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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61206 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 01, 2010, 11:38:03 am »

1/6/2010

Ankara al bivio

VITTORIO EMANUELE PARSI

L’assalto condotto dalle forze speciali di Tsahal alle imbarcazioni che si proponevano di violare il blocco navale di Gaza, dichiarato unilateralmente dal governo israeliano, sta facendo precipitare il livello delle relazioni tra Ankara e Gerusalemme ai minimi storici. La questione va però ben oltre il contenzioso bilaterale, e investe piuttosto la collocazione complessiva della Turchia nel «campo occidentale».

Le conseguenze di quello che è successo al largo di Cipro, infatti, lasciano intravedere una questione che, nella sua semplice brutalità, può essere formulata come segue: «E’ ormai praticamente certo che la Turchia non verrà accettata in Europa; ma quanto a lungo la Turchia riuscirà ancora a stare nella Nato?».

Inutile nasconderselo, si tratta del disvelamento di un vero e proprio tabù, la cui esistenza spiega le ragioni della straordinaria insistenza americana, da Bush padre a Obama, affinché la Ue aprisse le sue porte ad Ankara. Il punto è davvero semplice. In questi ultimi vent’anni, e in maniera per nulla indolore, la Nato ha conosciuto un crescente coinvolgimento in Medio Oriente. E nessun indizio segnala che la tendenza sia destinata a cambiare: non solo per gli evidenti interessi Usa, ma anche perché i soci europei della Nato (in grandissima parte anche membri della Ue) sanno benissimo che il loro residuo valore politico-strategico agli occhi americani (tanto più per questo Presidente) si gioca anche nella disponibilità a lasciare che la Nato sia sempre più operativa laddove la sua azione è più necessaria: a partire dal Medio Oriente.

Fintanto che la possibilità di un ingresso della Turchia nell’Unione restava aperta, proprio la prospettiva di una doppia membership (europea e atlantica) poteva oggettivamente aiutare a tenere in asse la Turchia con i Paesi europei della Nato. Ma ora che questa chance è sostanzialmente sfumata, le cose si complicano maledettamente. Chiusa fuori della porta d'Europa, la Turchia ha nel frattempo elaborato una sua politica mediorientale, cioè per la regione con cui sempre meno è confinante e di cui sempre più è parte. La sua rinnovata natura di attore mediorientale, evidentemente, la espone a rischi ben maggiori di coinvolgimento nei conflitti insoluti della regione di quelli che avrebbe corso in quanto Paese europeo, membro dell’Unione (o seriamente candidato a diventarlo).

I fatti di queste ore, e in realtà di questi ultimi anni, ci danno conferma di quella che non è più solo un’ipotesi di scuola. Oltretutto, la politica dell’Akp, con il suo precario equilibrio interno tra laicità e confessionalismo, e la sua natura perlomeno ondivaga, avendo rilegittimato l'identità religiosa nel circuito e nella retorica politica turca, ha contribuito a risvegliare i moventi dell'internazionalismo e della solidarietà musulmane, se non islamiste, con l'ovvia conseguenza di rendere l'antica relazione speciale tra Ankara e Gerusalemme sempre più ingombrante per la politica turca in Medio Oriente. E anche questo allontana inesorabilmente Ankara dall’Europa e anche dall'intero Occidente, per i quali Israele non può e potrà mai essere considerato uno Stato mediorientale «come gli altri».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7426&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #61 inserito:: Giugno 10, 2010, 05:22:58 pm »

10/6/2010
Ma ancora una volta ha vinto Teheran

VITTORIO EMANUELE PARSI

Alla fine il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato il quarto round di sanzioni nei confronti dell’Iran. Almeno due considerazioni meritano di essere svolte: la prima in ordine a chi non le ha votate, la seconda circa la loro possibile efficacia. Come avevano peraltro anticipato, né Brasile né Turchia hanno appoggiato l’inasprimento delle sanzioni. E’ la conferma che sulla questione della proliferazione nucleare il punto di vista euro-americano fa sempre più fatica a imporsi e ad attrarre consensi. Annacquandone molto l’asprezza, Washington è riuscita a portare dalla sua parte Cina e Russia, che con Parigi e Londra appartengono al ristretto club delle potenze nucleari «legittime» e detengono il potere di veto in Consiglio; ma non un Paese amico e grande potenza emergente (come il Brasile) e neppure un alleato e sedicesima economia mondiale (come la Turchia).

Da un punto di vista più generale, siamo alla replica, appena attenuata, della frattura che si produsse in Consiglio di Sicurezza diversi anni fa, in occasione della decisione occidentale di combattere in Kosovo contro la Serbia di Milosevic. Allora non si andò al voto proprio perché Cina e Russia, ma anche Brasile e India fecero pubblicamente sapere che avrebbero fatto mancare il loro appoggio. Allora proprio l’opposizione delle due «grandi democrazie del Sud» fece più scalpore della scontata opposizione russo-cinese. Era il primo scricchiolio di un ipotetico fronte comune delle democrazie del pianeta di fronte alle sfide del mondo post-bipolare. Oggi il diniego brasiliano e turco quasi «oscura» l’accordo raggiunto fra i 5 Grandi, e testimonia la rapida erosione del soft power degli Usa (nonostante Obama, ma qualcuno inizia a pensare anche grazie a Obama) e la crescente de-occidentalizzazione del sistema internazionale.

Più in particolare, desta scalpore la presa di posizione turca, perché costituisce l’ennesimo strappo rispetto alla solidarietà atlantica e occidentale su un tema quale la sicurezza collettiva degli Stati membri e i rischi a cui essa è esposta dalla proliferazione nucleare e dalla perdita di prestigio degli Usa. Ancorché la proliferazione non sia di stretta competenza della Nato, proprio il documento elaborato il 17 maggio di quest’anno dal cosiddetto «Comitato dei saggi» - costituito per ridefinire il nuovo «concetto strategico dell’Alleanza», adeguandolo al mutamento dello scenario internazionale - indicava nella proliferazione nucleare una minaccia maggiore, e nella capacità della Nato di fornire risposte efficaci e condivise un test decisivo di adeguatezza. A neppure una settimana dal pasticcio della «freedom flotilla», la Turchia compie un altro passo che la colloca oggettivamente ai margini dell’Alleanza e ne accredita la sempre più blanda appartenenza allo «schieramento occidentale».

Tutto ciò accade a meno di 24 ore dall’annuncio iraniano di voler impiegare proprie unità navali «civili» in un nuovo pericolosissimo tentativo di forzare il blocco di Gaza: un’operazione che salda, per mano iraniana, la vicenda di Gaza con quella del programma nucleare di Teheran. Un incidente tra unità israeliane e iraniane al largo di Gaza sarebbe di per sé già gravissimo, perché materializzerebbe lo spettro israeliano di dover fronteggiare la possibile minaccia iraniana su due fronti: in Libano attraverso Hezbollah, e a Gaza attraverso Hamas. In una simile prospettiva la possibilità che Israele non decida un’azione contro l’Iran prima che esso divenga una potenza nucleare dipende solo dall’efficacia delle sanzioni approvate ieri. Ed ecco il secondo punto della nostra analisi. Le nuove sanzioni non sono quelle che gli Stati Uniti auspicavano: erano il massimo che si poteva ottenere, ma il massimo è probabilmente meno del minimo necessario. Esse non colpiscono i veri interessi vitali dell’Iran (idrocarburi), né impediscono all’Iran di aggirare i vincoli internazionali vecchi e nuovi. Finora il governo iraniano ha dimostrato di essere disposto a pagare (e far pagare al suo popolo) un prezzo economico alto in cambio di un ricavo politico ritenuto maggiore. Se non si modifica tale trade-off (e non mi pare che le nuove sanzioni lo facciano), Ahmadinejad non ha ragione di cambiare politica.

