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Autore Discussione: Massimo NAVA. -  (Letto 5511 volte)
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« inserito:: Giugno 11, 2013, 11:33:13 am »

NAPOLEONE, PARIGI E LA SOVRANITÀ

L'ultimo tabù dell'Europa


Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell'Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti - la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell'Unione.
Il rischio - oltre a quello dell'astensione - è che a Strasburgo sbarchino le forze dell'euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.


Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d'Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità - uno dei grandi tabù francesi - a condizione che l'Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.


Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all'integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell'impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.


È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l'Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all'Elba, quando il sogno era già tramontato.

Massimo Nava

8 giugno 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_08/ultimo-tabu-europa_f7b65058-cff4-11e2-9950-94356dc22e3e.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 19, 2013, 11:51:24 am »

NAPOLEONE, PARIGI E LA SOVRANITÀ

L'ultimo tabù dell'Europa

Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell'Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti - la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell'Unione.
Il rischio - oltre a quello dell'astensione - è che a Strasburgo sbarchino le forze dell'euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.


Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d'Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità - uno dei grandi tabù francesi - a condizione che l'Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.


Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all'integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell'impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.


È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l'Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all'Elba, quando il sogno era già tramontato.

Massimo Nava

8 giugno 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_08/ultimo-tabu-europa_f7b65058-cff4-11e2-9950-94356dc22e3e.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 24, 2013, 11:18:34 am »

Il voto tedesco

In Europa non è tempo di illusioni


I numeri dicono Merkel e forse grande coalizione. Ma le urne confermano soprattutto una certa idea che i tedeschi hanno maturato del loro Paese, del modello economico e sociale rappresentato dai due maggiori partiti e strenuamente difeso dalla Cancelliera, del posto che ritengono di meritare in Europa, senza avvertire il bisogno di una profonda riflessione sull'Europa di domani. I tedeschi hanno anche scacciato il fantasma dell'AfD, il partito antieuropeo, rimasto fuori dal Bundestag e da considerare, almeno per ora, un'espressione fisiologica e minoritaria di paure che serpeggiano in tutte le opinioni pubbliche continentali.

Il paradosso di queste elezioni è che gli europei hanno osservato con attese e apprensione la Germania, mentre i tedeschi si sono confrontati sulle migliori soluzioni delle faccende domestiche, per quanto proprio queste condizionino la salute dell'eurozona. È la vittoria di una Germania consapevole della propria forza, ma al tempo stesso low profile nella voglia di continuità e stabilità, perfettamente espressa dalla personalità di Angela Merkel. Il risultato non consente ai Paesi europei in difficoltà di coltivare molte illusioni di grandi svolte ideali e generosi strappi al dogma del rigore finanziario.

Anche perché trattasi di una forza tranquilla, normale, sempre meno condizionata da responsabilità storiche, che la Cdu straripante e la Spd in modestissima ripresa intendono impiegare, di concerto o separati, per affrontare problematiche nascoste, ma reali, dietro le cifre ufficiali del «miracolo» tedesco : in primo luogo, l'impoverimento di un terzo di cittadini - anziani, donne sole, immigrati, giovani dequalificati - feriti dalle riforme degli ultimi anni. È un nuovo proletariato che non vota più, che si separa dalla grande «middle class» appagata e che potrebbe prima o poi ridare fiato alle formazioni populiste e antieuropee. Lo storico dilemma «Germania europea o Europa tedesca» appare da oggi un po' usurato, nel senso che i timori di un'Europa egemonizzata dai tedeschi equivalgono le aspettative per una Germania più europea di quanto - a modo suo - già non lo sia. Dipende invece dagli europei, soprattutto da francesi e da italiani, dimostrare di volere finalmente mettere mano a profonde riforme strutturali e quindi convincere (o costringere) la Germania e la sua Cancelliera a un più avanzato percorso di integrazione comunitaria, finanziaria e politica, e di misure per la crescita.

Altrimenti, la direzione della Germania «low profile» - tendenzialmente neutrale, attore economico globale, politicamente stabile, disimpegnata nella politica estera continentale - rischia di diventare sempre più quella di una Grande Svizzera, ben espressa dal continuo divenire edilizio e culturale della sua capitale. Berlino, con le sue architetture moderne ed essenziali, vivace e mai ostentata, è il nuovo baricentro di un Paese che si integra sempre più con le economie dell'Est europeo e che guarda ai grandi mercati d'Oriente. È l'anima di una nuova generazione tedesca che ha fatto i conti con la Storia, che ha saldato quelli della riunificazione e che raccoglie i frutti dei sacrifici compiuti.
Naturalmente, la classe dirigente e i circoli economici sono ben consapevoli che la Germania sarebbe la prima beneficiaria di un'Europa più forte e della crescita europea e quindi di una politica finanziariamente meno restrittiva.

