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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61167 volte)
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« inserito:: Settembre 23, 2008, 10:25:10 am »

23/9/2008
 
Quei fragili alleati
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI

 
Non sono ancora chiari i moventi del rapimento di 11 turisti occidentali avvenuto ieri nell’Alto Egitto. Fonti ufficiali del governo lo hanno classificato come un atto di banditismo comune e non di terrorismo. Questo lascia sperare in una felice conclusione della vicenda che vede coinvolti anche cinque nostri connazionali. D’altra parte, in anni non lontani, proprio in Egitto, i turisti stranieri erano stati oggetto a più riprese di una campagna mirata da parte di formazioni che si richiamavano ad Al Qaeda e, come il caso yemenita insegna, il confine tra banditismo e terrorismo è spesso labile, soprattutto laddove le istituzioni politiche statali faticano a consolidarsi e a sviluppare efficaci canali di rappresentanza.

Per lunghi anni quello egiziano è stato un regime sostanzialmente dittatoriale, ai cui leader, più o meno carismatici, era affidata la mediazione tra le istituzioni e la società. Pur così diversi tra loro, Nasser, Sadat, Mubarak erano però accomunati da questa funzione di «supplenza» rispetto alla debolezza delle istituzioni. Questa debolezza, sia in termini di accessibilità sia in termini di efficacia, non ha però impedito che una burocrazia corrotta e famelica si consolidasse e appropriasse delle cariche pubbliche.

Producendo un duplice effetto negativo: da un lato, l’aumento del malcontento e il peggioramento delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione; dall’altro, la progressiva fuga del dibattito e della progettualità politica dai canali formali a quelli informali, quando non clandestini.

È a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 che i Paesi occidentali hanno preso atto dell’insostenibilità della situazione e, preoccupati che un crollo violento e repentino del regime potesse rendere l’Egitto facile preda del messaggio jihadista, hanno iniziato a fare pressioni su Mubarak affinché procedesse alla graduale apertura e liberalizzazione delle istituzioni. Detto per inciso, è la stessa politica attuata nei confronti del Pakistan di Musharraf: cioè dei due Stati-cerniera della lotta contro la proliferazione dell’islamismo radicale. Com’è ovvio, se l’Occidente dovesse «perdere» il Pakistan, diventerebbe impossibile sconfiggere i taleban in Afghanistan. Ma un Pakistan che dovesse cadere preda di una sindrome afghana, con l’autorità del governo centrale ridotta all’area della capitale, costringerebbe l’India ad accantonare qualunque velleità di «bilanciamento» nei confronti della Cina, privando l’equilibrio asiatico (e quello globale) di un giocatore fondamentale. Altrettanto vitale è il ruolo dell’Egitto, non solo nei confronti dell’endemicamente instabile «piccolo Medio Oriente», ma anche verso quel continente africano che dal Corno d’Africa al Darfur, all’intera fascia sub-sahariana è sempre più campo d’azione per l’islamismo più radicale e violento.

In entrambi questi Paesi, sono innanzitutto le preoccupazioni geopolitiche a motivare i governi occidentali verso un’opera di State building che non può aggirare la questione di una maggiore accessibilità e responsabilità delle istituzioni politiche nei confronti dei cittadini. Nel lungo periodo solo Stati «forti» (autorevoli e non autoritari) possono riuscire a rintuzzare l’offensiva politica dell’islamismo radicale. In questo senso bisognerebbe agevolare la transizione verso istituzioni più democratiche e incalzare i regimi a perseguire la via delle riforme. Nel breve periodo, occorre però sostenere i governi nostri alleati, affinché il loro tracollo non renda impossibile conseguire l’obiettivo «strategico». È quindi necessario appoggiarli, con il rischio che tale sostegno allontani la soluzione del problema e alimenti il consenso raccolto da quelli che vogliamo combattere. Si tratta, per dir così, di sconfiggere la malattia senza uccidere il paziente. Negli ultimi tempi la consapevolezza della obbligatorietà di questa rotta sembra si sia un po’ allentata. Forse questo rapimento, che speriamo si risolva per il meglio, è un segnale che faremmo bene a cogliere prima che anche in Egitto banditismo e terrorismo si saldino, fino a diventar sinonimi.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 16, 2008, 10:08:09 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 30, 2008, 12:00:23 pm »

30/9/2008
 
Austria, il perdente vota nero
 

 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Domenica, quasi un elettore austriaco su tre ha votato per uno dei due partiti della destra radicale. Se Haider e il suo ex delfino Strache non avessero corso separatamente, oggi la destra esprimerebbe il partito di maggioranza relativa e il candidato cancelliere. L’Austria torna così a «turbare» l’Europa, come già nel 1999. Anche oggi, c’è da scommetterlo, si chiederà a gran voce un «cordone sanitario» nei confronti di qualunque coalizione associasse uno dei due partiti di destra.

D’altra parte, se né Strache né Haider possono essere fatti passare per emuli di Hitler, però Fpoe e Bzoe (pur non essendo partiti neonazisti) si collocano al di fuori di quella convenzione antifascista che ha segnato la rinascita della democrazia austriaca dopo la guerra.

Ma lasciamo da parte i futuri equilibri viennesi e concentriamoci invece sulle possibili ragioni del successo di Fpoe e Bzoe. Anton Pelinka, politologo austriaco studioso delle destre, sostiene che gli elettori della destra sono «i perdenti della modernizzazione», cioè quei ceti che si sentono maggiormente minacciati dalle conseguenze della globalizzazione. Sembra un ragionamento ampiamente condivisibile, che però merita qualche integrazione, perché oltre ai «maschi, operai» di cui parla Pelinka e alle frange di nostalgici fascistoidi, sembra che per la destra abbiano votato anche molti «cittadini di prima generazione». Cioè quegli immigrati integrati nella società e nell’economia austriaca che temono di perdere i diritti appena conquistati, e che vedono nei nuovi arrivati una minaccia per il proprio status e dei rivali con i quali dover spartire le sempre più magre risorse dello Stato sociale. Il dato significativo è che, per battere questa «concorrenza», questi nuovi austriaci sono disposti a votare partiti che vagheggiano una vecchia Austria mai davvero esistita. Implicitamente essi pongono la questione di quali sono gli «ultimi» politicamente rilevanti. Cioè cercano di farsi scudo della cittadinanza appena acquisita e di farla valere nei confronti di chi non è cittadino. E per difendere questa posizione Haider e compagni appaiono più «affidabili» dei socialisti e persino dei cattolici, «troppo» cosmopoliti o umanitari.

L’elezione che ha visto il trionfo della destra è la prima alla quale sono stati ammessi i sedicenni, e anche il voto giovanile pare abbia premiato la destra. Sarebbe riduttivo liquidare il tutto con la voglia di cambiamento delle giovani generazioni. Appare più proficuo cominciare a pensare ai giovani, in Austria e in Europa, come a una «minoranza» che sa di esserlo e sa di essere discriminata in quanto tale. Se gli operai cinquantenni e gli immigrati integrati temono di perdere i propri «privilegi», i giovani sanno di non averne e basta. Entrano tardi e a condizioni peggiori sul mercato del lavoro e però sostengono un sistema pensionistico che li discrimina platealmente. Ai loro occhi, la grande coalizione non è che la manifestazione più odiosa ed evidente di quel patto consociativo tra i partiti (socialista e popolare) e i sindacati che hanno costruito uno Stato sociale dai cui benefici e dalle cui protezioni si sentono esclusi.

Va infine osservato che anche l’antieuropeismo ha probabilmente portato consensi alla destra (e guarda caso la Spoe di Faymann, che ha perso assai meno voti della Oevp, è stata molto critica verso la Ue). Il disamore verso l’Unione ha tante spiegazioni note. Ne aggiungerei un’altra. Abbiamo sempre sostenuto, e con ragione, che l’unificazione è la sola risposta razionale per tentare di governare gli effetti della globalizzazione. Una parte consistente dell’elettorato inizia invece a vedere europeizzazione e globalizzazione come due fenomeni che agiscono di concerto, perché lo privano congiuntamente della capacità di decidere del proprio futuro e svuotano sia la sovranità sia i processi democratici nazionali. Se non poniamo in fretta riparo a questa percezione, dovremo vedere crescere sempre più un sentimento antieuropeo nei nostri Paesi, con le conseguenze catastrofiche che si possono facilmente immaginare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:33:47 pm »

20/10/2008
 
Un passo oltre la crisi
 
VITTORIO EMANUELE PARSI

 
Regole per gestire l’emergenza, ma non l’emergenza come regola, nella consapevolezza che il vizio, o la malattia, dell’Italia, e non certo da oggi, consiste nel trascinarsi nel presente quel tanto che basta a far perdere di vista il futuro. I tempi di crisi possono richiedere una «costituzione per l’emergenza», per parafrasare il titolo del bel volume di Bruce Hackermann, dedicato ai rapporti tra sicurezza e libertà negli anni della lotta al terrorismo. E però proprio la draconiana correzione di rotta, che la gravità degli eventi può persino arrivare a imporre, non deve far scordare che le misure imprescindibili per superare il rischio di naufragio non possono trasformarsi in provvedimenti permanenti.

