò che è stato formulato in ogni area della conoscenza umana». Non deve adeguarsi ai gusti del pubblico, ma semmai guidarli. Come la grammatica della lingua italiana.
Buon Ferragosto e arrivederci al 1˚ settembre.
Aldo Grasso 15 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:38:14 pm » |
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Bongiorno incarnava l’uomo qualunque, Fiorello l’eccezionalità dell’artista.
Insieme hanno regalato momenti unici
Fiorello e Mike Bongiorno, un’amicizia tra ragazzini
La loro breve storia è stata qualcosa di più di un legame professionale. Mike e Fiorello non erano un’improvvisata coppia di presentatori, un duo comico nato quasi per caso. Erano due persone che si volevano bene, si stimavano, «due pischelli» secondo Fiorello: un atteggiamento quasi naturale per lui, una vera sorpresa per Mike, che sullo schermo appariva sempre così contegnoso, pur essendo un prodigioso gaffeur, facile preda dell’ironia di molti suoi colleghi.
«Senza previsione — raccontava Mike — ho partecipato praticamente tutti i giorni al programma radiofonico di Fiorello intitolato Viva Radio 2 . Alle tre meno cinque mi chiamava sul telefonino, raggiungendomi nei posti più impensabili. Ogni volta inventavo qualche gag. La popolarità di questo collegamento divenne tale che nei giorni in cui Fiorello non riusciva a raggiungermi, arrivavano telefonate di protesta alla Rai tipo: 'Come mai non c’è Mike?'».
Mike stava attraversando un periodo poco felice: a Mediaset non lo facevano più lavorare (salvo che per le televendite), in Rai nemmeno lo ricevevano, nonostante avesse pronto un progetto sulla storia della tv italiana. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto condurre un simile programma. Se nei primi anni Sessanta l’oggetto ideale cui dedicare attenzione critica poteva essere solo Mike, popolarissimo, prima icona televisiva italiana, con la sua immagine da everyman , da uomo comune in cui l’italiano medio non faticava a identificarsi, nella tv italiana di oggi bisogna ribaltare tutto: intanto perché l’ everyman , grazie ai talk o ai reality, è diventato protagonista assoluto della scena e poi perché, per contrappasso, l’eccezionalità è diventata merce rara, si fatica a riconoscerla, bisogna di nuovo fare lo sforzo di tratteggiarla.
E il personaggio che risponde in modo più compiuto alla definizione di «artista» e che esprime il modo più originale e maturo di fare spettacolo è sicuramente Fiorello. Così, i due estremi si sono toccati e hanno saputo regalarci momenti di grande divertimento: alla radio, negli spot pubblicitari, in tv. Grazie a Fiorello, Mike era come rinato: pieno di energie, di idee, dimentico degli anni che cominciavano a pesare. «Nella mia lunga carriera — diceva ancora Mike — ho incontrato tutti i tipi di artisti, ma vi posso garantire che uno come Fiorello non c’è mai stato. Mi menziona spessissimo e dice che mi vuole molto bene. Anch’io gliene voglio altrettanto».
Aldo Grasso 12 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:37:24 pm » |
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IL PREMIER DA VESPA
La tv dell'obbligo
Così un evento diventa rituale a reti unificate
di ALDO GRASSO
La trasmissione che Bruno Vespa non avrebbe mai dovuto fare. Vespa ha sapientemente iniziato la puntata con la toccante storia di Giulia. Nel computer della studentessa, morta sotto le macerie del terremoto, è stato trovato il progetto per la costruzione di un asilo a forma di libro. Ieri, alla presenza dei genitori, è stata inaugurata la nuova scuola materna costruita con i soldi raccolti dalla trasmissione e firmata, appunto, da Giulia Carnevale. Nonostante la commozione, questa è la trasmissione che Vespa non avrebbe dovuto fare. Per evitare le violente polemiche suscitate. Ma anche per orgoglio professionale, per non rovinare quanto di buono aveva fatto a favore dei terremotati della sua città. Vada per «Porta a porta» spostata in prima serata per la consegna delle villette agli sfollati di Onna. Vada per Vespa cronista privilegiato al seguito del Presidente tornato gioiosamente impresario edile. Vada per il monologo del premier sulla ricostruzione, e il suo sciorinare cifre e sondaggi favorevoli.