Questo è stato del resto il messaggio europeista della Spd. Ed è lecito aspettarsi che Angela Merkel, libera da condizionamenti elettorali, possa prendere decisioni e impegni istituzionali più a lungo termine, rilanci il rapporto indispensabile con Parigi, proponga una visione meno gestionale del Vecchio Continente. Ma il comune sentire dei tedeschi peserà anche dopo le elezioni, al di là delle formule di governo e delle scelte dei partiti. È abbastanza improbabile che SuperAngela voglia rendersi coraggiosamente impopolare, che scelga cioè di spendere la forza tranquilla del suo Paese per entrare nella galleria dei cancellieri che hanno fatto la Storia della Germania postbellica: la pace in Europa, la riunificazione, la moneta unica, le grandi riforme. I tedeschi sembrano dirci: «Abbiamo già dato».

23 settembre 2013 | 7:34
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Massimo Nava

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_23/europa-non-e-tempo-illusioni_a9161d90-240c-11e3-952d-4ca9735c4400.shtml
« Ultima modifica: Settembre 13, 2014, 06:32:49 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 28, 2013, 08:46:39 am »

L’ONDATA EUROPEA DEL POPULISMO
La malapianta del rancore

A pochi mesi dalle elezioni europee, il populismo è il solo movimento che raccoglie consenso. Nei ricchi Paesi del Nord come nel Sud impoverito, crescono formazioni con storie e anime diverse (estremismo di vario colore, localismo, nazionalismo, xenofobia) e un unico denominatore: rigetto dell’Europa, delle classi dirigenti, dei partiti tradizionali, del faticoso e talvolta incomprensibile funzionamento della democrazia.

Nessun Paese ne è immune: Norvegia, Olanda, Austria, Finlandia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Italia, fino alla Francia (in cui il Fronte Nazionale potrebbe diventare il primo partito) e, a ben vedere, anche la Germania. Il movimento antieuropeo Adf ha mancato l’ingresso al Bundestag, ma la sua ascesa ha condizionato la politica europea della Cancelliera Merkel. La Germania è però un’eccezione di altro genere sui cui dovrebbero riflettere tanti «rottamatori » e profeti di novità: largo consenso a un vecchio partito cristiano e a una sessantenne senza appeal alla terza legislatura.

La destabilizzazione globale della finanza, la moltiplicazione dei conflitti, le tensioni religiose hanno come effetto la disperazione dei più deboli, l’impoverimento delle classi medie, l’aumento dei flussi migratori, la crisi identitaria dei popoli, il ripiegamento su un’idea di nazione e di frontiere invalicabili, mentre circolano liberamente uomini, merci e capitali e declinano gli Stati nazionali.

Dei movimenti populisti conosciamo ormai cause e conseguenze, oltre alla capacità — spesso cinicamente intelligente—di cavalcare bisogni anche condivisibili, di fare come quei galli che cantano per un sole che non sorge mai. Ma stentiamo a individuare gli antidoti e a costruire politiche che potrebbero arginare il fenomeno, anziché nutrirlo.

Tucidide considerava la demagogia la malattia mortale della democrazia, ma demagogia e populismo non sono sinonimi. Problematiche che investono drammaticamente vasti strati di popolazione non dovrebbero rientrare in una definizione talvolta sprezzante, intellettualmente elitaria. Non è populismo la domanda di sicurezza, di partecipazione alle scelte nazionali ed europee, di giustizia fiscale, di controllo dei flussi migratori, di rispetto delle tradizioni e della cultura nazionale. Non è populismo la difesa dei propri interessi di cittadini rispetto a un modello europeo che ha tradito le attese.

Si rischia invece di alimentare il populismo se i governi scambiano il dialogo con il potere di blocco delle minoranze, se si ingannano i cittadini abolendo una tassa per riproporla con un altro nome, se si confondono i livelli di responsabilità, se si danno all’Europa colpe nazionali, se l’ordine pubblico diventa la sola bussola di una società per forza di cose multietnica. Quasi mai il confine fra le due opzioni è subito visibile, come dimostra la vicenda che in questi giorni scuote la Francia. Ma è urgente stabilirlo.