Se è saggio ridurre la velatura durante una burrasca, guai a quel capitano che, rinunciando a decidere la rotta, si accontentasse del piccolo cabotaggio, «dimenticandosi» di tornare a liberare le vele non appena le condizioni lo consentissero nuovamente.

Il dibattito politico italiano sembra oggi incagliato nelle pregiudiziali ideologiche e, ancor di più, nei rispettivi catastrofismi, che sembrano decisamente inutili e persino irritanti, soprattutto quando l’opinione pubblica chiede piuttosto di poter capire le dimensioni reali della crisi presente e di ricevere gli elementi necessari ad alimentare una ragionevole fiducia nel futuro. Del resto, proprio la gravità della situazione ci spinge alla ricerca di criteri che consentano di giudicare la bontà delle decisioni a prescindere dal colore politico di chi le attua o le propone. Uno, molto semplice e per questo efficace, si ritrova nell’ampia intervista che Luca Cordero di Montezemolo ha rilasciato ieri alla Stampa. Sono giuste quelle scelte che non precludono un futuro all’Italia. Sono sbagliate quelle posizioni che invece di «trasformare» le paure dei cittadini si limitano a cavalcarle. In questo senso è importante tenere distinti il piano dell’emergenza temporanea da quello della struttura permanente. Il capitalismo non sta morendo, e ciò che i cittadini (in quanto imprenditori e in quanto lavoratori) si aspettano nell’immediato dalle autorità politiche non è un nuovo colbertismo o il ritorno all’intervento pubblico nell’economia, ma regole efficaci e semplici per consentire un gioco più corretto, ampliato a più attori (anche stranieri), e un sostegno «eccezionale» fino a quando le normali condizioni di mercato non saranno ristabilite. Nel lungo periodo, sempre i medesimi soggetti (imprenditori e lavoratori) hanno bisogno di quelle misure necessarie a far riprendere il largo all’economia italiana, orientate a favorire flessibilità, mobilità sociale, alleggerimento di massa della pressione fiscale e concorrenza.

Evidentemente, a governo e opposizione spettano responsabilità diverse, e i giudizi positivi che l’esecutivo raccoglie, non solo nei sondaggi d’opinione, sono il frutto della capacità di aver cominciato a prendere decisioni per troppo tempo rinviate. Oltre ai provvedimenti legati alla contingenza finanziaria ed economica, è un settore strategico come l’istruzione quello che costituirà il banco di prova della volontà riformatrice del governo Berlusconi. L’istruzione è infatti il campo in cui meglio si coglie lo snodo delicato tra il presente e il futuro di una società: e alla politica spetta la responsabilità di farci capire se intende pensare l’istruzione come risorsa a disposizione per il futuro della società o come asset utile per alimentare nel presente i propri bacini elettorali.

Su questo snodo la sinistra italiana appare oggi in drammatico ritardo. Proprio nel dibattito sulla riforma Gelmini l’operato dell’opposizione desta più di una perplessità. Un refrain ricorrente, in Italia ma anche altrove, accusa la destra di cavalcare le paure per trarne sostegno elettorale (quella degli immigrati, quella della criminalità...). Difficile non constatare come, sulla riforma della scuola, non sia invece la sinistra ad agitare la paura del cambiamento e gli spettri di una «rapina del futuro», mentre nel frattempo si arrocca in una difesa miope del presente e dei presunti vantaggi che spera di ricavare da una politica «oggettivamente conservatrice». Magari ci sbaglieremo, ma se sulla scuola continuerà in questa strategia, l’unica a vedersi scippata del proprio futuro dalla riforma Gelmini sarà la sinistra italiana.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 22, 2008, 12:14:44 pm »

22/10/2008
 
Torna l'asse Usa-Europa
 
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Il futuro presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente il primo inquilino della Casa Bianca che si troverà a dover affrontare un problema inedito per la storia americana dai tempi del presidente Theodore Roosevelt.

Da quando cioè gli Usa conclusero la stagione del loro splendido isolamento e si tuffarono nel mondo. Si tratta del tramonto della convinzione che la diffusione dell’economia di mercato e del capitalismo avrebbe finito per avvantaggiare innanzitutto gli Stati Uniti, cioè quella che ormai era già diventata l’economia più grande e più avanzata del pianeta. Questa idea, assai più della diffusione della democrazia - che pure ne rappresenta un corollario importante - ha rappresentato la vera idea-guida della politica di Washington nel mondo nel corso del «secolo americano». Saranno Woodrow Wilson e Franklyn Delano Roosevelt a sviluppare questo corollario della politica estera americana e a forgiare la coppia concettuale «democrazia e mercato», che si rivelerà fondamentale per sconfiggere l’Unione Sovietica nella lunga Guerra fredda. Nel corso della secolare vicenda che li ha visti protagonisti della politica internazionale, gli Stati Uniti hanno sovente tollerato di avere come alleati - ma sarebbe più preciso definirli «clienti», nell’accezione latina del termine - regimi che in nessun modo sarebbe possibile definire democratici; ma non hanno mai esteso la loro protezione a sistemi che non fossero, dal punto di vista economico, capitalisti.

Dopo il 1989, si spiega così la politica clintoniana, tutta tesa a favorire il processo di globalizzazione, ritenuto il volano capace di innescare un circolo virtuoso di ordine e sicurezza per il mondo attraverso la diffusione dell’economia di mercato, l’accelerazione dell’interdipendenza e la moltiplicazione dei sistemi democratici. Al di là dei suoi meriti, e anche oltre le sue indubbie qualità, Bill Clinton si trovò nella fortunata condizione di gestire con abilità e coraggio un successo costruito da altri prima di lui. Fu un momento unico, in cui gli Stati Uniti erano il sole di un sistema copernicano (in termini di potenza), ma anche il mozzo della ruota (rispetto al processo di globalizzazione).

Per un lungo momento, quello che Theodore Roosevelt aveva iniziato sembrò poter essere portato a compimento. La grande novità che però si stava producendo sotto traccia, e che sarebbe esplosa con le conseguenze dell’11 settembre, era non tanto e non solo il rafforzarsi o il ritornare di altre grandi potenze (la Cina, la Russia), ma il fatto che grandi porzioni di quel sistema integrato di economie di mercato creato grazie al successo americano nella Guerra fredda, non dipendevano per la loro sicurezza dalla protezione americana. Detto con semplicità, il trionfo del capitalismo e dell’economia di mercato non significava più, ipso facto, né un incremento della quota di ricchezza, né un aumento del potere economico e politico americani. Tra i Paesi che hanno segnato la maggior crescita economica nel principio del nuovo millennio, i cosiddetti BRICs, Cina e Russia sono infatti indipendenti (quando non rivali degli Stati Uniti) per quel che concerne le proprie concezioni e le rispettive politiche di sicurezza, mentre India e Brasile non vedono necessariamente nel mantenimento di una posizione di leadership globale degli Stati Uniti la principale garanzia per la propria sicurezza politico-militare.

Per nulla paradossalmente, è l’Europa a dipendere ancora per la propria sicurezza dalla continuità della leadership americana. Il ritorno assertivo e muscolare sulla scena internazionale di una Russia che sembra irreversibilmente inclinare verso una «demokratizatsiya» dai tratti marcatamente illiberali da un lato, e la crescita continua di una Cina semplicemente «fuori scala» per un’Europa persino più unita dell’attuale, dovrebbero consigliare agli europei di giocare la carta della «debolezza americana» nella direzione della ricerca di una partnership più paritaria, ma non per questo aleatoria. È proprio adesso che un’Europa consapevole del proprio valore insostituibile come alleato democratico della democratica America, e forte del temporaneo vantaggio della sua più lungimirante strategia per uscire dalla crisi finanziaria, dovrebbe rilanciare l’intesa con gli Stati Uniti, nella consapevolezza che (come ha osservato Angelo Panebianco dalle colonne del Corriere della Sera), il tramonto della leadership globale degli Stati Uniti potrebbe rendere il mondo meno «pacifico», meno «libero» e più inospitale per le democrazie. Quanto questa corretta previsione potrà essere smentita dipenderà anche dalla determinazione che i sistemi fondati sulla democrazia e sul mercato, per quanto diversamente essi possano essere declinati, sapranno dimostrare nel cercare la difficile via della collaborazione, ricordando che la relazione speciale tra Europa ed America non è fondata principalmente su periodici interessi comuni, ma su un tessuto permanente di valori condivisi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 29, 2008, 11:02:25 pm »

29/10/2008 - LE ELEZIONI NEGLI STATI UNITI
 
Traiano for president
 
 VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Al culmine di una fase di crisi molto acuta del principato, nel 98 d.C. Marco Ulpio Traiano divenne imperatore. Primo non italico ad ascendere al trono di Augusto, Traiano fu l’ultimo imperatore che estese i confini di Roma e si dimostrò capace di interpretare e rinvigorire la sua missione universale meglio di quanto non avessero e non avrebbero fatto altri imperatori prima e dopo di lui.

