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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61262 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 02, 2011, 06:50:14 pm »

2/1/2011

La cacciata degli infedeli

VITTORIO EMANUELE PARSI

Sono almeno due i piani di lettura che si possono scegliere per spiegare i gravissimi attentati anticristiani di Alessandria d’Egitto: il primo concentrato sulle peculiarità proprie del più importante dei Paesi arabi, il secondo più attento alle dinamiche complessive del Medio Oriente e al peggioramento generale delle condizioni di sicurezza (ma dovremmo dire di sopravvivenza) dei cristiani in tutto il mondo arabo e islamico.
Il mio punto di vista è che essi sono talmente intrecciati che devono essere tenuti contemporaneamente presenti se si vuole capire davvero la portata degli eventi cui stiamo assistendo.

Quello che appare essere in atto in tutto il Medio Oriente è una vera e propria spinta a omogeneizzare il tessuto sociale dal punto di vista religioso. Per lungo tempo il mondo musulmano ha conosciuto la piaga della rivolta contro i propri leader ritenuti corrotti e (intimamente) apostati da parte di movimenti che si autoproclamavano i soli interpreti autentici del messaggio del Profeta. Pensando all’Egitto, il pensiero corre immediatamente a Anwar el Sadat, il coraggioso presidente del viaggio a Gerusalemme che venne assassinato da appartenenti ai Fratelli Musulmani pochi anni dopo aver stipulato i primi accordi di pace con Israele. In campo sciita, con tutti i necessari distinguo, impossibile non ricordare la rivoluzione khomeinista, che portò alla caduta dello scià Reza Pahlavi e all’instaurazione della Repubblica islamica.

In realtà, quella della rivolta violenta e del tirannicidio è una pratica antichissima, risalente addirittura alla caduta del califfato ommayade nell’VIII secolo e al movimento dei kharigiti, che fin dalle origini della tradizione arabo-islamica (si ricordi che Maometto compì la sua predicazione nel VII secolo) ha contribuito a fornire piena legittimità alla violenza come strumento di lotta politica. Il «paradiso dei martiri» è sempre aperto: anche perché, nulla, o non molto, è cambiato nello stile di conduzione dei regimi politici della regione nel corso degli ultimi 1200 anni.

Poco importa che si richiamino a sempre più lontane e confuse rivoluzioni socialiste (l’Egitto), all’oscurantismo religioso (l’Arabia Saudita), o a un qualche pasticcio concettuale frutto della caduta violenta e per mano straniera del precedente tiranno (l’Iraq): resta il fatto che gli spazi effettivi di tolleranza e rispetto per la diversità e la sovranità individuale che tali regimi contemplano sono talmente irrisori da finire col contribuire a legittimare essi stessi la violenza di cui sono oggetto.

In quella che agli occhi dei fondamentalisti violenti è una fitna (una lotta interna al mondo musulmano contro gli apostati e gli eretici), da oltre un decennio è però divampata una vera e propria jihad il cui scopo è purificare la società dalla presenza cristiana. In parte questo è dovuto alla semplicistica sovrapposizione tra cristianesimo e Occidente, che ha accompagnato la progressiva marginalizzazione politica del primo e l’ascesa del secondo nel corso soprattutto del Novecento. Ma in parte è anche legata all’obiettivo di rendere religiosamente uniformi le società arabe, così che il messaggio che associa in maniera esclusiva la rivolta politica e la sua declinazione islamista radicale non trovi più alcun ostacolo.

D’altra parte, nei tanti regimi illiberali che da sempre costellano la regione, i cristiani avevano trovato protezione (e non diritti) in quanto comunità politicamente sottomessa al potere costituito, e non come individui, come del resto la stessa tradizione coranica e la lunga consuetudine della dominazione prima araba poi ottomana avevano loro insegnato. Ecco allora che è sempre stato particolarmente facile e odioso additarne i loro esponenti come «manutengoli» del tiranno, legati a lui ma estranei al corpo di una società beceramente immaginata e violentemente modellata come monolitica.

L’Egitto è tradizionalmente il Paese più importante del mondo arabo, il solo vero alleato (e non cliente) americano in quel mondo. Al Cairo Obama scelse di tenere il suo importante e infruttuoso discorso ai musulmani del mondo. A distanza di circa due anni da allora, il regime è sempre più avviluppato in una crisi di transizione di cui non vede un’uscita che possa essere auspicabile, dove l’introduzione di elezioni fantoccio ha contribuito a esasperare la tensione politica e sociale, e dove il futuro di una minoranza cristiana che risale a quasi duemila anni orsono appare sempre più nero.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8247&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 09, 2011, 11:21:38 am »

9/1/2011

La rabbia dei giovani senza futuro

VITTORIO EMANUELE PARSI

Egitto, Tunisia, Algeria: sembra che il Nord Africa rischi di saltare in aria in una miscela esplosiva di regimi più o meno brutalmente autoritari e insieme sempre più deboli.

Un composto di crescenti difficoltà economiche con tassi di disoccupazione impressionanti, e di un Islam radicale che soffia sul fuoco. Per chi ha memoria della sporca guerra degli Anni 90, costata oltre 150 mila morti, il timore che il più grande dei Paesi del Maghreb possa nuovamente imboccare la via della violenza settaria rappresenta un vero e proprio incubo.

Ed è un rischio reale, visto che gli epigoni del Fis sembrano godere nuovamente di un consenso crescente tra la popolazione algerina. La legittima enfasi sugli sciacalli sempre pronti ad azzannare le società arabe nel nome della loro visione distorta e fanatica dell’Islam rischia però di farci percepire ciò che sta avvenendo sulle coste meridionali del Mediterraneo come qualcosa di eccessivamente «distante», e quindi più facilmente esorcizzabile. In realtà, i giovani disperati che ad Algeri e a Tunisi distruggono e assaltano tutto ricordano molto di più i casseurs parigini della banlieue in fiamme di sei anni fa, o gli «anarchici» greci delle settimane scorse che non i seguaci di questo o quell’imam radicale.

Ciò cui stiamo assistendo in questi giorni in Algeria e in Tunisia è l’esito di una combinazione fatta di tre elementi: regimi politici poco o per nulla inclusivi, in cui il circuito politico legale è concretamente impermeabile alla società e incapace di fornire risposte adeguate al sentimento di totale abbandono in cui essa si dibatte; una crisi occupazionale, ancor prima che economica, che vede un tasso di disoccupazione stabilmente intorno al 25% nella contemporanea assenza di meccanismi di Welfare; e una distribuzione della popolazione per fascia d’età (il 75% degli algerini ha meno di 30 anni) che fa sì che quelli che non hanno nulla da perdere a «spaccare tutto» siano tanti, tantissimi: forse abbastanza numerosi da fare una rivoluzione.

A Parigi come a Torino, a Londra come a Berlino o a Madrid, abbiamo dati sulla disoccupazione giovanile non molto diversi, e tutti i governi, di qualunque colore, sono in difficoltà nell’offrire ai giovani risposte che non siano palliativi o vuote promesse. Non è un caso che proprio i giovani siano quelli a un tempo meno protetti da ciò che resta dello Stato sociale e più alienati rispetto al sistema politico (si vedano i dati sull’astensionismo giovanile). Ma nella vecchia Europa (mai l’aggettivo è apparso più appropriato) i giovani, semplicemente, sono pochi, non abbastanza per far prendere in considerazione le proprie richieste, figuriamoci per «fare la rivoluzione».

La nostra piramide demografica è speculare rispetto a quella dei nostri dirimpettai, e questo - insieme alla maggior inclusività dei nostri sistemi politici e alla maggior solidità dei nostri sistemi di Welfare, ovviamente - è ciò che fa la vera differenza. Quel che rischia di condannare i conti dell’Inps, o per lo meno di rendere la nostra vecchiaia meno florida di quanto avessimo sperato, è anche la miglior garanzia di stabilità del sistema e spiega la sostanziale attitudine conservatrice di un Paese come l’Italia.

Oltremare è esattamente l’opposto. In maniera per molti versi analoga a quanto avvenne nel 1992, possiamo solo sperare che il regime riesca a tenere la situazione sotto controllo, ma non certo permetterci il lusso di illuderci che ciò possa minimamente coincidere con un qualche inizio di soluzione.