È una lotta contro il tempo, in cui le carte buone le ha l’Iran e il tempo gioca a suo favore. Tra l’altro, sanzioni inefficaci non sono solo inutili, ma anche dannose, perché fanno il gioco del regime, alimentando la mentalità da stato di assedio che lo aiuta a radicalizzare il clima interno e massacrare le opposizioni (solo nella giornata di ieri ci sono state 15 impiccagioni). Colpisce, infine, il fatto che gli Usa sembra non riescano a capire se è possibile (e se conviene loro) trasformare il proprio ruolo di protettori di un ordine mediorientale (sempre più fragile) fondato sul predominio israeliano in quello di garante di un nuovo ordine più equo e stabile, ma forse impossibile da raggiungere in queste condizioni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7460&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 01, 2010, 10:32:23 pm »

28/6/2010

Barack potrà spegnere Internet
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Nel caso di un attacco cibernetico che rischi di mettere in crisi la sicurezza (economica) nazionale, il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, potrà «chiudere» la rete per un periodo di tre mesi senza dovere ottenere un’autorizzazione preventiva da parte del Congresso.

Questo è il testo approvato in Commissione del Senato, che con ogni probabilità passerà anche lo scrutinio dell’aula. Si tratta di un atto dalla forte valenza simbolica.

Neppure in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre si era arrivati a prevedere che l’Esecutivo potesse «confiscare» il web ai suoi cittadini per un tempo così lungo con un semplice ordine presidenziale. Il periodo di 90 giorni richiama immediatamente un altro caso particolarmente delicato in cui l’esercizio dei poteri presidenziali conosce una forte discrezionalità. Si tratta della disposizione che prevede che il Presidente possa impiegare truppe americane in operazioni di guerra per 90 giorni senza dover passare da una formale autorizzazione del Congresso. E’ alla luce di una simile discrezionalità che è iniziato il coinvolgimento degli Usa in gran parte dei conflitti del secondo dopoguerra. Oggi che la rete potrebbe rappresentare il campo di battaglia del futuro, per molti aspetti altrettanto se non più pericoloso di quelli più consueti e tradizionali, gli Usa corrono ai ripari e mettono la difesa nazionale nelle condizioni di poter agire tempestivamente.

Che la minaccia cibernetica sia tutt’altro che un’ipotesi fantascientifica è attestato da una quantità di esperienze recenti e dall’evoluzione della stessa dottrina strategica della Nato. Negli anni passati la Lituania, membro dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica, fu sottoposta a un vero e proprio assalto cibernetico da parte russa. A loro volta, i servizi cinesi sono stati accusati dal governo britannico (tra gli altri) di aver tentato ripetutamente di violare siti della difesa e di imprese industriali collegate alla sicurezza nazionale. Lo stesso concetto strategico dell’Alleanza, in corso di revisione, prevede un incremento dell’attenzione dedicata alle contromisure in caso di attacchi cibernetici contro l’organizzazione e gli Stati membri.

D’altronde, però, è facile osservare che per la stessa natura world wide della rete, una chiusura dei provider americani produrrebbe conseguenze ben oltre i confini degli Stati Uniti. Eppure, ancora una volta, come accade con regolarità bipartisan dalla fine della Guerra Fredda (con l’eccezione dell’amministrazione del primo Bush), le implicazioni multilaterali delle soluzioni adottate unilateralmente vengono tenute in ben scarsa considerazione sulle rive del Potomac. Era così con George W. Bush e i suoi consiglieri neocon, e lo schema sembra riprodursi con Barack Obama e le sue teste d’uovo liberal.

Ma non è solo questo a destare inquietudine. È evidente che l’impatto di un simile provvedimento sulle libertà civili dei cittadini americani sarebbe molto superiore a quello che regola in maniera analoga l’invio di truppe combattenti all’estero. Da un lato resta da vedere come reagiranno l’opinione pubblica e le organizzazioni libertarie. Cosa avrebbero detto se la stessa norma fosse stata emanata durante l’amministrazione Bush? Dall’altro, occorre considerare schiettamente che tutto ciò segnala un ulteriore allontanamento tra gli Stati Uniti e l’Europa riguardo la scelta di quale sia il punto di equilibrio ottimale tra la tutela delle libertà individuali e dei diritti civili e la difesa della sicurezza collettiva. E, paradossalmente, avvicina gli Usa alla Cina, contro le cui politiche censorie della rete (ovviamente sempre adottate nel nome della sicurezza nazionale) si era pubblicamente e rumorosamente spesa la segretaria di Stato Hillary Clinton non molti mesi fa. È davvero paradossale che, in un’epoca segnata dall’evidente progressiva deoccidentalizzazione del mondo, un passo ulteriore in questa pericolosa direzione debba arrivare dagli Stati Uniti, creatori e massimi beneficiari del concetto politico di Occidente.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7528&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 07, 2010, 05:04:20 pm »

7/7/2010

Il passo indietro della Casa Bianca
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Tutti d’accordo sul riavviare colloqui diretti tra Autorità Palestinese e governo israeliano, nel ritenere la prospettiva di un Iran nucleare una minaccia inaccettabile alla sicurezza regionale, e nel ribadire il legame «infrangibile tra Stati Uniti e Israele». Ma al di là delle belle parole, è Benjamin Netanyahu a uscire vincitore dai colloqui allo Studio Ovale ed è Barack Obama a dover fare buon viso a cattivo gioco. Forse Obama ha scelto ancora una volta di privilegiare l’agenda interna, ha pensato alla potentissima lobby ebraica e alla sua capacità di influenzare le elezioni di mid term, già presentate come un test decisivo per una presidenza in serio calo di popolarità. Ma forse è anche l’inizio della revisione di una strategia, quella dell’amministrazione Usa, che fin qui ha portato risultati davvero scarsi.

L’ambizioso, e generoso, progetto di Obama di ricollocare gli Usa come un honest broker in Medio Oriente si è probabilmente scontrato con la realtà: una realtà nella quale l’America di Obama è decisamente meno potente di quella di Clinton e persino di quella di George W. Bush, anche se di quest’ultima senz’altro più accattivante.

Il vertice sembra non aver neppure preso in seria considerazione lo scontro tra i due principali alleati americani nella regione, Israele e Turchia, che è sempre meno ipotetico: per la rigidità israeliana, per l’errore di calcolo turco e per la perdita di influenza americana.
Dopo avere puntato sulla Turchia come ponte tra Occidente e Islam, aver tentato un approccio soft con il regime iraniano, aver pronunciato un brillante discorso al Cairo, aver annunciato un cambio di strategia in Afghanistan (sconfessando e rilegittimando il presidente Kharzai a settimane alterne) e aver più volte preso le distanza dalla politica del governo israeliano, i risultati portati a casa da Obama sono modestissimi. Un’escalation tra Israele e la Turchia che pure non giungesse allo scambio di cannonate per difendere la prossima «freedom flottilla», già pronta a salpare, dischiuderebbe una prospettiva persino più devastante per il futuro della Nato di quella dello scontro militare tra Turchia e Grecia negli Anni 70 (durante la crisi di Cipro), perché avrebbe per oggetto quel Medio Oriente in cui la Nato è sempre più coinvolta.

Gli israeliani, che pure portano a casa da questo vertice un successo insperato, non possono nascondersi un fatto evidente: che con la Turchia perdono il solo alleato che avevano nella regione, di fatto rafforzando «l’arcinemico» iraniano, che Ankara appare peraltro disposta a riconoscere come interlocutore a tutti gli effetti. Così Teheran capitalizza ulteriormente gli effetti della guerra del 2006 (disastrosa per Israele), con la progressiva fuoriuscita del Paese dei Cedri dalla sfera occidentale, la ripresa dell’influenza siriana e il consolidamento del potere politico del Movimento sciita suo alleato.

La Turchia, dal canto suo, continua a non capire che pensare di poter giocare un ruolo maggiore in Medio Oriente, in grado di disimpegnarsi tra multiple alleanze, senza che questo metta in crisi il suo tradizionale e sempre più incerto posizionamento occidentale è una pericolosa illusione. Il solo fatto che il governo di Ankara possa pensare di chiudere lo spazio aereo ai velivoli commerciali israeliani, o definisca Israele uno «Stato pirata» (con una retorica pericolosamente prossima a quella di Ahmadinejad) colloca oggettivamente la Turchia pericolosamente ai margini dello schieramento occidentale, che vede in Israele un partner comunque diverso e privilegiato rispetto agli altri Stati della regione.