Adottato dal predecessore Nerva, confermato nella sua carica dal Senato e acclamato dal popolo di Roma, Traiano rappresentò la prova vivente della capacità dell’élite romana di cooptare tra le sue file anche elementi esterni al suo esclusivo entourage, purché ritenuti di valore e utili alla causa imperiale.

Martedì prossimo, forse, gli americani eleggeranno Barack Obama alla carica politica più importante del mondo contemporaneo. Se questo dovesse accadere, quasi duemila anni dopo l’acclamazione di Traiano, gli Stati Uniti avranno dato oggettivamente prova di una capacità cruciale e insieme rarissima per ogni sistema politico: quella di rinnovarsi nella continuità. E, scommettendo sulle qualità presunte di questo moderno «provinciale», l’America potrà forse rilanciare la missione e la capacità attrattiva dell’«impero della libertà», per riprendere la fortunata espressione di Thomas Jefferson, proprio quando quel ciclo sembrava volgere al termine.

I quasi quarant’anni occupati dal regno di Traiano e da quello del suo successore Adriano fornirono all’impero nuovo slancio, concorrendo a prolungare la sua straordinaria parabola. Traiano non era certo un «uomo della strada» e, pur se proveniente dalla provincia Baetica, non era uno straniero e neppure l’esponente di una cultura politica «antiestablishment». Tutt’altro; era stato allevato nel rispetto e nel mito delle istituzioni romane e imperiali, a cominciare dalle legioni, il cui comando costituiva un fattore di legittimazione sempre più decisivo per chi aspirasse alla porpora. Anche Barack Obama, per quanto sia un outsider rispetto ai circoli politici di Washington, non è certo «Joe l’idraulico», oltre a essere un uomo cresciuto nella fede nei principi e nei valori dell’America. È un giovane senatore degli Stati Uniti, laureato ad Harvard, che ha saputo sfruttare benissimo le risorse che il sistema mette a disposizione dei migliori. La sua formazione «pubblica» non è avvenuta in circoli che contestavano la cultura politica degli Usa, bensì all’interno di un ambiente che voleva invece compierla fino in fondo.

Come spesso è stato giustamente ripetuto in questi mesi, Barack Obama è un simbolo, è la rappresentazione della perdurante vitalità del sogno americano, del rispetto per il talento che la «terra delle opportunità» offre ai suoi figli, naturali o adottivi che siano. Potremmo spingerci un po’ oltre, fino ad affermare che Obama è un «nero astratto», e proprio in quanto tale più facilmente votabile per tanti americani bianchi del Midwest, che avrebbero molte difficoltà ad eleggere un afroamericano non alla presidenza, ma al consiglio di zona. Obama non è cioè il tipico esponente della comunità politica afroamericana, passato per una fase di opposizione talvolta radicale al sistema e poi forgiato nella lotta per i diritti civili, come Jesse Jackson. È il figlio mulatto di un nero africano e di un’americana non di colore, allevato dalla famiglia materna di bianchi progressisti. Per i neri americani, però, Obama è già diventato uno di loro, per aver riportato sotto i riflettori questioni che - a cominciare dalla povertà, dalla salute, e dalle famiglie monoparentali - riguardano la comunità nera più delle altre. Non si tratta di un’ambiguità nel posizionamento o nella stessa identità di questo giovane senatore. Ma di una componente di «astrattezza» che tutti i simboli devono possedere, in modo che tanti, anche molto diversi tra loro, vi si possano rispecchiare o identificare. E, se sarà eletto, non possiamo che augurare, a lui ma anche a noi, che l’America abbia visto bene, e che Barack Obama abbia davvero quelle qualità sulle quali l’America ha scommesso.

 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 04, 2008, 06:10:23 pm »

4/11/2008
 
Quelli di Barack
 

VITTORIO EMANUELE PARSI

 
E’una sorta di fredda e decisa determinazione quella che oggi contribuirà a portare un numero record di americani alle urne per eleggere il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Non si tratta di frenesia, nessuno parla di «salvare il Paese», non ci sono cortei dai pretesi numeri milionari e tanto meno manifestazioni violente o anche solo vagamente irrispettose della libertà altrui.

Ma la sensazione è che una parte consistente di americani, specialmente quelli dalle convinzioni politiche meno partigiane, capaci di votare per i repubblicani o per i democratici a seconda delle circostanze, desiderino un segnale forte di cambiamento. Davvero al di là dei suoi demeriti e dei suoi errori (come la scelta di Palin come vicepresidente), McCain pagherà probabilmente questo sentimento impetuoso, questa «forza tranquilla», per ricordare l’efficace slogan con cui François Mitterrand vinse il suo primo mandato presidenziale, convincendo milioni di francesi non certo socialisti a votare per lui. Analogamente al di là delle sue qualità e delle mosse indovinate, se Obama diverrà il primo presidente «non bianco» nella storia degli Stati Uniti, dovrà ringraziare anche la rabbia fredda che milioni di elettori hanno maturato nei confronti di George W. Bush e dell’establishment repubblicano.

Ci sono storie che aiutano a capire meglio le cose di tanti discorsi. Joe Grieco è un professore di Relazioni Internazionali alla Duke University, nel North Carolina, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti. Nessuno è più lontano di lui dalla figura di un attivista di partito. Eppure questo tranquillo professore universitario di mezza età, che alle ultime due elezioni ha votato per George W. Bush, è uno dei tanti volontari che, come sua moglie Pat, hanno dedicato parte del loro tempo a sostegno della candidatura di Obama, e per la prima volta nella loro vita hanno finanziato una campagna elettorale. Più che un democratico, Joe Grieco è un «obamaiano», convinto delle qualità del candidato democratico e conquistato dalla sua notevole capacità oratoria, che non esita a paragonare a quella di «Reagan, Blair o persino Churchill».

Certo, la comunità accademica è sempre stata prevalentemente liberal, ma non tutti sono sostenitori così attivi di Obama, come Joe Grieco. Mike Mastanduno è vicepreside della Facoltà di Social Sciences al Dartmouth College, nel New Hamsphire, dove insegna American Foreign Policy. Dartmouth fa parte della Ivy League, che raccoglie le università in cui hanno studiato e studiano le élite di Boston e di New York, quelle che occupano le posizioni più importanti da Washington a Wall Street, e sottolinea come, questa volta, la voglia di cambiamento travalichi il posizionamento politico tradizionale di tanti elettori. «Sarebbe un pasticcio, se Obama non ce la dovesse fare: anche se questo avvenisse in maniera limpida, senza che si ripetesse l’imbarazzante spettacolo del 2000. Troppi americani perderebbero la fiducia che, quando le cose non vanno, gli elettori hanno sempre la possibilità di cambiarle e di mandare a casa chi ritengono responsabile della situazione».

A pensarci bene, questa è una delle poche novità positive che hanno caratterizzato gli anni della nostra travagliata e incompiuta «seconda repubblica», in cui, con una sola eccezione, gli italiani hanno sempre «licenziato» le maggioranze in carica per dare alle ex minoranze la chance di dimostrare che cosa sapevano fare.

Barack Obama è certamente consapevole di quanto la volontà di voltare pagina abbia giocato un ruolo determinante nel gonfiare le vele della sua campagna. E sa anche che, qualora fosse eletto (come tutti i sondaggi lasciano prevedere), la sensazione del cambiamento e della discontinuità sarà quella prevalente per qualche settimana, al massimo per qualche mese. Poi il futuro presidente dovrà misurarsi con i problemi giganteschi ereditati dalla precedente amministrazione (dalle guerre alla crisi economica). E allora dovrà faticare, e parecchio, per mantenere vivo questo sentimento, per alimentare la speranza di rinnovamento di cui gli elettori lo hanno fatto depositario, alfiere e simbolo. E sarà lì che vedremo la stoffa se, come in tanti speriamo, davvero la stoffa c’è.

Quando gli americani parlano degli Anni Trenta, li descrivono come gli anni della Grande Depressione. Solo in seconda battuta, quei medesimi anni diventano quelli del «New Deal», della grande trasformazione imposta alla società americana da Franklin Delano Roosevelt. L’augurio migliore che possiamo fare ad Obama, se questa notte si ritroverà Presidente degli Stati Uniti, è che le future generazioni possano ricordare questi anni non solo come quelli della più grande crisi economica dopo quella del 1929, ma anche come gli anni di una nuova ripartenza: per l’America e per il mondo.
 