Ma Vespa si sarebbe dovuto opporre allo slittamento di «Ballarò» e, visti i suoi buoni rapporti con Palazzo Grazioli, anche a quello di «Matrix». Perché, in questo modo, anche una cerimonia importante come l'inaugurazione delle casette antisismiche ha dato adito a ogni sospetto. E soprattutto è parso uno di quei rituali sovietici a reti unificate, in stile Putin, a metà strada tra populismo demagogico e culto della personalità. Ieri sera Vespa (con non poche resipiscenze) e il direttore generale della Rai Mauro Masi hanno fatto fare un passo indietro all'informazione tv, l'hanno riportata ai tempi del pensiero e del canale unico. La tv dell'obbligo. Dopo quello scolastico, è stato ripristinato l'obbligo televisivo. Non è tv di regime (c'era anche Piero Sansonetti), ma un brutto modo di fare tv. Il fatto è che i tempi mediatici sono cambiati e sull'episodio è sceso anche un velo comico. Specie quando a Berlusconi sono stati serviti su un piatto d'argento gli argomenti per la difesa scontata sul conflitto d'interesse.
Dicono che Berlusconi avesse paura che altre trasmissioni di approfondimento frazionassero l'ascolto e insinuassero dubbi, non veri secondo lui. Dicono che la concomitanza delle partite di Champions su Sky, che vedevano impegnate Juve e Milan, rappresentassero già un temibile diversivo. Dicono che... Qualunque cosa si sia detto o pensato la concorrenza, politica e televisiva, deve restare il sale della democrazia. Non si può accusare, in nome del libero mercato, il leader dell'opposizione Franceschini di voler abolire l'Auditel dai programmi informativi e poi accettare che vengano spostate due trasmissioni che avrebbero potuto sottrarre audience a «Porta a porta». Oggi l'Auditel ci dirà quanti spettatori hanno seguito la trasmissione, ci darà anche una radiografia della tipologia di questo pubblico. Ma l'unico dato certo è che ormai l'informazione tv è spinta a rafforzare il suo ruolo di «mediazione», di organizzazione dello sguardo sul mondo, di interpretazione e valutazione degli eventi, per quella parte della popolazione che, per diverse ragioni, non ha accesso alle nuove tecnologie. Per gli altri è tutta un'altra storia, informativa
16 settembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:36:52 pm » |
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A FIL DI RETE
Il talk show mostra i suoi anni
Lo schema della contrapposizione ha fatto il suo tempo: non c'è mai imprevedibilità, non ci sono sorprese
Grazie anche alle polemiche scatenate dallo spostamento, ho seguito con molta attenzione «Ballarò» (Raitre, giovedì, ore 21.10). Confesso che mi sono un po’ annoiato. Mi pare che lo schema della contrapposizione (tre giocatori da una parte, tre dall'altra) abbia fatto il suo tempo: non c'è mai imprevedibilità, non ci sono sorprese e, di conseguenza, non c'è racconto. Tutt'al più qualche battuta. Più spesso, un livello molto deprimente della discussione (così impone la politica italiana). Comincio anche a credere che il genere sia in crisi. I
Il talk show, se manca di brillantezza, se non sa incuriosire lo spettatore, mostra gli anni. Quando Giovanni Floris ha comunicato i nomi dei partecipanti si sarebbe già potuto scrivere una scaletta della trasmissione, al massimo non calcolando i solerti assistenti del ministro Angiolino Lodo Alfano o l'intemerata di Concita De Gregorio sul potere dei soldi («Hanno vinto i soldi non i valori!»). Ma il terzo e decisivo fattore di noia è l'inevitabilità degli argomenti. Si parli dei militari morti in Afghanistan o del terremoto, si parli di vita o di morte, si parli della ripresa economica o di quelli che non arrivano alla quarta settimana, alla fine si parla sempre e solo di lui. Di Berlusconi. Che ormai non è più un imprenditore, un politico, un presidente del Consiglio. È un'ossessione: magnifica per alcuni, detestabile per altri. Ma sempre ossessione, la nostra balena bianca (quello che più mi spaventa è che non siamo mai noi a scegliere le ossessioni, ma sono sempre le ossessioni a scegliere noi). A inizio trasmissione lo studio ha reso omaggio alle vittime della carneficina di Kabul con un lungo applauso (cui non si è unito il ministro Giulio Tremonti). Ma perché si applaude? Non sarebbe più giusto un minuto di raccoglimento? Non sarebbe più consona una partecipazione silenziosa al senso della tragedia?