Espellere un’adolescente clandestina, facendola prelevare dalla polizia durante una gita scolastica, non è stata una dimostrazione di umanità. La decisione divide la sinistra. Il presidente Hollande dice che la ragazza può tornare, ma senza famiglia, con uno strappo allo Stato di diritto e al buon senso, mentre il ministro degli Interni socialista difende la linea della fermezza e i francesi l’approvano.

Come ha detto il politologo Offe, il populismo ha consenso, ma non saprebbe governare; le classi dirigenti e la tecnocrazia spesso governano senza consenso e senza coraggio. Il che non produce buona politica. Come ha detto il politologo

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
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Massimo Nava

http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_21/malapianta-rancore-597f1f8e-3a0f-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 13, 2014, 06:32:29 pm »

SCOZIA, CATALOGNA E GLI ALTRI
Il binocolo rovesciato
Ovunque, il diritto dei popoli all’autodeterminazione suscita attese, speranze, valutazioni di possibili tornaconti
Di Massimo Nava

Sarà per il simpatico folklore del kilt o per la flemma britannica o per la sacralità del voto democratico che il referendum in Scozia viene percepito dall’Europa come se lo si osservasse con un binocolo rovesciato: si guarda il particolare scozzese e si trascura lo scenario più ampio, che meriterebbe il grandangolo, essendo pieno di rischi e potenziali tragedie. Già non mancano le avvisaglie. Sfilano per l’indipendenza due milioni di catalani. Sono sempre d’attualità le tensioni fra valloni e fiamminghi in Belgio e sono latenti quelle dei Paesi Baschi.

Autodeterminazione
Ovunque, il diritto dei popoli all’autodeterminazione suscita attese, speranze, valutazioni di possibili tornaconti: cambia il modo di esaltarlo, rispettarlo o reprimerlo. Con le bombe della Nato, come in Kosovo; con un atto di forza, come in Crimea; con la guerra civile, come in Ucraina. E non si sa come questo diritto potrebbe esaltarsi - dopo la Scozia - fra le tante minoranze dell’Unione europea e dei Paesi dell’Est. Senza voler considerare, per inciso, che la crisi irachena ha legittimato il nazionalismo curdo. Comunque lo si valuti, il diritto dei popoli non è eticamente negoziabile e non può essere rispettato a geometria variabile, come se avesse legittimità a Londra, ma non a Mosca o a Belgrado o a Pechino.

Ogni situazione fa storia a sé e le aspirazioni indipendentiste non vanno confuse con le spinte populiste e antieuropee che attraversano l’Europa, dalla Francia all’Olanda, o con il proliferare di movimenti xenofobi. Ma c’è un denominatore comune, che è causa dello scenario generale: la diminuita legittimità degli Stati nazionali, la crisi del sistema di rappresentanza democratica, lo scarso riconoscimento dell’Europa come soggetto politico sovranazionale. Di conseguenza, prende corpo la dimensione della piccola patria, quasi come bene rifugio rispetto a politiche continentali lontane, incomprensibili, non rispondenti alle attese dei cittadini.

Francia
Certamente, il Fronte nazionale di Marine Le Pen - primo partito in Francia - come molti movimenti populisti non condivide nulla con la genesi e la storia gloriosa dell’indipendentismo scozzese, ma la divisione della Gran Bretagna non resterebbe senza conseguenze per l’Unione europea e per quanti pensano di uscirne. Basti considerare la legittimità e il probabile risultato antieuropeo del referendum sull’adesione di Londra. Ci si può cullare nella convinta potenzialità di una «Scozia europeista», ma è facile immaginare il veto della Spagna, del Belgio, della Grecia per il timore di ripercussioni in casa propria.