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:07:42 am »

7/11/2008
 
Forza liberal
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Già solo per questo,per aver compiuto la promessa del sogno americano, l’elezione di Barak Obama a 44° presidente degli Stati Uniti rappresenta un fatto epocale, che arriva proprio quando l’America aveva più bisogno di tornare a credere in se stessa, nel suo essere «una nazione benedetta dalla Provvidenza». Per quanto possa essere difficile in queste ore riuscire a farlo, dovremmo però provare a mettere da parte l’emozione di vedere il primo Presidente «non bianco» della storia degli Stati Uniti, e andare oltre, per chiederci se l’elezione di Obama non possa rappresentare per l’America di oggi, a posizioni partitiche rovesciate, qualche cosa di analogo a ciò che significò l’elezione di Ronald Reagan per l'America degli Anni Ottanta.

L’arrivo di Reagan alla Casa Bianca segnò l’inizio della cosiddetta rivoluzione conservatrice, quella che fu capace di rimettere in carreggiata un Paese che non credeva più in se stesso, nei suoi miti e nei suoi leader. Grazie a quell’outsider che aveva fede nell’American Dream più di quanta ormai ne avessero le sue stanche e rassegnate élite, gli americani, questo popolo di sognatori, ripresero a lottare e tornarono a ripetersi, allora come in altri momenti cruciali della storia della grande Nazione, «We Can Do It». Ce la possiamo fare a vincere la sfida della Guerra fredda, nella quale l’Urss appariva in clamoroso vantaggio, a far riprendere a correre l’economia americana, di cui i giapponesi stavano acquistando a prezzi di saldo persino i simboli (le grandi major cinematografiche, i grattacieli di Manhattan), a restaurare i valori di una tradizione fatta di responsabilità e libertà, individualismo e senso comunitario, in un mix unico per audacia e generosità. Quella rivoluzione non sarebbe però stata possibile, se il suo alfiere non fosse stato capace di conquistare, non solo per sé ma anche per il suo partito (e qui sta il punto), il centro dello schieramento politico americano, rifacendo del Grand Old Party la «casa naturale» dei moderati, o meglio degli elettori indipendenti, come più correttamente sono definiti da queste parti coloro che non votano in base a pregiudiziali ideologiche.

Da allora fino a martedì scorso, i repubblicani erano riusciti a mantenere questa collocazione privilegiata, nonostante progressivamente, anno dopo anno, il partito fosse scivolato verso posizioni sempre più conservatrici e minoritarie, piuttosto che autenticamente tradizionali e maggioritarie. La tenuta era stata facilitata dal fatto che questo Paese è sempre stato, almeno finora, decisamente e strutturalmente orientato più verso il centrodestra (per dirla all’italiana) che non verso il centrosinistra.

Significativamente, ci volle l’avvento sulla scena politica di un animale politico straordinariamente dotato come Bill Clinton, per riuscire sospendere la rendita elettorale che Reagan aveva fornito al Gop. Ma il southern boy non riuscì mai a trasferire al partito il suo successo, e a trasformare il proprio carisma personale in consensi stabilizzati per i democratici.

Oggi, a Barack Obama si apre concretamente questa possibilità, cioè la chance di far partire una rivoluzione liberal, dopo che quella conservatrice ha esaurito da tempo la sua spinta innovatrice. Non si tratta di cancellare tutto quello fatto in questi anni, ma di raccogliere idealmente il testimone del «cambiamento nella continuità» dalle mani dei migliori interpreti del conservatorismo per affidarlo a quelle dei liberal. È giunta l’ora che la cultura politica liberal degli Stati Uniti torni a giocare un ruolo meno elitario e compiaciuto, a parlare alla working class (alla vecchia come alla nuova) e possa così nuovamente arricchire la vita e il dibattito politico degli Stati Uniti. È questo che gli americani intendono per alternanza, non certo l’infinito fare e disfare cui siamo abituati da queste parti; ma il muoversi verso l’orizzonte alternando «i bordi», sfruttando cioè i venti più efficaci in ogni stagione.

A sua disposizione, il presidente Obama ha una dote elettorale straordinaria fatta dal 54% di consensi degli elettori indipendenti, del 66% di quelli under 29 e dell’enorme numero di latinos portati alle urne. Per paradosso, il voto nero è stato quello meno determinante per la sua vittoria, se si considera che i votanti afroamericani sono passati solo dall’11% del 2004 all’attuale 13%. È un ottimo punto di partenza per fare dei democratici il partito di riferimento degli elettori indipendenti per un lungo periodo di tempo, per ricollocarlo al centro dello schieramento dal quale da troppo tempo si era allontanato. In tal modo, Barack Obama aiuterà anche i repubblicani moderati a vincere la loro dura battaglia interna contro la destra religiosa e conservatrice che, insieme con la crisi economica, è tra i maggiori responsabili della débâcle di McCain.

Per la sua stessa storia personale, e per come ha saputo costruire il suo posizionamento durante le durissime primarie democratiche, Barack Obama, è riuscito a presentarsi come colui che era in grado di incarnare il «cambiamento senza salti nel buio», la freschezza che l’America chiedeva e il ritorno ai valori dell’autentica tradizione americana. È una ricetta che funziona dovunque, basti pensare alla Francia delle ultime presidenziali o all’Italia del 1994: ma mentre è molto facile da descrivere e molto difficile da perseguire. Obama sa, molto più di tanti suoi imitatori, che il lavoro vero inizia adesso, che l’onda che l’ha trascinato fin qui non è molto diversa da quella che portò Jimmy Carter alla Casa Bianca: ma che la disaffezione e lo scontento sono sufficienti per essere eletti, non per governare. Gli americani, disgustati degli scandali Enron, disorientati da due guerre in sette anni, preoccupati dalla crisi finanziaria, hanno concesso al candidato Obama e ai democratici la loro fiducia: tocca al presidente Obama, ora, dimostrare che in tanti avevano visto giusto.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 11, 2008, 10:58:48 am »

11/11/2008
 
Non è "partisan" abolire certe leggi
 
VITTORIO EMANUELE PARSI

 
Rimettere la barra al centro: questa sembra essere la principale preoccupazione che anima Barack Obama, più forte ancora della volontà di confermare la sensazione diffusa che alla Casa Bianca qualcosa sia davvero inequivocabilmente cambiato. In queste ore lo staff di Obama starebbe esaminando circa 200 tra ordini esecutivi e provvedimenti normativi emanati dal presidente George W. Bush per verificare quali abrogare e quali emendare sostanzialmente. A prima vista una tale iniziativa sembrerebbe contraddire platealmente quello spitito «post-partisan» che lo stesso presidente eletto aveva invocato nei primi discorsi successivi alla vittoria, a cominciare da quello tenuto la notte dello storico martedì della sua «incoronazione». E però, a una più pacata analisi, non sfugge come le cose stiano in maniera affatto diversa. Nell’argomentare questa tesi, occorre premettere che molti dei provvedimenti sui quali potrebbe abbattersi la futura scure presidenziale riguardano temi di natura etica, per cui è fin troppo facile immaginare che le revisioni e le cancellazioni annunciate produrranno un vespaio e che la polemica politica si infiammerà e travalicherà rapidamente i confini degli Stati Uniti. Prima che ciò accada, e che i toni della discussione possano assumere quelli propri della rissa (e ne abbiamo già avuto penose avvisaglie nei giorni scorsi), cerchiamo di precisare almeno due questioni.

La prima, la più semplice, è che lo staff presidenziale sta concentrando la sua attenzione su quei provvedimenti ritenuti «divisivi» e «ideologici», ovvero non sufficientemente condivisi dalla maggioranza dell’elettorato americano. Si vogliono cioè colpire quelle norme che avrebbero cercato di estendere «per legge» le convinzioni proprie della destra religiosa più conservatrice, della cosiddetta «Bible Belt», all’intera società americana. E che l’esecutivo di Washington fosse da molti ritenuto troppo vicino alle tesi neoconservatrici non è certo una scoperta di oggi e neppure di Obama. Mentre forse può rappresentare una «scoperta», per l’opinione pubblica europea, il fatto che l’influenza del neoconservatorismo fosse stata assai maggiore, ma anche molto più contrastata, sul piano interno e delle politiche pubbliche relative alla sanità, al welfare, all’ambiente e alla ricerca scientifica, che non su quello internazionale e della politica estera, dove peraltro la controversa dottrina della guerra preventiva e dell’esportazione della democrazia erano state silenziosamente accantonate, anche in virtù del loro insuccesso. Senza dimenticare, evidentemente, che, di tutte le politiche pubbliche, quella estera è quella che maggiormente risente dell’azione degli altri attori che affollano, con le proprie, l’arena internazionale. Non per caso, dopo le velenose congratulazioni inviategli dal presidente Ahmadinejad per la sua elezione, Obama ha dovuto inserire precipitosamente un passaggio sull’Iran nel suo discorso e assumere una posizione più tranchant di quanto probabilmente non sarebbe stato nelle sue intenzioni originarie.