Aldo Grasso 19 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:02:47 am » |
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CORTO CIRCUITO TRA POLITICA, INFORMAZIONE E SATIRA
Quella inutile poetica dello sciacquone
« Lunga vita alla Dandini e a Santoro che non fanno altro che portare voti al centrodestra». Temo che Silvio Berlusconi abbia ragione: lui conta i voti della gente, gli altri si esercitano sull’audience. Anzi, sono prigionieri della logica perversa della tv più corriva. Di questi tempi, l’Italia avrebbe bisogno di tutto, fuorché di lottare per la poetica dello sciacquone.
Eppure, il dibattito politico è stretto dentro sgangherate sceneggiate che ben poco hanno a che fare con l’informazione. È un corto circuito che non lascia intravedere vie di scampo, un serpente che si morde la coda spargendo veleno su chi assiste alla scena. Da una parte c’è la caricatura dell’informazione, per cui il giornalista Stefano Ziantoni, in compagnia di Susanna Petruni, si sente in dovere non solo di fare gli auguri al premier (cosa del tutto lecita) ma di esagerare nella piaggeria: «Presidente, torni quando vuole, questa è casa sua». Dall’altra c’è la caricatura della caricatura, per cui Serena Dandini, fino a ieri allegra vestale del luogocomunismo, manda in onda una modesta e imbarazzante sitcom sulle avventure galanti del premier: «Lost in Wc». Berlusconi alliscia il consenso, la Dandini s’illude di fare controinformazione.
L’altra sera, persino uno serioso come Gad Lerner si è occupato nel suo «Infedele » di veline mignotte: ha migliorato l’ascolto ma peggiorato la sua immagine, visibilmente a disagio in un terreno tra il pruriginoso e il moralistico. Stasera Michele Santoro rincara la dose e invita di nuovo in trasmissione Patrizia D’Addario, l’escort pugliese al centro delle feste a Palazzo Grazioli. Farà di nuovo il pieno di audience e si sentirà ancora più martire.
Ma la logica perversa della tv non risparmia nessuno. Il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha convocato i vertici della Rai perché, a suo dire, il programma «Anno zero» avrebbe violato il contratto di servizio. L’intervento di Scajola ha scatenato una campagna stampa per lo sciopero del canone Rai, dimenticando che il Premier è anche proprietario di Mediaset: nella canea, la D’Addario diventa più importante del conflitto d’interessi.
Non si risparmia nemmeno il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani (un passato da imprenditore tv con storiche performance di Maurizia Paradiso): sostiene che «Parla con me» della Dandini non rientra nei canoni del Servizio pubblico. E su Michele Santoro: «Non è solo un problema di pluralismo, è giornalismo militante che nulla ha che fare con il giornalismo obiettivo». Già, perché certi tg della Rai hanno a che fare con il giornalismo obiettivo? Tutte le forme di negoziazione che la tv ha inventato, le modalità di contatto, le strategie attraverso cui la tv dialoga con lo spettatore, lo chiama, lo coinvolge, servono — tutte quante — a sancire la verità della tv, non più la verità del reale. E in questo momento, gran parte del dibattito politico italiano è prigioniero di questo stravolgimento catodico.
