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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61166 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 24, 2011, 09:55:30 pm »

24/8/2011

Ultimo atto dell'Undici Settembre

VITTORIO EMANUELE PARSI

Quando dieci anni fa Osama Bin Laden scatenò la sua guerra personale contro gli Stati Uniti, in molti osservammo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso e che le conseguenze sul sistema politico internazionale, a partire dalla regione del Grande Medio Oriente, sarebbero state drammatiche. Il crollo del regime del colonnello Gheddafi, può così essere visto come l’ultimo dei cambiamenti prodotti quel giorno, ma il cui segno è quello del ribaltamento della logica che ha generato l’11 settembre.

Le rivoluzioni che stanno scuotendo il Maghreb e il Levante rappresentano un’importante sconfitta per il progetto qaedista, perché mostrano quasi “plasticamente” che la politica è soprattutto qualcosa che si svolge alla luce del sole, nelle piazze, mobilitando le persone e non terrorizzandole attraverso azioni omicide concepite nella psicotica oscurità di remote caverne. Con il loro successo nel rovesciare quei tiranni contro cui il terrorismo si era in gran parte vanamente scagliato, i moti della Primavera araba hanno relegato ai margini del discorso politico arabo la violenza terroristica e riaperto lo spazio discorsivo all’islam politico. L’ultimo, in termini temporali, dei grandi avvenimenti di questo decennio è così forse il più significativo. Più ancora, al di là dell’enorme impatto simbolico, dell’eliminazione fisica di Osama. Proprio per la loro spontaneità e per il loro totale radicamento autoctono, le rivoluzioni arabe stanno ridisegnando un Grande Medio Oriente che sembra lasciarsi alle spalle l’11 settembre e le sue conseguenze insieme a quella miriade di errori strategici americani che ne sono stati l’incubatrice. Esse rappresentano in realtà il principale elemento di speranza per un quadro regionale che da quella fatidica data non aveva fatto altro che divenire più precario e insieme più bloccato, nonostante la quantità gigantesca di risorse politiche, economiche e soprattutto militari impiegate per costruire un nuovo ordine più stabile e sicuro.

Appena accantoniamo le rivoluzioni che in Tunisia, Egitto e Libia hanno rovesciato presidenti e raiss o che sono ancora in corso in Yemen e Siria, ciò che colpisce del Medio Oriente non è tanto la sopravvivenza o meno di questo o quel regime, quanto piuttosto la persistenza dei suoi caratteri ad un tempo più resilienti eppure strutturalmente dissipatori d’energia. È vero, in questi dieci anni la regione ha conosciuto rivolgimenti non di poco conto, spesso ottenuti con il vasto impiego del tritolo e dei suoi moderni derivati: al costo di una quantità di bombe superiore a quelle sganciate sulla Germania in tutto il II conflitto mondiale, Saddam Hussein è stato rovesciato ed è finito al patibolo. In Afghanistan i Talebani sono stati rimpiazzati dalla “Repubblica di Karzai”. Due regimi ostili agli Stati Uniti sono cioè stati sostituiti da due regimi sostenuti dagli Stati Uniti, sia pur non così affidabili come alleati. La stagione riformista della Repubblica Islamica Iraniana, che dieci anni fa era guidata dal raffinato Khatami, discendente del Profeta, dopo che una sanguinosa repressione ha schiacciato i primi moti di libertà dell’intera regione, è oggi stretta nella plumbea morsa di Ahmadinejad. Ma nonostante tutti questi eventi, quella drammatica fragilità che si era manifestata con l’11 settembre – quando l’America era all’apice del suo potere politico, economico e militare, l’incontrastata superpotenza solitaria il cui ordine sembrava dover regnare in Medio Oriente – non si è minimamente attenuata, semmai il contrario. La persistenza degli elementi di instabilità è cioè stata capace di metabolizzare persino l’avvicendamento dei regimi quando ciò è stato prodotto dall’esterno, con l’impiego di una forza tanto devastante quanto inconcludente.

Metafora, ma in realtà spiegazione di tutto quello che non riesce a cambiare è l’inabissamento del processo di pace israelo-palestinese o, per meglio dire, arabo israeliano. Non è né scandaloso né casuale, ma estremamente preoccupante questo sì, che il rimettersi in moto della politica in Egitto rischi di chiudere anche la finestra di opportunità aperta dalla pace separata siglata da Begin e Sadat nel 1978. Dal settembre 2001 a oggi il progressivo abbandono della ricerca sincera di una via negoziale per la pace tra israeliani e palestinesi ha prodotto la distruzione di Ramallah e l’umiliazione dell’OLP (ancora vivente Arafat), l’invasione di Gaza e il rafforzamento di Hamas, quella del Libano meridionale e il rafforzamento di Hezbollah, e ha visto peggiorare le condizioni generali di sicurezza del popolo israeliano. Difficile dimenticare che proprio la rabbia e l’umiliazione per l’infinito perpetuarsi del conflitto arabo-israeliano avevano contribuito ad alimentare il rancore di tanti arabi e l’odio di Bin Laden verso l’America. Tutto questo è restato pericolosamente dov’era: in un mondo, però, dove l’America non occupa più quella posizione di egemone solitario, signore della guerra e della pace di tutti e per tutti, che deteneva dieci anni fa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9121
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« Risposta #91 inserito:: Settembre 11, 2011, 04:33:22 pm »

11/9/2011

L'incubo della guerra

VITTORIO EMANUELE PARSI

Ci sono molte chiavi di lettura per spiegare quanto è accaduto al Cairo. Ne vorrei proporre una semplice e preoccupante: di fronte al declino dell’egemonia americana in Medio Oriente nessuna forma di stabilità regionale è compatibile con il perdurare del conflitto israelo-palestinese.

Non appena il vento della Primavera araba aveva raggiunto l’Egitto, molti osservatori avevano preconizzato che il crollo del regime autoritario e corrotto di Mubarak avrebbe lasciato il campo libero alle forze islamiste radicali, ostili al Trattato di pace firmato con Israele nel 1979. La dura realtà è che non occorre scomodare la Fratellanza Musulmana per spiegare l‘assalto da parte di migliaia di dimostranti all’ambasciata israeliana, perché quel trattato non è inviso soltanto agli integralisti musulmani, ma a gran parte della popolazione egiziana, che continua a ritenere che la «pace separata» siglata dall’allora presidente Sadat abbia rappresentato un tradimento della causa araba.

Il possibile cortocircuito tra le rivoluzioni arabe – che rappresentano un elemento positivo di dinamismo, capace di porre fine a quei decenni di autismo politico che avevano concorso a generare il terrorismo qaedista di Bin Laden – e l’irrisolto conflitto israelo-palestinese – il cui non superamento ha costituito una micidiale zavorra per il futuro di tutti i popoli della regione – sta proprio in questa «novità» che si prospetta per l’ordine mediorientale: cioè il prevalere nell’equilibrio regionale dei caratteri endogeni rispetto a quelli esogeni.

Un fatto che di per sé sarebbe positivo, se non per una circostanza decisiva: ovvero che senza l’influenza determinante esercitata da un attore esterno, gli Stati Uniti, nessuno stato di quiete (non parlo di pace) è possibile nella regione, perché il potenziale destabilizzante rappresentato da un conflitto che dura ormai da oltre 60 anni e che ha metabolizzato più di un «processo di pace» non trova nessun rimedio. Gli attori regionali hanno capacità sufficienti, semmai, per accrescere gli effetti disordinanti di quel conflitto (si pensi all’Iran o alla Siria), o per esserne risucchiati (si veda la Turchia), ma non per contrastarli e neppure per tenerli semplicemente a bada.

Gli anni colpevolmente perduti nel decennio dei Novanta, e il successivo decennio post 11 settembre, in cui l’omologazione di ogni forma di lotta violenta con il terrorismo e la logica semplicistica e però in un certo senso obbligata della «war on terror» ha fatto se possibile ulteriormente imbarbarire il quadro delle relazioni arabo-israeliane (ripresa delle intifade, recrudescenza degli attacchi contro obiettivi in territorio israeliano, invasione del Libano, invasione e blocco economico di Gaza), ci hanno condotto a una condizione che era di stallo solo grazie alla crescente presenza e influenza americana nella regione. Da oggi, dovrebbe essere chiaro a tutti che una simile condizione non ce la possiamo più permettere.

Venerdì si è così cominciato a profilare quello che dall’inizio dell’anno le autorità israeliane temevano, e che hanno fatto ben poco per cercare di scongiurare. La frustrazione della folla egiziana per la contraddittorietà e la lentezza del processo di transizione democratica si è saldata con la rabbia nei confronti di Israele, per l’impunità di cui sembra godere in virtù della sua relazione speciale con gli Stati Uniti e del cosiddetto doppio standard con cui l’America giudica quel che accade in Medio Oriente. Come ha sostenuto un manifestante intervistato da Al Jazeera : «Obama chiede a noi di rispettare l’incolumità dei cittadini israeliani in Egitto, ma non ha speso una parola per condannare l’omicidio da parte delle forze di sicurezza israeliane di cinque guardie di frontiera egiziane il 18 agosto scorso».