Saprà Barack Obama applicare lo stesso metro - «la sensibilità etica di una parte non può essere estesa per legge all’intera società» - anche quando questo urterà contro le sue convinzioni personali? Le occasioni per verificarlo di certo non mancheranno. Del resto, negli stessi giorni in cui gli elettori americani lo sospingevano verso la Casa Bianca, quelli della California votavano per l’abrogazione del matrimonio gay in quello Stato. È un ammonimento, qualora ce ne fosse bisogno, che la società americana non è quella che i cantori della destra religiosa vorrebbero, ma neppure quella immaginata dai paladini del liberalismo più radicale. Nel rispetto delle convinzioni personali di ognuno, occorre, soprattutto per un Presidente che voglia riuscire nell’impresa di riformarla, non perdere di vista dov’è il baricentro della società americana.

C’è poi una seconda e più spinosa questione che va chiarita. Sui temi etici, la possibilità d’una mediazione sui contenuti è ridotta al minimo. Esistono proposizioni in cui, per ognuno, è vero «A» o è vero il suo opposto «non-A». Tutto lascia intendere che nei prossimi anni, in America e non solo, tali oggetti dovranno in misura sempre maggiore essere regolati per via politica. Fatti salvi alcuni pochi principi che definiscono la natura liberale di un sistema politico (e perciò sono irrinunciabili), sugli altri le divisioni resteranno a lungo non componibili. Concentrarsi sul metodo grazie al quale possano essere effettuate scelte anche in materie così impegnative, e ampliarne la sua condivisione, appare perciò la scelta più appropriata, oltre che la sola alternativa possibile a un vuoto normativo che esporrebbe specialmente i soggetti più deboli (economicamente, culturalmente e socialmente) a una condizione di ancora maggiore solitudine e diseguaglianza, oltremodo inaccettabile proprio in considerazione della dimensione valoriale dei dilemmi in gioco. Ecco perché, proprio su questioni eticamente incandescenti, non è una scelta «partisan» abolire provvedimenti adottati dalla precedente amministrazione in spregio a un metodo condiviso. E perché invece lo sarebbe la loro sostituzione con norme dai contenuti speculari che avvenisse ricorrendo alle medesime (sbagliate) modalità suggerite dalla destra ultraconservatrice in questi anni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 16, 2008, 10:08:36 am »

16/11/2008
 
Ciao, vecchia Europa
 
VITTORIO EMANUELE PARSI

 
C’è troppa Europa nel tradizionale G8. Ma l’Europa rischia di pesare troppo poco nel novello G20 in corso in queste ore a Washington. È possibile, come molti ritengono, che questi vertici siano poco utili, sostanzialmente inefficaci e di qualche interesse, forse, per i soli capi di Stato e di governo che vi partecipano. D’altronde, se in tempi di crisi occorrerebbe non indugiare ed evitare gli appuntamenti poco più che rituali, è altrettanto vero che proprio le crisi impongono anche momenti simbolici, in cui sia possibile «mettere in scena» l’unità di intenti della comunità internazionale.

Le due esigenze devono perciò essere contemperate. In tal senso, non c’è dubbio che un vertice come il G8, che raccoglie i grandi Paesi occidentali più la Russia, rischia di essere ormai persino più anacronistico del tradizionale G7. Da un punto di vista concettuale, il G8, che sorgeva dalla volontà esplicita di allargare la sua membership all’ex nemico, è nato morto.

E’nato morto perché la logica post-Guerra fredda della sua architettura era già stata sorpassata dall’incalzare dei tempi al momento del suo stesso concepimento. E infatti la presenza russa nel club, e la minaccia di sospenderla, non ha influenzato minimamente l’attuale stato di tensione russo-americana. Il fatto poi che delle otto poltrone al suo tavolo, ben quattro siano riservate a governi europei tutti membri dell’Unione, rende palese una sovrarappresentazione della «vecchia Europa», davvero poco giustificabile, poco utile e poco opportuna, visti i tassi di crescita delle economie non «occidentali» che hanno connotato l’ultimo decennio e la prevedibile maggiore rilevanza che esse andranno acquisendo negli anni a venire.

Per quanto a Paesi di media o piccola statura come Italia e Canada la cosa possa comprensibilmente dispiacere, l’idea di affiancare e, prima o poi, sostituire il G-8 con un altro organismo capace di rappresentare anche le economie emergenti è in sé positiva e, in una certa misura, inevitabile. E in questo senso sembra già muoversi la futura amministrazione americana, che sarà probabilmente molto più «global oriented» di tutte quelle che l’hanno preceduta. Perché tutto ciò non si traduca in una perdita secca di rilevanza dell’Europa, diventa fondamentale che essa, almeno in vertici di questo tipo, si decida a compiere un gesto tanto audace quanto necessario: pretendendo, possibilmente già dal prossimo appuntamento previsto tra poco più di tre mesi, di occupare un seggio solo, ma dal peso specifico enormemente superiore. L’autorevolezza della voce europea difficilmente potrà trarre infatti un qualche giovamento dall’allargamento dello spezzatino della sua partecipazione all’Olanda e alla Spagna (oltre che al solito pleonastico rappresentante dell’Unione).

Non sappiamo che cosa possa essere ricompreso in quel «ti darò tutto ciò che mi chiederai» che, in cambio di uno strapuntino, il premier spagnolo Zapatero avrebbe promesso al presidente francese Sarkozy (che già pare piuttosto ben accompagnato da «Carlà», la quale, nell’averci recentemente edotto circa il suo sollievo «di non essere più italiana», forse ignora di seguire una lunga, disdicevole e peraltro molto italica tradizione). Certo è che ben altra cosa sarebbe se i 16.620 miliardi di dollari e 451 milioni di abitanti dell’Unione fossero rappresentati da un solo delegato (Sarkozy o Barroso), almeno in vertici dal connotato prevalentemente simbolico come quello in corso a Washington. L’Europa ne acquisirebbe un maggior prestigio e darebbe più peso specifico alle sue decisioni, rendendo evidente che, una volta che l’accordo sulle misure da intraprendere è stato raggiunto tra le capitali dei Paesi dell’Unione, quest’ultima è in grado di mostrare la sua compattezza e la sua esistenza tutt’altro che solo simbolica.

Nell’intervista pubblicata da La Stampa giusto ieri, Paul Krugman, premio Nobel dell’economia e guru dell’opinione liberal, ammoniva come la trappola di una percezione parrocchiale e ristretta dell’interesse nazionale rischi di rendere vertici come questi inutili se non dannosi. È possibile che le parole di Krugman, in sé condivisibili, costituiscano una fuga in avanti rispetto alle attuali condizioni del mondo e di ciò che è ragionevolmente possibile attendersi dai suoi leader. Il fatto, però, che 27 Paesi che liberamente hanno scelto di condividere un comune destino politico (e che già in buona parte condividono la stessa moneta), sappiano iniziare a dar corpo, anche simbolico, a un interesse nazionale «europeo» (cioè della «nazione civica» che l’Unione è) rappresenterebbe invece un adeguamento alla realtà e un rifiuto di logiche che sono oggettivamente alle nostre spalle.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 29, 2008, 09:53:13 am »

29/11/2008
 
Il terrore punta sul Pakistan
 
VITTORIO EMANUELE PARSI

 
L’India è ormai entrata stabilmente nel novero dei Paesi target dell’estremismo islamista, la cui galassia si dimostra sempre più capace di elaborare strategie che raccordino la dimensione regionale con quella globale. In questa prospettiva, appare in realtà non così rilevante che la regia degli attentati dei giorni scorsi sia imputabile ad al Qaeda piuttosto che a spezzoni deviati dei potentissimi servizi segreti pachistani (Isi). A tal proposito, non dovremmo mai dimenticarci che, per quanto la sua leadership ideologica e militare sia araba, al Qaeda si è forgiata nella lotta contro i sovietici in Afghanistan, trovando prima nei servizi segreti del Pakistan e poi nei Talebani gli alleati necessari per compiere quel salto di qualità che l’avrebbe portata a realizzare gli attentati dell’11 settembre 2001. Oggi, mentre le cellule dell’organizzazione in Iraq sono state in gran parte smantellate grazie alla brillante conduzione politico-militare concepita e attuata dal generale Petraeus, l’Afghanistan, la terra dove Bin Laden ha costruito le basi della sua fortuna jihadista, torna a essere il teatro principale dello scontro. Come conseguenza di ciò, l’ambiguità della posizione pakistana si fa sempre meno sostenibile. La collaborazione di Islamabad è infatti una condizione necessaria per qualunque strategia contro i Talebani, anche e soprattutto per quelle più «politiche», che mirano alla frattura della coalizione raccolta intorno al Mullah Omar. E in una simile ottica, mentre il fronte afghano riacquista la sua primitiva rilevanza strategica, l’ampia indulgenza, per non dire l’aperto sostegno, che le forze di sicurezza pakistane hanno fin qui garantito ai Talebani non è più tollerabile. Questo ha generato le crescenti pressioni sul governo pakistano affinché si comporti più lealmente rispetto agli alleati americani e della Nato.