Chi comanda il gioco è Berlusconi: la sinistra si limita a viverlo come una ossessione, ad attaccarlo, a suggellare in tv la propria subalternità.
Aldo Grasso
01 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:22:12 pm » |
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A Fil di rete
Peggio la stupidità o la faziosità?
Sentire discutere Monica Setta di economia mentre esprime giudizi di tale avventatezza da mettere i brividi
Fa più male la stupidità o la faziosità? Negli obblighi del contratto di servizio è prevista la tutela dall’idiozia? Il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola vede mai la tv o fa come quegli studiosi che scrivono di tv senza mai aver visto un programma? Leggendo la cronaca dell’incontro fra Scajola, Paolo Romani, Paolo Garimberti e Mauro Masi (quattro persone che, pur occupandosi di tv, credo ne vedano ben poca) mi sono chiesto: ma Scajola, che ha chiesto «chiarimenti» sui programmi di approfondimento della Rai, avrà mai visto un po’ di Raidue?
Mi riferisco a programmi come «I fatti vostri» di Michele Guardì, «Il fatto del giorno» con Monica Setta, «L’Italia sul due» con Lorena Bianchetti e Milo Infante, «Scalo 76 Talent» con Lucilla Agosti e Alessandro Rostagno e altri ancora. Immagino di no perché, ne sono sicuro, anche lui sarebbe tormentato dal dubbio: fa più male la stupidità o la faziosità? Sentire discutere Monica Setta di economia mentre esprime giudizi di tale avventatezza da mettere i brividi a qualunque persona sensata, o perdersi negli arzigogoli mentali dell’ex chierichetta Bianchetti, o sopportare la vista di un clone mal riuscito di Sgarbi sono cose che dovrebbero far riflettere sulla natura del Servizio pubblico. La faziosità è disdicevole ma la stupidità di certi programmi lascia il segno. Specie su un pubblico non particolarmente attrezzato come quello del pomeriggio. Se fossi l’imperiese Scajola convocherei il direttore di Raidue Massimo Liofredi e gli direi: «Scusi, ma lei che ha quella faccia un po’ così, chi l’ha nominata direttore e perché? Quali programmi ha fatto prima di diventare direttore? Perché la sua rete è così brutta e va così male? Guardi che i soldi che lei spende per Monica Setta sono quelli del canone». Non sono Scajola, guardo la tv e non posso convocare nessuno.
Aldo Grasso
10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:46:45 pm » |
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A fil di rete
Brachino e Capuozzo giornalismi diversi
Un toccante servizio sulla vita dei nostri soldati in Afghanistan, e il pedinamento di Mesiano
Due modi diversi di fare informazione, su Canale 5. Mercoledì sera (ore 23.30) il settimanale del Tg5 «Terra!» a cura di Toni Capuozzo e Sandro Provvisionato ha proposto un toccante servizio sulla vita di tutti i giorni dei nostri soldati che si trovano in missione in Afghanistan, a un mese dall’attentato avvenuto il 17 settembre e costato la vita a sei connazionali e a 24 civili.
CAPUOZZO - Da Kabul, Toni Capuozzo (il nostro giornalista preferito) e Anna Migotto hanno raccontato in maniera mirabile, senza retorica e sentimentalismi, la vita dei nostri soldati, sempre sospesa tra la tensione delle lunghe ore di missione, scandite dai turni di pattuglia diurni e notturni, e il cameratismo dei pochi momenti di tempo libero. Sono state proposte interviste ai militari, a gente del posto le cui famiglie sono state straziate dalle bombe dei talebani; abbiamo visto le immagini del più scalcagnato golf del mondo e di un altrettanto malandato zoo. Abbiamo provato soprattutto commozione nel ripercorrere tante storie che testimoniano la drammaticità della guerra. Capuozzo ha così concluso il lungo reportage: «Ciò che conta è aver fatto il tuo dovere e il ricordo di chi non torna, piaccia o meno al Times di Londra».