D’altronde, e questo è il corollario più preoccupante e beffardo di tutta la situazione, a quasi nove anni dall’11 settembre e nonostante tutti gli sforzi profusi innanzitutto dagli Usa, il germe del radicalismo religioso pervade la regione e conquista o riconquista terreno: dal Libano all’Iraq, dall’Afghanistan all’Iran, alla Turchia e allo stesso Israele, che sempre più Israele assomiglia agli altri Stati della regione, in cui la politicizzazione delle religioni gioca un ruolo decisivo e per nulla benefico.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7564&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 04, 2010, 04:46:48 pm »

4/8/2010

Il verde Libano rischia di nuovo di pagare per tutti
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Erano diversi mesi che a Beirut, come in tutta la regione, si rincorrevano le voci di una possibile nuova operazione militare israeliana di vasta portata in Libano. Il rischio che i gravi incidenti di ieri sul confine tra i due Paesi, formalmente in stato di guerra dal 1948, possano dare il via a scontri di portata ben maggiore è purtroppo tutt'altro che inconsistente. E' la prima volta, dalla guerra dell'agosto 2006, che le Forze di Difesa Israeliane (Idf) e l'Armata Libanese (Al) si affrontano con tanta violenza e con conseguenze così drammatiche (cinque morti, tra cui un colonnello israeliano, e un numero imprecisato di feriti). Difficile che la cosa possa finire qui, anche se lo stesso comandante israeliano del settore settentrionale, il maggior generale Gadi Eisenkot, ha tenuto a precisare che spera possa trattarsi di «un caso isolato». È evidentemente anche il nostro auspicio, quello dei Paesi che forniscono un contributo importante alle forze di Unifil (la cui presenza è stata determinante per mantenere la precaria, eppure quasi quadriennale, tregua Hezbollah-Israele), e quello di buona parte della comunità internazionale, con le solite, scontate eccezioni, a iniziare da quella iraniana.

La dinamica dei fatti non è ancora stata chiarita, soprattutto per quel che riguarda il luogo (di qui o di là del confine?) in cui la pattuglia israeliana è stata presa di mira dai militari libanesi e se l'azione israeliana che ha portato alla reazione libanese fosse stata coordinata con Unifil (come sostengono i portavoce dell'Idf) o meno (nella versione dell'Al). «Continua a mancare il passo finale che non spetta ai militari ma ai soggetti protagonisti, che non sembrano nella condizione, perché non vogliono o non possono, di trasformare una tregua in una pace stabilizzata». Il ragionamento del ministro della Difesa La Russa, se portato alle estreme eppure logiche conseguenze, ci ricorda che, se le condizioni politiche non mutano in maniera decisiva, il lavoro di Unifil rischia di essere ogni giorno meno efficace e più pericoloso.

Ora, proprio guardando alle attività «soggetti protagonisti», difficile non constare che questi incidenti si verificano proprio a ridosso degli importanti incontri avvenuti a Beirut nei giorni scorsi tra sauditi e siriani. Ryad e Damasco sono stati per lungo tempo i grandi burattinai della politica libanese: se la Siria ha occupato il Paese dei Cedri per decenni, i Sauditi sono stati «gli inventori» della carriera politica di Rafik Hariri (il padre dell'attuale primo ministro il cui misterioso assassinio fu all'origine della cosiddetta «primavera libanese» e del ritiro siriano nel 2005). Un loro accordo sul futuro del Libano potrebbe mutare in maniera decisiva i fragili equilibri interni del Paese, riducendo il peso politico di Hezbollah. Un'ipotesi, questa, per nulla gradita a Teheran, essendo proprio l'Iran l'attore che ha maggiormente visto incrementare il proprio ruolo in Libano negli ultimi anni. Può quindi darsi che ci sia lo zampino iraniano dietro i fatti di ieri, come potrebbe anche essere verosimile che Israele abbia voluto ricordare a tutti che senza il suo benestare nessun accordo sul Libano può avere chance di concreta realizzazione. Un accordo tra Siria e Arabia Saudita a spese di Teheran forse è fantapolitica. Ma, a guardare le cose da Beirut, potrebbe non essere gradito fino in fondo neppure al governo israeliano, che, dopo aver ottenuto l'appoggio tanto caloroso quanto inatteso di Obama poche settimane fa, appare sempre più orientato a cercare una soluzione globale dei propri problemi di sicurezza, di cui la definitiva sconfitta del regime iraniano sembra un elemento irrinunciabile. Paradossalmente, l'allentamento della pressione iraniana sui confini israeliani (tramite Hezbollah) e l'eventuale crisi dell'alleanza tra Teheran e Damasco potrebbe allontanare la prospettiva di una simile «quadratura del cerchio». La domanda che sono in molti a farsi in queste ore a Beirut, è se, ancora una volta, sarà il «verde Libano» a pagare il prezzo dei giochi di potere altrui. E, senza farsi troppe illusioni, guardano a Washington per cercare la risposta.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7674&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 20, 2010, 12:35:59 pm »

20/8/2010

La paura del futuro

VITTORIO EMANUELE PARSI

Le truppe da combattimento americane hanno lasciato l’Iraq, mantenendo sul posto una corposa retroguardia di 50 mila uomini. È un’altra delle promesse fatte da Obama in campagna elettorale che viene (più o meno) mantenuta.

Ma è anche quanto avevano concordato la precedente amministrazione e le autorità irachene, i cui vertici militari (tenente generale Babaker Zebani) vorrebbero ora che le residue truppe americane restassero in Iraq non solo per tutto il 2011, ma addirittura fino al 2020. Il futuro del Paese si presenta tutt’altro che roseo. I rapporti tra le formazioni (e le milizie) sciite, sunnite e curde sono sempre sul punto di rottura; gli attentati stanno conoscendo una nuova recrudescenza; la stessa società, che nel suo complesso è esasperata ed esausta per il pesante tributo di sangue e distruzione che ha dovuto pagare per liberarsi dalla tirannia di Saddam Hussein, sembra essere completamente sfibrata dai lunghi anni del terrore, prima qaedista e poi settario.

Guardando al Paese e all’intera regione, credo che tre considerazioni possano essere brevemente svolte. 1. Il rovesciamento del regime baathista ad opera degli americani ha avuto ripercussioni sull’intero Medio Oriente, com’era facile prevedere. Tuttavia non nel senso auspicato da George W. Bush, di un’apertura di quella regione alla democrazia, sia pure importata manu militari. Esso ha piuttosto segnato la sconfitta, almeno per ora, del progetto identitario fondato sul binomio laicità-modernizzazione, a favore di quello integralismo-radicalismo. Le ambizioni egemoniche di Saddam Hussein erano state alimentate dallo scoppio della rivoluzione khomeinista in Iran, e dalle paure che essa aveva suscitato nell’intero Medio Oriente. Nonostante i contorcimenti neoreligiosi dell’ultimo Saddam, la rivoluzione khomeinista ha sconfitto quella baathista e Teheran ha accresciuto il proprio ruolo regionale.

2. Nelle sabbie irachene l’America ha consumato il sogno di un nuovo ordine mondiale fondato sulla sua leadership e garantito dalla sua indiscussa supremazia militare. Quest’ultima resta, ma sembra essere sempre più ingombrante e meno risolutiva, se è vero che mentre le forze armate Usa si ritirano sono in arrivo 7000 nuovi contractors, che dovranno provvedere, di fatto privatizzandola, alla sicurezza delle aree petrolifere. È un paradosso. G.W. Bush andò in guerra contro tutto e contro (quasi) tutti, invocando il fallimento del diritto internazionale e della stessa validità assoluta del concetto di sovranità. E ha perso. Quella di Bush è stata però anche la sconfitta dell’ultimo tentativo di cambiare apertamente le regole del gioco, mantenendone inalterate la dimensione pubblica, politica e territoriale. Fallito il primo esplicito approccio neoimperiale degli Stati Uniti all’ordine mondiale, a Washington sembrano ancora incerti su quale strada intraprendere, forti di una sola consapevolezza: che il tornare indietro è semplicemente impossibile.