Ma ha anche prodotto la risposta avversaria. Finora, l’azione jihadista si era «accontentata» di destabilizzare il Pakistan, senza sfruttare appieno tutte le possibilità offerte dalla particolare condizione del Paese. Con gli attentati di questi giorni, che in realtà coronano una lunga serie di violenze costate la vita a oltre 800 cittadini indiani, i jiahdisti hanno scelto di cambiare la propria strategia. Non intendono più limitarsi alla conquista del potere nel musulmano Pakistan, ma vogliono fare di questo Paese la prima linea di un nuovo scontro frontale contro gli infedeli. Hanno cioè smesso di considerare il Pakistan come il teatro di una fitna (la guerra civile contro gli apostati e gli empi all’interno della umma islamica), per trasformarlo invece nella prima linea di un jihad contro gli infedeli e «idolatri» indiani. Tutto ciò implica che il lungo conflitto che dai tempi della partizione si trascina latente, e che ciclicamente esplode, tra India e Pakistan venga messo al servizio di questo disegno, e l’irredentismo kashmiro ne diventi parte integrante, replicando amplificato e con maggior successo il tentativo di islamizzazione del conflitto ceceno. Ovviamente questo comporta, all’interno del progetto jihadista, il riposizionamento dell’India, la quale diventa il «nemico vicino», da colpire insieme al «nemico lontano» occidentale: con un’estensione all’India e al suo rapporto con l’Occidente (soprattutto nella sua declinazione economica) della medesima logica applicata nei confronti di Israele (il piccolo Satana) e della sua relazione con gli Stati Uniti (il grande Satana). Due fronti di mobilitazione vengono così saldati: la lotta contro gli apostati e quella contro gli infedeli si fanno una cosa sola, grazie anche all’agevolazione oggettivamente fornita dalla progressiva egemonia che il nazionalismo indù sta svolgendo nei confronti del patriottismo indiano (di cui anche gli attentati anticristiani dei mesi scorsi hanno costituito un tragico segnale).

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 15, 2008, 05:50:27 pm »

15/12/2008
 
Quella strada Pechino-Kabul
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Un ribaltamento copernicano della politica di sicurezza americana in tutta l’Asia: smettere di pensare alla Cina come al prossimo rivale globale e iniziare a considerarla un partner essenziale per la sicurezza in Asia.

Si tratta di un clamoroso avvicendamento nelle preoccupazioni strategiche che hanno dominato le riflessioni delle teste d’uovo del Dipartimento di Stato, del Pentagono e di molti dei più prestigiosi think tanks indipendenti di New York e Washington. E però tutto questo sembra essere la condizione necessaria affinché gli Stati Uniti e gli alleati occidentali possano chiudere vittoriosamente la «war on terror» in Afghanistan e gettare le basi per un possibile ordine internazionale sufficientemente stabile.

Nei giorni della sua visita romana, il generale Petraeus ha ribadito ciò che il presidente eletto Barack Obama non si è mai stancato di ripetere in campagna elettorale. Per cercare di vincere in Afghanistan servono più truppe, una politica orientata a dividere il fronte talebano e un aiuto meno timido e ambiguo da parte del Pakistan. I primi due punti di questa ambiziosa strategia chiamano in causa essenzialmente gli americani e il loro rapporto con gli alleati occidentali. Senza abbandonare la mentalità della coalition of willings che ha caratterizzato anche la campagna afghana (con gli americani a fissare gli obiettivi e gli alleati a condividere cautamente gli sforzi), sarà ben difficile ottenere i risultati sperati. Occorre invece che la condivisione tra alleati parta proprio dall’elaborazione degli obiettivi. Quali sono oggi, a sette anni dall’inizio della guerra, gli scopi politici e militari che ci proponiamo? Fino a che punto e con chi siamo disposti a trattare? Chi vogliamo corrompere, chi eliminare e chi catturare? Quando potremo considerare raggiunti i principali obiettivi della guerra?

Ottenere un maggiore e migliore coinvolgimento del Pakistan è invece una questione che coinvolge innanzitutto la capacità americana di convincere i pachistani che la pacificazione del fronte afghano non farà venire meno l’attenzione che Washington continuerà a riservare a Islamabad. Benché ciò non venga esplicitamente dichiarato, una delle preoccupazioni pachistane è che, quando l’Afghanistan venisse sostanzialmente pacificato, nulla tratterrebbe Washington da stringere ulteriormente i suoi legami con l’India, politica che gli americani stanno attuando da alcuni anni in funzione di contenimento della Cina. I cinesi, dal canto loro, pur aspirando a neutralizzare le mosse americane, devono cercare di riavvicinarsi all’India senza perdere il favore dei propri tradizionali alleati pachistani.

Si tratta di un vero e proprio rompicapo strategico, dal quale è possibile uscire solo a condizione di una revisione radicale dell’approccio americano alla sicurezza dell’Asia (meridionale in primis) e del ruolo che la Cina può svolgere rispetto a tale obiettivo. Considerare la Cina un partner per la sicurezza asiatica e non un futuro possibile rivale per la leadership globale: questo è l’audace passo che Obama dovrebbe risolversi a compiere. In tale mutata ottica la relazione indopachistana, invece di essere sottoposta a ulteriore tensione dalle mosse competitive di Washington e Pechino, verrebbe sostenuta dalla loro azione cooperativa. E Islamabad si troverebbe nelle condizioni migliori per fare quella decisa scelta di campo che potrebbe consentire anche l’inizio della stabilizzazione del suo fragilissimo regime e la lotta contro i propri talebani e tutte le formazioni qaediste che vogliono ridurre il Pakistan a una enorme retrovia per le proprie azioni terroristiche in Afghanistan e in India.

Gli eventi di questi anni indicano che la «rivalità strategica» tra Washington e Pechino è solo una possibilità e non una certezza. In compenso, si va concretizzando l’altra possibilità, quella di una «partnership strategica» sinoamericana. In termini economici e finanziari l’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina è seconda solo a quella tra Stati Uniti ed Europa. In termini di sicurezza, nessuna delle scelte fin qui compiute da Pechino sta andando nella direzione di voler ribaltare l’ordine americano in Asia, e gli accordi economico-commerciali stipulati a novembre col governo di Taiwan sono un atto dalla forte rilevanza simbolica anche nei confronti degli Stati Uniti. L’antica «via della seta» collegava la Cina all’Occidente proprio passando per il Khyber Pass e l’antica Bactriana. Non sarebbe per nulla paradossale che, oggi, la strada migliore per venir fuori da Kabul arrivasse fino a Pechino.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 18, 2008, 10:44:35 am »

18/12/2008
 
L'Europa e il terzo gigante
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Tra oggi e il 2050, nonostante pandemie, crisi alimentare e guerre civili, e pur ipotizzando una moderata riduzione della fertilità femminile, la popolazione dell’Africa subirà un incremento di oltre un miliardo di persone, che le consentirà di superare i giganti demografici rappresentati da India e Cina. Si tratterà di una popolazione estremamente giovane, cioè nel pieno della sua età lavorativa. Nello stesso torno di tempo, la popolazione europea diminuirà di quasi 70 milioni, attestandosi nel suo complesso intorno ai 660 milioni di individui, cioè circa il 65 per cento del solo incremento demografico africano e, soprattutto, sarà una popolazione decisamente più vecchia di quella attuale.

Per quanto questi semplici dati quantitativi, forniti dalle Nazioni Uniti e rielaborati dal demografo della Sapienza Antonio Golini, possano colpirci e per quanto elevata possa essere la nostra diffidenza verso le previsioni, le proiezioni demografiche sono tra le meno aleatorie che si possano immaginare. Uno che di alea, aspettative e previsioni se ne intendeva, Alan Greenspan, per molti anni presidente della Federal Reserve, osservava in un libro del 2003: La demografia è il destino, nel senso che al peso e alle dinamiche della demografia, come al destino, non si può sfuggire.

Che ci piaccia o meno, tra poco più di quarant’anni questi saranno i rapporti tra Europa e Africa in termini di popolazioni relative. Quello che i numeri non ci possono dire, però, è quali saranno i rapporti politici ed economici tra i due continenti. Perché qui il destino non c’entra nulla: questo dipende da noi, dalle nostre politiche e dalle nostre scelte. Non possiamo alterare il destino demografico, ma possiamo cercare di determinare il valore (negativo o positivo) del suo impatto nel lungo periodo attraverso le scelte politiche che operiamo giorno per giorno (cioè nel breve periodo).