Sono quasi le stesse parole che ha usato il premier Erdogan, a proposito del «silenzio di Obama» dopo che le anticipazioni di stampa sul rapporto dell’Onu - che condanna l’uso eccessivo della forza durante l’assalto alla flottiglia di solidarietà per Gaza nel maggio 2010 (in cui sono stati uccisi diversi cittadini turchi) - hanno portato Ankara ad un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Come se non bastasse, tra pochi giorni, l’Assemblea generale dell’Onu dovrà discutere della dichiarazione d’indipendenza palestinese presentata dall’Anp.

La prevista opposizione americana (e forse europea) non potrà che essere percepita come l’ennesima provocazione da parte di un’opinione pubblica esasperata. In simili circostanze, il rischio che la regione corra rapidamente verso un nuovo conflitto è tutto fuorché aleatorio, anche a fronte del crescente isolamento di Israele, che in poco più di un anno ha perso i due soli (tiepidi) alleati che aveva nella regione: Turchia ed Egitto. In queste condizioni nessuno, a cominciare da tanti cittadini della democratica Israele, può più permettersi il lusso di ignorare che la sola alternativa a una pace vera sarà l’ennesima, inutile guerra.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9185
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« Risposta #92 inserito:: Settembre 25, 2011, 11:06:17 am »

19/9/2011

Ma l'Europa non può perdere Ankara

VITTORIO EMANUELE PARSI

Erdogan flette i muscoli anche con l’Unione Europea. In poco più di una settimana è arrivato a un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele per le mancate scuse sull’uccisione di cinque cittadini turchi imbarcati nella «freedom flottilla» (intercettata di fronte a Gaza nel maggio scorso), ha ventilato la possibilità di far scortare la prossima dalla Marina turca se fosse necessario.

Ha poi incassato il plauso delle folle e delle autorità transitorie in Egitto e in Libia, ha scaricato sonoramente l’ex alleato siriano, ammonendolo pubblicamente che «non si può governare contro il volere del popolo». Minacciare il «congelamento» delle relazioni con Bruxelles qualora, come previsto, nel secondo semestre del 2012 Cipro dovesse assumere la presidenza di turno dell’Unione - e nel frattempo non fossero conclusi i negoziati con la repubblica secessionista (e filo turca) di Cipro Nord - è una mossa meno azzardata di quanto possa apparire a prima vista.

Per cominciare, minacciare un «congelamento» delle relazioni diplomatiche se non verranno soddisfatte alcune condizioni, costituisce un comportamento analogo a quello che i turchi hanno dovuto sperimentare sulla propria pelle un discreto numero di volte, proprio per mano europea. Così facendo, Erdogan appaga innanzitutto l’orgoglio turco, in passato troppe volte umiliato dagli europei e oggi invece solleticato dagli arabi, così a lungo soggetti alla Sublime Porta. Lo fa sapendo che in politica 10 mesi sono un’eternità, per cui avrà a disposizione 300 giorni per trovare un’occasione che lo induca a rivedere (magnanimamente) la propria posizione. Allo stesso tempo, dice ai turco-ciprioti - e attraverso loro al mondo - che lo standing internazionale della Turchia è cambiato per effetto del cataclisma geopolitico che sta interessando l’intero Mediterraneo e per il coraggio e la sagacia della dirigenza dell’Akp (il partito del premier). Erdogan sa benissimo che il prezzo che potrebbe realisticamente pagare per una mossa così audace (un po’ mussoliniana per la retorica muscolare da «grande proletaria umiliata») non è poi così elevato.

I turchi sono tornati a essere un po’ meno gelidi nei confronti dell’Unione (si veda l’ultimo rapporto Transatlantic Trends, di cui La Stampa ha fornito ampio resoconto quattro giorni fa), ma sono piuttosto scettici sulla possibilità che possano prima o poi entrare
nell’Unione. Troppo forti le opposizioni francesi e tedesche e destinate a rafforzarsi in un’epoca di crisi economica, di continui insuccessi elettorali del partito della Merkel e di imminenti presidenziali francesi. D’altra parte il favorevole status di Paese «eternamente candidato» fornisce alla Turchia condizioni privilegiate che non verrebbero messe in discussione neppure se Erdogan dovesse per sei mesi rifiutarsi di incontrare le delegazioni della Ue. Non risulta oltretutto che l’Unione sia apparsa finora troppa smaniosa di far proseguire le trattative per l’adesione turca…

Insomma, se la Turchia potrà al più aspirare a un lunghissimo fidanzamento ma non a un matrimonio (né d’amore, né d’interesse, né riparatore), il suo primo ministro sa benissimo che l’Europa non può permettersi, proprio ora, di perdere la Turchia (in questo il ministro Frattini ha perfettamente ragione). Ora proprio no. Perché se può irritare l’altezzoso orgoglio francese vedere come Erdogan riscuota successo da Damasco a Gaza, dal Cairo a Tripoli, fino a Tunisi, a Parigi come a Berlino, a Londra come a Roma, sanno tutti benissimo che la possibilità che i regimi che nasceranno in conclusione delle rivoluzioni arabe possano essere osservanti e conservatori ma non per questo radicali e antioccidentali dipende anche dal successo di Erdogan nel vendere il suo progetto politico: quello di un Islam politicamente attivo e rilevante ma nell’ambito di uno Stato che si mantiene laico. E val proprio la pena tollerare qualche smargiassata e qualche incontro in meno affinché una simile prospettiva diventi sempre meno aleatoria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9216
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 14, 2011, 05:20:03 pm »

14/10/2011

L'Iran gli usa e la trappola della provocazione perfetta

VITTORIO EMANUELE PARSI

Eliminare l’ambasciatore saudita a Washington senza essere presi con le mani nel sacco era un’ipotesi talmente irrealistica che nessuno a Teheran può averla presa seriamente in considerazione. Egualmente impossibile era ritenere che i mandanti non sarebbero stati identificati. Il solo dubbio che poteva sussistere era semmai se la scoperta del complotto e dei suoi mandanti sarebbe avvenuta prima o dopo la realizzazione dell’attentato. Allora per quale motivo Teheran avrebbe scelto una simile strategia apparentemente «suicida»? Credo che la risposta vada proprio cercata a partire da quest’ultimo aggettivo: suicida, perché solo facendo ricorso alla razionalità che guida gli attentatori suicidi è possibile comprendere la logica tutt’altro che irrazionale che ha guidato le mosse di Teheran. L’obiettivo non era quello di colpire senza essere scoperti o identificati; l’obiettivo era quello di riconquistare il centro della scena mediorientale, stanare le eventuali contraddizioni degli Stati Uniti, mutare un quadro strategico che da oltre un anno è sostanzialmente sfavorevole agli interessi iraniani, nonostante il successo (ormai lontano e non produttivo di conseguenze) ottenuto con l’avvento di un governo controllato da Hezbollah a Beirut.

Tutti gli eventi dell’ultimo anno che per comodità abbiamo raccolto sotto la definizione di «primavera araba» rappresentano per l’Iran un pessimo affare, a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti di quell’autunno che sembra profilarsi all’orizzonte nel Maghreb. Se, come ancora è possibile ma sempre più improbabile, la domanda di libertà, uguaglianza, dignità e futuro posta in essere dalle folle arabe (in particolare dai giovani) non verrà tradita o dirottata dai nuovi governanti, nel Maghreb potrebbero affermarsi dei regimi «repubblicani», ovvero un pericoloso modello capace di rigalvanizzare i giovani, le donne, gli intellettuali che nelle scorse elezioni avrebbero già cacciato dal potere Ahmadinejad e i suoi, se non fossero stati derubati grazie ai brogli elettorali e zittiti a suon di omicidi ed esecuzioni. Se, viceversa, a Tunisi, Tripoli o Il Cairo dovessero prendere il potere dei partiti islamisti sunniti, l’unicità della proposta politica iraniana - una repubblica islamica di stampo autoritario e populista a forte mobilitazione e con elezioni addomesticate ma ricorrenti - verrebbe meno e il regime perderebbe molto del suo fascino agli occhi di quelle masse arabe che guardavano alla rivoluzione iraniana come il solo precedente di una rivolta di successo contro un despota autoctono spalleggiato dall’Occidente.

