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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61237 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:34:20 pm »

5/6/2009
 
L'ardita scommessa di Obama
 
 
 
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
L’America e l’Islam condividono alcuni valori fondamentali, dal rispetto per la dignità umana alla tolleranza; hanno interessi comuni, come quello alla pace e allo sviluppo nella sicurezza; hanno paure comuni, di fronte al fatto che modernità e globalizzazione possano minacciarne tradizioni e identità, svuotando le libertà di scelta in campo economico e politico; hanno persino nemici comuni, a partire dall’estremismo e dall’ignoranza. Quello che li divide sono valutazioni politiche su singole questioni specifiche, sia pur gravi come il conflitto israelo-palestinese. Attraverso un dibattito franco, ma rispettoso delle peculiari sensibilità e del peso della storia (il cui racconto, inevitabilmente, non è mai il medesimo per tutti), le divergenze di opinione e le differenti valutazioni possono però essere gradualmente ricomposte.

Lontano da Guantanamo e da Bin Laden
È un percorso lungo, dall’esito per nulla certo, che richiederà tempo. Ma è un percorso che deve essere intrapreso, perché è nell’interesse comune di tutti e perché è la cosa giusta da fare. È proprio dal riconoscimento di quanto ampio e profondo sia il terreno di condivisione che occorre muovere, per provocare un «nuovo inizio» nelle relazioni tra Stati Uniti e Islam. Ma perché ciò accada, è necessario che gli uni e gli altri si liberino dei rispettivi pregiudizi, che capiscano che la vera America non ha nulla a che vedere con Abu Ghraib e Guantanamo e il vero Islam non si esaurisce e non si riconosce in Bin Laden e nei talebani, e che entrambi smettano di indulgere in auto-rappresentazioni e in comodi stereotipi tanto confortanti quanto fallaci.
In una cultura come quella arabo-islamica, in cui le parole e i gesti simbolici contano parecchio, Barack Obama è andato al Cairo a parlare all’Università tradizionalmente più importante della regione, e a rammentare la sfida che essa seppe raccogliere nell’età aurea di quella civilizzazione, armonizzando progresso e tradizione. A quell’antica capacità Obama ha chiamato il mondo islamico, perché ritrovi in se stesso la volontà e la capacità di forgiare modernità e democrazia, progresso e diritti della donna, sviluppo economico e libertà religiosa.

Il diritto a uno Stato palestinese sovrano
Obama non ha concesso sconti sui fatti, 11 Settembre compreso; non ha criticato apertamente la politica del suo predecessore sulla guerra in Iraq, alla quale pure è stato da sempre contrario; ha stigmatizzato il negazionismo dell’Olocausto come «senza basi, frutto dell’ignoranza e dell’odio»; e ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che l’alleanza tra Israele e Stati Uniti è «infrangibile». Ha però ribadito che anche i palestinesi hanno diritto al proprio Stato sovrano e che il via libera israeliano agli insediamenti costituisce un ostacolo sulla via della pace.

Contro la tattica del fatto compiuto
Obama torna così alla tradizionale politica americana verso Israele: il sostegno risoluto e concreto al suo diritto alla sicurezza non significa che gli Stati Uniti accettano qualunque decisione israeliana né tanto meno che possono acconsentire alla tattica del fatto compiuto. Prende atto che il contesto in cui Israele si muove è cambiato: il «fronte del rifiuto» non esiste più, il mondo arabo non è monoliticamente ostile alla pace, e adegua la politica degli Stati uniti alla mutata realtà, provando a costruire anche una sponda araba - accanto, e non al posto di quella israeliana - grazie a cui rafforzare la posizione americana in Medio Oriente. È una scommessa alta e difficile, questa di Obama, in cui il Presidente rischia grosso. Ma solo uno sciocco potrebbe pensare di portare la pace in Medio Oriente senza assumersi rischi proporzionati all’impresa. E Barack Obama è tutto fuorché sciocco o pavido.
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:11:44 am »

9/6/2009
 
Effetto Obama sul Libano
 

 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Fortuna audax adiuvat! Non si è ancora spenta l’eco del coraggioso discorso pronunciato dal presidente americano al Cairo, che la sorte sembra venirgli in aiuto, con la storica vittoria della «Coalizione del 14 marzo», governativa e filo-occidentale, nelle elezioni parlamentari libanesi. Nel giro di poche settimane, anche grazie al sostegno ricevuto da parte di tanti cittadini fuoriusciti negli ultimi tre anni e tornati appositamente per votare, il cartello elettorale guidato dal figlio di Rafik Hariri (il premier il cui assassinio nel 2005 diede il via alla «primavera libanese») ha ribaltato i pronostici e sconfitto i rivali dell’«Alleanza dell’8 marzo», capeggiata da Hezbollah e sostenuta dal generale Michel Aoun, ultimo paladino della resistenza maronita antisiriana nel Libano della guerra civile. Proprio il patto sottoscritto da quest’ultimo con gli ex nemici aveva fatto ritenere che il movimento integralista sciita, vicino a Damasco e a Teheran, potesse giungere al potere grazie al voto popolare.

Di fronte a questa prospettiva, molti dei cristiano maroniti sostenitori di Aoun, i cui voti nella complicata contabilità elettorale libanese erano determinanti per assegnare la vittoria agli uni o agli altri, non se la sono sentita di seguire «il generale», e hanno fatto confluire i propri voti sulle altre formazioni cristiane (la Falange e le Forze Libanesi). Hezbollah subisce un duro colpo, dopo che appena un anno fa, mostrando i muscoli delle sue milizie e a seguito di un vero e proprio assedio al Parlamento durato molti mesi, era riuscita a imporre la propria inclusione nella compagine governativa e a ottenere una sorta di potere di veto su ogni decisione dell’esecutivo. Anche in quella occasione, la natura «anfibia» e ambigua del movimento guidato da Nasrallah era sembrata essere stata la chiave strategica del successo. Contemporaneamente movimento politico e milizia armata (meglio e più pesantemente dell’Esercito regolare), soggetto politico libanese e allo stesso tempo longa manus di Damasco e Teheran, Hezbollah era riuscita finora a districarsi con successo nella lunga stagione di instabilità seguita all’omicidio di Hariri. Proprio l’indignazione per quell’omicidio (di cui era sospettata Damasco) aveva costretto i siriani a ritirarsi, almeno formalmente, dal Paese dei Cedri. Quel ritiro aveva spinto Hezbollah a giocare con maggiore decisione il ruolo di partito nazionale, dando vita al «fronte dell’8 marzo». Nel 2006 la «guerra dei 33» giorni contro Israele aveva messo nuovamente in risalto (a fronte di gravi rischi e danni enormi) la dimensione militare del movimento.

Proprio attraverso quel conflitto, Hezbollah aveva rivendicato (non senza ambiguità e non in maniera incontestata) la necessità di mantenere la propria struttura militare come unico efficace baluardo a difesa dell’indipendenza libanese. Sembra che questa «natura irrisolta» abbia, questa volta, giocato contro Hezbollah, allontanando gli elettori maroniti dal partito di Aoun. Ora, come ha prontamente sottolineato il sempiterno leader druso Walid Jumblatt, è cruciale non isolare gli sconfitti, e cercare semmai di «mantenerli agganciati» al processo democratico. Sono parole decisamente in sintonia con quelle pronunciate al Cairo da Obama. Il nuovo Medio Oriente può nascere solo se tutte le forze in campo scelgono l’addio alle armi e la via politica come un’opzione non solo tattica. Hezbollah non era stata nominata nel discorso di Obama e il Libano vi era sostanzialmente assente. Eppure anche da Beirut potrebbe prendere avvio il «nuovo inizio» da lui evocato. Riuscirà Hzbollah a compiere un passo così importante? E, soprattutto: Teheran e Damasco, la cui posizione in Libano esce indebolita dall’esito del voto, glielo consentiranno?
 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Giugno 12, 2009, 06:49:32 pm »

12/6/2009
 
Afghanistan l'ambiguità è un rischio
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Sono sempre più frequenti e sanguinosi gli scontri in cui sono coinvolte le truppe italiane in Afghanistan. Quello di ieri è il settimo degli ultimi 40 giorni. Come lo stesso comunicato del Comando di Herat chiarisce, i tre parà sono rimasti feriti nel corso di un’operazione di rastrellamento di elementi ostili attuata in maniera congiunta con l’esercito afghano. Non è una novità. Da quasi un anno i nostri soldati stanno facendo ciò per cui sono addestrati: combattere.