3. Anche in seguito al vuoto causato dalla sconfitta irachena, il sempre precario ordine mediorientale sta conoscendo un avvitamento inedito, in cui molti protagonisti stanno cambiando il loro ruolo tradizionale. Israele non è più l’incontestata potenza militare della regione, tendenzialmente «pro status quo»; l’Iran, al suo punto di massima proiezione regionale, sembra disposto a giocarsi il tutto per tutto nella ben più importante partita nucleare; la Turchia mostra un nuovo attivo interesse per l’area che mette in tensione i rapporti con i suoi alleati non solo regionali; l’Egitto fatica a mantenere un basso profilo, continuando a investire sulle speranze di una pax americana tra Israele e Palestina che si riducono ogni giorno di più anche per la debolezza manifestata dagli Stati Uniti. Ciò che accomuna sempre di più i diversi attori è che tutti sembrano in grado di impedire il successo altrui, ma nessuno appare credibilmente nelle condizioni di far trionfare il proprio. Il fatto è che con la caduta del tiranno molti hanno tratto vantaggio nel breve periodo: Israele, il Kuwait e l’Iran hanno visto scomparire un acerrimo nemico; George W. Bush ha chiuso la partita iniziata dal padre; i curdi e gli sciiti iracheni (cioè la vasta maggioranza) sono più liberi e probabilmente non poi tanto più insicuri di prima. Ma nessuno, finora, è riuscito a trasformare questi vantaggi immediati nelle fondamenta per un futuro più stabile.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7726&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 22, 2010, 09:10:49 pm »

22/8/2010

La Russia è il vero vincitore

VITTORIO EMANUELE PARSI


Teheran esulta per essere riuscita nell’impresa nonostante il recente (blando) inasprimento delle sanzioni decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma è Mosca ad aver fatto bingo ieri, con l’attivazione della centrale nucleare di Bushehr nel Sud dell’Iran.

Ci sono voluti 35 anni per completare il vecchio impianto di concezione tedesca da parte dei nuovi fornitori russi, e solo la cocciuta ambizione nuclearista della Repubblica islamica ha consentito di evitare una plateale rottura con i russi, sospettati di tirarla per le lunghe allo scopo di evitare eccessivi attriti con l’Occidente. Ma, alla fine, Ahmadinejad può esibire un successo tanto in campo interno (i cittadini iraniani sono esasperati dai continui black out energetici), quanto internazionale (dimostrando le eccellenti performance del Paese). Nonostante continuino a essere preoccupati dai rischi di proliferazione, come dimostrato anche dall’adozione di sanzioni aggiuntive da parte della Ue, i Paesi occidentali ritengono soddisfacenti le modalità con cui i due reattori diventano operativi; la centrale sarà infatti gestita dai russi, che forniscono il combustibile nucleare e ritirano le scorie, e sarà aperta agli ispettori della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Proprio il pesante coinvolgimento russo è stato l’elemento chiave perché il progetto andasse a buon fine. L’impegno di Mosca a supervisionare l’intera operazione non poteva essere derubricato a una mera trovata propagandistica o a una strategia disinformativa, come invece accade regolarmente per le dichiarazioni iraniane. Ma il modo in cui Mosca ha giocato la partita le ha consentito di «rivendere» più volte e a più acquirenti la stessa prestazione, oltretutto senza mai deflettere dai propri obiettivi strategici. Vediamo perché.

La Russia è la seconda potenza nucleare mondiale ed è membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Mosca sa benissimo che, dopo la Guerra Fredda, la sua posizione nel sistema politico internazionale è tale soprattutto per il suo status di potenza nucleare (oltre che per la ricca dotazione energetica). Se c’è un Paese che, quindi, ha più da perdere da un’eventuale proliferazione, questo è la Russia. Piuttosto che aderire acriticamente, e gratuitamente, alla posizione di fermezza occidentale, Mosca ha però scelto di trovare la via affinché il diritto iraniano allo sviluppo del nucleare civile (un diritto che nessuno mette formalmente in discussione) fosse concretamente realizzabile. Così, in cambio del suo sostegno all’ultimo round di sanzioni Onu, ha ottenuto che americani ed europei «sfilassero» di fatto la centrale di Bushehr dal dossier della «proliferazione nucleare iraniana» (un punto segnato a Usa ed Europa). In tal modo, la Russia ha ricevuto, oltre a un cospicuo contratto di fornitura, la riconoscenza non solo iraniana, ma anche di molti Paesi del Sud, che forse per un attimo sono tornati a guardare Mosca come un «alleato naturale», un po’ come avveniva ai vecchi tempi del terzomondismo e dell’Urss (un punto alla Cina).

Grazie a Bushehr, Mosca riacquista peso su tutta la vicenda del dossier nucleare iraniano, diventando il vero pivot del cosiddetto «5+1» (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania), per essere, di tutto il gruppo, il solo naturalmente contrario alla proliferazione, leale sulle sanzioni e con entrature rilevanti a Teheran. E per questa via, il Cremlino torna a contare in Medio Oriente, come non avveniva più dalla guerra del 1990-91, quando l’Urss di Mikhail Gorbaciov dovette acconsentire alla guerra contro il suo alleato ed ex pupillo Saddam Hussein (un punto ancora agli americani e uno agli israeliani). A circa 20 anni di distanza, lo switch tra il cavallo iracheno e quello iraniano non si presenta esente da rischi, evidentemente: a iniziare dal fatto che la Repubblica di Ahmadinejad e Khamenei appare per nulla propensa a farsi cavalcare da chicchessia. Ma il rientro in un Medio Oriente che fino a pochissimi anni fa sembrava un esclusivo feudo americano giustifica un tale azzardo, nella speranza che a Mosca abbiano qualche idea su che cosa fare, una volta tornati nella scacchiera mediorientale. Certo è che i buoni uffici tra Occidente e Iran prestati da Mosca potrebbero indurre quest’ultima a tentare un’operazione simile con Damasco, alleato iraniano e il solo regime sopravvissuto dei vecchi clientes sovietici di un tempo: una variabile di cui tener conto da qui al 2 settembre, e anche dopo, ovviamente.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7734&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #67 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:27:12 pm »

30/8/2010

L'alleato imbarazzante

VITTORIO EMANUELE PARSI

Napoleone Bonaparte si racconta fosse furibondo con i suoi parenti, sempre avidi di nuovi regni e onori, e che a ogni loro astrusa richiesta commentasse sconsolato «Che posso dire! Gli amici si scelgono, i parenti ti capitano». Difficile che Silvio Berlusconi possa invocare la malasorte, pensando a tutti i guai che il suo amico Gheddafi gli sta combinando.

Arrivato a Roma con il solito imbarazzante codazzo di «amazzoni», tende e cavalli, che in confronto un circo di terz’ordine apparirebbe sobrio, l’ineffabile colonnello ha pensato bene di esternare la sua filosofia religiosa. Così, di fronte a un inclito pubblico di più o meno avvenenti hostess convocate all’uopo, ha invitato l’Europa «a convertirsi all’Islam», portando a casa, almeno a quel che si dice, la conversione di tre ragazze, come acconto. Il monito, già discutibile di per sé (andiamo, colonnello, delle signore appena conosciute le si invita a un giro di danza, a cena, a far due chiacchiere, non alla conversione… figuriamoci poi i continenti), risulta essere un’autentica cafonata fatto in quella Roma che oltre a essere la capitale d’Italia è, anche, la sede del papato da una cosetta da nulla come duemila anni. Pur in un’epoca in cui al multiculturalismo è doveroso sacrificare persino il buongusto e l’eleganza, la visita dell’ospite libico è sempre più (pre)destinata a essere il trionfo del Kitsch.