L’imbarazzo iraniano a fronte di quel vento di rivolta che sta scuotendo il Medio Oriente è implacabilmente messo in luce dai guai che stanno aggravando il regime siriano di Bashar Assad, il solo alleato dell’Iran nella regione, e dalla perdurante instabilità nel confinante Iraq, dove oltretutto le locali autorità sciite non sono mai apparse troppo disposte a partecipare passivamente al «gran disegno» iraniano. Nel nuovo assetto strategico che si va profilando, nonostante le gravi difficoltà interne, anche l’Egitto sta riacquistando parte di quel ruolo che tradizionalmente occupava nel Medio Oriente e che aveva perso firmando gli accordi di Camp David: alzare i toni della polemica con Tel Aviv, riaprire i valichi con Gaza e aver collaborato alla liberazione del caporale Shalit è un «filotto» che segna il ritorno dell’Egitto sulla scena diplomatica regionale. Ma è l’Arabia Saudita - l’arcinemico e per di più «empio» dell’Iran- che risulta destinato a cogliere i maggiori vantaggi dal mutamento del quadro strategico. Con un Iran ai margini della scena politica, persino la scomparsa di Saddam Hussein finisce per essere un vantaggio soprattutto per Riad, a cui la crisi del regime siriano (suo tradizionale competitor in Libano), la possibile vittoria di partiti islamisti in Tunisia, Libia ed Egitto e le gravi difficoltà in cui versa al Qaeda dopo la morte di Osama Bin Laden potrebbero regalare più di quanto i Saud avessero mai osato sperare.

Si spiega molto bene, quindi, la scelta di un obiettivo saudita. Ma perché proprio quello a Washington? Non basta il significato simbolico implicito a chiarire una simile decisione. Il punto è sostanziale. Gli iraniani sanno benissimo (e lo sanno anche i sauditi) che la crescita del ruolo di Riyad è possibile solo a condizione che gli Stati Uniti continuino a esercitare la propria influenza in Medio Oriente in modo credibile agli occhi delle capitali arabe, ben più che a quelli delle folle. Certo, la possibile svolta autoritaria delle rivoluzioni arabe potrebbe complicare la politica americana nell’area. Ma se a Washington riuscissero a mantenere i nervi saldi nel caso di una simile eventualità, proprio la carta saudita potrebbe rivelarsi preziosa. Quest’ultima però perderebbe molto della sua forza se l’America, di fronte a una clamorosa provocazione, non rispondesse in maniera appropriata. E che cosa meglio di un complotto volto a uccidere l’ambasciatore saudita a Washington potrebbe rappresentare la «provocazione perfetta»? Se gli Usa dovessero reagire in una maniera giudicata troppo timida, attesterebbero ulteriormente la loro perdita di prestigio nella regione, compromettendo la stessa investitura dell’Arabia Saudita come nuovo leader del Levante e del Golfo. Se dovessero scegliere l’opzione militare dell’attacco selettivo (non esclusa dal presidente) Obama fornirebbe spazio alle accuse iraniane di agire alla stessa maniera del suo predecessore: in maniera muscolare, imperiale, «occidentale» (nell’accezione critica che il termine ha in Medio Oriente e non solo) quando si tratta di colpire un Paese islamico, alimentando così la polemica anti-imperialista e antisionismo degli ayatollah, a cui le folle arabe continuano a restare sensibili.

Dal punto di vista iraniano il complotto apre quindi a due possibilità diverse, ma che consentono entrambe di smuovere un quadro altrimenti destinato a soffocare lentamente il regime iraniano, alle prese con una crisi economica grave, acuita dalle sanzioni internazionali per un programma nucleare dall’esito e dai tempi per nulla scontati. Oltretutto nella consapevolezza che l’unica cosa che Obama non vuole e non può fare e quella di scatenare una vera e propria guerra risolutiva contro l’Iran...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9317
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« Risposta #94 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:45:33 pm »

25/10/2011

Con la sharia a Tripoli comincia l'inverno arabo

VITTORIO EMANUELE PARSI

Hanno suscitato nervosismo in Occidente le dichiarazioni del presidente del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) libico, Mustafa Abdel Jalil, circa la volontà di fare della sharia «la fonte del diritto» per la nuova Libia. Del resto, il timore che nel mondo arabo alla colorata primavera rivoluzionaria dovesse seguire un grigio inverno islamista non ha mai davvero abbandonato i governi e le opinioni pubbliche occidentali.

Dopo aver visto rafforzarsi di mese in mese le prospettive di successo del partito islamista Ennahda nelle elezioni per l’Assemblea Costituente in Tunisia, esserci rassegnati alla possibilità che i Fratelli Musulmani arrivino al potere in Egitto e dovuto preoccupare per la popolarità dei salafiti (sospettati di essere coinvolti nella strage dei Copti del 13 ottobre scorso), le dichiarazioni di Jalil sembrano fatte apposta per dare corpo ai peggiori fantasmi che da mesi agitano i sonni dell’Occidente.

In realtà non è tanto il puro e semplice riferimento alla sharia come fonte del diritto che dovrebbe inquietare, quanto piuttosto il corollario reso esplicito successivamente dallo stesso Jalil: «Ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore», a cominciare da quelle relative a divorzio e poligamia per finire col divieto di prestare denaro dietro il pagamento di un interesse. La sharia, infatti, è annoverata tra le fonti del diritto nelle Costituzioni di diversi Paesi a maggioranza musulmana: dall’Egitto di Mubarak (avete letto bene) al Sudan, dall’Indonesia al Marocco, dalla Malaysia all’Arabia Saudita, dall’Iran a 12 degli Stati che compongono la Federazione della Nigeria fino al nuovo Afghanistan post-talebano. Evidentemente, quello che cambia radicalmente da caso a caso (e che comporta differenze altrettanto radicali per la vita delle persone, a cominciare dalle donne) è l’interpretazione che si fornisce sia del concetto di «fonte del diritto», sia di quello stesso di sharia, oltre che la sua concreta attuazione.

Il riferimento generico alla sharia tra le fonti del diritto, tra i suoi principi ispiratori, rende infatti omaggio a quella concezione, ampiamente diffusa nel mondo musulmano, che ritiene impossibile per un potere «legittimo e giusto» essere in contrasto col disegno divino. Per più di un aspetto, a fronte del dilagare di forme di potere personali, corrotte e autoritarie che hanno dominato per tanti anni queste società, il richiamo alla legge divina rappresenta qualcosa di simile (ma non analogo) a ciò che nella tradizione occidentale ha significato il richiamo al diritto naturale come ricerca di un solido baluardo contro l’arbitrio dei tiranni.

Detto questo, non può sfuggire che la sharia può diventare (e spesso diventa) uno strumento micidiale di violazione della libertà individuale quando la si trasformi da un’elevata fonte di ispirazione per il legislatore a una legislazione sacrale che prevarica programmaticamente quella dello Stato o a cui quest’ultima deve conformarsi sotto pena di nullità.

Questioni come lo statuto legale della donna, le punizioni corporali, la violazione dei diritti umani e i rapporti economici finanziari rappresentano altrettanti casi di palese attrito tra la concezione contemporanea di giustizia e quella che si ricava dall’interpretazione della sharia più diffusa tra coloro che ne propugnano il ripristino. È quindi motivata la preoccupazione rispetto a quanto ha affermato Jalil, tanto più che in un Paese le cui istituzioni sono state sistematicamente smantellate da Gheddafi nel corso di 41 anni, e dove le strutture tribali tradizionali sono tutt’ora rilevanti, è difficile immaginare che cosa potrebbe frenare la totale «islamizzazione della legge».

Un ultimo punto deve però essere ricordato. La questione della tolleranza religiosa e dell’effettiva tutela legislativa dei diritti delle minoranze e dei singoli individui nei Paesi in cui l’islam è religione maggioritaria non dipende esclusivamente dal ruolo che la sharia occupa nella legislazione: basti pensare al caso della laica Turchia, in cui comunque il proselitismo per religioni diverse da quella islamica è sostanzialmente impossibile.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9358
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« Risposta #95 inserito:: Novembre 22, 2011, 12:37:17 pm »

22/11/2011

Piazza Tahrir e il bivio dei militari

VITTORIO EMANUELE PARSI

Mentre gli scontri tra dimostranti e forze di sicurezza in piazza Tahrir non accennano a placarsi, appare ormai irreversibile il ribaltamento del ruolo dell’esercito agli occhi di una parte crescente dell’opinione pubblica egiziana. I militari, che fino a poco tempo fa erano salutati come i garanti della fuoriuscita dal regime di Mubarak, sono oggi considerati il principale ostacolo alla transizione verso la democrazia. E la cattiva notizia è che la percezione dei manifestanti è corretta. Oggi l'Egitto è un regime militare in cui il capo del Consiglio supremo delle forze armate, Hussein Tantawi, riunisce nelle sue mani i medesimi poteri di Hosni Mubarak, pur se in una fase ben più caotica di quella in cui il suo predecessore si era trovato ordinariamente. Per molti aspetti è stato stupefacente come l'esercito fosse fin qui riuscito a mantenere l'incredibile posizionamento di paladino del cambiamento, nonostante l’acritico sostegno garantito a Nasser, Sadat e Mubarak in quasi sessant’anni di associazione al potere. Perché un fatto è evidente: cambiano i leader, cambia l'allineamento internazionale del Paese, ma quello che resta costante è il ruolo delle forze armate, vere detentrici, più che semplice sostegno, del potere effettivo.