Il fatto in sé non dovrebbe destare scalpore: se si inviano forze militari in zona di guerra a sostegno del legittimo governo è perché si intende contrastare l’azione degli insorti (questo è lo scopo dell’Isaf). Sulla rilevanza del fronte afghano per la sopravvivenza politica della Nato sono state spese molte parole. Ed è persino banale osservare che, se si ritiene che la campagna afghana non debba essere perduta - pena il dilagare dell’instabilità in tutta l’Asia sud-occidentale, in Medio Oriente e nel Mediterraneo - allora le truppe europee presenti nella regione devono fare la loro parte, cioè combattere. In questo senso, d’altra parte, vanno e non certo da oggi le pressioni degli Stati Uniti e degli altri alleati più coinvolti nelle operazioni «scova e distruggi», cioè i canadesi, gli inglesi e gli olandesi. Lo stesso Obama, osannato dalla folla praghese appena qualche settimana fa, aveva chiesto (apparentemente) senza successo ai partner europei della Nato più truppe combattenti e una minor varietà di «caveat» alle regole di ingaggio dei diversi contingenti nazionali. Oltre tutto, occorre sottolineare che proprio la pressione maggiore cui le forze alleate stanno sottoponendo i Talebani nell’Helmand ha finito col sospingerli verso le aree circostanti, tra cui proprio la provincia di Farah, affidata al comando italiano.

In parte per la consapevolezza della posta in gioco, in parte per le mutate circostanze di teatro, in parte per l’azione diplomatica esercitata dagli Usa, il nostro ruolo in Afghanistan sta assumendo una fisionomia diversa, più marcatamente aggressiva, probabilmente più efficace e sicuramente più rischiosa. Tutto ciò non solo è nella logica delle cose, ma è anche legittimo e necessario. La sensazione, però, è che l’opinione pubblica non ne sia stata chiaramente informata, com’è invece doveroso in democrazia. Il punto è che, se non si dicono le cose come stanno, sono le truppe sul campo a correre un pericolo più elevato. Innanzitutto perché potrebbero dover «combattere con un braccio legato dietro la schiena», se i caveat cui devono sottostare non vengono adeguati e se i mezzi di cui sono equipaggiati non sono appropriati al tipo di missione. In secondo luogo perché rischiano di trovarsi «politicamente scoperti», cioè impegnati in una missione oggettivamente diversa da quella per cui hanno ricevuto mandato.

I Talebani sanno bene che più perdite infliggono alle truppe Isaf più cresce la probabilità che le opinioni pubbliche occidentali chiedano il ritiro dei propri contingenti. A maggior ragione sanno che è più conveniente colpire i contingenti di quei Paesi dove sia palese l’ambiguità sull’impiego e sul ruolo dei soldati. Un’opinione pubblica non consapevole di essere in guerra è infatti molto meno disposta ad accettarne gli inevitabili costi umani. E un governo che non sia stato esplicito nel chiarire che una missione di peace enforcing implichi la necessità di combattere può apparire più facilmente condizionabile a suon di morti Per essere franchi fino alla brutalità: l’ambiguità e l’opacità della nostra presenza in Afghanistan fa dei nostri soldati dei bersagli il cui «valore politico», agli occhi dei nostri nemici, rischia di essere doppio o triplo rispetto a quello dei loro commilitoni olandesi, inglesi, canadesi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Giugno 17, 2009, 03:04:46 pm »

17/6/2009
 
Ayatollah referendum d'azzardo
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Quello che rischia di travolgere, piuttosto imprevedibilmente, il regime degli ayatollah è l’azzardo politico di Ahmadinejad, che ha trasformato le elezioni presidenziali da un referendum sul suo operato in un referendum sulla stessa Repubblica islamica. A mano a mano che la scadenza elettorale si avvicinava, cresceva il timore nel suo entourage.

Cresceva il timore che il sostegno al presidente non fosse tale da garantirgli una vittoria certa, neppure al ballottaggio. Ha così capito che, in un sistema come quello iraniano (una pseudodemocrazia nella quale l’unico spazio di espressione del dissenso è paradossalmente quello delle elezioni tra candidati selezionati con cura dal regime), se voleva vincere doveva cambiare l’interlocutore e «il quesito referendario». Non rivolgersi al popolo per guadagnarne il consenso, ma invece far capire alla «guida suprema» che in gioco non c’era solo la sorte politica del presidente, ma quella del sistema di cui Khamenei era il massimo esponente. Per riuscirci non ha esitato ad attaccare con durezza crescente il candidato Mousavi, quasi spintonandolo nel ruolo di leader non solo moderato, ma anche riformatore e persino liberale. Così facendo ne ha gonfiato il sostegno presso i giovani, le donne istruite, la borghesia e gli intellettuali: cioè tutti gli insofferenti del corrotto e dispotico regime che da trent’anni martirizza il civile popolo iraniano. L’appoggio a Mousavi cresceva così giorno per giorno, ma insieme con il consenso aumentava il grado di pericolosità della sua vittoria per il regime stesso. Probabilmente, proprio l’ultima grande manifestazione pre-elettorale, così affollata di giovani festosi e colmi di speranza, come non se ne vedevano dai tempi dell’elezione di Khatami, ha convinto il titubante Khamenei a rompere gli indugi e a sottoscrivere la nuova alleanza tra i conservatori, i cui interessi egli rappresenta, e i radicali (armati) di Ahmadinejad.

In quel momento, accettando di avallare brogli elettorali probabilmente giganteschi, Khamenei ha sancito la fine del regime inventato da Khomeini. L’esperimento della Repubblica islamica era stato sottoposto a tensioni istituzionali di senso opposto fin dal crepuscolo della vita di Khomeini. Due tentativi di riformarlo in senso più liberale sono falliti. Il primo, abortito ancora prima di iniziare, ad opera del delfino di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, imprigionato poco prima di succedere al suo mentore morente. Il secondo, più ambiguo, ad opera di Khatami, bloccato da Khamenei. Da quando è stato eletto presidente, Ahmadinejad non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per il ruolo dell’alto clero e della sua volontà di riportare il regime alla «purezza» della fase rivoluzionaria, da perseguire riducendo il ruolo del clero. Il paradosso è che l’operazione gli potrebbe riuscire, proprio grazie all’aiuto del supremo garante di quell’ordine che lui vuole radicalmente trasformare. Se Ahmadinejad prevarrà, se riuscirà a reprimere una rivolta che sembra sempre più una «quasi rivoluzione», il regime che sorgerà sarà cosa sostanzialmente diversa da quello fin qui conosciuto. Prestandosi platealmente a violare quelle regole (per quanto già non eque) per difendere le quali esiste il principio del «governo dei giureconsulti», Khamenei ha minato la base stessa della legittimità dal doppio registro (elettorale e «sapienziale»), uno a sostegno ma anche a moderatore dell’altro, sulla quale si basa la formula inventata da Khomeini.