Se Paesi come i nostri, istituzionalmente solidi e dalla ben maggiore capacità di pressione sull’economia globale, i suoi attori e i suoi forum, non riescono a venire a capo di questa distruzione sistematica di posti di lavoro che l’economia contemporanea sembra imporre, come pensare che una simile impresa possa riuscire a sistemi ben più fragili come quelli del Maghreb?

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8274&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #77 inserito:: Gennaio 27, 2011, 11:58:55 pm »

27/1/2011 - ANALISI

Gli errori americani


VITTORIO EMANUELE PARSI

C’è un dato, per noi inquietante, che accomuna fenomeni diversi tra loro come la caduta di Ben Ali in Tunisia, le rivolte anti-Mubarak in Egitto, la crisi del governo Hariri in Libano e le difficoltà di Habu Mazen dopo la divulgazione dei «Palestinian files».

Questo dato comune non va ricercato nelle cause, ma nelle conseguenze di questi eventi, ed è descrivibile come la repentina perdita di «egemonia» americana sul Mediterraneo meridionale e orientale, che rischia di avvenire attraverso la sostituzione di regimi e governi filo-occidentali con regimi e governi anti-occidentali. Se continua di questo passo, è possibile che in pochissimo tempo gli Stati Uniti si ritrovino ad avere nella regione un pugno di alleati, assai scomodi (sia pure per ragioni diversissime, come Israele o l'Arabia Saudita) o praticamente irrilevanti o fragilissimi (i vari Emirati e la Giordania). E tutto ciò fa aumentare le probabilità che, nel nuovo quadro strategico, un conflitto arabo-israeliano diventi quasi inevitabile.

È l'Egitto che in questo momento desta maggiori preoccupazioni. Il regime di Mubarak appare decisamente in affanno: dopo gli attentati anticristiani a cavallo dell'inizio dell'anno, e le seguenti manifestazioni di protesta dei copti, la tensione è nuovamente tornata a divampare, sull'onda dei successi conseguiti dalla rivolta tunisina. Ancorché i Fratelli Musulmani abbiano dichiarato di non essere alla guida della protesta, a Suez come ad Alessandria o al Cairo, la folla si è scontrata con le forze di polizia al grido di «Allah akbar!». L'organizzazione islamista, esclusa fraudolentemente dalle elezioni politiche di novembre, sarebbe del resto la principale beneficiaria di un eventuale tracollo del regime. Può darsi che, grazie al puntello determinante offerto dalle forze armate, Hosni Mubarak riesca a restare in sella, ma è quasi impossibile che a succedergli sia il figlio. La Casa Bianca, dal canto suo, ha un bel garantire «l'appoggio americano a quanti manifestano pacificamente per la libertà in Tunisia e in Egitto». La verità è che la caduta del regime significherebbe per l'America la perdita del più importante alleato nel mondo arabo, con conseguenze drammatiche per l'intero quadro mediorientale. Se i Fratelli Musulmani dovessero arrivare al potere al Cairo, infatti, difficilmente continuerebbero a partecipare all'isolamento internazionale di Hamas (che proprio ai «Fratelli» si richiama). La periclitante posizione di Abu Mazen si farebbe sempre meno sostenibile e la stessa «pace fredda» con Israele potrebbe essere rimessa in discussione.

Il nervosismo israeliano è poi acuito dall'assistere all'irresistibile ascesa al potere in Libano dei propri «arcinemici» di Hezbollah. Con l'incarico di formare un nuovo governo assegnato al filosiriano Najib Mikati (al posto del filo-occidentale Saad Hariri), sembra chiudersi, almeno per ora, la stagione di speranze inaugurata con la «Rivoluzione dei cedri» nel 2005. Da allora, il Libano era tornato a essere molto vicino a Washington e a Parigi, nonostante il breve ma devastante conflitto con Israele nel 2006 e la crescita di importanza di Hezbollah nel panorama politico interno. Tutto questo potrebbe essere già un ricordo. E le responsabilità americane nell'aver contribuito a «perdere il Libano» non sembrano essere insignificanti. La posizione dogmatica degli Usa sul Tribunale speciale per il Libano (incaricato di fare luce sull'omicidio di Rafik Hariri) ha finito per condizionare i diversi governi libanesi che, per continuare a ottenere l'aiuto americano, hanno dovuto mantenere una posizione rigidamente pro-Tsl, nonostante il quadro politico interno lo consentisse sempre meno e illudendosi che l'appoggio Usa sarebbe stato determinante per tenerli in vita.

Mai calcolo è stato più sbagliato. Di fatto, il dogmatismo degli Usa ha concorso a radicalizzare lo scontro politico interno, producendo così la situazione più favorevole a Hezbollah. Ora gli Usa già minacciano di tagliare gli aiuti e la collaborazione economica con Beirut, nel caso che l'esecutivo Mikati dovesse essere varato e si appresterebbero a imporre sanzioni nei confronti del Libano qualora il Tsl dovesse richiedere l'incriminazione di esponenti di Hezbollah e il nuovo governo libanese dovesse opporvisi. Una politica suicida, che semplicemente rafforzerebbe l'influenza di Siria e Iran sul Paese. Nel frattempo tutti si chiedono quanto Israele potrebbe accettare una situazione del genere senza essere tentato da una nuova, meglio preparata e più spietata, campagna libanese. Uno scenario già di per sé inquietante, che diventerebbe semplicemente un incubo, immaginando un Egitto senza Mubarak e una Palestina senza Abu Mazen.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8339&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:28:22 pm »

2/2/2011

I Fratelli Musulmani un dialogo da aprire


VITTORIO EMANUELE PARSI

Non c’è dubbio che la profondità e l’estensione della protesta in Egitto abbia colto di sorpresa le diplomazie delle potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Fino ad ora, all’ormai consueta balbuzie europea, di cui il vertice di un paio di giorni fa a Bruxelles costituisce solo l’ennesimo esempio, ha fatto da imbarazzante controcanto la confusione americana. L’America è stata sistematicamente in ritardo di fronte allo tsunami che sta squassando il sud del Mediterraneo, è apparsa sempre essere almeno due passi indietro rispetto al corso degli eventi, affannata a inseguirli piuttosto che in grado di esercitare una qualche influenza. Imbarazzante, se solo si considera che, dopo Israele, l’Egitto è il secondo destinatario degli aiuti (economici e militari) degli Usa. Nei giorni scorsi, dopo il tartufesco ritardo con cui la Casa Bianca ha esteso anche alle proteste egiziane la patente di legittimità prima rilasciata solo ai moti tunisini, l’America ha prima chiesto a Mubarak di non reprimere nel sangue la rivolta, poi di riprendere il processo di liberalizzazione timidamente intrapreso sotto la pressione di George W. Bush e Condoleezza Rice, infine di fare un passo indietro. In una frase: sempre troppo poco e troppo tardi.

Forse però il tempo c’è ancora per provare a giocare d’anticipo, a condizione di mettere in campo l’audacia necessaria, anche nella consapevolezza che, senza un intervento coraggioso, il corso degli eventi potrà solo andare in una direzione poco favorevole agli interessi occidentali nell’area e alla stessa stabilità strategica del Medio Oriente, con conseguenze negative anche e innanzitutto per il popolo egiziano. In altri termini, occorre già pensare al dopo-Mubarak, cercando di esercitare tutta l’influenza di cui si dispone per provare a indirizzarlo e bisogna farlo a partire dall’individuazione degli interlocutori per ora, e sottolineo il per ora, ancora decisivi. Mi riferisco ai militari, ad El Baradei e ai Fratelli Musulmani. Al momento sono questi tre, per motivi diversi, gli interlocutori dotati di risorse significative. Finché il regime sta in piedi, i militari continuano a esercitare il controllo dell’uso della forza. La loro sbandierata decisione di non impiegarla contro i protestatari può ovviamente essere letta come una manifestazione di debolezza, ma credo vada anche interpretato come un segnale politico, di disponibilità al dialogo, alla ricerca di una soluzione di compromesso in questa fase di resilienza del vecchio regime. El Baradei ha dalla sua la chance di essere l’unico federatore possibile per coalizzare tute le forze anti-Mubarak, per dare la spallata decisiva al regime. L’unico di cui tutti si fidano o dicono di fidarsi. El Baradei è forte della sua debolezza, di non essere il leader di alcun gruppo organizzato. Ma ciò che è la sua forza si ribalterebbe nella sua debolezza non appena il regime venisse abbattuto. Caduto il regime, le diverse anime del composito movimento sorto più o meno spontaneamente, inizierebbero una dura battaglia politica per conseguire la leadership o, più probabilmente, l’egemonia sul nuovo corso. E in questa terza e decisiva fase, inutile far finta di negarlo, i Fratelli Musulmani sarebbero quelli meglio in grado di conseguire la vittoria, per la loro migliore organizzazione e per la loro più capillare diffusione. Con quali garanzie per la natura liberale o democratica del loro regime è difficile a dirsi, tanto più se la natura rivoluzionaria del processo dovesse prevalere. Se il processo sarà rivoluzionario, infatti, saranno le minoranze meglio organizzate a guidarlo e a volgerlo a proprio vantaggio, e senza mediazione alcuna.