Costringendo alle dimissioni il rais, lo scorso 11 febbraio, dopo aver tenuto una posizione defilata rispetto ai tentativi di schiacciare la rivolta, l'esercito era riuscito a far dimenticare tutto ciò, a metterlo sullo sfondo, complice la consapevolezza di tutti - dai soggetti politici ai semplici cittadini - che far chiarezza sulle sue reali intenzioni avrebbe potuto essere troppo rischioso, forse fatale, per gli stessi esiti della rivoluzione. Nei nove mesi trascorsi è iniziata una partita a scacchi in cui i militari hanno via via palesato le proprie intenzioni, riassumibili nella volontà di mantenere potere privilegi acquisiti in mezzo secolo. Allo stesso tempo però, l'insofferenza dell’opinione pubblica è cresciuta a mano a mano che l'avvicinarsi della scadenza elettorale consumava il tempo a disposizione per eventuali compromessi e rischiava di svuotare la rilevanza del primo libero pronunciamento elettorale nella storia egiziana. È stato questo a rendere lo scontro pressoché inevitabile. Ora è molto difficile che, dopo la strage di copti di un paio di mesi fa e il massacro dei giorni scorsi, un qualche accettabile compromesso possa essere ristabilito. I militari o finiranno per essere spazzati via o dovranno gettare la maschera e proporsi non come gli interpreti della rivoluzione e della sovranità popolare, ma come i liquidatori dell’una e dell’altra.

Un brutto affare per tutti. Per gli egiziani innanzitutto e per tutto il mondo arabo che all’Egitto guarda anche in questa occasione. Ma un disastro anche per gli Usa, che si erano convinti a mollare Mubarak, tardivamente e dopo furibondi contrasti interni all'amministrazione Obama, proprio perché pensavano di poter contare sull’inedita carta di militari riformisti pronti a farsi garanti verso Washington di una transizione ordinata alla cui conclusione sarebbe nato un Egitto nuovo e diverso in tutto tranne che nel suo allineamento internazionale. Ora, al massimo, avremo uno dei due esiti ma molto difficilmente tutti e due: un Egitto come sempre governato dai militari e alleato degli Usa oppure un Paese in cui il ruolo politico dell’esercito è drasticamente ridotto ma non più alleato degli Stati Uniti. Il sogno di coniugare in una sola stagione politica il riformismo marziale di Mustafa Kemal Atatürk e l’islamismo moderato e democratico di Erdogan è morto prima ancora di nascere. E l'Egitto non appare destinato a diventare una "nuova Turchia".

Nel frattempo, dal Libano di Hezbollah, ormai alleato pressoché solitario della Siria nel mondo arabo, giunge la notizia dello smantellamento della rete spionistica con cui l'Agenzia era riuscita a infiltrare il movimento sciita, oltretutto, pare, scoperta anche grazie all’impiego delle sofisticate apparecchiature fornite da Langley al Mukabarat durante il precedente governo filo-occidentale. Si tratta di un colpo che rende ancora più evidente l'affanno americano nel Medio Oriente, nel Levante in particolare, dove la crisi siriana rischia di andare fuori controllo proprio mentre i tamburi di guerra tornano a risuonare tra Israele e l'Iran. Un segnale che Hezbollah manda anche all'opposizione siriana, nei cui confronti le frontiere libanesi torneranno a sigillassi, nella logica di quello scontro finale cui il regime di Assad sembra persino aspirare più che limitarsi a non temere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9465
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:18:28 am »

5/12/2011

Un regime non al passo dei tempi

VITTORIO EMANUELE PARSI

Alla fine il partito di Putin e Medvedev (Russia Unita) potrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi della Duma, ma di sicuro si fermerà ben lontano da quella maggioranza dei due terzi che, nell’attuale Parlamento, gli aveva consentito di fare praticamente tutto quel che voleva. Venti punti percentuali in meno non sono uno scherzo, rappresentano semmai una solenne batosta, tanto più se si considerano le modalità non proprio «britanniche» con cui si è svolta la campagna elettorale e si sono celebrate le elezioni.

Putin ha dato fondo al solito armamentario fatto di intimidazioni, minacce, chiusura di siti internet ostili e accuse agli oppositori di essere al soldo dello straniero sempre generosamente impiegato, fin da quando era il primo ministro di un altro presidente, non Dmitrj Medvedev ma Boris Eltsin. Forse occorre proprio partire da quegli anni, per provare a spiegare che cosa questa volta non ha funzionato e la risposta è una sola: dagli anni di Eltsin, che segnarono l’ascesa irresistibile della stella putiniana, la Russia è cambiata molto più di quanto non sia cambiato lui. Vladimir Putin ha costruito una macchina del potere perfettamente oliata, per la Russia che usciva da oltre 70 anni di comunismo, dalle umiliazioni patite con la fine della Guerra Fredda, dalle gigantesche amputazioni territoriali subite ad opera di popoli una volta soggetti, dallo spettacolo avvilente della tarda leadership eltsiniana. La sua ricetta fatta di revanscismo muscolare, di machismo sboccato («staneremo i terroristi ceceni anche nel cesso!»), di insofferenza per le regole e le procedure formali e di plateale irrisione nei confronti della sostanza della democrazia, risulta oggi molto meno appealing per un Paese che si è lasciato quel passato definitivamente alle spalle. È un Paese che non si sente minacciato da un’America oggi ben più debole di quella di Clinton e Bush, che non vede più la confinante Unione Europea come un potenziale rivale politico, che guarda persino alla Cina con un atteggiamento meno diffidente. In una frase, è un Paese che è molto meno ossessionato dalla sua passata grandezza di quanto lo sia il suo attuale primo ministro.

Ma è anche un Paese che avverte come sempre più inaccettabile e ingiustificabile lo strapotere degli «uomini del presidente», fatto di corruzione, ruberie e confisca sistematica della libertà di stampa e di critica, di giochi che fanno scempio della Costituzione e del più elementare senso di giustizia. Putin è rimasto ai tempi della Guerra Fredda e del tramonto dell’Urss, i cittadini russi sempre meno. In fondo, quello cui stiamo assistendo è un fenomeno non troppo diverso, seppur meno drammatico e rivoluzionario, di quello visto in opera con le Primavere arabe, con regimi che faticano ad adattarsi a un cambiamento che loro stessi hanno contribuito a provocare. Regimi che non reggono il passo dei tempi.

È significativa la timida ma sostanziale presa di distanza del presidente Medvedev dal suo primo ministro. È un indicatore che la solidità della squadra inizia forse a vacillare ma soprattutto rivela impietosamente la differenza generazionale e di mentalità tra i due uomini, il primo nato nel 1965 ed economista di formazione, il secondo nato nel 1952 ed ex spia del Kgb. Il prossimo 4 marzo dovrebbe verificarsi la staffetta tra presidente e premier, analogamente a quanto avvenne nel 2008. L’elezione di Putin, virtualmente senza rivali, appare pressoché scontata, ma il segnale di irritazione dell’elettorato per un meccanismo che di fatto aggira il divieto costituzionale di ricoprire la massima carica istituzionale per più di due mandati deve far riflettere se persino in Russia il periodo degli Czar non stia volgendo al tramonto.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9517
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 12, 2012, 12:22:05 pm »

12/1/2012

L'irreversibile scelta atomica

VITTORIO EMANUELE PARSI

Mustafà Ahmaddi Roshan è il quarto scienziato legato al programma nucleare iraniano che perde la vita a seguito di un attentato negli ultimi sei mesi. Si tratta di un segnale inequivocabile e inquietante della drammatica escalation della crisi che contrappone Teheran a una serie pressoché infinita di avversari. Le autorità iraniane hanno immediatamente accusato i servizi segreti dell’«entità sionista». Ipotesi plausibile, benché prontamente smentita dal governo di Tel Aviv, ma tutt’altro esaustiva, giacché sia i sauditi sia gli americani potrebbero ben aver organizzato, preso parte o supportato l’assassinio del professore. Proprio l’ampio ventaglio delle ipotesi plausibili circa la (o le) paternità dell’attentato testimonia dell’isolamento iraniano e della completa irrealizzabilità della sua aspirazione a essere riconosciuto come una «legittima» potenza regionale. Il presidente Ahmadinejad - che di un tale isolamento è tra i principali artefici - ha un bel darsi da fare a esibire amicizie nel Caribe e sulle Ande. La realtà è che, al momento, nessuno di quelli che contano (Cina, Russia) appare intenzionato a muovere un dito per sostenere l’Iran nel caso di un’azione militare diretta a distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio (ormai prossimo a una percentuale del 20%, ben al di là di quanto seriamente giustificabile con fini esclusivamente civili) proprio mentre una simile prospettiva si fa sempre meno irrealistica.