Dipenderà anche da noi, se l’impressionante crescita demografica africana si trasformerà in un esodo biblico di disperati che si abbatterà sulle nostre società, più impaurite perché più vecchie, alimentando il razzismo e la chiusura culturale, oppure se diventerà un motore della crescita economica dell’Africa e la chiave di volta della conservazione del benessere dell’Europa. La buona notizia è che abbiamo davanti a noi un arco temporale di oltre quarant’anni per lavorare nella giusta direzione. Quella cattiva è che dobbiamo iniziare da subito, cercando di coagulare il consenso necessario qui e ora in vista di un vantaggio molto procrastinato nel tempo. Perseguire la stabilizzazione politica e lo sviluppo economico dell’Africa non è un atto di carità o di filantropia: è l’interesse strategico dell’Europa. E il primo passo consiste nello sforzo di trasformare i Paesi rivieraschi del Sud del Mediterraneo da serbatoi e trampolini di lancio delle carrette della disperazione, in partner economici e politici e in poli di irradiazione di sviluppo e crescita. Con la consapevolezza della dimensione dello sforzo, ma anche della rilevanza della posta in gioco.

A fronte di questi numeri e di queste prospettive, l’importanza dell’Unione Euro-mediterranea varata dal presidente Sarkozy il 14 luglio di quest’anno emerge limpidamente. Non sarà semplice trovare il modo di coniugare tra loro un Nord, altamente istituzionalizzato, regionalizzato e integrato, e un Sud carente in tutte e tre queste dimensioni. Ma occorre capire che ciò che in un’ottica di corto respiro può appare un’impresa troppo ardua e costosa è, in effetti, il migliore investimento che potremmo fare. Per riuscirci, basta allungare un po’ lo sguardo, e tornare a concepire la politica come un investimento nel presente che ci consente di «guadagnare futuro». Cioè l’opposto dello spettacolo cui assistiamo - a volte allibiti, spesso rassegnati - in cui sembra che il futuro sia solo una cambiale da portare allo sconto, perché il nostro destino possa consumarsi in un presente senza fine.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 24, 2008, 05:33:34 pm »

24/12/2008
 
Il petrolio dello zar
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Il solstizio d’inverno è conosciuto da sempre come il giorno più buio dell’anno. Dal 2008 sarà ricordato probabilmente come uno dei giorni più bui anche per l’improbabile democrazia russa. Proprio il 21 dicembre scorso, infatti, il Senato federale di Mosca ha ratificato all’unanimità l’approvazione dell’emendamento costituzionale che consente di prolungare il mandato presidenziale da quattro a sei anni. Manca soltanto la firma da parte del presidente Medvedev, e poi tutto sarà pronto per uno scenario che molti ritengono già disegnato da tempo, ovvero le ravvicinate dimissioni del presidente in carica e nuove trionfali elezioni per Vladimir Putin, il terzo di questo nome a regnare sulla terra dei Rus’. Colpisce la rapidità con cui si è svolto un complesso processo di revisione costituzionale, che prevedeva l’approvazione a maggioranza qualificata dei due terzi da parte della Camera Bassa e del Senato, oltre a quella di una novantina di corpi legislativi territoriali. E’ francamente improbabile che il presidente Medvedev si sottragga a un dovere così gradito e in tal modo, in poco più di un mese, tutto l’iter si sarà sostanzialmente concluso, dimostrando la straordinaria efficienza delle nuove istituzioni russe, o la loro totale subalternità ai voleri dello zar Vladimir, scegliete voi. Vale la pena notare che la procedura di revisione costituzionale della nuova Russia è stata costruita a ricalco di quella stabilita per la Costituzione degli Stati Uniti, che prevede il voto a maggioranza dei due terzi da parte delle Camere e la successiva ratifica da parte dei tre quarti degli Stati.

Come è stato ricordato anche quest’anno in occasione dell’elezione di Barack Obama, è proprio la complessità di questa procedura a far ritenere quasi impossibile che venga abbandonato il farraginoso meccanismo dei «grandi elettori», e abolito l’anacronistico «collegio presidenziale» che rende formalmente indiretta l’elezione del presidente americano. Speriamo di essere presto smentiti, ma il processo di transizione alla democrazia della parte centrale dell’ex Unione Sovietica rischia di essere ricordato come uno dei peggiori fallimenti che la storia ricordi. In termini di democrazia, libertà e rule of law, la Russia sta regredendo anno dopo anno, dimostrando ancora una volta come le difficoltà di radicamento dei regimi democratici persistano anche laddove essi non sono il frutto di un’imposizione dall’esterno. Il dato di fondo è che nulla sembra smentire l’adagio secondo il quale «quelli che governano la Russia sono gli stessi che la posseggono», in una forma di neopatrimonialismo aggiornato al XXI secolo che rischia di far risvegliare Max Weber dal suo meritato riposo. Così, mentre da un lato il caso russo ci rammenta come istituzioni formalmente democratiche possano essere facilmente manipolate fintanto che la cultura politica di un Paese non è saldamente ancorata ai valori della democrazia, dall’altro ci mostra come i detentori del potere moscovita siano pronti a soffocare qualunque esile opportunità si apra per la crescita di una cultura politica liberale (se non democratica), anche ricorrendo alla blindatura delle istituzioni. Certo la fretta che sembra guidare le mosse della coppia Putin-Medvedev lascia sospettare che, sotto la cenere, qualcosa di diverso stia covando, in Russia. È stato osservato che la capacità delle autorità federali di pagare pensioni e stipendi pubblici (in un’economia in cui lo Stato è ancora, direttamente o indirettamente, il più grande distributore di reddito) dipende dal fatto che il prezzo del petrolio non scenda stabilmente sotto i 70 dollari al barile. Oggi siamo a 36 e, tra l’esplosione della bolla speculativa sulle materie prime e la crisi economica, non è così facile prevedere una rapida e duratura risalita del corso del petrolio (e neppure del gas). La popolarità di Putin e la stessa legittimazione del suo sempre più leaderistico potere è fondata (fin da quando era primo ministro di Eltsin) su una triade composta da alte quotazioni del greggio, conseguente capacità di spesa da parte dello Stato ed elaborazione di un’ideologia nazional-patriottica molto assertiva. Nell’ipotesi che la recessione possa durare per tutto il prossimo anno, non sarebbe poi così strano se Putin cercasse di anticipare il più possibile la prova elettorale: finché le casse dello Stato e dei fedeli nuovi oligarchi sono ancora parzialmente piene.

E, a mano a mano che i soldi dovessero iniziare a scarseggiare, non ci sarebbe molto da stupirsi se il Cremlino decidesse di far ricorso a un ulteriore inasprimento dei toni dell’ideologia nazional-patriottica, nell’intento di scaricare verso l’esterno le difficoltà interne e sfruttando quel secolare complesso di accerchiamento che rappresenta una costante del modo russo di guardare al mondo.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 30, 2008, 10:06:10 am »

30/12/2008
 
Il risveglio della Germania
 
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
E’un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio» e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è «chiaramente ed esclusivamente» di Hamas, che ha unilateralmente «rotto gli accordi per il cessate-il-fuoco» e dato avvio a un «continuo lancio di razzi in territorio israeliano». Per il momento in cui arrivano, a 48 ore dall’inizio del durissimo esercizio di autodifesa messo in atto dal governo di Gerusalemme, le dichiarazioni attribuite alla cancelliera Angela Merkel dal suo portavoce sono politicamente molto pesanti.

Sono pesanti anche per l'appoggio oggettivo che forniscono a Mubarak e Abu Mazen. Ma sono ancora più significative perché, nel ribadire il pieno sostegno tedesco a Israele, rompono le modalità felpate con cui tradizionalmente la diplomazia tedesca era usa muoversi nella regione. Sembra quasi che, dopo un lungo periodo di sonno, la Cancelliera abbia deciso di scegliere un momento e un tema cruciali per sancire il ritorno della Germania sulla scena della grande politica estera. Fino ad ora, infatti, Merkel si era distinta in politica estera per una visione piuttosto angusta. Certo, sui temi della crisi economica la Germania aveva svolto il suo tradizionale ruolo di mastino del rigore. E però, anche in quel campo, la Cancelliera era sembrata soprattutto muoversi come capo del governo tedesco più che come possibile leader dell'Unione.