Ogni attore, quindi, è particolarmente forte in una fase - quella della resilienza del potere al tramonto, quella del suo abbattimento, e quello dell’instaurazione di un regime diverso - ma più debole in tutte le altre. Con l’avvertenza ovvia che, se i momenti non vengono legati insieme, chi vince l’ultima mano vince tutto il piatto. Qualora invece, mentre la fase uno appare già pericolosamente agli sgoccioli ma non ancora completamente conclusa, Washington intavolasse trattative congiunte con tutti gli attori significativi, potrebbe vincolarli a una serie di impegni e concessioni reciproche, trasformando le diverse distinte fasi (di resilienza, abbattimento e instaurazione rivoluzionaria) in un unico processo di transizione. Ciò implicherebbe il riconoscimento della natura politica legittima dei Fratelli Musulmani, ma eviterebbe di riprodurre in Egitto su scala ancora maggiore il disastro di Gaza: cioè di chiedere prima elezioni regolari, per poi disconoscerne la validità quando chi vince non ci piace. Inutile negare che una simile mossa comporta rischi ovvi, ma un’apertura «contrattata» degli Usa alla legittimità politica dei Fratelli Musulmani potrebbe essere la sola carta da giocare per evitare scenari peggiori in tutta la regione e per mettere in scacco l’influenza crescente di regimi estremisti come quello iraniano.

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« Risposta #79 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:23:18 am »

12/2/2011

Alla fine ha vinto Obama

VITTORIO EMANUELE PARSI

Alla fine il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha vinto la sua scommessa, e le pressioni americane sono state probabilmente decisive per provocare le dimissioni di Mubarak. Quello che si prefigurava come il «giovedì nero» della diplomazia americana, il giorno in cui gli Stati Uniti toccavano con mano la loro perdita di influenza in Medio Oriente e Washington doveva persino subire l’affronto di vedersi sostituita da Riad nel ruolo di sostenitore dei regimi fin lì alleati, si è tramutato nel venerdì in cui è arrivata la vittoria in una difficile prova di forza.

La Cia e la stessa Casa Bianca si sono giocati molto della loro credibilità in un’operazione pericolosa come quella di dare per scontato che il raiss egiziano si piegasse alla volontà di Washington senza badare alle raccomandazioni europee ed israeliane che invitavano invece a maggior prudenza. Un rischio assunto anche per ribaltare la sensazione che l’amministrazione americana, colta di sorpresa come tutti dalla rivolta egiziana, fosse costantemente in affanno e confusa sul da farsi: stanco di inseguire gli eventi, Obama ha provato ad anticipare i suoi desideri. E per ora, questo azzardo l’ha vinto.

Mubarak ha provato a fare appello a quel concetto di onore che, nel mondo arabo e in generale nel Medio Oriente, continua a giocare un ruolo per nulla trascurabile. Da quelle parti il «salvare la faccia» (la reputazione, avrebbe detto Thomas Hobbes) è una cosa talmente importante da poter trasformare una sconfitta in una vittoria. Fu una certa idea dell’onore che nella guerra del 1990-91 consentì a Saddam Hussein di essere percepito in gran parte del mondo arabo non come un patetico sbruffone ma come l’eroe che aveva sfidato gli americani. Fu la mancanza di cooperazione americana nel cercare un compromesso che potesse salvare la faccia del presidente Khatami che impedì di trovare una soluzione accettabile sulla questione del nucleare iraniano quando forse era ancora possibile. Questa volta, almeno per ora, l’appello all’onore arabo non ha funzionato neppure nei riguardi dell’esercito, che ha deciso di scaricare Mubarak, per difendere lo Stato e (probabilmente) il suo posto all’interno del potere egiziano.

Ora staremo a vedere che cosa succederà. È possibile che la resa di Mubarak contribuisca a deradicalizzare il clima, ma è anche possibile che spinga la piazza a far pressione sui militari per rinunciare qui e ora a qualunque ruolo politico. È possibile che i militari accettino di accompagnare la transizione accontentandosi di esserne i guardiani ma anche che tentino la via del colpo di Stato per non perdere gli enormi privilegi di cui godono. Bisognerà anche capire, ovviamente, quanto varrà la testa di Suleiman una volta che Mubarak non c’è più. Tutte possibilità. Quello che è certo è che proprio il successo inaugura la fase più «politica» della rivoluzione, la lotta tra le tante anime di questa rivolta: comprese quelle che hanno fatto finora di tutto per non comparire, per restare nell’ombra, per defilarsi. E in questa fase l’esercito, se non risulterà essersi consumato oltremisura nel dilemma del sostenere o meno Mubarak, potrà essere una delle poche garanzie contro una deriva più o meno estremista. Una cosa sembra potersi dire guardando agli eventi di queste settimane in Tunisia ed Egitto. Negli Anni 50 il golpe di Nasser inaugurò la stagione dei governi militari nazionalisti e socialisteggianti in tutta la regione. Alla fine degli Anni 70, la rivoluzione khomeinista lanciò l’idea che una repubblica islamica fosse realizzabile alle soglie del Duemila. Oggi, il successo delle rivolte tunisina ed egiziana sembra dirci che saranno le rivoluzioni acefale dal basso a poter caratterizzare il Medio Oriente.

Chissà se la testardaggine di Obama, il cui idealismo ha avuto ragione del realismo del suo Segretario di Stato, porterà vantaggi anche alla posizione americana nel Medio Oriente o invece potrà solo accompagnare la perdita progressiva e irrimediabile dell’influenza Usa. E non è per nulla detto che Hillary non paghi un prezzo per l’eccessiva pubblicità data al suo dissenso. Inizierà il solito stucchevole dibattito tra chi vorrà contrapporre l’idealismo di Obama al realismo di Hillary. Sarebbe un errore. Dobbiamo sempre ricordare che politica estera americana (e l’America stessa in realtà) è sempre stata un impasto di realismo e idealismo: tanto nelle sue espressioni più riuscite quanto in quelle più fallimentari lo è stata quella di Reagan, Bush padre e Clinton; lo è stata quella di Carter, Bush figlio: è ancora presto per arruolare tra i primi o tra i secondi l’America di Obama.

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« Risposta #80 inserito:: Marzo 05, 2011, 05:00:45 pm »

5/3/2011

Il Colonnello non molla


VITTORIO EMANUELE PARSI

Sono confuse e spesso contraddittorie le notizie che giungono dalla Libia, ma non su un punto. Sono chiare e univoche almeno sul fatto che la fine di Gheddafi è tutt’altro che imminente. Il colonnello non solo non molla, ma sfida come suo costume la comunità internazionale (ha appena nominato un nuovo ambasciatore all’Onu) e continua imperterrito a impiegare ogni mezzo a sua disposizione per reprimere la rivolta. Sa bene che il fattore tempo gioca a suo favore, che mentre il denaro gli consente di continuare a far arrivare mercenari e armi dai porosi confini meridionali (anche grazie all’appoggio di amici come Mugabe), i ribelli prima o poi esauriranno le scorte di armi sottratte ai lealisti e che, soprattutto, proprio il carattere spontaneo della ribellione rende difficile l’emergere di una leadership capace di fornire un progetto agli esasperati ed esausti cittadini libici. D’altronde, in una situazione di pressoché totale ignoranza su quali potrebbero essere i futuri eventuali leader del dopo-Gheddafi, la prospettiva di procurare armi ai ribelli appare ovviamente impraticabile.