Le manovre navali iraniane nello allo Stretto di Hormuz, unite al lancio di missili a media e lunga gittata, e l’immediata replica americana, con l’invio di una portaerei della classe Nimitz a incrociare nelle stesso ristretto specchio d’acqua, indicano che nessuno degli attori principali di questo dramma appare intenzionato a fare un passo indietro. Lo spettacolo dello sciame di «Mas» e di microsommergibili iraniani è di quelli da far venire i capelli dritti in testa al comandante della John C. Stennis, ma il suo arrivo in prossimità delle acque territoriali iraniane rende letalmente vulnerabile l’intera rete dei siti nucleari iraniani e materializza lo spettro di un’azione militare volta alla loro distruzione (degli Stati Uniti da soli, di Israele e Usa congiuntamente, o in diverse combinazioni ipotizzabili). Con tutta evidenza si tratterebbe di un’iniziativa capace di infiammare un’area che è già più che surriscaldata. Ma è significativo che proprio a Washington crescano le voci che ritengono un attacco militare «il male minore», se paragonato all’alternativa di doversi confrontare con un Iran divenuto potenza nucleare. In tal senso, l’articolo comparso sull’ultimo numero di «Foreign Affairs» a firma di Matthew Kroenig è particolarmente esplicito nel porre la scelta tra «un conflitto convenzionale e un possibile conflitto nucleare». Paradossalmente, dovrebbe essere proprio Barack Obama a dare il via libera alla più classica delle «guerre preventive» tanto care alla dottrina neocon di George W. Bush, colpendo un avversario prima che diventi così forte da rendere l’azione troppo costosa e forse impossibile.

Certo, l’Iran potrebbe facilmente sottrarsi dalla scomoda posizione di oggetto di un simile drammatico dilemma, facendo un passo indietro, o mostrandosi disposto a trattare innanzitutto con gli occidentali e i vicini arabi, considerando nei fatti il nucleare un oggetto di scambio, sacrificabile in nome di altri più rilevanti obiettivi. Per lungo tempo una parte considerevole degli analisti e degli addetti ai lavori ha privilegiato una simile ipotesi, che ha perso però progressivamente credibilità, di pari passo con la crescente radicalizzazione del quadro politico interno iraniano e con l’aumentata consapevolezza che, alla fine, la possibilità di acquisire lo status di potenza nucleare è il solo «successo irreversibile» in politica estera oggi alla portata della Repubblica Islamica. Gli oltre 30 anni trascorsi dalla caduta dello scià hanno infatti dimostrato la straordinaria resilienza del regime di fronte agli attacchi esterni (si pensi alla lunghissima guerra difensiva contro l’Iraq di Saddam), ma anche la caducità degli altri risultati conseguiti. Il passare del tempo sta dimostrando che le guerre che l’America ha intrapreso in Iraq e Afghanistan non hanno privilegiato innanzitutto l’Iran (come molti sostenevano), ma semmai il Pakistan e soprattutto l’Arabia Saudita. La quale si presenta oggi anche come la gran beneficiaria della «fase due» delle rivoluzioni arabe, proprio mentre la sola effettiva alleanza intessuta da Teheran nella regione sta svanendo o diventando inutilizzabile a causa della crisi probabilmente definitiva del regime di Assad.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9638
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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:07:43 am »

24/1/2012

Siria, per non destabilizzare vince lo stallo

VITTORIO EMANUELE PARSI

Uno stallo rosso sangue: è esattamente questa la fotografia della situazione in Siria, dove il regime degli Assad e i gruppi ribelli risultano intrappolati lungo un sentiero di crescente radicalizzazione, mentre nessuno appare in grado di poter sconfiggere l’altro. A oltre dieci mesi dal suo divampare e nonostante gli oltre 5.000 morti fin qui provocati da una repressione sempre più feroce, il regime di Bashar Al Assad non è stato in grado di schiacciare la rivolta. La violenza impiegata contro i dissidenti è però stata sufficiente a evitare che la rivoluzione siriana sfruttasse l’abbrivio delle altre primavere arabe. Ha cioè impedito che essa potesse divenire incontestabilmente maggioritaria all’interno della società, come invece è accaduto in Tunisia e in Egitto. Si trattava della sola possibile strategia a disposizione di Assad, una volta che le prime stragi non avevano ottenuto l’effetto sperato di dissuadere chiunque volesse unirsi ai nuclei originari di rivoltosi. Proprio la scelta della brutalità ha spinto le forze dell’opposizione a perseguire la via della resistenza armata nei confronti del regime, così concorrendo a spostare il Paese da una situazione di «rivoluzione pacifica» a quella attuale di «guerra civile a bassa intensità».

Una guerra civile che oggi è in stallo. Le zone in cui la rivolta ha preso avvio restano infatti ancora confinate alla periferia del Paese e la stessa roccaforte ribelle di Homs è in realtà divisa tra filo-governativi e rivoltosi. Anche le defezioni nelle file dell’Armée siriana, seppure in aumento, sono ancora piuttosto scarse, con le fonti più generose che parlano di 15.000 disertori e renitenti su 200.000 effettivi (che assommano a 450.000 includendo i riservisti in massima parte richiamati in servizio). Sostenitori del regime e ribelli sembrano oggi in grado di raccogliere il consenso di minoranze sostanziose della popolazione, mentre la maggioranza resta (o torna a essere) indecisa sul da farsi.

La radicalizzazione dello scontro potrebbe così fare il gioco del regime, che appare in grado di sfruttare le paure e le divisioni che attraversano la composita e frammentata società siriana. Il protrarsi degli scontri aumenta la possibilità che nel fronte anti-Assad siano i più estremisti a prevalere. E, infatti, la preoccupazione che la fine del potere dispotico (ma laico) degli Assad possa segnare il trionfo di un regime fondamentalista e intollerante inizia a diffondersi non solo tra gli alauiti e i cristiani ma anche tra molti sunniti. Non è un caso che gli attori regionali - a cominciare dalla Lega Araba, che domenica sera ha deciso (anche con il consenso siriano) di estendere la missione dei propri osservatori, mentre ha incassato un netto rifiuto alla proposta di un governo di transizione - sembrano tornati a essere piuttosto cauti, dopo essersi parecchio sbilanciati a favore della rivoluzione nei mesi scorsi. La Lega si era del resto decisa a scaricare Assad solo nel momento in cui aveva iniziato a considerarlo un fattore di destabilizzazione del fragile ordine del Levante e nella convinzione che le sue ore fossero ormai contate. In realtà, la resilienza del regime ha fatto venir meno le speranza di un esito in stile tunisino o egiziano, mentre si fanno sempre più irrealistiche le possibilità di un intervento esterno. Se europei e americani hanno sostanzialmente sempre escluso il loro coinvolgimento, quello turco o arabo - già assai poco credibile - si è semplicemente dissolto dopo il monito lanciato da Teheran circa la sua intenzione di difendere l’alleato siriano in caso di «invasione straniera».

Arrivati a questo punto, c’è chi inizia a pensare che il trionfo dei ribelli potrebbe avere effetti destabilizzanti eguali o persino superiori alla sopravvivenza del regime di Assad. Se a Damasco dovesse comparire un potere sunnita e integralista, gli effetti sui precari equilibri del vicino Libano e sulla stessa fragile Giordania potrebbero infatti essere devastanti, trascinando il primo in una nuova guerra civile e minacciando la monarchia ashemita (entrambi esiti inaccettabili innanzitutto per Ryad). Molto meglio temporeggiare e iniziare a vedere come finirà la partita nucleare tra Teheran e Washington, allora, la quale comunque collocherà il mondo arabo in una posizione di forza o debolezza relative, semplificando le scelte della Lega (e di sauditi e qatarini che la stanno «discretamente» guidando).

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9685
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« Risposta #99 inserito:: Febbraio 08, 2012, 12:06:54 pm »

8/2/2012


VITTORIO EMANUELE PARSI

Un fiasco per il mondo civilizzato»: così il premier turco RecepTayyp Erdogan ha commentato il naufragio della risoluzione di condanna al Consiglio di Sicurezza dell’Onu causato dal veto opposto da Cina e Russia. Ha perfettamente ragione Erdogan ed è del tutto evidente che la responsabilità di questo fiasco non possono certo essere attribuite alla struttura e alla burocrazia del Palazzo di Vetro. Appena 24 ore prima, il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon, si era detto «sconvolto» di fronte al continuo massacro di civili, definito «totalmente inaccettabile agli occhi dell’umanità» e aveva rincarato la dose, ammonendo il presidente siriano Assad che «la mancanza di un accordo al Consiglio di Sicurezza non dà alle autorità siriane il permesso di aumentare gli attacchi contro la popolazione. Nessun governo può commettere simili atti contro il proprio popolo senza che la sua legittimità ne sia erosa».

Parole durissime, per chi conosca il felpato linguaggio abitualmente utilizzato dai vertici dell’Onu quando si trovino di fronte a spaccature difficilmente sanabili tra i «grandi». Eppure parole che attestano, ancora una volta, come la situazione siriana stia diventando sempre più intollerabile. Per i siriani, ovviamente, che sono trascinati ogni giorno di più nel baratro di una guerra civile per colpa della furia cieca con cui il regime di Assad ha deciso di rispondere a quelle che, fino a marzo, erano ancora moderate richieste di autoriforma del sistema: sistematicamente irrise dalle promesse mendaci del presidente e dei suoi manutengoli. Per il popolo della Siria si sta apparecchiando uno scenario da incubo in cui sarà chiamato a scegliere tra il sostegno al macellaio di Damasco e quello a un fronte di oppositori composito, al cui interno proprio l’inasprimento della guerra civile non può che far emergere le frange più violente ed estremiste.