C’è qualcosa di francamente sconcertante nel vedere come un premier e un governo che hanno sempre fatto della difesa delle radici cristiane dell’Europa, dell’atlantismo e dell’occidentalismo uno dei tratti più caratterizzanti della propria filosofia politica, un vero e proprio tratto di autoidentificazione, possano poi trovarsi in una situazione così imbarazzante. Si dirà che occorre trattare con i vicini che si hanno e cercare di mantenere buone relazioni con chiunque. Corretta osservazione. Allo stesso modo si potrà ricordare che va a merito del governo Berlusconi aver chiuso l’infinito contenzioso con la Libia, tra l’altro in modo tutto sommato vantaggioso per noi, impresa che non era riuscita né al furbissimo Andreotti né al sornione Prodi: incontestabile. Si affermerà, infine, che il Trattato di Bengasi ha consentito di trasformare la Libia in un partner per la lotta all’immigrazione clandestina: vero, pur con qualche imbarazzo sulle modalità con cui le autorità libiche si prestano alla bisogna.

Ma l’interesse nazionale non giustifica, e soprattutto non richiede, di rendersi disponibili a ospitare grottesche pagliacciate. È pur vero che l’ospite è sacro, ma è altrettanto vero che reiterare inviti a ospiti così imbarazzanti è poco furbo. È una delle regole da sempre discretamente seguite in diplomazia. Gli inglesi, che han governato un impero per qualche secolo e la cui abilità diplomatica li ha spesso esposti ad accuse di «doppiezza» (la perfida Albione…), erano sicuramente costretti a intrattener rapporti con personaggi bizzarri almeno tanto quanto il colonnello. Ma non han mai trasformato Hyde Park in un circo. Avevano ben chiaro il senso della dignità della Casa («Home Fleet» era il nome della Flotta destinata a tutelare le Isole, e «domestic» è l'aggettivo usato per definire gli affari interni). Talvolta si direbbe che sia invece un’altra la metafora che il premier ha in mente per l’Italia, e cioè quella aziendale, per cui, si sa, «il cliente ha sempre ragione»… Più che conflitto di interessi, in questo caso, si potrebbe parlare di una vera e propria confusione di ruoli da parte del premier-imprenditore. Una confusione che, comunque, non fa bene al Paese e alla sua immagine.

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« Risposta #68 inserito:: Settembre 15, 2010, 09:08:10 am »

15/9/2010

Anche l'Islam ha tanti reverendi Jones
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Ma quanti «reverendi Jones» ci sono nel mondo islamico e quanto grande è il loro seguito? La sconsiderata minaccia di questo oscuro pastore di un’ancor più sconosciuta chiesa evangelica della Florida, peraltro neppure attuata, di bruciare il Corano ha offerto il pretesto per l’ennesima strage di cristiani nel subcontinente indiano. Tutto ampiamente e drammaticamente previsto, ma oggi, mentre contiamo le vittime innocenti di una violenza inaccettabile, è impossibile fare a meno di sottolineare che, se bruciare i libri è esecrabile, ammazzare persone innocenti è peggio. Perentorie, in tal senso, le parole del vescovo di Jammur & Kashmir nell’intervista rilasciata a La Stampa di ieri, «non si può giustificare con una proposta offensiva la soppressione di vite innocenti», e neppure di quella del «colpevole» autore della proposta, mi sentirei di aggiungere. Non dovrebbe mai essere dimenticato del resto che, per quanto non sia condivisibile dar fuoco ai simboli e alle effigi che non ci piacciono, una simile pratica rientra pur sempre nella libertà d’espressione, la quale nelle democrazie gode della massima tutela, perché se la prima vacilla trascina nella sua caduta anche le seconde. Non per caso, una trentina d’anni fa, la Corte Suprema riconobbe il diritto di bruciare la bandiera degli Stati Uniti come un esercizio, per quanto detestabile, di tale libertà, dichiarando incostituzionali le norme che ben 48 Stati dell’Unione su 50 avevano adottato a difesa del vessillo a stelle e strisce. È del tutto evidente che «l’amor di Patria» e il «timor di Dio» sono sentimenti in sé rispettabili e sacri per i rispettivi credenti, ma sarebbe una deroga inammissibile al principio della libertà di espressione pretendere che ciò che per gli uni o gli altri è «sacro e inviolabile» venisse sottratto all’esercizio di una delle principali libertà, sia pure in forme, lo ripetiamo, assai discutibili.

La «prevedibilità» della violenza scatenata in India contro cristiani colpevoli solo di essere tali, non toglie niente alla sua inaccettabilità e pretestuosità. È solo l’ennesima manifestazione della dilagante e crescente intolleranza nell’Islam, una vera e propria malattia che sta soffocando le società dove l’Islam è religione maggioritaria, e che rischia di restringere gli spazi di libertà anche nelle nostre società. Che siano le vignette danesi, le provocazioni di un idiota o più sofisticate polemiche culturali, quando un qualunque imam leva la voce per scatenare la violenza è sicuro di trovare seguito e, troppo spesso, anche la connivenza delle autorità (basti pensare ai cristiani impiccati in Pakistan per blasfemia dopo «regolare processo»). Come ha sottolineato ieri Angelo Panebianco con l’abituale franchezza sul Corriere, «la “loro” malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione».

Nei giorni scorsi i media sono stati accusati di aver «creato il mostro», facendo del reverendo Jones un personaggio planetario. La verità è che l’attenzione che i media occidentali hanno dedicato a Jones semplicemente obbedisce a un vecchio adagio della professione: «un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane è una notizia». Proprio perché viviamo in società laiche e liberali, ci fa specie e desta il nostro sdegno ogni deriva della versione del sentimento religioso oggi prevalente in Occidente. Secoli di guerre civili di religione intra-occidentali ci hanno dolorosamente vaccinato rispetto ai rischi dell’uso politico e violento delle religioni e insegnato i vantaggi della tolleranza.

Diversamente stanno le cose in gran parte del mondo islamico, nel quale l’utilizzo politico del movente religioso gode di un successo tanto maggiore quanto più è estremo e dove anche i media, troppo spesso, giocano un ruolo diverso. Non è un caso che, a scatenare i professionisti della violenza religiosa in Kashmir sia stata la diffusione di immagini della «profanazione» del Corano da parte dell’iraniana Press Tv, cioè della televisione di un Paese la cui legislazione considera normale la lapidazione delle adultere...

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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 10, 2010, 10:12:04 am »

10/10/2010

La guerra e i veri obiettivi

VITTORIO EMANUELE PARISI

Il 2010 si va profilando come l’anno più luttuoso per la coalizione multinazionale da quando la guerra afghana è cominciata.
E a questa tendenza generale non sfugge purtroppo neppure il contingente italiano.

Il prezzo da pagare si fa sempre più alto, al punto che dal presidente Obama al premier Cameron al ministro della Difesa La Russa, tutte le autorità governative si affannano a proclamare il 2011 come l’anno in cui terminerà lo sforzo di Isaf. Quasi volessero rassicurare l’opinione pubblica che si tratta di stringere i denti ancora per un anno e poi l’incubo, con il suo stillicidio di morti, cesserà o perlomeno smetterà di riguardarci.

Lasciateci dire che tutto questo è profondamente sbagliato. Il punto non è fissare una data e cercare di arrivarci in qualche modo. Il punto è capire quali sono gli obiettivi della nostra guerra, quella di Isaf, in Afghanistan, adeguare la strategia agli obiettivi e ritirarsi quando saranno stati raggiunti o quando risultasse evidente che è impossibile ottenere più di quanto è stato conseguito. Ma procediamo con ordine. Quello che tutti sembrano aver dimenticato è che la guerra in Afghanistan era già in corso quando la coalizione internazionale è arrivata.

Era una guerra tra l’Alleanza del Nord, il cui leader Massud fu eliminato poche ore prima dell’11 settembre, e il regime talebano. L’intervento occidentale in quel conflitto fu causato dagli attentati dell’11 settembre e dal rifiuto del regime talebano di consegnare Osama alle autorità americane, come richiedevano le Nazioni Unite. Noi non siamo entrati in guerra per trasformare l’Afghanistan in una socialdemocrazia, né per far prevalere questa o quella fazione. Ma abbiamo sostenuto una fazione e rovesciato il regime talebano per un duplice scopo: quello esplicito di eliminare le cellule qaediste e catturare Bin Laden e quello implicito di tenere la guerra lontano dall’Occidente, dopo che Bin Laden era riuscito a portarla nel cuore dell’Occidente.