I ribelli chiedono con crescente insistenza che la comunità internazionale intervenga per porre fine a una repressione che il prolungarsi della guerra civile rende sempre più violenta, mentre parimenti fa aumentare il nostro disagio di assistere inermi a quanto avviene. Eppure, proprio mentre Gheddafi accentuava la sua pressione sugli insorti, scemavano rapidamente le prospettive di un intervento militare occidentale diretto almeno a impedire l’impiego dei bombardieri contro la popolazione civile. Le ragioni tecniche e legali che rendono estremamente complicata l’attuazione di una no fly zone sui cieli della Libia sono state ampiamente spiegate in questi giorni. Sembra però opportuno sottolineare che proprio la capacità di resistenza mostrata dal colonnello modifica il quadro complessivo e rende l’ipotesi di intervento militare esterno ancora più implausibile. Non solo perché questo andrebbe incontro a difficoltà maggiori o a un numero di perdite prevedibilmente più alto. Ma per un fatto squisitamente politico.

Sino a pochi giorni fa un intervento militare esterno sarebbe stato un modo per accelerare un destino segnato, allo scopo di limitare il sacrificio di vite umane. Si sarebbe cioè configurato come un intervento umanitario un po’ più «muscolare», una sorta di operazione «Restore Hope» (Somalia 1991), auspicabilmente di maggior successo. Oggi il medesimo intervento avrebbe il senso di far pendere la bilancia a favore di una parte contro un’altra in una situazione di guerra civile ancora molto fluida e dall’esito incerto. Sarebbe un intervento dal chiaro significato politico: ben più arduo da accettare non solo per Cina e Russia, ma anche per molti Paesi arabi e africani. Guadagnando tempo, resistendo, Gheddafi sa così di rendere molto più difficile che lo sdegno occidentale possa produrre ciò che in cuor suo più teme, l’escalation (anche militare) dell’internazionalizzazione della crisi.

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« Risposta #81 inserito:: Marzo 23, 2011, 04:51:01 pm »

Economia

21/03/2011 - ANALISI

Al fianco dei francesi per affermare i nostri interessi

Il latte Parmalat: i francesi di Lactalis hanno comprato il 15% del gruppo. Il governo italiano vuole bloccarli

L'Italia teme il riassetto della "nuova Libia"

VITTORIO EMANUELE PARSI

Ricordarlo a ridosso delle celebrazioni del 150 anniversario dell'Unità d'Italia (al cui successo la Francia diede un contributo essenziale) non vuole essere un gesto grossolano. Trascorsi i tempi in cui la rivalità tra noi e i più potenti cugini si manifestava sul campo di battaglia, oggi è l’arena economica a fornire il teatro di una sfida infinita, alimentata da una somiglianza
che ci fa irrimediabilmente diversi.

Nella condotta internazionale delle nazioni, oltre tutto, non è che sia sempre così netta la distinzione tra i moventi squisitamente politici e quelli eminentemente economici, che concorrono a determinare lo sfuggevole concetto di interesse nazionale. Sarebbe perciò singolare che non ci fossero anche considerazioni di carattere economico tra le ragioni che hanno portato Parigi a premere con forza per un significativo intervento militare a favore degli insorti libici, e ancor più tra quelle che l’hanno fatta decidere per il riconoscimento di un governo provvisorio a tutt'oggi inesistente. All'Eliseo, le aspettative di veder rafforzata la propria posizione commerciale con la nuova Libia post - Gheddafi non avranno probabilmente ricoperto il ruolo principale nel far assumere una decisione così ricca di incognite politiche, ma è difficile credere che esse non siano state prese in attenta considerazione. Lo stesso ragionamento, del resto, potrebbe essere esteso alla Gran Bretagna, le cui compagnie petrolifere vennero espulse dal colonnello poco dopo la conquista del potere, per essere rimpiazzate di lì a non molto da quelle italiane. Ovvio che in molti sperino di poter conquistare spazio per le proprie «piattaforme nazionali» a scapito di chi ne aveva costruite di solide nei 40 anni di potere di Gheddafi, cioè principalmente dell'Italia, per la quale la Libia rappresenta circa un terzo dell’interscambio transmediterraneo.

La consapevolezza di quanto potesse essere elevato il costo di un cambiamento di regime traumatico in Libia aveva conseguentemente suggerito legittima cautela al nostro governo, fino a quando la brutalità della repressione da un lato e il formarsi di un'opinione interventista tra i nostri principali alleati dall’altro non aveva fatto ritenere insostenibile una posizione eccessivamente attendista. Nello smuovere le esitazioni di Berlusconi - talvolta troppo incline, come Bossi, a una concezione della politica estera eccessivamente schiacciata sulla dimensione economica, eppure proclive a puntare su un ruolo anche militare per il Paese in tanti altri teatri mediorientali - un contributo importante è venuto dallo stesso Gheddafi, che ha fatto capire senza mezzi termini che, in caso di una sua vittoria, le compagnie italiane sarebbero state buttate a mare, 40 anni dopo i discendenti dei nostri antichi coloni.

Una volta che ciò è stato chiarito con brutale rudezza, si è altresì palesato un fatto tanto semplice quanto illuminante: dobbiamo iniziare a considerare l’ammontare dei nostri interessi in Libia totalmente perduto in caso di vittoria del colonnello, ragion per cui il solo modo per tutelarli è partecipare senza timidezze all’abbattimento del suo regime. Potrà la Francia far valere il suo maggior peso politico-militare a guerra finita? Dipende in parte da quanto durerà la campagna e come sarà condotta e in parte da noi. Se ci comporteremo come gli altri membri della coalizione, saremo probabilmente trattati dalle future autorità libiche come gli altri, ma avremo dalla nostra il vantaggio di operare in Libia da oltre 40 anni, avendo sempre stipulato e onorato contratti vantaggiosi anche per la Libia e i libici e non solo per l'Italia e Gheddafi.

La Francia farà il suo gioco, che risponde anche al tentativo di recuperare terreno e influenza dopo la figuraccia rimediata in Tunisia, la perdita di quote di mercato in tutto il Maghreb il flop di quell’Unione per il Mediterraneo che la Merkel continua ad affossare: insomma, il solito mix di incessante ricerca della perduta grandeur e di abilità nel perseguire più concreti obiettivi. E noi faremo il nostro gioco, consapevoli che per la tutela dei nostri interessi commerciali, muovere all’attacco è la sola difesa possibile. Che la Francia sia complessivamente più forte e meglio organizzata dell'Italia è cosa nota. Ma non sempre chi è più forte trionfa, tantopiù se dà la partita per vinta prima ancora di averla giocata: come hanno imparato a loro spese i Blues al Flaminio, sorprendentemente sconfitti otto giorni fa dal quindici dell’ovale azzurro.

da - lastampa.it/economia
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« Risposta #82 inserito:: Marzo 29, 2011, 04:48:03 pm »

29/3/2011

Sgarbo grave, non decisivo


VITTORIO EMANUELE PARSI

Fa bene Franco Frattini a sdrammatizzare la teleconferenza che ieri ha raccolto intorno a un tavolo virtuale i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, apparentemente per predisporre l’agenda del vertice di Londra. Ha probabilmente ragione il ministro degli Esteri a sostenere che «lì non stanno decidendo niente».

Ma in ogni caso resta evidente lo sgarbo grave dell’esclusione del Paese dal quale partono gran parte dei raid che stanno facendo a pezzi l’apparato militare di Gheddafi. Ed è un’esclusione resa ancora più amara dalla partecipazione della Germania di Angela Merkel che, come ricordava in un duro articolo pubblicato ieri sull’Herald Tribune l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, continua a manifestare una concezione della politica estera miope e di corto respiro, che squalifica le ambizioni di leadership tedesche. Forse conviene proprio partire da qui, da due errori speculari commessi in successione da tedeschi e francesi, per spiegare come Sarkozy abbia insistito perché la Germania fosse della partita e perché Berlino abbia mutato il suo giudizio sull’operazione «Alba dell’Odissea» in pochi giorni.

Con la sua astensione in Consiglio di Sicurezza sulla Risoluzione 1973, la Germania si era infatti ritrovata in una posizione estremamente debole, mostrandosi persino più sorda di Russia e Cina alla richiesta di aiuto che la Lega Araba aveva presentato alla comunità internazionale. Si era trattato di una scelta che chiariva una sola cosa: se le sfide per l’Europa di oggi e di domani coinvolgeranno in maniera crescente il Mediterraneo, allora la Germania è inadatta alla leadership. La Francia di Sarkozy, che era stata coraggiosa nel dare subito concreta attuazione alla Risoluzione, così concorrendo in maniera determinante al salvataggio di Bengasi, si era poi avvitata in uno sterile protagonismo, destinato alla sconfitta (come puntualmente è avvenuto), avanzando una pretesa di leadership che in Europa nessuno era disposto a concederle. A Parigi sembrava incredibilmente sfuggire che se la «naturale» leadership americana è sostenuta dal contributo che Washington fornisce da anni alla sicurezza collettiva europea, non risulta che la Francia svolga un analogo ruolo.