Parole alle quali, quasi plasticamente, si contrappongono quelle pronunciate ieri dal ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, in visita a Damasco: «Ogni leader deve assumersi le proprie responsabilità e il presidente siriano si sta assumendo le sue». Sembra di essere tornati agli anni più cupi della Guerra Fredda, quando Pechino neppure faceva parte dell’Onu e Mosca era la capitale dell’Unione Sovietica e «il mondo civilizzato» si divideva in due campi, ognuno convinto che la sua idea superiore di civiltà giustificasse qualunque nefandezza, a partire dal sostegno ai dittatori più sanguinari e ai regimi più criminali. Questa becera prassi non era seguita solo dai russi (allora sovietici), giacché la democratica America sosteneva i torturatori argentini, salvadoregni e nicaraguensi e la Francia - che ieri riferendosi al veto russo-cinese affermava per bocca del suo ministro della Difesa Gerard Longuet, che «esistono culture politiche che meriterebbero di essere prese a calci nel sedere» - trovava naturale appoggiare un criminale psicopatico come Papà Doc ad Haiti...

Tutto come sempre, allora? Non proprio. La spaccatura in Consiglio di Sicurezza rappresenta infatti un vistoso arretramento sulla via, impervia, di costruire una sensibilità comune all’intera società internazionale per lo meno sulle grandi questioni dei diritti umani e della decenza etica. Difficile non costatare con amarezza che il cinismo esibito nei decenni dello scontro sovietico-americano era giustificato da concezioni ideologiche sistematicamente antagoniste le une rispetto alle altre e da una contrapposizione strategica globale: un vero e proprio gioco a somma zero, in cui il valore di ogni pedina dipendeva dal suo rapporto col sistema nel suo complesso. Mentre oggi quello che sembra governare le logiche di Mosca e Pechino (nella fattispecie) è un realismo politico non solo completamente privo di scrupoli, ma anche fine a se stesso. Nel caso russo, al trascinamento di alleanze ereditate dal passato, si sommano la velleità di giocare la sola carta a disposizione per provare a rientrare nel gioco mediorientale (da cui prima l’Urss e poi la Russia sono state estromesse molti anni orsono) e l’opportunismo di approfittare di un’America in forti difficoltà in un’area nella quale ha politicamente investito sempre di più a partire dal 1990, ma con risultati decisamente insoddisfacenti. Il duello discorsivo che oggi oppone la Russia all’Occidente non è figlio di due narrative «sinceramente» alternative, ma della visione ottocentesca della politica estera che sembra guidare l’azione della Russia di Putin: appare, e forse è, una risposta difensiva, «restauratrice» che fa sempre più somigliare la Russia odierna a quella che dopo il 1815 si illudeva di poter tornare ad avere il passato (nella forma aulica di tradizione) come faro, dopo che la stagione furiosamente orientata al futuro sembrava essersi chetata sul campo di battaglia di Waterloo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9749
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« Risposta #100 inserito:: Febbraio 29, 2012, 10:07:09 am »

29/2/2012

Il crollo dei consumi che sfibra l'Occidente

VITTORIO EMANUELE PARSI

Ha ragione Charly Kupchan: «L’eventualità di un’epoca “post-occidentale”», contraddistinta dall’ascesa economica e geopolitica di potenze diverse da quelle della comunità atlantica sta alimentando un animato dibattito ricco «di riflessioni ansiose sul futuro dell’Occidente. Di fronte alla perdita della centralità dell’Occidente, la prospettiva di un suo progressivo allargamento, ovvero della trasmissione dei «valori occidentali» ai più rampanti tra gli attori emergenti (la Cina innanzitutto, ma anche la Turchia o la nuova Russia) può suonare rassicurante. In fondo essa riecheggia l’antico motto per cui «la Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore», come ebbe a dire Orazio.

Una prospettiva rassicurante, quindi, eppure una prospettiva, purtroppo, irrealistica, per un Occidente che sembra intento piuttosto a «perdere i pezzi», abdicando ai suoi stessi valori, piuttosto che a espandere l’area della sua penetrazione politico-culturale. Proprio ciò che sta avvenendo in Grecia in questi mesi è la manifestazione più evidente della rinuncia occidentale a tutelare quella capacità di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza politica, ciò che - in altri termini - ha costituito la cifra più intima del «modello occidentale». La natura della crisi odierna è duplice. Da un lato paghiamo l’insufficiente sforzo di riflessione per adeguare le istituzioni politiche democratiche rappresentative alle sfide che esse devono fronteggiare. Dall’altro siamo schiacciati da forme di organizzazione della produzione che troppo spesso ottimizzano la produttività a scapito di qualunque altro valore (la globalizzazione evocata da Kupchan). Il risultato è il divorzio della ragione politica dalla ragione economica, la secessione di una razionalità rispetto all’altra che costituisce l’abiura dell’Occidente rispetto a se stesso.

Così va in scena il dramma greco, il dramma di un popolo il cui ceto medio è letteralmente «piallato», la cui sovranità è sospesa fino a data da destinarsi e i cui sacrifici sembrano oramai un supplizio di Tantalo. Tutto compiuto affinché l’euro sopravviva (certo), ma anche perché le banche estere che hanno concesso prestiti consapevolmente d’azzardo (lucrando profitti tanto facili quanto rischiosi) possano «socializzare» le perdite. Di fronte allo spettacolo di un Paese che può solo scegliere tra la bancarotta finanziaria e la bancarotta etica e sociale, a chi assiste non resta che la scelta tra il privilegio di una logica o di un’altra, tra il prevalere dell’economicismo o del politicismo.

Che «le cicale greche» riducano i loro consumi, dunque; che i greci tornino a essere «poveri» come son sempre stati, fin quando non potranno nuovamente «permettersi» i livelli di consumo degli «altri» europei, degli «altri» occidentali. Peccato che pochi sembrino preoccuparsi di quanto non i greci, ma tutti noi, cittadini (ex?) delle democrazie occidentali potremo permetterci (e fino a quando) che i livelli di consumo possano abbattersi senza trascinare con sé anche la pur minima fede nella democrazia. Democrazia che ha al suo cuore l’idea di eguaglianza, quella inscritta nella Dichiarazione del 4 luglio 1776, «che tutti gli uomini sono creati eguali (…) dotati di certi inalienabili diritti, (…) per garantire i quali sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla».

La sperimentazione concreta di questa idea di eguaglianza - disponibile a tutti e non solo a pochi - è il cuore della modernità politica occidentale, ciò che ha consentito la realizzazione della democrazia di massa, la quale è proceduta sottobraccio all’elevazione degli standard di consumo delle masse. A chi storce il naso di fronte a questo parallelo, a chi ci parla oggi della «virtù» del pauperismo e della decrescita e indulge nella nostalgia per società meno consumiste e più sobrie, occorre ricordare che il «volgare consumismo» è stato il meccanismo che ha indotto mobilità, rotto le gilde e le corporazioni e messo in crisi quelle società «bene ordinate», ma tremendamente ingiuste, sperequate, conservatrici e immobili.

Vale ancora la pena di rammentare che l’espansione dei consumi di massa ha fatto sperimentare in via concreta e indiretta - potremmo dire «surrogata», ma non per questo meno vera - l’eguaglianza a centinaia di milioni di persone, per le quali essa era stata fino a quel momento un concetto astratto e lontano. Ma non solo. Alla promessa di alti standard di consumi e di progresso individuale e collettivo, l’Occidente ha dovuto non poca parte della sua vittoria sul modello sovietico. Basti ricordare i diplomatici dell’Est espulsi dagli Usa negli Anni Ottanta, che tornavano a casa carichi di televisori e lavatrici o quanto la «voglia di fragole» (introvabili nella Ddr) e in generale di ordinari beni di consumo sia stata per i tedeschi dell’Est una molla non meno forte dell’aspirazione di libertà per voltare le spalle al paradiso dei lavoratori di Honecker.

Tutto questo ha fatto parte del mito attrattivo dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Di tutto questo sembra che, oggi, ci stiamo dimenticando. Allora, come possiamo pensare di espandere agli altri un modello in cui neppure noi sembriamo più disposti a credere?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9827
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« Risposta #101 inserito:: Marzo 13, 2012, 03:04:45 pm »

13/3/2012 - LA MISSIONE AFGHANA

Che senso ha restare a Kabul fino al 2014?

VITTORIO EMANUELE PARSI

Soldati americani che «impazziscono» e massacrano civili inermi per difendere i quali sono stati inviati in Afghanistan: è successo
l’altroieri a un sergente maggiore dei marines. Militari afghani che sparano e uccidono i soldati di Isaf che li stanno addestrando:
è capitato a inglesi e americani due volte nel corso degli ultimi dieci giorni.