È stata l’ultima volta che le parole, per quanto non amate, son potute uscire dalla sua bocca godendo ancora dell’aura incontestabile (se non incontestata) del sapere. Ma al suono di quel che esse sostenevano, l’autorità si è dissolta, mostrando il volto nudo del potere. Era dai tempi della rivoluzione che abbatté lo scià Reza Pahlevi, che a Teheran non si vedevano simili folle oceaniche, così determinate a sfidare i divieti delle autorità e le pallottole dei basiji. Il regime ha già chiarito che non esiterà a uccidere pur di sopravvivere. Farebbe però bene a ricordare che il culto del martirio fa parte della cultura sciita duodecimana. E che proprio nel 1979 ogni funerale si trasformò in una manifestazione ancora più rabbiosa e gigantesca. Quel che oggi manca ai rivoltosi/rivoluzionari è un leader, perché Mousavi non ha certo la tempra di un Khomeini: ma una leadership potrebbe emergere proprio dai moti di piazza. Senza dimenticare che il gruppo dirigente del regime inizia a manifestare crepe, e alcuni dei suoi esponenti più scaltri (Rafsanjani? Larijani?) potrebbero essere tentati da una soluzione alla «romena» (ricordate la fine di Ceausescu nel 1989?), pur di preservare le proprie rendite politiche ed economiche.
 
da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Giugno 21, 2009, 09:33:35 am »

21/6/2009
 
Ciechi come su lo scià
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Come nel 1978. Il regime si illude che usando la forza o, per meglio dire, la violenza che dà libero sfogo alla rabbia, riuscirà a prevalere e a sconfiggere il «suo» popolo. Chiunque abbia avuto l’occasione di assistere, 30 anni fa, alla cecità con cui lo scià commentava la rivoluzione non potrà non restare colpito dall’assonanza tra le parole dell’ultimo imperatore e quelle che la Guida Suprema Kahmenei ha pronunciato durante il sermone di venerdì scorso.

Può darsi che maggiore fortuna arrida al duo Khamenei/Ahmadinejad (dove il secondo appare il «puparo» del primo), ma di sicuro né l’uno né l’altro sembrano volersi arrendere all’evidenza che, dopo oltre 30 anni, ogni minima legittimità del regime è tramontata. Ahmadinejad e Khamenei sono riusciti, in meno di dieci giorni, ad affossare il regime, come nessuno dei suoi oppositori poteva anche solo lontanamente sperare di riuscire a fare.

Può darsi che, come accadde per l’Urss nella stagione delle lunga stagnazione brezneviana, che il regime si consumi con estrema lentezza. Ma, di sicuro, la credibilità residua di quel peculiare compromesso inventato da Khomeini tra legittimità popolare e legittimità sapienziale si è ormai esaurita. Come 30 anni fa, le milizie del regime sparano sulla folla. Come 30 anni fa i soldati si ribellano ai comandanti, e la confusione è il tratto più caratterizzante della situazione. Il regime non finirà in una notte, ma la sua fine è probabilmente irreversibile, in un crollo verticale della legittimazione che ricorda il grido del bimbo nella favola di Hans Christian Andersen: «Il re è nudo!».

E il re è davvero nudo, perché dopo il suo vile discorso del venerdì, Khamenei ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che, pur di mantenere il suo potere personale e pur di tutelare i corposi interessi politici ed economici che rappresenta, è disposto a tradire quella costituzione che ha giurato di difendere e stringere un patto scellerato con Ahmadinejad e il suo «partito dei reduci». Khamenei, in realtà, rischia di giocare con Ahmadinejad lo stesso ruolo di Hindenburg rispetto ad Hitler nel 1933. La crisi costituzionale in cui Khamenei ha precipitato l’Iran, è paragonabile a quella che si avrebbe in Inghilterra se la regina prendesse parte alla contesa politica per Downing Street, favorendo smaccatamente un candidato e danneggiandone un altro. Questo ha fatto Khamenei, e questo ha ribadito in occasione del sermone del venerdì, consapevole di provocare la folla e di legittimare l'inasprimento della repressione.

Di fronte a ciò che sta avvenendo in Iran, alla violenza omicida di un regime dalla legittimità evanescente, anche il presidente Obama, fin qui prudentissimo e per questo duramente criticato in patria, ha rotto gli indugi, ammonendo il governo iraniano sul fatto che nessuna censura potrà impedire al mondo di vedere che cosa sta avvenendo in Iran. A maggior ragione apparirebbe stonato, oggi più che mai, mentre i morti accertati si contano ormai a decine, insistere nel reiterare l’invito al ministro degli Esteri di Ahmadinejad di partecipare al vertice di Trieste. Le democrazie devono essere disponibili a trattare anche con i regimi non democratici: ma non a qualunque prezzo. Rinunciare a far crollare un regime ostile non implica l'accettazione a trasformarsi nel puntello di governi che non esitano a sparare sui propri cittadini.

Dal punto di vista della comunità internazionale, la domanda è una sola: quale scenario preferiamo tra la rivoluzione khomeinista del 1978 e la rivoluzione ungherese del 1956? Il punto non è se riusciremo a impedire che il regime massacri i suoi stessi cittadini, dopo averli derubati del diritto di voto. Il punto è se lasceremo intendere alla teocrazia iraniana che, qualunque cosa faccia, non pagherà nessuna conseguenza. Non dipende da noi il fatto che Khamenei abbia, consapevole o meno, venduto ad Ahmadinejad quei principi della Repubblica islamica che aveva giurato di difendere. Ma dipende da noi chiarire che ogni violenza compiuta contro il popolo iraniano comporterà un prezzo che il regime non potrà non pagare.

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 07, 2009, 11:13:52 pm »

7/7/2009
 
La bussola impazzita di Pechino
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Secondo le stesse fonti di polizia cinesi, sono 156 i morti sinora accertati dei violentissimi scontri scoppiati nello Xin Jiang, proprio mentre il presidente Hu Jintao arrivava in Italia alla testa di una nutrita delegazione di circa 300 imprenditori. E’ un colpo pesante sulla politica cinese di mostrarsi con il volto rassicurante del capitalismo che non vacilla di fronte alla grande crisi, e che forse, anzi, salverà l’economia mondiale dalle prospettive di tracollo, grazie ai propri tassi di crescita comunque siderali. Al di là dell’evidente dimensione tragica della notizia, delle vite spezzate, è evidente che quanto sta accadendo agli estremi confini occidentali della Cina danneggia tutti. Danneggia innanzitutto gli uiguri, che altrettanto testardamente ma meno irenicamente degli ex sudditi del Dalai Lama, non ci stanno a divenire minoranza in casa propria. Ancora in agosto, a pochi giorni delle Olimpiadi, mentre l’attenzione del mondo convergeva sulle strade di Lhasa, una serie di attentati aveva scosso lo Xin Jiang, dove da decenni continua la resistenza degli 8 milioni di uiguri (di etnia turca e religione musulmana) all’offensiva assimilazionista di Pechino. Pechino accusa gli uiguri ribelli di essere ispirati da Bin Laden e dai suoi sodali. Ci sarebbe da stupirsi se una qualche infiltrazione qaedista o islamista radicale non si fosse verificata nella regione negli ultimi dieci anni, a fronte della politica cinese orientata alla pura e semplice repressione. Anche la Cina ne esce parecchio male. Colpisce del gigante economico e politico cinese l’incapacità a ogni variazione rispetto al tema della repressione spietata quando si tratti di dover gestire il dissenso. Se quelli dello Xin Jiang ricordano i moti del Tibet dello sorso anno, in quanto a motivazioni etnico-identitarie, per numero di vittime sono i più gravi (almeno tra quelli di cui si è avuto notizia in Occidente) dalla strage di piazza Tien An Men nel 1989. La Cina è un Paese dallo straordinario passato e dalle grandi prospettive. Eppure sembra che la sua classe dirigente non si renda conto che per completare l’opera, per fare di quel futuro qualcosa di più di una promessa, occorra anche sottoporre il sistema politico a una trasformazione - altrettanto radicale, non brusca, ma rapida - di quella che ha fatto diventare l’economia cinese la quarta del pianeta. Si tratta della stessa classe dirigente che in così poco tempo (tre decenni) ha fatto così tanto per portare fuori l’«impero di mezzo» dalla condizione disastrosa in cui l’avevano cacciata gli appetiti delle potenze europee, l’invasione giapponese, la guerra civile e la criminale dittatura maoista.