Potremo discutere all’infinito se, finora, l’obiettivo esplicito è stato raggiunto, consapevoli che di Bin Laden si sono perse le tracce tanto che neppure sappiamo se è ancora vivo, ma anche che gran parte della struttura qaedista in Afghanistan è stata eliminata fisicamente. Siamo peraltro riusciti a tenere la guerra lontano dalle nostre case, anche se, in questi nove anni, Londra e Madrid sono state colpite da due gravi attentati terroristici. La domanda che oggi dovrebbero porsi i leader della Nato e dei Paesi associati è se, arrivati a questo punto, non occorra cambiare radicalmente strategia per raggiungere i medesimi obiettivi (tenere lontana la guerra e colpire Al Qaeda), cioè se la presenza delle truppe Isaf costituisca ancora uno strumento efficace o possa essere invece controproducente rispetto ai nostri scopi di guerra. Che non sono quelli di Kharzai. Il Presidente afgano ha i suoi scopi, sintetizzabili nel restare al potere e nel cercare di dare un minimo di tregua al suo popolo. Per potercela fare ha bisogno come minimo di avere un migliore strumento militare, che gli consenta di consolidare la propria posizione, e poi di cercare una soluzione politica del conflitto che sia la sua e non la nostra, parlando con chi ritenga opportuno. A tal fine, la nostra presenza rischia di essere un impiccio. Finché Isaf sarà in Afghanistan il raggio di trattative che Kharzai potrà intavolare con successo sarà di necessità limitato. Ma se l’Alleanza riterrà che, giunti a questo punto, il conseguimento dei nostri scopi di guerra richieda il ritiro di Isaf, allora si dovrà procedere in questa direzione. Valutando solo che ciò avvenga senza mettere a rischio la credibilità della Nato e chiarendo che se l’Afghanistan, con o senza l’associazione dei talebani al governo, dovesse tornare a essere un santuario per i terroristi, si esporrà a una massiccia rappresaglia militare.

Durante i quasi dieci anni di guerra, ci siamo ritrovati a combattere per obiettivi probabilmente irrealizzabili con queste modalità e comunque in così poco tempo. Le foto delle ragazze di Kabul negli Anni 60, con i loro tailleur e i loro capelli al vento ci ricordano che la situazione è regredita di conflitto in conflitto, da quando il Paese è scivolato nella guerra civile che portò all’intervento russo. Quello che abbiamo imparato è che, quando la guerra è tra la gente, conquistare i cuori e le menti della popolazione civile è la sola via per vincere. Ma farlo mentre si combatte è quasi impossibile. Sarebbe come cercare di fare contemporaneamente lo sbarco in Normandia (in cui morirono più civili francesi che soldati di tutti gli eserciti) e il Piano Marshall. Ed è proprio quello che stiamo provando a fare in Afghanistan.

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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 27, 2010, 09:38:27 am »

27/10/2010

Il sapore della vendetta

VITTORIO EMANUELE PARSI

Era prevedibile che la sentenza di condanna a morte per Tareq Aziz, ex vicepresidente dell’Iraq di Saddam Hussein, provocasse forti reazioni in tutto il mondo.

Aziz aveva sempre cercato di accreditarsi come il volto moderato del regime sanguinario di Saddam, giocando con scaltra spregiudicatezza sulla sua appartenenza alla fede cattolico-caldea e su quel suo aspetto fisico bonario, se non addirittura dimesso, con quel viso che ricordava vagamente quello del presidente cileno Salvador Allende, ucciso dai golpisti di Pinochet.

Evidentemente Aziz non era per nulla quello che molti volevano disperatamente che fosse. Era un militante del partito nazional-socialista del Baath, un altissimo gerarca del regime di Hussein, pronto a servirlo per gli scopi più brutali, sfruttando le sue qualità «diplomatiche», che non si allontanò da Saddam neppure quando il tiranno decise di gassare i suoi sventurati sudditi. In ciò, Aziz era l’equivalente iracheno dei Ribbentrop e degli Hess, che in ogni occasione cercarono con la frode di accreditare l’idea falsa di un nazionalsocialismo quasi rassicurante, diverso da quello che era in realtà. In quanto figura di spicco del regime, perfettamente a conoscenza e complice di ogni sua scelta criminale, Aziz è politicamente, moralmente e penalmente colpevole, in solido con quel padrone che fino all’ultimo ha scelto di servire, e che ora si appresta a seguire sul patibolo. E proprio qui sta il punto della nostra contrarietà e delle proteste del mondo: sull’entità e la qualità della pena. Come tantissimi altri, anche chi scrive ritiene che la pena di morte sia un retaggio del passato di cui, con fatica, perseveranza e passione in Europa ci siamo finalmente liberati. Togliere la vita anche al peggiore dei criminali ripugna alla nostra coscienza, ci sembra un atto indegno del progresso umano che offende innanzitutto la nostra dignità.

Evidentemente queste obiezioni morali lasciano il tempo che trovano a chi ha deciso di accogliere la pena di morte nel proprio ordinamento (dall’Iraq alla Cina, dal Giappone agli Stati Uniti). Se un ordinamento giudiziario come quello iracheno prevede la pena capitale, del resto, per l’entità dei crimini di cui anche Aziz si è macchiato, quella pena può essere definita appropriata, sempre che le procedure seguite per decretarla siano state rispettose di quanto prevede la legge irachena. Su questo i dubbi sono tanti e fondati, e le continue rivelazioni sull’eccessiva disinvoltura con cui sono state commesse, incoraggiate e tollerate sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle nuove autorità irachene e delle forze occupanti, dopo la caduta del regime di Saddam, non fanno che accentuare queste perplessità.

Persino chi volesse sostenere che la sentenza nei confronti di Aziz è stata emessa nel rispetto formale e sostanziale delle procedure legali irachene dovrebbe non essere insensibile a una ragione squisitamente politica che consiglia un atteggiamento di clemenza nei suoi confronti. Innanzitutto per allontanare il sospetto che quello che si sta consumando a Baghdad sia «anche» un regolamento di conti. Mentre invece le nuove autorità irachene avrebbero l’interesse a cercare di marcare in tutti i modi possibili il proprio differente status etico rispetto al regime di cui Aziz era esponente di primissimo piano. Osservava con ragione Niccolò Machiavelli, molti secoli orsono, che talvolta la ragion politica richiede di compiere azioni moralmente riprovevoli ma politicamente necessarie. Si può essere d’accordo o no, ma di certo anche il Segretario della Repubblica fiorentina sottoscriverebbe che la ragion politica non richiederà mai di compiere azioni stupide e controproducenti, che attirano su chi le compie l’ostilità di una parte considerevole del mondo. Se per l’esecuzione di Saddam si poteva forse invocare la ragion politica (il regime era fragilissimo, appena in via di instaurazione, in un contesto di guerra civile), nel caso di Aziz simili considerazioni non sussistono. E la sua esecuzione appare un atto forse vendicativo, ma sicuramente tanto stupido quanto moralmente riprovevole.

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« Risposta #71 inserito:: Novembre 09, 2010, 06:09:22 pm »

9/11/2010

Rivincita sul voto

VITTORIO EMANUELE PARSI

Partito con l’esplicito obiettivo di riuscire a frenare la «fuga di posti di lavoro americani in India», Obama ha scelto di fornire alla sua tutt’altro che scontata visita indiana (è il terzo Presidente Usa a visitare il Paese) un colpo d’ala politico.

Con un’accelerazione rispetto alle sempre più continue aperture di credito americane nei confronti della «più popolosa democrazia del pianeta», il Presidente americano si è spinto a sostenere in maniera tanto esplicita e solenne, quanto priva di conseguenze effettive, le aspirazioni indiane a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La riforma del Consiglio, e dell’organizzazione nel suo complesso, giace impantanata da anni nella palude del Palazzo di Vetro, ed è improbabile che le cose possano cambiare a breve. Ma una così autorevole presa di posizione costituisce un’ottima premessa affinché il dialogo tra Washington e Delhi possa portare a qualche risultato spendibile dal Presidente anche e soprattutto sul fronte interno: cioè in termini di posti di lavoro e accordi commerciali.