Il vertice telematico, o meglio ancora la sua composizione, riflette proprio l’interesse comune di Francia e Germania a provare a mettere insieme le proprie rispettive debolezze. La debolezza della Germania, tardivamente consapevole di aver rischiato di affondare alla prova dei fatti quella politica estera e di sicurezza comune che nessuno in Europa più di Berlino aveva sostenuto per decenni. La debolezza francese di rischiare di vedere compromessa la propria posizione in Europa separandosi dallo storico alleato renano, per di più sottobraccio all’Inghilterra di Cameron, che in quanto a europeismo lascia per lo meno a desiderare. L’Italia in questa sorta di rappresentazione teatrale non aveva niente da offrire, né a Berlino né, ovviamente, a Parigi. E che Francia e Germania pesino in Europa e nel mondo più dell’Italia è un dato di fatto tanto risaputo quanto banale. E non sarà Berlusconi o qualunque altro leader migliore o peggiore di lui a poterlo cambiare.

La partita vera, non solo per l’Italia, ma per l’Europa, per la Libia e per il futuro del Mediterraneo, si gioca oggi a Londra. E per quel che riguarda il ruolo dell’Italia, il comando delle forze impegnate nel blocco navale, l’inclusione nel Gruppo di contatto e la partecipazione attiva a una coalizione sotto la guida della Nato pesano molto di più che l’esclusione, pur immeritata e sgarbata, da una teleconferenza organizzata all’ultimo momento per lenire l’orgoglio ferito di Sarkozy.

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« Risposta #83 inserito:: Aprile 23, 2011, 11:55:24 am »

23/4/2011

Dichiarazione di resa dell'Europa

VITTORIO EMANUELE PARSI

È un paradosso; ma mentre la campagna aerea contro Tripoli, voluta da Parigi, non sembra scalfire la lealtà che molti libici mostrano nei confronti di Gheddafi, il colonnello ha avuto più successo nell’incrinare la solidarietà europea.

Dove le bombe hanno potuto poco, i barconi di migranti hanno fatto la differenza. Così a 48 ore dalla denuncia del ministro degli Esteri Franco Frattini (abbiamo la certezza che Gheddafi stia impiegando i migranti come arma politica contro l’Unione), fonti dell’Eliseo annunciano che la Francia sta pensando di sospendere la validità del Trattato di Schengen, oltretutto a una manciata di giorni dall’incontro bilaterale italo-francese.

Basterebbe questa considerazione a far giudicare un gesto sconsiderato quello ventilato dall’Eliseo. Intendiamoci bene, nessuno nega le responsabilità italiane, nell’essersi fatti cogliere impreparati da un evento tanto atteso quanto enfatizzato e nell’aver poi dato l’impressione di essere solo alla ricerca di un escamotage tecnico per scaricare sui cugini d’Oltralpe la patata bollente dei balzeros nordafricani. Ma da che mondo è mondo due errori non fanno una cosa giusta: la fermezza mostrata da Sarkozy suona troppo di trovata elettorale e oltretutto fa abboccare la Francia (e con lei purtroppo l’Europa tutta) alla deliberata provocazione non di Berlusconi, ma di Gheddafi.

Difficile immaginare che sospendendo Schengen, Sarkozy non fosse consapevole di andare contro decenni di politica francese, sempre attenta a evitare di fare scelte che potessero mettere a repentaglio la consapevolezza dolorosamente acquisita dopo la Seconda Guerra mondiale, che un’Europa unita e solida è la residua chance che la storia offriva alla Francia di continuare a «contare». Impossibile non constatare, però, che non è la prima volta che gli egoismi francesi rischiano di causare un danno consistente all’Europa: basti pensare all’affondamento della Comunità europea di difesa nel 1954 e al referendum contro la Costituzione europea nel 2005.

La risposta francese è grave perché rischia di costituire un passo indietro effettivamente irrevocabile al cammino fin qui compiuto dall’integrazione europea. Per reagire a questo, serve però qualcosa che vada oltre la rappresentazione della sterile contrapposizione italo-francese. Occorre che si prenda atto di un fatto tanto semplice quanto decisivo. Schengen apriva le frontiere interne di un’Europa che si credeva (e in parte era) senza più minacce alle sue frontiere esterne. Dopo la caduta dell’Urss e del comunismo, nella quale la Nato aveva giocato un ruolo fondamentale, l’Unione, e i suoi Stati membri, erano stati in realtà capaci di affrontare, con l’allargamento, la delicata e immane partita della stabilizzazione dell’ex impero sovietico. Avevano cioè messo in comune quella che allora, cessata la minaccia militare portata dall’Urss, costituiva la minaccia maggiore alla sicurezza europea, cioè il rischio di anarchia ai propri confini.

Oggi, e per gli anni a venire, questo è il punto, l’impatto dei flussi migratori sulle coste europee costituirà la maggiore sfida per la stabilità e la sicurezza dell’intera Europa. La sospensione di Schengen non rappresenta in alcun modo uno strumento per raccogliere la sfida, ma semplicemente la dà per persa in anticipo. Quello che occorre è invece mettere in comune, il tema dell’immigrazione, predisporre politiche di successo che rendano nuovamente sicure le frontiere esterne dell’Unione, per continuare a far sì che i confini interni continuino a restare ricordo del passato.

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« Risposta #84 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:30:51 pm »

29/4/2011

Torna un vecchio nemico comune

VITTORIO EMANUELE PARSI

L’attentato di Marrakech ci rammenta in maniera drammaticamente spettacolare quanto siano tutt’altro che univoci i segnali che provengono dal Medio Oriente e dal Maghreb.

Se scorriamo le cronache dall’inizio dell’anno e se riconsideriamo i commenti che hanno provato ad interpretare i fatti, possiamo agevolmente constatare come diverse, spesso opposte chiavi di lettura si siano susseguite, quasi affastellate le une sulle altre, lasciandoci spesso l’impressione che stessimo freneticamente inseguendo eventi tanto sorprendenti, o quantomeno inattesi, da impedire una visione e una comprensione d’insieme. Dopo l’entusiasmo più facile per la Rivoluzione dei Gelsomini, è venuto quello più contenuto per la caduta di Mubarak; poi la preoccupazione è stata la cifra prevalente di fronte alle rivolte in Bahrein e Yemen; lo sgomento è stato seguito dalla sensazione di poter concorrere attivamente a determinare un esito più accettabile in Libia, mentre la repressione durissima operata dal regime di Assad ci ha indotto a una comprensibile e impotente prudenza. Ora i 15 morti di Marrakech ci riportano sotto gli occhi l’immagine di un nemico che credevamo ormai antico, Al Qaeda e le sue ramificazioni, che speravamo di aver quantomeno relegato, e in parte distrutto, tra le sabbie dei deserti iracheni e degli altipiani afghani. In questi mesi, del resto, avevamo assistito a come il sanguinario messaggio qaedista, e più in generale di tutte le organizzazioni che si ispirano a Osama Bin Laden e alla sua predicazione armata, risultasse poco ascoltato, emarginato dal discorso politico intessuto nelle «nuove» piazze arabe. Avevamo constatato come quelle organizzazioni fossero rimaste spiazzate persino più di noi dal rimettersi in moto del mondo arabo e sperato che questo spiazzamento potesse precludere alla loro fine politica.

Può darsi che la fine politica del terrorismo islamista sia segnata, proprio in virtù di come sta cambiando il mondo arabo; ma è evidente che i suoi paladini non si daranno per vinti senza lottare. La strage di ieri sembra proprio mirare al «botto mediatico», qualcosa che riesce persino a oscurare parzialmente il «matrimonio del secolo» che oggi si celebra a Westminster. Siamo ancora in attesa che qualcuno rivendichi l’attentato e non conosciamo le argomentazioni che verranno addotte per questa ennesima strage: ma non stupirebbe se venisse tentato il parallelo tra gli arabi morti sotto le bombe della Nato e gli occidentali ammazzati da una pretesa «furia vendicatrice araba». Sappiamo già che qualcuno nei nostri Paesi, forse persino nei nostri Parlamenti, avrà in serbo argomentazioni più o meno simili: «Vedete, dopo le ondate bibliche di immigrati, ora le bombe… Ecco che cosa si guadagna a occuparsi dei fatti di quelli lì...».