Se ci attendono effetto domino e una sorta di disgregazione del Vecchio Continente, stupiscono il distacco e il silenzio dell’Europa, quasi si trattasse di ingerenza negli affari interni della Gran Bretagna e non di questione di politica estera dell’Unione nel senso più alto. Problemi più gravi, come la crisi ucraina o l’instabilità in Medio Oriente, non giustificano la sottovalutazione di un futuro ravvicinato. Stupiscono i silenzi, ma in parte si spiegano con altre emergenze nelle maggiori capitali. Londra non può che rispettare il risultato, sperando che il carisma della Regina compia il miracolo. Parigi sta toccando il fondo di una crisi economica e politica che rischia di diventare anche istituzionale e che riduce peso specifico e margini d’iniziativa. Berlino resta chiusa nella miopia dei dati contabili, come se le politiche finanziarie di questi anni non fossero causa dei sentimenti antieuropei.
Così, il 18 settembre la contagiosa allegria dei variopinti kilt potrebbe svelare il colore fosco della «balcanizzazione». Comunque vada, nessun divorzio è indolore.

13 settembre 2014 | 08:28
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cultura/14_settembre_13/binocolo-rovesciato-a0ac6a44-3b06-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:24:30 pm »

SCOZIA, CATALOGNA E GLI ALTRI
Il binocolo rovesciato
Ovunque, il diritto dei popoli all’autodeterminazione suscita attese, speranze, valutazioni di possibili tornaconti

Di Massimo Nava

Sarà per il simpatico folklore del kilt o per la flemma britannica o per la sacralità del voto democratico che il referendum in Scozia viene percepito dall’Europa come se lo si osservasse con un binocolo rovesciato: si guarda il particolare scozzese e si trascura lo scenario più ampio, che meriterebbe il grandangolo, essendo pieno di rischi e potenziali tragedie. Già non mancano le avvisaglie. Sfilano per l’indipendenza due milioni di catalani. Sono sempre d’attualità le tensioni fra valloni e fiamminghi in Belgio e sono latenti quelle dei Paesi Baschi.

Autodeterminazione
Ovunque, il diritto dei popoli all’autodeterminazione suscita attese, speranze, valutazioni di possibili tornaconti: cambia il modo di esaltarlo, rispettarlo o reprimerlo. Con le bombe della Nato, come in Kosovo; con un atto di forza, come in Crimea; con la guerra civile, come in Ucraina. E non si sa come questo diritto potrebbe esaltarsi - dopo la Scozia - fra le tante minoranze dell’Unione europea e dei Paesi dell’Est. Senza voler considerare, per inciso, che la crisi irachena ha legittimato il nazionalismo curdo. Comunque lo si valuti, il diritto dei popoli non è eticamente negoziabile e non può essere rispettato a geometria variabile, come se avesse legittimità a Londra, ma non a Mosca o a Belgrado o a Pechino.

Ogni situazione fa storia a sé e le aspirazioni indipendentiste non vanno confuse con le spinte populiste e antieuropee che attraversano l’Europa, dalla Francia all’Olanda, o con il proliferare di movimenti xenofobi. Ma c’è un denominatore comune, che è causa dello scenario generale: la diminuita legittimità degli Stati nazionali, la crisi del sistema di rappresentanza democratica, lo scarso riconoscimento dell’Europa come soggetto politico sovranazionale. Di conseguenza, prende corpo la dimensione della piccola patria, quasi come bene rifugio rispetto a politiche continentali lontane, incomprensibili, non rispondenti alle attese dei cittadini.

Francia
Certamente, il Fronte nazionale di Marine Le Pen - primo partito in Francia - come molti movimenti populisti non condivide nulla con la genesi e la storia gloriosa dell’indipendentismo scozzese, ma la divisione della Gran Bretagna non resterebbe senza conseguenze per l’Unione europea e per quanti pensano di uscirne. Basti considerare la legittimità e il probabile risultato antieuropeo del referendum sull’adesione di Londra. Ci si può cullare nella convinta potenzialità di una «Scozia europeista», ma è facile immaginare il veto della Spagna, del Belgio, della Grecia per il timore di ripercussioni in casa propria.

Se ci attendono effetto domino e una sorta di disgregazione del Vecchio Continente, stupiscono il distacco e il silenzio dell’Europa, quasi si trattasse di ingerenza negli affari interni della Gran Bretagna e non di questione di politica estera dell’Unione nel senso più alto. Problemi più gravi, come la crisi ucraina o l’instabilità in Medio Oriente, non giustificano la sottovalutazione di un futuro ravvicinato. Stupiscono i silenzi, ma in parte si spiegano con altre emergenze nelle maggiori capitali. Londra non può che rispettare il risultato, sperando che il carisma della Regina compia il miracolo. Parigi sta toccando il fondo di una crisi economica e politica che rischia di diventare anche istituzionale e che riduce peso specifico e margini d’iniziativa. Berlino resta chiusa nella miopia dei dati contabili, come se le politiche finanziarie di questi anni non fossero causa dei sentimenti antieuropei.
Così, il 18 settembre la contagiosa allegria dei variopinti kilt potrebbe svelare il colore fosco della «balcanizzazione». Comunque vada, nessun divorzio è indolore.