Sono ormai molti anni che Washington sta letteralmente «allevando» l’India come grande potenza, per farne un alleato strategico in grado di bilanciare le possibili aspirazioni egemoniche cinesi in Estremo Oriente. Non si tratta di un’opzione anticinese, ma piuttosto di una scelta a favore del mantenimento di quel multipolarismo asiatico di cui Washington è stata storicamente garante. E la cosa, al di là delle reazioni ufficiali e mediatiche, potrebbe in fondo non dispiacere a Pechino, che ha tutto l’interesse a rassicurare i vicini circa il carattere armonioso e non minaccioso della sua crescita. Proprio in omaggio a una simile strategia, il predecessore di Obama, liberò la vendita di componenti decisive per i reattori nucleari indiani, bloccata dal Congresso a seguito della violazione indiana del Trattato di Non Proliferazione Nucleare: un passo, quello, ben più denso di significati concreti, per un Paese sempre più affamato di energia, ma ancora incredibilmente legato a materie prime altamente inquinati e scarsamente efficienti come il carbone. Certo che sostenere la richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza per un Paese che ha violato apertamente il trattato di non proliferazione appare una scelta simbolicamente persino più audace dello sblocco di qualche turbina.

Sarà piuttosto il Pakistan a cogliere nella decisione americana un ulteriore segnale del degrado delle relazioni bilaterali con Washington, dove l’insofferenza per un alleato ritenuto doppiogiochista e fellone nella lotta ai talebani è temperata solo dalla consapevolezza della sua insostituibilità. Più in generale, il mondo islamico non vedrà di buon occhio questo passo, che sarà letto come l’ennesima delusione seguita alle grandi aspettative suscitate dall’ormai lontano discorso del Cairo. Anche fuori degli States, il problema del gap tra le enormi aspettative suscitate e le modeste prestazioni fin qui realizzate appare perseguitare Obama, la cui politica estera nei prossimi due anni dovrà giocoforza essere sempre più attenta agli interessi strettamente americani e lontana da quell’afflato di leadership e responsabilità globali che oltreconfine gli aveva provocato tanta simpatia e tanto interesse.

Inevitabilmente, anche sulla politica estera gli effetti delle disastrose elezioni di Midterm si faranno sentire, spingendo il presidente a privilegiare quelle regioni (e quegli interlocutori) ove, accanto a più tradizionali e dilazionati interessi strategici possano essere perseguiti anche più schietti e immediati interessi economici. Quindi più Asia meridionale e orientale e meno Medio Oriente: a iniziare da quel Levante (Israele, Palestina, Libano, Siria) dove l’America sta perdendo presa politica e non ha grandi interessi economici, o dove la militarizzazione dell’azione di politica estera (Iraq, Afghanistan) impone scelte sostanzialmente obbligate. Il risultato complessivo potrebbe essere apparentemente paradossale: ovvero che un presidente partito con convinzioni, aspirazioni e aspettative orientate a esercitare una leadership globale e insieme condivisa, potrebbe ritrovarsi (pena la sconfitta alle prossime elezioni) a svolgere un’azione concreta molto più serrata intorno all’interesse nazionale degli Stati Uniti. Non per colpa delle sue idee, si dirà, ma per via del ciclo economico e delle sue conseguenze politiche. Ma in fondo è né più né meno quanto accadde a George Bush (padre), che nonostante le idee (un nuovo ordine mondiale da costruire multilateralmente) e le azioni (il successo della Guerra del Golfo e della sua straordinaria coalizione arcobaleno) venne sconfitto per non aver saputo trovare le risposte giuste alla preoccupazioni economiche del suo elettorato domestico.

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« Risposta #72 inserito:: Novembre 27, 2010, 12:02:41 am »

26/11/2010

La crisi delle Coree paralizza l'Onu

VITTORIO EMANUELE PARSI

E’ assordante il silenzio dell’Onu di fronte all’ennesima, gravissima provocazione da parte della Corea del Nord. Ed è tanto più sconcertante se si pensa che, a parte la Guerra del Golfo del 1990-‘91, proprio la penisola coreana è stata il solo luogo in cui le truppe sotto il vessillo delle Nazioni Unite combatterono per restaurare la sovranità di uno Stato. L’invasione dalla Corea del Sud da parte del Nord diede inizio alla Guerra di Corea, che tra il 1950 e il 1953 causò quasi 4 milioni di vittime.

Allora la Cina comunista non era un membro dell’Onu e i suoi volontari ebbero una parte cruciale nel conflitto a fianco dell’aggressore, e l’adozione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza (Cds) che autorizzava l’uso della forza per respingere l’invasore fu resa possibile dalla momentanea assenza del rappresentante sovietico, che disertava le sessioni del CdS nella speranza di bloccarne i lavori.

La Guerra Fredda è finita da oltre 20 anni, la Russia ha condannato aspramente l’attacco nordcoreano e la Cina è un gigante economico e politico, membro del Wto (l’Organizzazione Mondiale del Commercio), sempre più integrato nel sistema internazionale e ben rappresentato nelle sue istituzioni. Nessuna contrapposizione ideologica frontale, paragonabile a quella del mondo bipolare, divide i «grandi della Terra», nessuno ha interesse a vedere precipitare il Nord-Est asiatico in uno stato di disordine o, peggio, in una guerra. Eppure l’Onu non riesce a proferire una parola autorevole e unitaria. L’Onu, la cui Commissione d’Armistizio vigila dal luglio del 1953 sul rispetto della tregua tra le due Coree, resta così paralizzata, come sempre, ogni volta che la Nord Corea è artefice di una sfida all’ordine regionale e internazionale. E’ esattamente quello che accade da anni con il suo dossier nucleare. Per spiegare le timidezze del CdS, e in un certo senso anche per comprendere l’arroganza di Pyongyang, in molti ritengono occorra guardare alla Cina, quasi che Pechino sia vittima di un’antica sindrome da Guerra Fredda. In quanto membro permanente del CdS, Pechino starebbe operando per impedire una dura condanna della Corea del Nord da parte del CdS. La Cina è la sola alleata della Corea del Nord, che aiuta in termini economici, energetici e alimentari, estremamente preoccupata dell’eventuale crollo del regime, una vera e propria monarchia ereditaria comunista, ormai prossima alla terza generazione. Consapevoli di ciò, i Kim giocano le loro carte con spregiudicatezza: «incatenando» l’alleato maggiore alle proprie folli iniziative, la Corea del Nord si comporta come un piccolo bullo di quartiere, che sa di avere le spalle coperte, sia pur controvoglia, da un boss ben più temuto e rispettato.

Ma perché la Cina dovrebbe prestarsi a un simile gioco, quando essa ha tutto l’interesse a mantenere tranquilla l’area del Nord-Est asiatico, così da continuare a convincere i propri vicini che la sua crescita politica ed economica non li minaccia? I cinesi sono ben consapevoli che un innalzamento della tensione nella regione renderebbe sempre più improbabile quel progressivo disimpegno Usa che Pechino auspica possa prima o poi realizzarsi. Allo stesso tempo, però, non intendono in alcun modo fornire l’impressione di considerare «accettabile» la presenza americana nell’area (di qui la dichiarazione che mette sullo stesso piano il cannoneggiamento nordcoreano e le annunciate manovre militari americane). Ma le azioni nordcoreane, come le fin qui timide reazioni americane, lasciano intendere una nuova rischiosa possibilità per i dirigenti cinesi. Quella di mettere in serio imbarazzo Washington, rendendo evidente che la protezione militare degli Usa è un elemento assai aleatorio, perché l’America sta diventando di fatto incapace o non volenterosa di difendere i propri alleati.

Se Giappone e Corea del Sud iniziassero a nutrire dubbi sull’effettiva volontà americana di garantire la loro sicurezza, cioè di ottemperare gli obblighi che derivano dal vincolo di alleanza, potrebbero realisticamente cominciare a volgere lo sguardo verso Pechino, la sola, forse, in grado di bloccare la minaccia nordcoreana alla fonte. Lasciar rosolare a fuoco lento gli Usa, attendere fino all’ultimo momento prima di cavarla d’impaccio, contribuirebbe ad erodere le ragioni dell’alleanza che lega Washington a Seul e Tokyo, e magari a Taipei (capitale della «provincia ribelle» di Taiwan) e renderebbe possibile quello che per ora non è nemmeno immaginabile: che l'America rinunci a quel ruolo di riequilibratore antiegemonico in Asia orientale che ha svolto per quasi 80 anni nei confronti prima del Giappone, poi dell’Urss e ora della Cina. A ben vedere, è solo la presenza americana a impedire a Pechino di poter sognare una leadership regionale, ottenuta magari pacificamente, ma anche altrettanto incontrastata.