Una classe dirigente che è riuscita nell’impresa, per nulla scontata, di gestire in maniera tutto sommata ordinata ben tre ricambi generazionali, dopo quello di Deng Xiao Ping. E che ora appare invece incapace di uno sforzo altrettanto lungimirante di quello del vecchio capo comunista. Ma quel che sta accadendo in Xin Jiang, frustra anche le speranze e i desideri occidentali di poter guardare alla Cina solo come a un grande partner economico e finanziario, e un promettente socio politico nella gestione di quel mondo «post-moderno» di cui, soprattutto in Europa, amiamo favoleggiare. Il governo cinese si muove con grande sagacia economica e con salda lungimiranza strategica, ma la sua bussola è ancora orientata a una politica il cui polo magnetico è costituito da un nazionalismo molto assertivo. Di questo occorre essere consapevoli, e proprio per questo, gli inviti ad allargare alla Cina il G8 (il vecchio club delle grandi economie democratiche alleate degli Stati Uniti più la Russia) appaiono oggi più che mai improvvidi. Il concetto cinese di «armonia» che tanto affascina molti osservatori occidentali assomiglia terribilmente a quello occidentale di «egemonia», un po’ più ipocrita, un po’ più violento.

Ai leader delle sette democrazie del G8, in questi giorni, toccherà un compito ingrato in più, di cui avrebbero fatto volentieri a meno: assumere una posizione che non umilii il governo ed il popolo cinesi ma che, allo stesso tempo, non svillaneggi neppure i principi da cui le democrazie liberali e i loro cittadini traggono la propria ispirazione. E, inutile negarlo, tutti gli occhi saranno puntati sul presidente Obama: perché è il leader democratico che ha ridato al mondo intero il gusto e la sfida della speranza, e perché è il presidente di un Paese il cui debito pubblico è in gran parte custodito nei forzieri della People’s Bank of China.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 13, 2009, 09:32:48 am »

13/7/2009
 
Ma l'America sa sempre correggersi
 
 
VITTORIO EMANUELE PERSI
 
Dopo Guantanamo e il Patriot Act (con le gravi limitazioni dei diritti civili che conteneva), siamo arrivati a una sorta di Special Branch della Cia, che di fatto rispondeva solo a Dick Cheney. Cheney, il vicepresidente di George W. Bush, da molti ritenuto il vero falco dell’amministrazione, l’uomo di più alto grado e di maggiore autonomia fra i tanti sensibili alle tesi neocon, il più risoluto all’indomani dell’11 settembre, secondo l’allora «zar» della sicurezza Dick Clarke, a indicare in Saddam Hussein il mandante degli attentati newyorchesi, avrebbe avuto a disposizione una Cia tutta sua. O quantomeno sarebbe stato l’unico destinatario di una serie di rapporti riservati, arrogandosi un potere di veto sulle informazioni disponibili per il Congresso che la Costituzione degli Stati Uniti non gli riservava in alcun modo.

A mettere insieme tutto questo, la prima riflessione che sovviene è semplice: ci è andata ancora bene. Ci è andata ancora bene che, a fronte di così tante e sistematiche violazioni dei principi e della prassi costituzionale degli Stati Uniti, il sistema nel suo complesso abbia retto. Abbia retto al punto da consentire l’elezione di un presidente ben diverso, come Barack Obama, il cui avvento alla Casa Bianca appare sempre più come provvidenziale. Più laicamente, si potrebbe osservare che i sistemi costituzionali ben congegnati, esattamente come le barche ben disegnate, riescono ad autocorreggere, perlomeno entro certi limiti, gli sbandamenti, gli scarrocci e lo scadere della rotta. Mai come in questi mesi è apparsa centrale la misura che vieta a un presidente di restare in carica per più di due mandati. Per tutte le volte che questa norma, introdotta dopo l’eterna presidenza di Franklin Delano Roosevelt, è stata maledetta in America e altrove, per lo spreco di talento che essa comporta (si pensi a Reagan o a Clinton), è proprio in momenti come questo che occorre renderle omaggio. Perché il fatto che il Commander in chief, dopo al massimo otto anni, torni a essere un Mr. Smith qualunque può darsi che non sia sufficiente a ricordare a ogni funzionario che la sua prima lealtà consista nel servire la legge. Ma di sicuro rende molto probabile che, allo scadere del periodo, le magagne saltino fuori.

Staremo a vedere, nelle prossime settimane, che cos’altro emergerà su questa brutta vicenda. E tutti speriamo che non finisca «buttata in politica», ma che invece venga fatta luce con fermezza e imparzialità. Al di là della constatazione che le cose potevano andare peggio di quanto si sia verificato, si rafforza il dubbio che le procedure per reagire a uno stato di gravissima emergenza come quello scaturito dall’11 settembre debbano essere riviste. Tornano a suonare profetiche le parole di Bruce Ackerman, professore di diritto e scienza politica a Yale, che in un gran bel lavoro di tre anni fa (Prima del prossimo attacco) proponeva il varo di una «Costituzione d’emergenza », che permettesse sì al governo federale di «intraprendere azioni eccezionali per contrastare il rischio di nuovi attacchi », ma allo stesso tempo «impedisse l’adozione di misure permanenti» a detrimento delle liberta civili. Ackerman sosteneva che l’adozione alla luce del sole di misure eccezionali, sottoposte a una serie di scrutini da parte del Congresso a tempi predeterminati e improrogabili, e con quorum di maggioranza sempre più elevati, fosse di gran lunga preferibile alla forzatura interpretativa delle norme esistenti da parte di Corti e apparati esecutivi o dell’introduzione a titolo definitivo di norme eccessivamente restrittive della libertà. Questa volta ci è andata bene, appunto. Mala prossima?

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 25, 2009, 11:12:14 am »

22/7/2009
 
Le ragazze di Teheran vinceranno
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Che cosa resta del futuro, quando ti hanno portato via le prospettive e persino le speranze? I sogni. Ecco quello che resta. E poco importa che i lugubri e tristi ayatollah, i mullah dallo sguardo traverso, accompagnati dai loro violenti sacrestani, dal «generone» del bazar e dagli sgherri della polizia religiosa non lo capiscano e chiamino quei sogni «illusioni».

Gli illusi sono loro, che non si rassegnano all’evidenza di come il loro tempo sia finito, forse non domani, forse non tra sei mesi: ma il regime non si salverà né attraverso la repressione sanguinaria ordinata da Ahmadinejad e Khamenei, né con i tardivi tentativi di Rafsanjani di ammansire la rabbia dei giovani e delle donne di Teheran.