13 settembre 2014 | 08:28
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_settembre_13/binocolo-rovesciato-a0ac6a44-3b06-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:47:01 pm »

Su due fronti
La solitudine francese
La Francia è diventata interventista in un pantano in cui l’America di Obama ha tentato di sfilarsi e che dal Medio Oriente è tracimato nell’Africa subsahariana

Di Massimo Nava

Sembra molto lontano il tempo in cui il presidente Jacques Chirac diceva forte il suo no alla guerra americana in Iraq. Allora, la Francia fu un riferimento per quanti nel mondo pensavano - e pensano - alla guerra come a una soluzione estrema.
Il nuovo attacco terroristico in Mali, dopo la carneficina di Parigi, ci racconta quanto le cose siano cambiate e in peggio. Per l’Europa che vive il suo 11 settembre e soprattutto per la Francia, invischiata in un’offensiva a tutto campo, con alleati riluttanti o di convenienza e senza la potenza di fuoco degli Usa, arma peraltro spuntata che negli anni ha destabilizzato lo scenario e moltiplicato i terroristi d’esportazione. La Francia è diventata interventista, in un pantano da cui l’America di Obama ha tentato di sfilarsi.

Un pantano che dal Medio Oriente è tracimato nell’Africa subsahariana e che ha colpito il cuore dell’Europa. Ma l’interventismo francese non nasce oggi, con la comprensibile risposta muscolare nel Daesh. È la percezione collettiva dei nemici interni ed esterni ad avere provocato un cambiamento di rotta. Ieri con Nicolas Sarkozy, oggi con François Hollande: rivali nella corsa all’Eliseo, ma entrambi risoluti nelle decisioni estreme. Di fatto, la Francia combatte su due fronti. Quello interno delle periferie, dell’«apartheid» territoriale, etnica, culturale e religiosa che ha prodotto proselitismo radicale e terroristi pendolari e ha favorito la crescita del Front National, fattore di ricatto del quadro politico, anche nel rapporto con l’Europa. E quello esterno delle ex colonie africane e dello scacchiere mediorientale, di un mondo arabo e musulmano che le è diventato ostile e che influenza le comunità che vivono in Francia.

Dal lungimirante progetto di Unione per il Mediterraneo (quando Assad era invitato d’onore a Parigi assieme a Gheddafi) si è passati all’appoggio ondivago alle primavere arabe, al bombardamento della Libia, alle operazioni quasi solitarie nell’Africa subsahariana dove la crisi libica è sfociata, travolgendo fragili strutture statali e delicati equilibri religiosi ed etnici. In questo quadro, sono cambiate anche posizioni e alleanze, non senza qualche disinvoltura e incertezza. Oggi la Francia bombarda il Califfato a fianco della Russia e in sostanza puntella il regime di Assad che fino a ieri voleva abbattere. Intanto, Hollande vola a Washington per sollecitare l’impegno americano e spera nel sostegno dell’Europa, a oggi improbabile sul piano militare.

Sarebbe importante, di fronte all’offensiva terroristica, avanzare sulla strada della difesa comune, di una maggiore integrazione, di accordi concreti per la sicurezza interna. L’Europa ha mezzi economici e tecnologici, tra l’altro con la possibilità di sforare il patto di Stabilità. Manca una sostanziale volontà politica. La Germania resta refrattaria a operazioni militari. La Gran Bretagna allenta i legami con l’Europa. La stessa Francia non ha ancora scelto fra concertazione imposta dal suo status di media potenza e ambizioni interventiste dettate anche da interessi strategici ed ex coloniali. L’Italia sembra più convinta della necessità del concerto europeo e di soluzioni globali che convincano tutti gli attori a fare un passo indietro. Ma non basta. L’attacco terroristico a Parigi ha provocato una commovente ondata di solidarietà, ma è bene non coltivare illusioni cantando la Marsigliese.

21 novembre 2015 (modifica il 21 novembre 2015 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_21/solitudine-francese-dbdaae4e-9016-11e5-ac55-c4604cf0fb92.shtml
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