Copie del Corano che vengono bruciate per sciatta negligenza provocando violente manifestazioni e assalti ai compounds alleati in cui muoiono decine di afghani: è accaduto nel corso dell’ultimo mese. Droni che ammazzano persone a casaccio nel tentativo di eliminare questo o quel capobanda: si verifica ciclicamente, non a Gaza, ma in Afghanistan e in Pakistan.

Sono tutti episodi - tanti, troppi - che sembrano confermare lo stesso amaro dubbio: che la condizione della sicurezza in Afghanistan stia rapidamente peggiorando, al punto che in molti si chiedono se sia realistico pensare di ritirare il grosso delle truppe straniere dal Paese entro il 2014, come la Nato ha annunciato di voler fare da oltre un anno.

Ieri anche la voce della Cancelliera Angela Merkel, in visita alla grande base tedesca di Mazar El Sharif nel Nord del Paese, si è unita a questo coro.

Eppure, la domanda «giusta» sarebbe un’altra: in queste condizioni, che senso ha tirare fino al 2014? Non sarebbe più saggio, prudente ed efficace accelerare i tempi, prendendo atto del sostanziale fallimento - politico oltre che militare - di più di dieci anni di campagna?
La guerra afghana ha infatti messo in evidenza tanto errori politici quanto errori militari. Per dirla con von Clausewitz, il continuo cambiamento dello scopo politico della guerra (Zweck) ha reso impossibile fissare per l’azione militare degli obiettivi (Ziel) che potessero essere qualificati come successi decisivi. Dal 2001, la campagna afghana ha visto l’affastellarsi di un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine. Obiettivi da perseguire anche quando diventavano oggettivamente incompatibili tra loro: come il sostegno assoluto a Karzai e la trasparenza dei processi elettorali o la lotta alla corruzione.

In oltre dieci anni, possiamo dire di aver realizzato una minima parte di questo ambizioso, articolato e mutevole programma: bin Laden è morto, Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti insorgenti sono stati fisicamente eliminati. È vero. Ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella parte di popolazione che aveva salutato con speranza (se non proprio fiducia) l’intervento occidentale ci sta girando le spalle. Non a caso, il «mentoring e il training» delle forze di sicurezza locali si sta dimostrando fallimentare proprio per il crescere della diffidenza e insofferenza reciproca tra reclute afghane e militari della coalizione, percepiti sempre di più come l’ennesima forza di occupazione da parte della popolazione. Osservava il generale inglese Rupert Smith, che la «guerra tra la gente» (quella tipica a partire dagli Anni 90) richiede professionisti preparati, flessibili e versatili, lo stesso previsto dal «comprehensive approach» ideato da Petraeus e sostenuto dagli alti papaveri del Pentagono e della Casa Bianca: pensando al «sergente impazzito» di domenica scorsa e alla quantità crescente di «incidenti» che coinvolgono i militari americani viene da chiedersi se non ci sia qualcosa da cambiare nelle pratiche di selezione e addestramento delle forze armate Usa, che in Afghanistan si sono trovate a perdere proprio la battaglia per la conquista «del cuore e della mente della popolazione».

Dal punto di vista etico, è amaro doversi lasciare alle spalle «un altro Iraq», avendo alimentato e poi deluso le aspettative di milioni di afghani, a cominciare dalle donne, che perderanno quei pochi diritti «conquistati» durante la presenza alleata. Ma se occorre rivedere radicalmente la strategia, prima se ne prende atto e meglio è per tutti. Probabilmente abbiamo iniziato a perdere la guerra in Afghanistan quando non siamo riusciti ad assicurarci l’effettiva e leale collaborazione del Pakistan, che ha protetto e alimentato l’insorgenza quando era più debole e più vicina alla sconfitta, con l’obiettivo politico (Zweck) di continuare a esercitare la sua egemonia sul Paese vicino. La beffa è che Islamabad ha applicato la lezione di von Clausewitz meglio di Washington e ha probabilmente vinto la «sua» guerra. Così, nel 2014 -13 anni e decine di migliaia di morti dopo - proprio il Pakistan tornerà a essere il vero arbitro assoluto dei destini afghani: esattamente come quando a Kabul regnava il mullah Omar…

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9879
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« Risposta #102 inserito:: Aprile 12, 2012, 03:39:23 pm »

12/4/2012

Il dittatore non si fermerà e l'America non può trattare

VITTORIO EMANUELE PARSI

Per capire quali chance effettive ha di radicarsi la tregua annunciata per oggi in Siria, è sufficiente porsi una semplice domanda. Esiste una sola buona ragione al mondo Basha el Assad dovrebbe dire sì alla trattativa?

Per cui uno spietato dittatore, un personaggio sicuramente spregevole ma probabilmente tutt’altro che sprovveduto dovrebbe acconsentire ad avviare un dialogo con i ribelli o anche soltanto prendere in seria considerazione la proposta di cessate il fuoco avanzata dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ex Segretario generale Kofi Annan? La risposta, altrettanto semplice ma desolante, è no. Chi invoca la via negoziale (dalla Lega araba alle Nazioni Unite, dalle potenze occidentali al fronte composito degli oppositori), ognuno con la sua propria idea della Siria post-Assad, è infatti diviso su tutto, tranne che su una cosa: il dittatore se ne deve andare e il regime deve finire. Un’opinione ampiamente condivisibile, intendiamoci, ma una pessima base negoziale. Assad e il regime che rappresenta dovrebbero graziosamente farsi da parte «per il bene del Paese», un argomento assai poco efficace nei confronti di un tiranno che di fronte a richieste ben più moderate, tredici mesi fa, non esitò a far sparare sulla folla, a far torturare a morte dei bambini, gettando i presupposti della guerra civile odierna.

La stessa richiesta di un provvisorio cessate il fuoco appare priva di senso, dal punto di vista del regime, considerato che storicamente le tregue han sempre favorito i più deboli e mai i più forti. E in termini militari, almeno per ora, il regime è decisamente più forte dei ribelli. Perché mai dovrebbe accettare di allentare la brutale pressione che sta esercitando da oltre un anno, che rappresenta ancora la carta migliore a sua disposizione? Non certo per evitare altre stragi, giacché la strategia stragista è stata quella deliberatamente perseguita dagli apparati di sicurezza, allo scopo di terrorizzare i nemici, ammonire minacciosamente gli incerti e stringere maggiormente a sé i fedeli, trasformandoli in complici di un vero e proprio bagno di sangue. La strategia tipicamente terroristica del regime ha infatti freddamente puntato sulla radicalizzazione dello scontro, di cui l’esacerbazione della violenza è componente essenziale, anche al fine di scavare un vallo di sangue tra i sostenitori e gli oppositori. Ha scelto l’escalation nella consapevolezza che, se questa non fosse bastata a schiacciare la rivolta, avrebbe comunque favorito l’emergere tra gli oppositori delle leadership più estremiste, così spingendo sotto le «ali protettrici» del regime tutte le minoranze della composita e frammentata società siriana, preoccupate che la fine del regime della famiglia Assad implichi l’avvento di un potere islamista sunnita: ipotesi per nulla peregrina.

Assad non ha alternative al continuare a combattere, attento solo a non irritare irreparabilmente i suoi due protettori che contano: Russia e Cina. Questo spiega la pantomima delle dichiarazioni moscovite del suo ministro degli Esteri e, più in generale, il balletto nei confronti delle iniziative dell’Onu e della Lega Araba. La Russia sarebbe probabilmente la sola in grado di esercitare un’azione moderatrice su Damasco, a patto però di poter offrire qualcosa al rais di diverso dalla resa senza condizioni. Cosa che la Russia, evidentemente, potrebbe fare solo con l’accordo degli Stati Uniti. Ma l’America di Obama, in piena campagna presidenziale, non può permettersi di mostrarsi «debole» con Damasco, tantopiù di fronte ai rischi che potrebbero derivare se una simile lettura dovesse prevalere a Teheran o Tel Aviv. Un’America che si mostrasse o fosse percepita irresoluta o debole finirebbe col perdere qualunque (residua) capacità di deterrenza sulla crisi ben più complicata legata alle scelte nucleari iraniane. Senza contare che avallare ora una via effettivamente negoziale nei confronti di Damasco significherebbe scontentare tutto il mondo arabo che, da Doha a Ryad, dal Cairo a Gaza, ha scaricato Assad. Oltretutto, un simile cambiamento di strategia mostrerebbe ancora una volta come Washington si è mossa durante tutto l’arco di crisi delle «Primavere arabe» senza coerenza strategica, azzoppata anche dal fatto di avere un segretario di Stato con ambizioni presidenziali, che in ogni scelta deve tener d’occhio non solo questa scadenza elettorale ma anche la prossima.

Il punto debole di tutto l’armamentario di «proposte negoziali» e «minacce» avanzate nei confronti di Assad è che esse vengono avanzate come se qualcuno fosse pronto a intervenire nel caso esse venissero rifiutate, come se fossero un ultimatum, mentre sono solo un bluff. Ed è la consapevolezza di questa debolezza, che fa forte Assad, quasi più di quanto lo facciano i suoi tanks e i suoi pretoriani.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9985
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« Risposta #103 inserito:: Aprile 16, 2012, 11:49:27 am »

16/4/2012

Afghanistan, perché la via d'uscita è necessaria

VITTORIO EMANUELE PARSI

Non esiste più una sola zona effettivamente sicura in tutto l’Afghanistan.