Basta guardare i volti, le belle facce vive, forti, spesso gravi, tragiche nella consapevolezza del momento, ma mai teatralmente severe o studiatamente accigliate, che letteralmente animano le foto che arrivano dalla capitale iraniana, attraverso mille peripezie, per sentire come i sogni sono l’ultima cosa che puoi permetterti di perdere, una volta che ti hanno già portato via tutto il resto. «Non è un Paese di vecchi», per parafrasare il titolo di un famoso romanzo di Cormac McCarthy (da cui i fratelli Coen hanno tratto l’ennesimo film capolavoro).

Un Paese in cui il 66% della popolazione ha meno di 25 anni si confronta con una rivoluzione vecchia di 30, che ha fallito molte delle sue promesse, a partire da quella di dare a questo popolo giovane e insieme antico un futuro degno del suo grandioso passato. Con lo scorrere inesorabile del tempo, semmai, il regime rivoluzionario si è sempre più rinserrato in se stesso, svelando il carattere crescentemente farsesco dell’ossimoro «democrazia islamica», l’impossibilità di tenere insieme il potere del clero e la sovranità della Nazione, dimostrando per l’ennesima volta che la democrazia può essere «temperata» solo dalla libertà, e non certo da fonti d’autorità che si reputino superiori per un’asserita infallibile sapienza teologica. Bisogna afferrare questo, immaginare quanto debba essere frustrante vivere sotto un regime che ti fa sprofondare nel passato, mentre tu aneli al futuro, quanto possa essere stridente il contrasto tra la delirante agorafobia di un potere ossessionato dal terrore del contagio straniero, del complotto internazionale, della corruzione morale occidentale e la soffocante claustrofobia che sperimentano ogni giorno i giovani e le donne di Teheran, con la loro estroversione, la loro curiosità e apertura verso l’Occidente e persino l’attrazione verso il «grande Satana» americano.

Se ai giovani il regime sta rubando il futuro, alle donne, da 30 anni, ha sottratto persino il presente. Così le giovani donne sono state derubate due volte, e sfidano le squadracce dei basiji ben sapendo che se Ahmadinejad e Khamenei dovessero alla fine prevalere, la condizione femminile nel Paese potrebbe persino peggiorare. È vero: in gran parte delle società musulmane le donne hanno ancora minori opportunità che nella Repubblica islamica dell’Iran. E con ciò? Una situazione di palese e ingiustificabile disparità non diventa «equa» solo perché in qualche altra parte del mondo la giustizia è calpestata in misura ancora maggiore. Le sorridenti ragazze di Teheran, con i loro veli colorati dai quali sfuggono innumerevoli ciocche di capelli corvini, ogni giorno irridono le cupe e tetragone autorità religiose. Sono anche iconicamente agli antipodi dell’espressione arcigna del fondatore della teocrazia iraniana, o di quella rabbiosa dei guardiani esaltati e prezzolati della «moralità» di regime.

Oggi il sorriso di quelle ragazze è velato di tristezza per tutte e tutti coloro che in queste settimane hanno pagato con la vita un pesantissimo tributo a un comune sogno di libertà. Questo è il solo velo che, fieramente, vogliono portare, fino a quando ogni altro velo sarà caduto, e loro, come tutti gli iraniani, saranno libere: non solo di sognare, ma di vivere come meglio credono e di credere solo in ciò che vogliono.
 
da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 27, 2009, 05:03:13 pm »

27/7/2009
 
Il dovere dell'Italia a Kabul
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Hanno ormai cadenza quasi quotidiana le notizie di attentati, attacchi e operazioni militari di più vasta portata in cui sono coinvolte le truppe italiane in Afghanistan, che di per sé attestano quantomeno un inasprimento della situazione tattica e di teatro.

A fronte di quanto sta già accadendo, e del prevedibile innalzamento della conflittualità che non si esaurirà con le elezioni di metà di agosto, il quesito che innanzitutto il governo e la sua maggioranza devono porsi è uno solo: l’Italia e le sue Forze Armate sono nelle condizioni di poter sostenere una campagna dalla durata ancora indefinita, nella quale i nostri soldati saranno chiamati sempre più a svolgere con crescente continuità un ruolo più aggressivo nei confronti degli insorti (come peraltro stanno già, egregiamente, facendo)?

Evidentemente, la risposta implica due dimensioni. La prima riguarda la dinamica politica interna. L’uscita solo apparentemente estemporanea di Umberto Bossi («torniamocene a casa») esprime il crescere delle perplessità sul senso della missione all’interno delle file della maggioranza.

Per motivi di bilancio, oltretutto, il governo sta operando per la riduzione degli organici della difesa, dove l'Esercito è in grado di schierare non più di 7 brigate operative per un totale di circa 20-25.000 uomini. Un numero così esiguo da rendere impossibile adempiere per tempi prolungati a più missioni internazionali di un certo respiro.

D’altronde l’idea che, per conservare un certo rango nella politica internazionale, l’Italia debba dimostrare concretamente la capacità di assumersi maggiori oneri per il mantenimento dell’ordine internazionale sembra ormai un’acquisizione bipartisan.

Dall’Iraq all’Afghanistan al Libano, questa consapevolezza ha guidato le decisioni di governi di opposto orientamento politico nelle scelte di prendere parte a operazioni militari internazionali. E, qualora ce lo fossimo già dimenticati, questa «nuova» attitudine italiana è stata vigorosamente apprezzata dal presidente Obama in occasione sia della visita a Washington del nostro presidente del Consiglio, sia dell’ultimo G8 aquilano.

Ma se le forze a disposizione sono estremamente limitate, occorre selezionare gli impegni con estremo rigore, alla luce del nostro interesse nazionale. La missione Isaf rientra tra questi? La risposta affermativa riposa sulla convinzione che una ritirata dall’Afghanistan si presenterebbe come una sconfitta militare dell’Occidente e della Nato (la cui credibilità politica e militare verrebbe seriamente scossa); galvanizzerebbe e rinvigorirebbe le formazioni jihadiste ovunque nel mondo, privando ulteriormente della volontà di resistere e della speranza di prevalere tutti quelli che, nella vasta e variegata umma dei fedeli di Allah, lottano affinché islam e democrazia possano trovare una sintesi felice e originale: cioè renderebbe ancora più instabile e ostile il nostro «estero vicino».

In termini globali, poi, paleserebbe la perdurante irrilevanza dell’Europa come fornitore di sicurezza e la sua marginalità politica, così avvicinando la prospettiva di un G2 sinoamericano. Affinché a ogni nuovo futuro scontro che dovesse coinvolgere le nostre truppe, con il presumibile, doloroso e quasi inevitabile bilancio di vittime, non si ricominci a parlar di caveat e «Tornado», ovvero a invocare precipitosi ritiri, la consapevolezza delle ragioni strategiche della nostra presenza in Afghanistan è il solo rimedio possibile. E sarebbe opportuno che il governo lo chiarisse all’opinione pubblica con la giusta fermezza, cosa che solo in parte è avvenuta in questi mesi.

Esiste una sola possibilità alternativa. È quella che suggestivamente ricorda che fu proprio Osama Bin Laden il primo a perseguire quella politica di internazionalizzazione della crisi afghana, che culminò con gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’invasione alleata. Da quando abbiamo seguito Bin Laden sulla politica da lui imposta, non solo non abbiamo fatto grandi passi avanti in Afghanistan, ma siamo riusciti addirittura a mettere a repentaglio il Pakistan.

Se invece il diretto coinvolgimento occidentale cessasse, e il conflitto si «afghanizzasse», probabilmente il Pakistan continuerebbe a tessere le sue trame nel Paese vicino come ha sempre fatto (almeno dagli Anni Settanta), nelle vesti di burattinaio, piuttosto che in quelle di potenziale prossima vittima del contagio talebano. Sarebbe evidentemente un cambio di strategia drastico, dagli esiti incerti e neppure molto onorevole.