E invece no, nella consapevolezza che le ragioni dell’intervento in Libia, e le circostanze che lo hanno reso possibile, sono sostanzialmente uniche e quasi certamente irripetibili, dobbiamo mantenere fermo un punto tanto dolorosamente e faticosamente scoperto: che lo spazio mediterraneo è uno spazio politico comune, nonostante non sia ancora strutturato di istituzioni politiche adeguate. Dobbiamo continuare a cogliere gli elementi potenzialmente positivi di questo sommovimento epocale che attraversa tutta la sponda Sud e non farci vincere da riflessi antichi, che ci condannerebbero tutti, europei e arabi, alla comune sconfitta. Se avessimo mostrato indifferenza o cinismo di fronte alle sofferenze del popolo libico avremmo fornito altre e ben più velenose argomentazioni alla propaganda di ispirazione qaedista. Per fortuna non lo abbiamo fatto; e anche per questo possiamo più credibilmente chiamare gli assassini di Marrakech nemici comuni: nostri e dei nostri fratelli arabi.

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« Risposta #85 inserito:: Maggio 08, 2011, 11:33:02 am »

8/5/2011

La bomba umana del raiss

VITTORIO EMANUELE PARSI


E’ un uso spregiudicato e malevolo, oltre che cinicamente sapiente, quello che Gheddafi fa delle vite umane. Da quando il moto di ribellione di una parte imponente del suo popolo si è trasformato in una guerra civile abbiamo assistito a tutto il repertorio dell’orrore. Non pago di aver torturato e ucciso in oltre quarant’anni di potere assoluto un numero imprecisato di oppositori e di aver patrocinato e organizzato alcuni tra i più sanguinosi attentati che la storia del terrorismo ricordi, Gheddafi ha iniziato letteralmente a bombardare i suoi stessi sfortunati sudditi, nel momento in cui essi si erano illusi di potersi liberare del tiranno. Quando sono iniziate le incursioni aeree della coalizione internazionale, il Colonnello è ricorso alla mobilitazione dei suoi sostenitori tripolini per farne scudi umani, allo scopo di proteggere se stesso e i luoghi simbolici del suo potere assoluto.

Alla ricerca di come le vite degli altri potessero essere ulteriormente sfruttate per restare abbarbicato al suo trono, ha pensato quindi di provare a dar consistenza alla minaccia proferita all’indirizzo dell’Italia e dell’Europa - «vi inonderò di profughi!» - facendo di tanti disperati una vera e propria «bomba umana». Ora, come se i corpi vivi non fossero più sufficienti, ecco l’orrore dei corpi inanimati, di naufraghi impiegati come martiri inconsapevoli, shahid di una battaglia che non è la loro. Quei corpi che riaffiorano dalle acque al largo di Tripoli ne ricordano altri, quelli delle 270 vittime della strage di Lockerbie: quelli come questi, tutti morti per causa di Gheddafi.

Oggi come allora, Gheddafi impiega l’orrore come messaggio, evoca i nostri incubi peggiori nella speranza che contemplare il baratro ci spinga a desistere. Studia i suoi interlocutori, il Colonnello, e a ognuno riserva lo spettacolo che più ne colpisce il punto debole. A Maroni e ai suoi compagni di partito e sostenitori serve su un piatto d’argento le migliaia di sbarchi di questi giorni a Lampedusa; ai cattolici e ai tanti laici tormentati dal dubbio che l'utilizzo della forza possa salvare più vite umane di quante ne sacrifica, propone vittime collaterali e corpi che affiorano dalle onde. Nulla hanno in comune le ragioni sottilmente xenofobe di chi persegue un’impossibile fortezza europea al riparo da profughi e migranti e quelle di chi ha verso l’impiego della forza armata una riserva morale quasi assoluta. Ma questo non rende meno efficace la strategia del Colonnello.

Per sconfiggerla, occorre la consapevolezza che solo una fermezza e una determinazione ancora maggiori potranno porre fine a tutto questo, attraverso la rimozione di Gheddafi dal potere. Farla finita con Gheddafi il più presto possibile rappresenta il primo strumento per salvare il maggior numero di vite umane. A fronte dell’ulteriore imbarbarimento nelle modalità di conduzione della guerra operato da Gheddafi, occorre però aggiornare la nostra strategia - nel nome di quel principio che resta la base morale ineludibile del nostro intervento: la salvaguardia delle vite innocenti minacciate dal Colonnello - e verificare la possibilità di realizzare immediatamente una rete di soccorso ai migranti il più vicino possibile alle coste libiche. Lo impongono le ragioni dell’umanità ma anche quelle della politica e di una strategia militare che, da tempo ormai, ha imparato cosa significhi dover combattere «la guerra tra la gente», foss’anche in mezzo al mare, e come ogni vita salvata ci avvicini alla sola vittoria possibile: quella dell’umanità

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« Risposta #86 inserito:: Maggio 28, 2011, 11:04:53 am »

28/5/2011

Avvertimenti dalla Siria


VITTORIO EMANUELE PARISI

Si dice che tre indizi facciano una prova. In Medio Oriente ce ne sono già almeno due che fanno ipotizzare che Damasco possa essere il mandante ed Hezbollah l’esecutore o il complice dell’attentato realizzato ieri a Sidone contro i militari italiani inquadrati all’interno di Unifil.

Risaliva solo al giorno prima la notizia che il Consiglio di Sicurezza avesse allo studio nuove sanzioni contro il regime criminale di Bashar al Assad. E proprio la mattina prima il segretario generale Ban Ki-moon aveva inaugurato a Beirut una conferenza di tre giorni dedicata ai Tribunali speciali internazionali, di cui quello sul Libano (incaricato di far luce sull’omicidio del premier Rafik Hariri nel 2005) è da sempre fortemente avversato da Hezbollah, contro i cui leader convergono numerosi e circostanziati sospetti. Troppo difficile credere nella pura casualità della successione temporale di questi tre eventi. La sensazione è che Damasco abbia deciso di reagire con un avvertimento di stampo mafioso alle crescenti pressioni della comunità internazionale affinché cessi la carneficina di civili inermi, colpevoli solo di volere la fine della tirannia personale della famiglia Assad e del suo clan alawita. Dall’estate del 2006 questo è il più grave attentato che ha per oggetto le truppe di Unifil, inviate per consentire e sorvegliare la tregua tra Hezbollah e Israele dopo la «guerra di luglio» e per prestare assistenza al ristabilimento dell’autorità dell’Armée Libanese sulla ex «fascia di sicurezza» a Sud del fiume Litani.

Hezbollah, che di quel territorio ha fatto uno dei suoi feudi, ha continuato in questi anni a esercitare un potere esclusivo su Sidone e sull’intera area, con una strategia di non aperta ostilità verso le forze dell’Onu, sempre attenta comunque a tutelare, oltre ai propri interessi, anche quelli dei suoi padrini di Damasco e Teheran. Una pista alternativa potrebbe portare a qualche fazione radicale palestinese, decisa a elevare la tensione sul confine israelo-libanese; ma appare al momento una strada più tenue di quella che porta a Damasco. D’altronde è francamente molto difficile credere che un attentato di tale valenza simbolica abbia potuto essere organizzato a Sidone, porta di ingresso dell’area presidiata da Unifil, sotto il naso di Hezbollah. Ed è poco credibile che Hezbollah abbia compiuto o lasciato compiere un simile atto politico senza concordare l’azione con Damasco. Più probabile che con l’attacco al convoglio Unifil la Siria abbia voluto chiarire alla comunità internazionale e all’Onu che se continueranno a «interferire nei suoi affari interni» il regime è disposto a incendiare l’intera regione, fino al punto di trascinare il Libano nel suo lugubre furore (provocando una nuova guerra civile), fino al punto di evocare lo spettro di un nuovo conflitto arabo-israeliano, che spaventa tutti, ma a questo punto forse non spaventa più così tanto Damasco. Certo, Assad e i suoi sanno che un conflitto potrebbe costare loro carissimo: ma, a mano a mano che l’opposizione interna non cessa nonostante gli ormai quasi mille morti di queste settimane e via via che l’isolamento internazionale della Siria cresce, rievocare il cronico conflitto arabo-israeliano potrebbe essere la sola carta rimasta in mano al regime per far passare in secondo piano la «primavera araba» o, peggio, per dirottarla contro il solito «nemico esterno», dietro il quale nascondere la sempre più declinante legittimità del suo potere, per tentare di conservarlo a qualunque costo, giocando il tutto per tutto, come sempre sulla pelle degli altri.