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« Risposta #73 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:33:01 pm »

30/11/2010

Un doppio rischio per Obama

VITTORIO EMANUELE PARSI


Non sarà l’«11 settembre della diplomazia», come ha sostenuto il ministro degli Esteri Frattini, e forse neppure «l’attacco alla comunità internazionale» di cui parla Hillary Clinton, ma la diffusione dei files del Dipartimento di Stato (DoS) rischia di produrre agli Stati Uniti un danno dall’entità non così immediatamente calcolabile.

Il fatto che il Segretario di Stato abbia chiesto ai suoi diplomatici di raccogliere tutte le informazioni sensibili (compreso il Dna, ove possibile), dei rappresentanti degli Stati accreditati all’Onu non è esattamente una bazzecola. Sono cose da film di James Bond, che forse la logica della Guerra Fredda poteva giustificare, ma che fanno a cazzotti con tutti gli sforzi della diplomazia pubblica messa in campo dall’amministrazione Obama in questi anni e stridono platealmente con la stessa idea di change, così centrale nella brillante ars rhetorica obamiana. Tutti i pregiudizi sull’«ipocrisia yankee», sul cinismo che si nasconde sotto le belle parole, ne verranno inevitabilmente alimentati. Si potrà osservare che, al di là di caustici giudizi su questo o quel leader straniero e di valutazioni geopolitiche talvolta francamente approssimative, non sono emerse tracce di comportamenti anomali, come le renditions o i waterboard di Bushiana memoria. Ma occorre anche considerare che quelle finora svelate sono informazioni carpite al circuito del DoS, ma non sono informazioni criptate, come sarebbero invece quelle che dovessero contenere informazioni su comportamenti «inammissibili». Questo doppio standard, questa tensione tra le parole e i fatti, non può che appannare l’aura internazionale di Obama, che anche sulla maestria oratoria aveva costruito la sua reputazione e, ovviamente, ne esce indebolita anche Hillary Clinton, cioè il Presidente attuale e uno dei più seri candidati alla sua successione.

La seconda cosa che colpisce è una certa incoerenza anche tra i giudizi raccolti dalle ambasciate americane e le conseguenti decisioni politiche della Casa Bianca. Il nostro premier è stato bacchettato per i suoi legami troppo stretti con Putin. E chi scrive è sempre stato altrettanto perplesso. Eni è stata criticata pesantemente per la questione dei gasdotti e dei suoi accordi con Gazprom: che magari allontanano la prospettiva di una politica energetica europea attenta anche alla sicurezza oltre che agli sconti di prezzo (ma non più degli accordi tra russi e tedeschi), e però di sicuro dispiacciono alle compagnie americane interessate a fare affari altrettanto lucrosi in materia energetica.

La pericolosità della Russia, secondo i files del DoS, starebbe nel suo essere uno «Stato-mafia». Bene. Ed è in base a questa valutazione che al vertice Nato di Lisbona, dieci giorni fa, la Casa Bianca ha proposto di condividere con la Russia le tecnologie per la difesa antimissile? Qualcosa non torna, sarà pressappochismo, sarà prepotenza commerciale, ma qualcosa non torna. Più che tirare un sospiro di sollievo per quello che i files non contengono, occorre preoccuparsi per quello che rivelano, è cioè la solita vecchia attitudine americana a tracimare dalla leadership alla supremazia: a cui i Presidenti migliori hanno saputo porre un consapevole argine, nello stesso interesse Usa, per rafforzarne il ruolo internazionale. E’ previsione fin troppo scontata che dalla Russia alla Cina, al mondo arabo (nei confronti dei cui leader il giudizio è durissimo), il contenuto di questi files (e non la sola diffusione) alimenterà nuovo antiamericanismo, rendendo sempre più evanescente il soft power americano. Nicolò Machiavelli rammentava che il potere del principe può derivare dall’amore o dal timore. Oggi Obama rischia di dover fronteggiare la peggiore combinazione per Washington: un’America che torna ad essere poco amata e che continua a essere poco temuta.

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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 28, 2010, 06:21:09 pm »

28/12/2010

I cristiani e il peccato colonialista

VITTORIO EMANUELE PARSI

Le stragi di cristiani avvenute in Nigeria tra Natale e Santo Stefano hanno motivazioni riconducibili anche a dinamiche locali, ma allo stesso tempo si inseriscono in quella lunga scia di violenze anticristiane accoratamente denunciate dal Papa. Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, appunto, sembra che la tolleranza verso quelle che pure sono talora corposissime minoranze di antico insediamento sia sempre meno praticata.

Sarebbe evidentemente sbagliato fare di ogni erba un fascio, eppure un elemento comune a queste esplosioni di selvaggia violenza, mi pare possa essere individuato: dovunque sono perseguitati, i cristiani vengono considerati cittadini di second’ordine, la cui piena e leale appartenenza alla comunità politica è continuamente messa in dubbio proprio a causa della loro adesione a una fede presentata come culturalmente aliena alla tradizione autenticamente «autoctona». E questo è vero anche laddove, come in Cina, la persecuzione non ha bisogno di ricorrere allo spargimento di sangue.

La religione cristiana viene cioè strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico, più o meno prolungato e lontano: presentata, per alcuni forse vissuta, come la religione dei conquistatori. Una tale identificazione assoluta tra il cristianesimo e l’Occidente, è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalisti e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato. Ed ecco allora che il cristianesimo, esattamente come l’islam, è ovviamente una religione universale, ma è stato culturalmente costruito da segni, categorie, concetti e parole occidentali (né più né meno di quanto l’islam sia stato edificato con «mattoni» culturali arabi).

L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni. Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo o l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione. Così, a mano a mano che ci si allontana da quell’Occidente dove la «particolarità geografica» dei segni culturali di cui la religione cristiana è intessuta non risalta (perché si «confonde» con altri costrutti culturali), la concreta valenza universale dei suoi contenuti specificamente religiosi si attenua, rendendo più facile la collocazione del cristianesimo all’interno di quella cultura occidentale rifiutata programmaticamente come ultimo prodotto della dominazione coloniale.

Non può sfuggire che, se la rivolta contro il retaggio coloniale occidentale che accomuna l’Asia all’Africa risale alla metà del secolo scorso, essa è rinfocolata e dirottata dall’uso politico della religione, che si traduce sempre e comunque nel piegare un messaggio universale al proprio contesto particolare. È ovvio che chi sceglie questa strada guarda per istinto e per calcolo politico alla dimensione culturale della religione altrui, per classificarla non solo come erronea ma come aliena alle tradizioni culturali autoctone. Se da un punto di vista occidentale può apparire un paradosso che società come le nostre, descritte o percepite come sempre più scristianizzate, si vedano ascrivere la religione cristiana come un proprio elusivo prodotto culturale, dal punto di vista di chi rivendica un’autocollocazione esterna ai valori occidentali, l’operazione ha un suo senso politico, oltre ad avere una utilità non trascurabile per le classi dirigenti di quei Paesi, o per alcune frazioni di esse. Queste ultime infatti, alimentando la contrapposizione al «cristianesimo occidentale», possono più facilmente screditare i valori del rispetto dei diritti umani, della democrazia e della libertà, che vengono artatamente presentati come subdoli strumenti del predominio occidentale e possono invocare in nome di valori proposti come «indigeni, autoctoni o locali» una pretesa maggiore sintonia con i popoli che governano o aspirano a governare.

E una simile tentazione si fa sempre più invitante via via che sembra palesarsi un declino della governance euro-americana sul sistema politico internazionale, che lascia intravedere la possibilità (incubo per alcuni, sogno per altri) di una sua progressiva de-occidentalizzazione.

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