La cui decisione, comunque, dovrebbe esser assunta dalla coalizione nel suo complesso. Ma le mezze misure, tantopiù in guerra, portano solo a sconfitte complete.

 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 21, 2009, 11:20:15 am »

21/8/2009
 
Sfida aperta ai signori della guerra
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Non sappiamo ancora quale candidato alla presidenza afghana possa cantar vittoria, ma siamo già in grado di stilare una prima lista di vincitori e sconfitti dopo un election day come quello di ieri, tanto atteso quanto temuto: i talebani e i signori della guerra hanno perso. Il popolo afgano e la coalizione internazionale ha vinto. Nonostante le truculente dichiarazioni dei giorni scorsi («taglieremo le dita a chi va a votare»), l’ondata di attentati sanguinari e vigliacchi dell’ultimo mese e l’insofferenza dei pashtun (l’etnia di maggioranza relativa) per il ruolo crescente nel governo del Paese di tagiki, uzbeki e «persino» azeri, l’affluenza è stata superiore alle più rosee aspettative.

Come già era avvenuto in Iraq, quando le prime elezioni vennero tenute sotto la minaccia dei qaedisti e degli insorgenti, il popolo ha deciso di andare a votare, e milioni di afghani (e soprattutto di afghane) hanno lanciato il loro personale, pacifico jihad in faccia ai tagliagole che sognano un Afghanistan da incubo, dove alle bambine sia persino preclusa l’istruzione elementare. Ma è andata persino meglio che in Iraq, perché ieri nessuna etnia e nessun gruppo religioso ha deciso di disertare le urne o è caduto nella trappola dalla propaganda violenta e spaventosa dei ribelli, come invece era accaduto per i sunniti iracheni.

Gli afghani e le afghane hanno messo le loro vite nella mani dei soldati della coalizione, che ha scelto di correre il rischio politico di tenere elezioni in queste condizioni, scommettendo che le proprie truppe sarebbero riuscite a consentirne lo svolgimento. Uno sforzo imponente, a cui anche le forze armate italiane hanno dato il loro determinante contributo, a testimonianza di un’eccellenza e di una professionalità diffuse che hanno pochi eguali tra le altre istituzioni della Repubblica. Ma anche l’ennesima riprova che una presenza militare più attiva, più numerosa e più aggressiva resta la condizione indispensabile per consentire all’Afghanistan di intraprendere la difficile via della ricostruzione. Dopo questa dimostrazione di forza tranquilla, di coraggio diffuso, fornita dal popolo afgano, i talebani escono politicamente assai ridimensionati, e con loro tutti i cocciuti sostenitori della «necessità di coinvolgere i talebani nel futuro del Paese». Farlo ora, dopo la prova di coraggio superata ieri dal popolo afghano, sarebbe mancare di rispetto a un’intera nazione. Replicherebbe un errore analogo e speculare a quello compiuto dall’amministrazione Bush nel 2002, quando decise di appoggiare i signori della guerra, pur di non «impegnarsi» nella ricostruzione economica e istituzionale del Paese, e così tradì le aspettative di milioni di afghani che contavano sull’America per realizzare un nuovo Afghanistan. I risultati li vediamo ora, mentre si fa strada la consapevolezza che dovremo impegnare almeno altri 50.000 uomini per riportare la sicurezza a Kabul e in tutto l’Afghanistan. Occorreranno soldati e tempo. Ma occorrerà anche denaro, molto più di quello fin qui davvero erogato. Basti pensare che nei primi due anni successivi alla caduta del regime talebano, all’Afghanistan sono andati aiuti per soli 57 dollari pro capite: poco più della metà dei 100 dollari che si stimano essere l’investimento minimo per ricostruire uno Stato fallito (secondo la Rand), infinitamente meno dei 233 andati a Timor Est, dei 529 del Kosovo o dei 679 della Bosnia.

Senza soldati, soldi e disponibilità a un impegno prolungato, il successo della giornata di ieri rischia di essere presto sciupato. Vedremo come andrà a finire: se sarà necessario un ballottaggio e se il prossimo presidente sarà ancora Karzai o invece Abdullah o, a sorpresa, Ghani. Soprattutto vedremo quanto si stimerà che abbiano pesato i brogli già denunciati. D’altronde, immaginare elezioni di tipo «danese» in un Paese in cui la corruzione è dilagante e dove la produzione di oppio conosce nuovi impressionanti record, sarebbe stato folle. Ma è inutile nascondersi che il nemico da battere ieri erano i talebani e il loro messaggio di morte e non la corruzione e il narcotraffico. E questo nemico, almeno ieri, è stato battuto. La paura era che le elezioni non si potessero neppure tenere o che l’affluenza fosse irrisoria, non che fossero perfettamente corrette. Non fermiamoci qui e non accontentiamoci. Ma non sottovalutiamo e non sprechiamo lo straordinario successo di ieri.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:22:57 pm »

5/9/2009

Rischia l'Europa più che l'America
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Non si ferma un attimo l’ottovolante afghano. Avevamo appena constatato il buon successo politico delle elezioni presidenziali, ed è iniziata la ridda di accuse di brogli, da parte dello sfidante Abdullah, e di «settarismo anti-pashtun» da parte del presidente in carica Karzai.

Avevamo tirato un sospiro di sollievo per il fatto che le minacce talebane di tagliare le dita ai votanti erano apparse quasi una «bufala», e su tutti i giornali del mondo compariva la foto di uno sfortunato elettore afghano al quale i talebani avevano mozzato naso e orecchie. Neppure il tempo di prendere atto di come l’impegno delle truppe della coalizione avesse consentito di mettere gli insorgenti sulla difensiva, e un kamikaze faceva saltare per aria il vicecapo dei servizi segreti di Kabul. Ieri, infine, una probabile strage (anche) di civili, questa volta firmata dall’Isaf: è la testimonianza che la quantità dei «danni collaterali» è inversamente proporzionale al numero delle truppe sul terreno, ma fornirà inevitabilmente elementi a chi chiede di «riportare a casa i ragazzi».

Nel frattempo, con estenuante lentezza, lo scrutinio delle schede procede (siamo ormai oltre il 60%), e il vantaggio di Karzai si consolida, sfiorando ormai quel 50% + 1 dei voti validi espressi che renderebbe superfluo il ballottaggio. Questo era lo scenario di gran lunga preferito da tutti gli analisti appena pochi mesi orsono, perché avrebbe evitato la costosa (e rischiosa) organizzazione di un’altra giornata elettorale. Siccome non è dalle vittorie, ma dalle sconfitte che (talvolta) si impara, non è per nulla senza fondamento il timore che i talebani potrebbero organizzarsi meglio per il secondo turno e colpire molto più duramente di quanto accaduto nel precedente election day. D’altra parte, con tutte le circostanziate accuse di brogli che circolano, solo un secondo turno elettorale potrebbe fornire effettiva legittimità a una probabile nuova elezione di Karzai.