Chi ha concepito questo attacco aveva ben chiara l’importanza del lavoro che svolgono i nostri soldati. Speriamo che anche a Roma (e in Padania…) lo capiscano.

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« Risposta #87 inserito:: Giugno 23, 2011, 10:15:43 am »

23/6/2011 - VIA 30 MILA SOLDATI

Afghanistan parte il ritiro di Obama

VITTORIO EMANUELE PARSI

Un solo discorso, tre pubblici diversi. Questo è stato l’ennesimo salto mortale cui il presidente ha sottoposto la propria notevole e universalmente riconosciuta ars oratoria. Il discorso sull’avvio della exit strategy (10 mila soldati a casa quest’anno, 20 mila il prossimo) dalla più lunga guerra della storia americana, che Barack Obama ha pronunciato alle 8 di ieri sera, ha dovuto cercare di soddisfare almeno tre diversi tipi di audience: quella domestica, rappresentata dal Congresso e dagli elettori americani, quella internazionale degli alleati e delle attuali o emergenti grandi potenze rivali, e quella dei nemici, talebani e «qaedisti», contro i quali stiamo combattendo. Tutti ansiosi, in realtà, di vedere il ritorno a casa delle truppe coinvolte nelle operazioni di Enduring Freedom e di Isaf, eppure tutti molto attenti ai corollari che potevano essere celati nell’annuncio dell’avvio di uno dei disimpegni più attesi della storia militare. Il target domestico, quello più rilevante per le prossime elezioni presidenziali, era tutto sommato il più facile a cui parlare. L’opinione pubblica americana è così stanca della guerra in Afghanistan, che non poteva che plaudire a un presidente che, onorando una promessa fatta in campagna elettorale, «riportava a casa i ragazzi e le ragazze». Su questo versante Obama poteva giocare alcune carte che nessun suo predecessore ha mai avuto in mano. In primo luogo l’eliminazione fisica di Osama Bin Laden, che quasi dieci anni or sono diede il via a questa guerra.

Con la spettacolare operazione dei Navy Seals, il Presidente aveva compiuto quella missione di «giustizia vendicatrice» che nell’immaginario collettivo americano giustificava il conflitto persino più di qualunque discorso sulla sicurezza internazionale. La stessa opposizione repubblicana aveva nel frattempo fornito chiari segnali di essere conscia sia della forza del Presidente sia della stanchezza dell’elettorato, di fatto lasciando intendere che non avrebbe fatto da cassa di risonanza alle preoccupazione dei vertici militari, i quali premevano per un posticipo del ritiro di almeno un anno. D’altra parte, gli stessi comandanti Usa, mentre non potevano dimenticare che in un momento decisamente peggiore Obama aveva comunque garantito l’aumento di 30.000 uomini da loro richiesto, allo stesso tempo restavano consapevoli del rischio di overstretching e logoramento di un esercito ininterrottamente in guerra su più fronti da quasi dieci anni.

Più complesso era il pubblico rappresentato dagli alleati e dai rivali. Ai primi, che tutti indistintamente vorrebbero la fine della guerra «occidentale» in Afghanistan, il Presidente doveva mandare segnali differenziati e però coerenti. A Kharzai, che non avrebbe fatto la fine dell’ultimo presidente «intronato» dai sovietici, letteralmente fatto a pezzi dai mujaheddin; al Pakistan, che non doveva illudersi di poter tornare a tessere le sue tante e diverse trame (del governo, delle tribù, dell’Isi) nel vicino Afghanistan come era stato lasciato libero di fare negli ultimi decenni; agli alleati della Nato, ai quali doveva far capire che l’inizio graduale del ritiro americano non significava il «tutti a casa» e che contemporaneamente dovevano essere rassicurati sul fatto che le tendenze neoisolazioniste del Congresso e dell’opinione pubblica americana (vedi la minaccia di non finanziamento per la campagna di Libia) non sarebbero state rafforzate dalla decisione annunciata ieri. A cinesi, russi e a tutti quelli che auspicano una riduzione del ruolo americano nel Grande Medio Oriente, doveva fare intendere che questo non era neppure da ipotizzare: ma che anzi, semmai, l’America stava riorganizzando e ottimizzando i suoi sforzi, proprio per poter continuare a giocare il ruolo di principale pilastro di quel poco di ordine internazionale ereditato dalla fine della Guerra Fredda. Per capire questo, credo che raccordare il discorso di ieri con quello tenuto a Westminster appena poche settimane orsono, sulla perdurante necessità della leadership occidentale, eviterebbe più di un abbaglio.

Ai nemici, infine, il discorso doveva offrire una possibilità di discordia: chiarire che, come e più che in Iraq, l’America era disposta a scendere a patti con i capi locali e persino con i taleban non direttamente coinvolti nelle stragi dell’11 settembre, a condizione che essi non offrissero nessuna sponda ai qaedisti. Proprio per questo, i militari chiedevano ancora un anno di pressione, per eliminare più nemici possibili e persuadere meglio i sopravvissuti. Il Presidente ha pensato diversamente. Le prossime settimane ci forniranno indicazioni non solo su questo specifico punto, ma sull’efficacia del discorso presidenziale nell’aver convinto i suoi tre diversi pubblici a fare ognuno la parte che Obama riserva loro.

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« Risposta #88 inserito:: Giugno 30, 2011, 05:14:43 pm »

30/6/2011

Il colpo di coda dei talebani

VITTORIO EMANUELE PARSI

Un attentato spettacolare e drammatico nel cuore di Kabul.

E’ quello che nella notte tra martedì e mercoledì ha causato 21 morti (compresi i 6 attentatori) qui a Kabul, con la perfetta scelta del luogo: l’hotel Intercontinental (che insieme all’hotel Serena ospita la più parte della stampa internazionale e delle delegazioni straniere); e del momento in cui colpire: il giorno di avvio della conferenza che raccoglie allo stesso tavolo i membri del governo, i vertici delle forze di sicurezza e i governatori provinciali, cioè di coloro che di fatto, a partire dal 21 luglio dovranno guidare l’avvio della «transizione», il passaggio di consegne tra Isaf e le autorità afghane. Per capire la successione di attentati che in questi giorni sta insanguinando il Paese occorre proprio partire da qui, da questo concetto che racchiude a scommessa su cui la Nato, ma in realtà anche l’Onu e l’intera comunità internazionale si giocano la faccia e gli afghani si giocano la vita.

A parte la cessazione di oltre 30 anni di guerre, non c’è nulla che gli afghani sembrano desiderare più ardentemente della fine della presenza politica e militare straniera sul loro suolo. E non c’è nulla di cui gli afgani sembrano aver più paura. Questo sentimento duplice, a Kabul e in tutto l’Afghanistan, si respira nell’aria. Non c’è persona, dai comandanti dell’Ana (Afghan National Army) ai leader politici, fino ai rappresentanti della società civile e a quelli del mondo degli affari, che non sostenga la stessa opinione: «È giunto il momento per noi afgani di tornare ad assumerci la responsabilità del nostro Paese e di garantirne la sicurezza, lo sviluppo e la governance». È in questa triade, del resto, che si articola la transizione.

Evidentemente, non è per nulla scontato che il processo vada in porto con successo. Anzi. Il «comprehensive approach» (militare, politico ed economico) perseguito dalla Nato rappresenta certamente la sola via per porre fine a dieci anni di intervento militare occidentale, ma richiede che queste tre dimensioni si incastrino tra loro come le tessere di un puzzle difficilissimo. Inutile dire che, affinché l’esercizio riesca, sarà necessaria anche una notevole dose di fiducia e di speranza da parte sia degli afgani sia della comunità internazionale. E occorrerà che il futuro prenda il posto del passato, come orizzonte temporale dominante dell’Afghanistan. Ed è proprio questo che gli insorgenti mirano a scoraggiare. Prima il micidiale attentato contro un ospedale nella provincia di Kabul, poi il cuore steso della capitale: il senso del messaggio talebano è chiaro. Fare intendere che «transizione» è solo un modo più educato (e ipocrita) per dire «tutti a casa». La paura degli attentati è così tornata a dominare la vita di Kabul, ma anche di Mashar-e-Sharif, dove il 1˚ aprile la sede di Unama, la missione dell’Onu dedicata ad assistere l’Afghanistan venne presa d’assalto dalla folla inferocita per il rogo del Corano organizzato negli Stati Uniti da un pastore estremista. Eppure, la gravità dell’attentato non dovrebbe fare dimenticare che proprio a Kandahar, nel Sud del Paese, una delle zone dove gli insorgenti sono ancora sensibilmente forti, 14 attentati suicidi sono stati sventati dalle operazioni congiunte di Isaf e Ana e nessun attentatore è riuscito a colpire edifici governativi o delle forze di sicurezza.