Paradossalmente, dopo essere stata tra i principali protagonisti e beneficiari della trasformazione del sistema internazionale post Guerra fredda, era come se la Germania si fosse progressivamente appartata dalla grande politica internazionale, interpretandola sempre più in chiave quasi esclusivamente strumentale rispetto alle vicende di politica interna. In fondo, le stesse modalità plateali della «grande frattura» consumata da Schroeder nei confronti di Bush in occasione della guerra in Iraq, che pure aveva segnato una crisi acuta nei rapporti tra Berlino e Washington, erano sembrate dettate principalmente da motivi di politica domestica. Fu proprio grazie al clamore con cui rivestì la propria polemica nei confronti dell'amministrazione americana, infatti, che Schroeder riuscì inaspettatamente a vincere elezioni in cui era dato per spacciato.

Ora, al crepuscolo di un semestre di presidenza francese tanto attivista quanto alla fine, purtroppo, poco concludente (si pensi alle modalità suicide con cui Parigi ha gestito il lancio di un'iniziativa pur cruciale e strategica come l'Unione Euro-Mediterranea), la Germania sembra volersi candidare a riassumere quel ruolo guida, senza il quale la politica estera dell'intera Unione resterebbe un mero esercizio retorico. Il fatto è stato immediatamente colto in Francia, e non proprio benevolmente, si direbbe. In sole 48 ore, alle dichiarazioni più critiche verso Israele rilasciate dal presidente Sarkozy hanno fatto seguito quelle attribuite alla Cancelliera e la convocazione d'urgenza da parte dell'Eliseo di un vertice sulla crisi di Gaza, proprio nell'ultimo giorno prima che Praga rilevi Parigi.

Difficile immaginare che Angela Merkel non avesse messo in conto la possibile irritazione di Sarkozy, sia pur non prevedendone la subitanea contromossa. Si direbbe però che Merkel stia guardando più lontano, oltre Atlantico piuttosto che sulle rive della Senna, e abbia deciso di «supplire» temporaneamente, almeno in termini di impegno politico, a quella che è stata giustamente definita la «latitanza di Washington», destinata a durare fino all'insediamento della nuova amministrazione. Il segnale mandato a Obama e al suo segretario di Stato Hillary Clinton, sembra indicare che l'Europa è pronta ad assumersi maggiori responsabilità e a giocare un ruolo più importante in Medio Oriente: spazzando innanzitutto il campo da quelle differenze di sfumature che spesso si sono prestate a qualche ambiguità, a cominciare da quelle riguardanti il sostegno convinto ad Abu Mazen e il rifiuto di considerare Hamas un interlocutore possibile fino a quando non si dimostrerà responsabile e rispettoso del diritto di Israele ad esistere. Com'è noto la Germania fa anche parte di quel «terzetto» europeo incaricato di cercare di stabilire le pre-condizioni per un dialogo diretto tra Usa e Iran sulla questione del programma nucleare iraniano. Una Germania meno «cerchiobottista» a Gaza potrebbe, contemporaneamente, trovare più ascolto a Gerusalemme e a Washington nel tentare fino all'ultimo di scongiurare pericolose opzioni militari e chiarire a Teheran che giocare la carta di una possibile spaccatura occidentale potrebbe rivelarsi una tragica illusione.
 
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 07, 2009, 12:42:46 pm »

7/1/2009
 
La tregua possibile

 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Nonostante un bilancio in vite umane che si fa di ora in ora più tragico, è estremamente difficile che Israele possa ascoltare le molte voci che lo invitano a sospendere le operazioni militari contro la Striscia di Gaza.

Arrivati a questo punto, infatti, una tregua non garantirebbe in maniera credibile la cessazione del lancio dei missili Qassam da parte delle milizie di Hamas, a cui si deve la responsabilità dell’attuale gravissima crisi. Proprio alla decisione da parte dell’organizzazione terroristica di rompere la tregua precedentemente concordata (e peraltro ripetutamente violata), assunta unilateralmente e annunciata con un clamore mediatico pari solo al cinismo con cui è stata adottata, si deve la reazione israeliana che ha portato all’invasione della Striscia.

Ancorché Israele rinunci al tentativo (che appare comunque irrealistico) di eliminare completamente la presenza organizzata di Hamas da Gaza, la cessazione delle attività militari può arrivare solo a condizione che l’obiettivo di bloccare stabilmente il lancio di missili sul Sud del Paese venga raggiunto. Ma per far questo è necessario che la strategia militare sia integrata da quella politica. Esistono solo due alternative, infatti: quella del conseguimento per via politica di quanto militarmente non è stato possibile fare (sulla falsariga della conclusione della campagna contro Hezbollah nell'estate 2006), oppure quella del consolidamento politico di un successo ottenuto grazie alla supremazia militare.

Le autorità israeliane hanno preliminarmente chiarito che non ritengono accettabile il ristabilimento del semplice status quo. La ragione della scelta a favore di una reazione tanto violenta (lasciamo da parte le polemiche relative alla sua «sproporzione»), si trova nella sempre più ferma convinzione israeliana che proprio l’accettazione supina dello status quo rappresenti un errore strategico rispetto alla sopravvivenza dello Stato ebraico. Alla base di tale convincimento sta la consapevolezza che, nel giro di due o tre decenni, il bilancio demografico tra israeliani di religione ebraica da un lato, e arabi di Israele e palestinesi dall’altro, segnerà un saldo negativo permanente e non modificabile neanche attraverso nuove quanto improbabili ondate di immigrazione ebraica. Il semplice dato demografico si trasforma poi in minaccia se si considera come il radicalismo di matrice islamista abbia fatto e stia continuando a fare proseliti in gran parte della Umma.

A chi osserva come il trascinarsi e l’incancrenirsi della questione israelo-palestinese abbia fornito un ambiente ideale al successo delle varie formazioni radicali, gli israeliani replicano che esse traggono origine innanzitutto dalla corruzione, dal nepotismo, dall’illiberalità e dall’inefficienza di gran parte dei regimi arabi e che, in ogni caso, è proprio l’esistenza di movimenti come Hamas e Hezbollah ai confini con Israele (da Gaza al Libano) che rende impossibile qualunque avanzamento di un ipotetico processo di pace. E questo è tanto più vero per chi pensi che la loro azione sia sostenuta e coordinata dall’occulta regia iraniana.

Gli israeliani ritengono quindi che entro il 2030, al massimo, l’attuale quadro della sicurezza regionale sarà insostenibile e deve perciò essere modificato, nella direzione di una reciproca accettazione tra i diversi soggetti politico-territoriali del Medio Oriente. Affinché ciò avvenga, è però necessario indebolire le capacità militari e la presa politica delle formazioni estremiste, correndo anche il rischio che le proprie azioni possano nell’immediato rinforzarne l’aura di «martirio», ma cogliendo l’opportunità del loro isolamento politico rispetto alla gran parte dei governi arabi della regione, alimentato dalla preoccupazione che questi nutrono nei confronti delle mire politiche di Teheran.

Anche se le cose, sul piano militare, dovessero volgere al meglio per gli israeliani, è però difficile immaginare il consolidamento politico dell’eventuale successo in assenza di interlocutori. Nella migliore delle ipotesi, Hamas potrà risultare indebolito nella sua presa su Gaza, con ciò aprendo oggettivamente prospettive per l’azione futura di altri soggetti (non necessariamente Fatah). Ma quando Tsahal dovrà lasciare Gaza, la tregua dovrà essere pur concordata con qualcuno. Fanno bene gli israeliani a non voler intavolare trattative dirette con Hamas (che predica lo sterminio degli ebrei). In particolar modo, una «tregua senza garanzie» riprodurrebbe esattamente quello scenario precedente la crisi che Israele non può accettare. Diverso sarebbe se, con la mediazione egiziana e della Lega Araba e con il consenso israeliano, un soggetto terzo si incaricasse di svolgere trattative per una tregua tra le parti, offrendosi di vigilare sulla garanzia del suo rispetto con un proprio contingente militare e non inviando qualche pattuglia di «osservatori».

È esattamente ciò che sbloccò la situazione in Libano nell’estate del 2006. Evidentemente Gaza non è il Libano e le divisioni, i rifiuti e i fallimenti incassati in queste ore rendono la strada lunga e irta di ostacoli, ma nessun attore meglio dell’Unione Europea (che continua a far parte del «Quartetto») potrebbe svolgere una tale funzione, così trascinandosi fuori dalla penosa impasse in cui l’ha gettata il prevalere, al suo interno, delle chiacchiere sui fatti. Una simile ipotesi, da costruire con pazienza e senza clamori di grandeur, potrebbe convenire anche ad Hamas, in quanto unica realistica alternativa a un’autodistruttiva guerra totale contro Israele e contro il suo stesso popolo. Dalle sconfitte si impara più che dalle vittorie. E perciò non è detto che proprio il proseguire dell’offensiva israeliana non possa spingere Hamas a prendere in considerazione una proposta di mediazione europea, per quella «tregua duratura» che Gerusalemme chiede. La sola che le autorità israeliane potrebbero accettare, la sola che i governi europei dovrebbero avanzare.
 
da lastampa.it
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