BRACHINO - Mercoledì verso le 10, nel corso di «Mattino cinque», Claudio Brachino aveva lanciato un servizio sul giudice civile milanese, Raimondo Mesiano, quello della sentenza a sfavore della Fininvest. Il filmato di Annalisa Spinoso voleva mostrare le stravaganze comportamentali del magistrato (che poi si risolvono in un camminata davanti a un negozio di barbiere) e si è concluso con un’osservazione sul colore dei calzini. Grande giornalismo d’inchiesta! Intanto, in studio, Claudio Brachino commentava le immagini con alcune capriole dialettiche tra le presunte stravaganze del giudice e la sua promozione a opera del Csm.
Aldo Grasso
17 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:41:24 am » |
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Rai, un po' di coraggio
Se solo la dirigenza Rai avesse un po’ di coraggio, stasera manderebbe in onda «Annozero», domani «Ballarò» e poi tutti i programmi che si occupano di politica. Per un sussulto di dignità, per orgoglio aziendale, per mettere la parola fine a una piccola tragedia che nasconde una grande farsa o viceversa. Da questa triste vicenda — dalla serrata dei talk alle intercettazioni—l’immagine della Rai esce ammaccata. Quella che fino a poco tempo fa veniva indicata come la prima industria culturale del Paese appare ora come una nave alla deriva.
Da qualunque punto la si osservi: da destra pensano che ci sia un serio problema di governance, che il direttore generale Mauro Masi sia incapace di farsi rispettare (per mettere la mordacchia a Michele Santoro, il dg si augura che il conduttore faccia la «pipì fuori dal vaso »); da sinistra chiedono le dimissioni di Masi per come ha gestito lo stop ai talk show e soprattutto per la rimozione del direttore di Raitre Paolo Ruffini. Ieri, i consiglieri di maggioranza del Cda della Rai hanno respinto la richiesta di dimissioni avanzata nei confronti del dg, ribadendo che «è immotivata e del tutto inaccettabile». Sarà, ma la figura di Masi ne esce fortemente indebolita. Nello stesso giorno in cui nega di aver ricevuto pressioni dal premier, appaiono intercettazioni (pubblicate anche dal «Giornale») che lo vedono a colloquio con Giancarlo Innocenzi (commissario dell’Agcom) per risolvere il «problema Santoro». Masi sostiene che la Rai resta leader negli ascolti ma basta controllare i dati Auditel nei giorni in cui non sono andati in onda «Annozero» e «Ballarò» e ci si accorge che, il giovedì, Raidue è passata da una media del 14% a una del 9,3% di share e che, il martedì, Raitre è passata da una media dell’ 11,5% al 6,22% di share. E poi il balletto di responsabilità tra la Vigilanza e il Cda della Rai sembra una sceneggiata al limite del ridicolo. Viene quasi da rimpiangere il lessico con cui la lottizzazione filtrava opinioni a servizio dei partiti cercando almeno di salvare le forme. Erano ipocriti, è vero, ma qui sono ipocriti e inetti. Il «si faccia subito chiarezza » lanciato ieri dal presidente Paolo Garimberti suona più come un grido di dolore che come un invito a lavare i panni sporchi. L’abuso metodico delle intercettazioni telefoniche e la loro sistematica diffusione a mezzo stampa sono insostenibili, ma ormai la frittata è fatta.
Se è vero, come dice qualcuno, che le conversazioni sono penalmente irrilevanti (anche se intervenire su un’Autorità di Garanzia è un atto di assoluta gravità), il ritratto che ne esce è sconfortante. Il premier è ossessionato da alcuni fantasmi e pur essendo un grande esperto di comunicazione dimentica che le trasmissioni di Santoro e Floris spostano pochissimi voti. Dimentica che, nell’epoca di Internet, l’informazione viaggia per mille altri canali. Dimentica che la separatezza fra controllori e controllati è l’abc della democrazia. L’unico che ne esce dignitosamente è il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò: non si è lasciato mettere i piedi in testa. Il resto è un paesaggio di rovine padronali.
Aldo Grasso
18 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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