Il paradosso, a ben guardare, è che proprio il settore della sicurezza appare quello meno problematico della transizione. Soprattutto l’esercito ha visto aumentare non solo i numeri dei suoi effettivi, ormai vicini ai programmati 175.000 uomini, ma soprattutto la qualità de suo personale. Le stesse forze di polizia, che hanno a lungo goduto di una pessima reputazione, stanno cominciando a guadagnare numeri, efficienza e consenso presso la popolazione. I vertici militari di Isaf insistono molto sul fatto che è proprio la dimensione militare è quella che mostra i segnali più incoraggianti e scommettono sul successo del passaggio di consegne alle loro controparti afghane, il cui «mentoring» continuerà comunque fino al termine del 2014.

L’annuncio del ritiro del surge da parte del presidente Obama non ha sorpreso nessuno e sia Isaf sia i comandanti afghani sembrano fiduciosi che questo possa non incidere negativamente sui piani previsti. Ma occorre chiedersi come farà l’Afghanistan, che resta sempre il quinto Paese più povero del mondo, a mantenere un apparato di sicurezza formato da 350.000 professionisti (tra soldati e poliziotti), a malapena necessari per riuscire a consolidare la sicurezza dopo il 2015. La stessa soluzione politica, del resto, con la riconciliazione nazionale e le reintegrazione degli ex insorgenti nella vita sociale ed economica dell’Afghanistan, è legata alla possibilità che il Paese possa fare progressi decisi anche nel campo dello sviluppo economico e politico. La comunità internazionale ha promesso il suo sostegno anche dopo il 2015. Ma il timore che viene espresso in tante conversazioni off record con i vertici politici e militari di Kabul è che, una volta che i soldati occidentali saranno tornati a casa, sarà molto difficile che le opinioni pubbliche siano ancora disposte ad avallare spese per l’Afghanistan, sia pure destinate in aiuti allo sviluppo e non in assistenza militare. Si tratta di una preoccupazione non infondata, effettivamente, oltretutto alimentata dalla percezione di un quadro regionale piuttosto ostile, in cui il Pakistan e l’Iran giocano una partita che ha per campo di battaglia e per posta l'Afghanistan. Visto da Herat, il fantasma dell’Iran, con la sua crescente influenza economica su una delle regioni più sviluppate del Paese e con il suo appoggio crescente a diverse formazioni di insorgenti, appare tutto fuorché una manifestazione di paranoia.

Gli afghani sono disposti a fare la loro parte, ma chiedono alla comunità internazionale di non abbandonarli una volta che Isaf si sarà ritirata. Ma la sensazione è che i cittadini e i contribuenti occidentali, dopo dieci anni di guerra, siano semplicemente stufi di sentir parlare di Afghanistan.

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« Risposta #89 inserito:: Luglio 08, 2011, 10:09:13 am »

8/7/2011

Logica demagogica e provinciale


VITTORIO EMANUELE PARSI

Un suk indegno, che svende l’onore del Paese e il sacrificio delle sue Forze Armate in cambio di qualche mese di sopravvivenza di un esecutivo vitale quanto lo era Breznev all’inizio degli Anni 80.

Sicuramente il modo peggiore di rendere omaggio al caporale Tuccillo, le cui esequie sono state celebrate appena 48 ore fa, e per far sentire ai suoi commilitoni la vicinanza di quella Patria che loro difendono e altri umiliano.

Occorreva invece andare oltre e giocarsi, per tirare a campare, uno dei pochi risultati concreti e positivi di quasi vent’anni di politica estera. Parliamoci chiaro: dopo l’89, il crollo del Muro di Berlino, la fine del comunismo, l’ingresso della Cina nel Wto, il mondo si era fatto troppo vasto per un Paese come l’Italia, che aveva sempre faticato a trovare un posto tra i grandi. Non senza difficoltà interne notevoli, i governi di centrodestra e di centrosinistra avevano individuato nella partecipazione alle missioni militari internazionali uno strumento attraverso il quale tutelare il «rango internazionale» dell’Italia, nonostante molti altri indicatori ne suggerissero un declassamento.

In questi anni abbiamo assistito a improbabili sparate sulla «funzione mediatrice» esercitata tra Russia e Stati Uniti o furbetti ammiccamenti a dittatori come Gheddafi, Ahmadinejad o Lukashenko; abbiamo anche dovuto archiviare tante inconcludenti e velleitarie presenze ai G8 e una difficoltà strutturale a mantenere la nostra posizione nella nuova Unione Europea. Nonostante tutto ciò, proprio la quantità e la qualità della partecipazione militare italiana alle missioni internazionali ha consentito di far emergere un’immagine dell’Italia capace di sfidare gli stereotipi vecchi (e anche, ahimè, quelli nuovi) di un Paese cialtrone, arraffone e inaffidabile. Quante volte negli anni passati il centrodestra aveva fatto legittimo vanto e strumento di polemica politica dell’essere venuto in soccorso degli esecutivi ulivisti sul sostegno finanziario alle missioni militari. E, d’altra parte, lo stesso centrosinistra si era ben guardato dal votare contro il loro rifinanziamento anche quando non ne condivideva il fine (si pensi all’operazione «Antica Babilonia»).

Per quasi vent’anni, quello delle missioni militari internazionali è stato uno dei pochi campi sui quali si è dispiegato il tanto invocato «spirito bipartisan», nutrito da un barlume di consapevolezza che l’interesse nazionale non può sempre soccombere di fronte agli interessi di parte. Non solo, proprio questo convergere sul senso della decenza, che anche lo scontro politico più furibondo deve saper mantenere quando ciò che è in gioco è la stessa idea di Patria, aveva concorso ad emarginare le forze politiche estreme all’interno dei due schieramenti (le varie formazioni post-comuniste, la Lega, l’IdV).

Tutto questo, ieri, è stato gettato semplicemente alle ortiche, come un abito di poco valore ormai fuori moda. Persino gli eredi di una «Destra Nazionale» in passato sempre pronta a impugnare il Tricolore per menar fendenti sugli avversari, ora si piegano ai diktat dei «veri credenti» nella fantomatica esistenza della Padania, di chi fatica ad alzarsi in piedi quando passa la bandiera. In termini politici, quella che si è consumata ieri è stata la resa dell’agenda internazionale di fronte alla logica più demagogica e provinciale. E questo precedente rischia di pesare domani anche sugli equilibri interni di un’eventuale maggioranza di centrosinistra. Tanto Bossi quanto Di Pietro sono sempre stati perfettamente consapevoli che ogni volta che il dibattito politico si sposta sul versante internazionale i loro interessi ne patiscono. Le posizioni di politica estera espresse da Lega e IdV sono del resto inconsistenti e la dimensione internazionale è assente dalla loro proposta politica, se non in quanto declinata in xenofobia o protezionismo commerciale. Ieri è stato chiarito che neppure le missioni militari internazionali e il loro finanziamento costituiscono più un inviolabile «sancta sanctorum», una riserva protetta in cui tutelare l’interesse nazionale. Da ieri, tutto è in vendita: e persino la parola data a Paesi amici e alleati può essere ritirata per ragioni di mera, immediata convenienza interna. E se questo vale per la politica internazionale, figuriamoci per quella domestica. Non è certo casuale che mentre si perde ogni residua capacità di opporre il bene comune all’interesse più partigiano, ritorni l’estremismo nelle sue forme più violente, l’affermazione becera del proprio punto di vista, del proprio tornaconto ideologico, com’è avvenuto recentemente in Val di Susa.

Ieri, l’onorevole Bossi ha avuto l’ardire di sostenere che «grazie alla Lega migliaia di ragazzi torneranno a casa». Per impedire che questo governo vada a casa anche lui, aggiungeremmo noi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8953&ID_sezione=&sezione=
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