La situazione è talmente complicata che, paradossalmente, non siamo nemmeno in grado di decidere che cosa augurarci che succeda, quale sia lo scenario migliore, o il meno peggiore, per voltare definitivamente la pagina delle elezioni. Di sicuro appare irrealistica la prospettiva di riportare a casa in tempi brevi i rinforzi che anche il governo italiano ha inviato per garantire lo svolgimento delle elezioni. Questa volta, a ribadire che semmai in Afghanistan servono più soldati per più tempo, oltre a un impegno politico ed economico più consistente, costante ed effettivo, non è stato soltanto il solito generale americano, ma il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, alla conferenza di Parigi di qualche giorno fa. Kouchner, che non è uno sprovveduto, sa bene che un fallimento in Afghanistan potrebbe segnare la fine politica dell’Alleanza Atlantica. Cosa che Parigi non desidera affatto, dopo che è appena solennemente rientrata nella struttura militare integrata. D’altronde, il venir meno di un legame fortemente istituzionalizzato tra Usa ed Europa danneggerebbe molto più questa che quelli. La «de-occidentalizzazione del mondo» in rapida accelerazione con la fine della Guerra Fredda, la perdita relativa di influenza dell’Occidente nella comunità internazionale, è frutto in gran parte dell’arretramento del peso europeo, mentre gli Usa potrebbero ricoprire un ruolo di potenza globale, seppur ferita, anche se la partita afghana dovesse andar male. Il problema per gli europei, come sempre, è riuscire a adottare politiche conseguenti alle analisi, cosa tutta da vedere, ovviamente.

Ma anche per l’America di Obama suona qualche campanello d’allarme. In particolare, desta preoccupazione il fatto che negli Usa stia crescendo il numero di quanti vorrebbero il ritiro delle truppe. Come si ricorderà, la differenza tra la guerra in Afghanistan e quella in Iraq è stato uno dei punti fermi (e vincenti) di Obama durante la campagna elettorale. Se la leadership fatigue degli americani dovesse crescere, le pressioni sul presidente per un disimpegno potrebbero però diventare irresistibili e spingerlo a riconsiderare l’intera sua strategia per «Af-Pak», con un danno evidente per la sua autorevolezza. È un’eventualità, per ora, remota. Ma segnala intanto che lo stesso Obama, la cui popolarità negli Usa sta subendo un calo repentino e dalle dimensioni inattese, potrebbe iniziare ad accusare una sua personale leadership fatigue.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 18, 2009, 11:53:34 am »

18/9/2009

Il nostro impegno va rispettato
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Il singolo evento che ha causato il maggior numero di vittime tra i nostri soldati in Afghanistan non è avvenuto durante una delle tante operazioni «scova e distruggi» in cui da tempo sono validamente impegnati, ma a Kabul durante un servizio di scorta. Che cosa impariamo? Che in una guerra asimmetrica le missioni a minor contenuto di «aggressività», condotte in zone operative più «tranquille», possono comportare rischi maggiori di quelle di combattimento.

Per cui bisogna smettere di immaginare che un impiego più «discreto» dei nostri militari possa esporli a minori perdite. Non c’è dubbio che il rafforzamento e il migliore impiego del contingente militare è solo uno dei vettori di qualunque tentativo di stabilizzazione dell’Afghanistan. Il secondo è la ricostruzione del tessuto politico e istituzionale del Paese, e il terzo è la trasformazione dell’impatto della regione circostante sull’Afghanistan da negativo in positivo: a partire dal Pakistan, che - da retroterra e santuario dei Taleban - deve diventare la seconda ganascia di una tenaglia volta a stritolarli.

È evidente che proprio sul secondo vettore la situazione sia tutt’altro che incoraggiante. Le elezioni presidenziali rischiano di diventare un boomerang fatale, non solo provocando l’ulteriore disaffezione degli afghani verso il regime, ma soprattutto offrendo ai Taleban un’insperata occasione supplementare per far fallire quel test elettorale che avevano cercato di sabotare in tutti i modi. Solo sul fronte regionale iniziamo a intravedere qualche timido segnale di miglioramento e i Taleban sembrano incontrare finalmente qualche problema in Pakistan. Ma occorre ribadire che una presenza militare internazionale incisiva e determinata rimane la condizione necessaria perché la cosiddetta soluzione politica, che tutti invocano e nessuno riesce a trovare, non finisca con il diventare la pietra filosofale del conflitto afghano.

Mandare più truppe sta riuscendo difficile persino agli Usa di Obama, improbabile che l’Italia possa farlo. Possiamo però auspicare che il governo mantenga l’impegno di non ritirare i soldati. Il quadro politico lascia sperare che la gravità del momento prevalga sullo spirito di fazione. È significativo che i meno allineati rispetto a questa posizione siano la Lega e l’Italia dei Valori. In particolare il partito di Di Pietro, libero da vincoli di governo, appare solo intento a fare bottino nelle prossime Regionali tra quella parte dell’elettorato meno sensibile e più diffidente rispetto alle missioni militari, traendo il massimo profitto dell’assenza di concorrenza (vista la scomparsa dal Parlamento della sinistra radicale). Entrambi i partiti sono però accomunati dall’inclinazione a ricondurre la dimensione internazionale sempre e comunque alla più miope logica domestica: si tratti di fare inserzioni a pagamento contro il governo sull’Herald Tribune (l’Idv) o di cavalcare il timore per l’immigrazione clandestina (la Lega).

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:28:54 am »

14/10/2009

Non è stato il gesto di un pazzo
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Può darsi che Mohamed Game sia uno scapestrato senza legami organici con l’internazionale jihadista. Ma intanto due suoi complici sono stati arrestati.

In casa sua sono stati trovati 40 chili di materiale idoneo a ricavare esplosivo. Non solo. Quello che sembrava essere un piccolo ordigno, si è rivelato essere una bomba grande dieci volte tanto. Game - come altri inquisiti, arrestati e incarcerati prima di lui - frequentava il centro islamico di viale Jenner, finito nel mirino degli inquirenti fin da quando delle investigazioni sul terrorismo islamista (prima dell’11 settembre) si occupava in maniera quasi solitaria un magistrato proveniente dall’antimafia siciliana, Stefano D’Ambruoso.

In questi ultimi anni tante cose sono cambiate a Milano e in Italia, anche nella direzione di una ricerca di maggior dialogo tra le comunità di migranti di fede islamica e gli apparati di sicurezza. Ancora pochi giorni orsono, un importante imam della capitale ricordava come la collaborazione tra le comunità dei credenti e le autorità repubblicane, sulla falsariga di quanto da tempo avviene in Francia e sulla scorta di quanto il ministro Maroni ha sostenuto più volte, fosse determinante innanzitutto per difendere i nostri concittadini di fede islamica e i tanti stranieri musulmani dall’azione culturalmente violenta di improvvisati e improbabili cantori di una presunta «purezza» originaria della fede, dalla loro arrogante fitna contro tutti coloro che essi ritengono «apostati».

Tra queste voci, informate e accorate, quella del centro culturale islamico di viale Jenner a Milano è sempre stata la più flebile e ambigua, continuamente attenta a elevare capziosi distinguo, quasi che avesse più a cuore la tutela degli elementi meno integrati nel tessuto sociale cittadino piuttosto che la sorte di migliaia e migliaia di fedeli di Allah, che ogni giorno offrono il loro sincero contributo alla convivenza, svellendo quei muri di diffidenza reciproca che non saranno certo abbattuti da quel provincialissimo snobismo culturale e civile da cui è afflitto il nostro Paese, che con stanco autocompiacimento si manifesta nei talk show televisivi e nella retorica del politicamente corretto. La strada l’ha indicata con chiarezza il presidente Fini: tempi rapidi e certi per l’acquisizione della cittadinanza che accompagnino tempi rapidi e certi per l’applicazione rigorosa delle leggi della Repubblica.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 20, 2009, 10:07:38 am »

20/10/2009

Iran, la strana coincidenza
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Più che la chiamata di correo nei confronti di Gran Bretagna e Usa per gli attentati nel Beluchistan, ciò che preoccupa è un’accusa.