Neppure il perimetro che racchiude il compound del quartier generale di Isaf, delle ambasciate e delle principali agenzie internazionali può dirsi immune dagli attacchi degli insorgenti.

La tattica di questi ultimi ricorda sempre più quella dei vietcong: colpire i funzionari e i simboli del governo ovunque sia possibile e portare la guerra nella stessa capitale, per rendere chiaro chi ha l’iniziativa.
Una strategia per alimentare un dubbio che ormai gli stessi ambienti militari faticano a non far trapelare: «Vale la pena continuare a combattere una guerra che ormai nessuno crede più di poter vincere?».

La transizione, che nel corso di tre anni avrebbe dovuto vedere il progressivo passaggio di consegne tra forze Isaf e forze di sicurezze afgane, semplicemente non sta funzionando. Polizia ed esercito di Kabul sono perennemente sulla difensiva e sembrano incapaci di passare al contrattacco. Non occorre aver studiato Clausewitz per capire che la vittoria finale può arridere e solo a chi riesce ad assumere l’iniziativa: basta guardare una partita di rugby (lo sport che più di ogni altro simula una battaglia) per rendersene conto...

A chi è abbastanza vecchio per ricordarselo, questa guerra appare sempre più inquietantemente simile al conflitto vietnamita. Nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968 i vietcong e l’esercito del Vietnam del Nord scatenarono «l’offensiva del Tet», il cui scopo esplicito era dimostrare la loro capacità di colpire ovunque. Militarmente furono sconfitti, politicamente vinsero, fiaccando la volontà di combattere degli Stati Uniti. I talebani non hanno i mezzi e i numeri che aveva a disposizione Ho-Chi-Min, ma ancora una volta ieri hanno giocato d’anticipo, scatenando la loro «offensiva di primavera» ben prima che l’esercito di Karzai neppure pensasse a come utilizzare militarmente la fine della stagione invernale. In realtà è da quando Isaf ha smesso di sostenere la maggior parte dello sforzo diretto, passando la palla agli afghani, che abbiamo perso l’iniziativa. E non la riconquisteremo. Ero in Afghanistan, poco meno di un anno fa, e ricordo come l’attacco all’hotel Intercontinental di Kabul (il 28 giugno) anticipò in maniera «plastica» tutte le difficoltà dell’afghanizzazione del conflitto. Eppure, non esiste una strategia alternativa a questa per rendere la vita più difficile agli insorgenti.

Nei loro comunicati, i ribelli hanno precisato come intendessero «vendicare» l’onore del popolo afgano oltraggiato da alcuni comportamenti attuati dalle truppe americane (i roghi del Corano, l’oltraggio di cadaveri, le stragi di civili...). La presenza delle truppe Isaf, sempre più percepite come l’ennesima forza di occupazione, consente ai talebani di presentarsi nella veste di «patrioti» e facilita le accuse di collaborazionismo rivolte al governo di Karzai. Quest’ultimo, appena pochi giorni fa, aveva apertamente ventilato la possibilità di anticipare di un anno le elezioni legislative, così da rendere possibile accorciare la transizione. Karzai non è un suicida, evidentemente. Ma è consapevole che l’unica alternativa all’accelerazione del ritiro del contingente internazionale, sarebbe un suo incremento e il ritorno a un più massiccio impiego nelle operazioni «search and destroy».

Tutti obiettivi irrealistici, mentre quello che i governi occidentali cercano, a iniziare dall’amministrazione americana, è una via d’uscita che non contempli, come scena finale, la riedizione della vergognosa fuga in elicottero dal tetto dell’ambasciata assediata di Saigon nel 1975. Un più rapido disimpegno di Isaf, oltretutto, consentirebbe probabilmente alle autorità afghane di assumere un atteggiamento più flessibile nei confronti delle ricorrenti ipotesi di trattative complessive aperte anche ai rappresentanti della guerriglia e di ipotizzare «soluzioni politiche» che sarebbero forse troppo imbarazzanti per Washington e per le altre capitali occidentali. C’è infine un dato estremamente significativo di come le cose siano cambiate a Kabul ed è rappresentato dal mutamento di giudizio sulla exit strategy irachena: presentata come un compromesso soddisfacente e non come una situazione da non replicare. Con tanti saluti al mantra di questi anni: «L’Afghanistan non sarà un altro Iraq»...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10000
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« Risposta #104 inserito:: Maggio 17, 2012, 05:16:05 pm »

17/5/2012

All'Europa serve più unità

VITTORIO EMANUELE PARSI

Siamo solo all’inizio, ma c’è da credere che al di là delle scontate dichiarazioni circa la rilevanza strategica dell’asse franco-tedesco e del comune auspicio che la Grecia non esca dall’euro, la relazione tra Parigi e Berlino sia destinata a una profonda revisione. È una necessità che in parte prescinde dal cambio della guardia all’Eliseo. È perlomeno dall’89, dalla fine della Guerra Fredda, che il rapporto tra Francia e Germania non è stato oggetto di un ripensamento reciproco. Dire che resta essenziale affinché l’Europa unita sopravviva è un’ovvietà. Quello che è meno ovvio è capire come si possa riarticolare. La Germania sta sperimentando come una sua leadership «eccessivamente solitaria» la esponga a un insostenibile isolamento. La Francia sa bene che una parte non irrilevante del suo peso deriva dall’agire in tandem con Berlino. Ambedue sono perfettamente consapevoli di come l’Europa, piuttosto che vincolarne le sovranità, potenzia le rispettive posizioni e ne hanno a cuore il futuro.

Ma quando parlano di Europa, si fa sempre più netta la sensazione che abbiano in mente due costruzioni ben diverse. A tema non è più la sovranità nazionale, il timore francese di vederla erosa, l’ansia tedesca di un suo troppo imperioso ritorno. No, in discussione è che tipo di Europa dovrà essere quella capace di assorbire lo choc greco (oggi), qualunque siano le decisioni che i greci e gli altri europei prenderanno nei prossimi mesi. Il caso greco, nella sua drammaticità, è esemplare, quasi plastico del come abbiamo lasciato andare alla deriva la tensione sempre latente e però vitale tra logica politica e logica economica così da ritrovare su due sponde opposte le ragioni della democrazia e quelle del mercato. La paura con cui attendiamo l’esito delle prossime, ennesime, elezioni greche è attestata dal nervosismo delle Borse e dal surriscaldamento degli spread. I greci voteranno tra un mese, ma intanto i mercati hanno già votato: e la forza dei numeri ha già sconfitto la forza del numero. Il voto ponderato di chi concentra e sposta ricchezze finanziarie ha già messo in rotta il voto popolare: il suffragio universale, a inizio del XXI secolo, è tornato a essere qualcosa da temere, di cui diffidare, da procrastinare o svuotare, come accadeva all’inizio del ’900.

Evidentemente, il tentativo che il francese Hollande sta mettendo in atto è ricordare alla tedesca Merkel che, a forza di perseguire ossessivamente la stabilità finanziaria, stiamo rischiando di produrre la destabilizzazione politica e sociale, mentre è evidente che occorre procedere tenendo sotto controllo entrambe. Politiche che perseguono solo l’una o l’altra forma di stabilità non ne realizzeranno nessuna. Tutto questo era implicito in quel modello renano di capitalismo che per decenni è stato il vanto europeo, e che è stato progressivamente abbandonato. Si dirà che è successo sotto l’incalzare dei mercati. Occorre rispondere che è proprio alla politica che compete il porre i limiti e trovare i rimedi alle derive economicistiche o panpoliticiste. Sia Merkel che Hollande sanno bene che senza un accordo tra loro, nessuna soluzione è possibile e che la risposta «più Europa!» è giusta ma parziale, se non la si declina in un modello concreto. Paradossalmente, in vista del prossimo G8 di Camp David, è stato il presidente Obama ad ammonire i responsabili europei a imboccare con più coraggio la via delle manovre di stimolo alla crescita. Prima che sia troppo tardi e che la recessione europea non vanifichi gli onerosi sforzi messi in atto dalla sua amministrazione per sostenere sviluppo e occupazione oltre Atlantico. È un invito neppure troppo implicito a una maggiore unità europea, quello che viene dagli Usa. Esattamente come fece Eisenhower al sorgere del processo europeo, anche oggi l’America di Obama preme perché l’Europa sia più coesa. Negli Anni 50 la minaccia era quella del comunismo e dell’Urss. Oggi essa è rappresentata dalla speculazione e dalla recessione. Ma la risposta possibile è sempre una sola: più unità. A condizione di sapere su che cosa chiamare a raccolta i popoli d’Europa e avere il coraggio di farlo, prima che i fantasmi del lato oscuro del ’900 tornino a farsi troppo inquietanti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10114
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