Preoccupa maggiormente l’accusa rivolta ai Servizi di Intelligence pachistani (Isi) di essere i veri e propri mandanti della strage, corredata dalla minaccia iraniana di «condurre operazioni ovunque si dimostrassero necessarie», compreso il «territorio pachistano». La preoccupazione risiede nel fatto che, al di là della capacità iraniana di provarle, le accuse non risultano totalmente inverosimili. Non può sfuggire come tra i «complici» indicati da Teheran non compaia Israele (che il regime definisce “amabilmente" il Piccolo Satana, per distinguerlo dal Grande Satana americano), quasi ad attestare lo sforzo da parte iraniana di avvalorare la verosimiglianza delle insinuazioni sollevate nei confronti di Islamabad.

Che il potentissimo Isi, da anni, stia conducendo una propria politica estera, al di fuori del controllo delle stesse autorità pachistane, è d’altronde ben più di un sospetto. Le stesse critiche condizioni in cui versa il Waziristan, dove solo dopo essere stato apertamente sfidato e umiliato dai talebani locali, l’esercito sembra aver deciso di provare (almeno in apparenza) a chiudere la partita, attesta di una connivenza tra intelligence pachistana e forze estremiste in cui non si riesce nemmeno più a capire «chi è il pupo e chi è il puparo». Per i vertici dell’Isi, che hanno foraggiato prima i talebani e poi il loro regime anche in chiave anti-iraniana, qualunque coinvolgimento dell’Iran in un’intesa sulla sicurezza regionale che avesse il nulla osta americano significherebbe la vanificazione di decenni di sforzi. La strategia perseguita e attuata dall’Isi si era fin qui tradotta in un gioco estremamente rischioso: da un lato partecipare, svogliatamente, alla lotta contro i talebani in Afghanistan; dall’altro mantenere i contatti con la galassia che si riconosce nel Mullah Omar, per lasciar intendere di essere gli unici a poter intraprendere i passi esplorativi preliminari necessari per la cosiddetta «soluzione politica» del puzzle afgano. Ora, il rischio di un ballottaggio e quello della ricerca di una possibile soluzione della questione nucleare iraniana, che preveda un accordo complessivo sulla sicurezza regionale con l’Iran in veste di comprimario, sembrano sommarsi e mandare a monte l’intero disegno. Come che sia, quella tra il probabile annuncio del ballottaggio afgano e l’attentato nel Beluchistan iraniano sembra essere qualcosa di più di una straordinaria coincidenza temporale. Il fatto è che, come molti altri, i servizi pachistani sembrano non credere che la comunità internazionale voglia e possa davvero bloccare la corsa nucleare di Teheran, per cui sabotare qualunque ipotesi di riavvicinamento tra Usa e Iran resta la sola ipotesi realisticamente, e pericolosamente, percorribile.

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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 26, 2009, 11:03:36 am »

26/10/2009

I pericoli del fronte dimenticato
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Il mostruoso duplice attentato che ieri a Baghdad ha causato oltre 130 morti e 500 feriti può essere interpretato attraverso due chiavi di lettura complementari.

Un’interpretazione è più concentrata sulle dinamiche interne irachene, l’altra più attenta al dato regionale. Dal punto di vista interno, occorre sottolineare che a Baghdad la sicurezza è così peggiorata da arrivare vicino all’ordinaria contabilità del terrore precedente il «surge» del generale Petraeus. La tensione tra sciiti e sunniti è ormai oltre il livello di guardia, con sparizioni, omicidi e «piccoli attentati» pressoché quotidiani. Il governo di Al Maliki resta in una condizione di debolezza estrema e la prossimità della scadenza elettorale spinge tutti i suoi oppositori a impiegare qualunque mezzo per fare sì che l’appuntamento per le elezioni parlamentari (il 16 gennaio) coincida con il licenziamento di Al Maliki.

Significativamente l’attentato di ieri ha preceduto di poche ore un importante incontro tra i diversi leader iracheni, che avrebbe dovuto arrivare a un accordo in extremis sulla riforma elettorale, scongiurando così il pericolo di un rinvio delle elezioni. La cronica litigiosità dei protagonisti del circuito politico ufficiale del Paese offre infatti enorme spazio di manovra sia agli irriducibili saddamisti sia, soprattutto, alle cellule di Al Qaeda, che si sono andate riorganizzando in seguito alla sostanziale diminuzione della pressione militare americana in Iraq, che non è stata compensata da un miglioramento delle capacità di intelligence e difensive del nuovo Stato iracheno. A quasi sette anni dall'invasione che portò al crollo del regime di Saddam Hussein, nonostante lo sforzo militare profuso e a prescindere dalle somme promesse e (talvolta) elargite per rimettere in piedi le istituzioni irachene, la situazione resta ampiamente insoddisfacente.

Se allarghiamo lo sguardo all'intera regione mediorientale, poi, è impossibile non constatare come nessuna delle crisi che si sono aperte o aggravate in conseguenza dell’11 settembre 2001 è stata avviata a soluzione. La strage di ieri ha costretto tutti a tornare a interrogarsi sul futuro dell’Iraq; ma le notizie che quotidianamente giungono dall’Afghanistan non sono certo più incoraggianti, con la prospettiva di un ballottaggio presidenziale che paralizzerà ulteriormente il già diviso esecutivo afghano, a meno che un’improbabile governo di unità nazionale non riesca a scongiurarlo.

Anche a causa del protrarsi del conflitto afghano, la situazione pachistana rimane senza grandi prospettive positive di evoluzione e non pare neppure che la trattativa sul nucleare iraniano registri significativi progressi. In sostanza, mentre i nuovi fronti di tensione si moltiplicano, non si riesce a chiuderne nessuno di quelli aperti da più tempo. La crisi politico-istituzionale in Libano continua a peggiorare pericolosamente, e persino le modalità con cui si cerca di tamponarla (si pensi al relativo disallineamento del maronita Michel Aoun rispetto agli alleati sciiti di Hezbollah) potrebbe finire col surriscaldare il clima politico. A Gaza, infine, non sembra proprio che la presa di Hamas sulla stremata popolazione palestinese (ma chi ne parla più?) si stia allentando.

Il paradosso è che gli Stati Uniti non sono mai stati così pesantemente e direttamente presenti in Medio Oriente come negli ultimi nove anni, eppure non sono mai apparsi così lontani dall'assicurare una stabilità soddisfacente all’intera area. Era assai maggiore la capacità americana di condizionare l’ordine mediorientale quando questa era esercitata off shore - politicamente e militarmente, attraverso gli inviati speciali e le portaerei stazionate nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano - di quanto non sia oggi, che si può avvalere di divisioni corazzate e proconsoli. Se l’intervento politico-militare diretto non ha portato i frutti che gli Usa speravano, è però evidente che tornare semplicemente alla situazione precedente, ritirandosi dall’intero scacchiere, è di fatto impossibile. Allo stesso tempo l’America non può permettersi (e neppure l’Europa, per la verità) di abbandonare l’Afghanistan al suo destino, di lasciare che l’Iran raggiunga lo status di grande potenza regionale «in cambio di niente», o che l’Iraq precipiti in una situazione tipo Libano 1980. L'equazione «ritiro dall’Iraq e maggior coinvolgimento in Afghanistan», così elegantemente sostenuta da Barack Obama durante la campagna elettorale, efficace anche per la sua semplicità, potrebbe risultare semplicistica, così da costringere le teste d’uovo dell'amministrazione democratica a concepire una nuova vision americana per il Medio Oriente: diversa e, auspicabilmente, più efficace di quella partorita dai neocons di George W. Bush, ma non per questo meno articolata e meno ambiziosa.

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