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Autore Discussione: Paolo Leon. Evitare il Fallimento  (Letto 3488 volte)
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« inserito:: Settembre 22, 2008, 06:49:57 pm »

Evitare il Fallimento

Paolo Leon


Forse si riapre la possibilità di salvare l’Alitalia - anche se nessuno ha chiarito perché dovesse essere salvata contemporaneamente anche AirOne, che è sempre stata un oggetto accuratamente nascosto, e che ha certamente complicato le scelte Cai e complicherà quelle di eventuali nuovi partner. La chiamata di Fantozzi ad altri interessati servirà anche a togliere di mezzo il dubbio che ha attraversato le menti di tutti gli osservatori (e che, incautamente, Sacconi ha fatto suo) e cioè che Cai non abbia voluto continuare la trattativa con i piloti, perché la crisi finanziaria mondiale aveva tagliato i finanziamenti sui quali contava la cordata.

Se non è così, CAI deve ripresentarsi, pena una perdita di credibilità nel mondo finanziario e in quello imprenditoriale - se non aveva a disposizione freschi capitali di rischio, ma doveva contare su prestiti ed obbligazioni, l’offerta non era solida, perché avrebbe caricato Alitalia di nuovi debiti (nessuno può dimenticare la privatizzazione di Telecom). Le difficoltà del mondo finanziario sono ancora presenti, nonostante le misure del governo Bush, e continua l’incertezza sulle cause della crisi. In queste condizioni, è possibile che la chiamata di Fantozzi, certamente tardiva, non abbia successo e non perché il patrimonio Alitalia non sia attraente, dopo che si è ripulita la società dai suoi debiti, ma perché è difficile trovare, ora, nuovi capitali disponibili ad impegnarsi nel lungo periodo.

Ci sono anche altre difficoltà. Ad esempio, è dubbio che l’Unione Europea accetti la norma che sospende l’intervento dell’Autorità Antitrust italiana e, come minimo, interverrà l’Antitrust europeo: non è pensabile che uno Stato offra ad un privato la garanzia di non concorrenza. In questo caso, sono possibili sanzioni e l’obbligo di aprire il mercato italiano alla concorrenza internazionale.

Naturalmente, è sperabile che CAI i capitali li abbia, che si incontri con i piloti e trovi l’accordo; e se non è così, è sperabile che si facciano avanti altri, più solidi e più esperti nel settore dell’aviazione civile. Se nemmeno questa alternativa si rivelerà possibile, spetta al Ministro dell’Economia trovare una soluzione meno "mercatista". Poiché è in gioco un interesse nazionale, ed europeo, fondamentale - come quello del trasporto aereo - sarebbe opportuno negoziare con l’Unione sia la nazionalizzazione dell’Alitalia (good company) con lo scopo di venderla non appena raggiunto l’equilibrio di bilancio, sia la partecipazione dello Stato ad una cordata di imprenditori del settore del trasporto aereo, sempre con l’intesa di un’uscita dal capitale al momento giusto. Capisco gli ostacoli posti dall’ideologia attuale della Commissione Europea, ma non aver nemmeno tentato e, anzi, aver negato nettamente questa scelta, rivela che sul tema dell’Alitalia Tremonti non ha voluto sporcarsi le mani. Eppure c’erano tanti argomenti a favore: dal fatto che anche Air France e Lufthansa sono compagnie private per modo di dire, al fatto che nella crisi finanziaria internazionale il mercato non ha le caratteristiche descritte nell’ideologia dei Commissari e perciò distrugge capitali e posti di lavoro, al fatto che la politica finanziaria del governo Bush - da sempre liberista sfrenato - ha appena dimostrato, accollando allo Stato un’immensa montagna di titoli di cattiva qualità presenti nelle Borse, quanto sia sciocca l’idea che è meglio lasciar fallire le grandi imprese in crisi.

Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 7.38   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 23, 2008, 09:44:03 pm »

Rosati: «La trattativa deve riprendere»


Laura Matteucci


«Il mio è un appello a riprendere la trattativa, a partire dalla piattaforma unitaria Cgil, Cisl e Uil. Il documento di Confindustria va tolto dal tavolo, ma poi il dialogo deve ricominciare. Perchè arrivare all’accordo serve sia alle imprese sia ai lavoratori». L’appello di Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro di Milano, la più grande d’Italia, è a 360 gradi: è rivolto a Confindustria, ma in ugual misura a Cisl e Uil perchè tengano sul confronto unitario, e anche alla Cgil, perchè «non arrivare a un accordo non potremmo certo considerarlo una vittoria».

C’è una possibile terza strada: l’obiettivo di firmare un accordo separato.
«Infatti, le domande a Confindustria sono due: se vuole davvero l’intesa, e se pensa di poterci arrivare lasciando fuori la Cgil. L’altro giorno Bombassei (vicepresidente di Confindustria, ndr) ha rivendicato in un’intervista il suo accordo separato con i metalmeccanici, senza la Fiom-Cgil. Che intendeva? È chiaro che il documento degli industriali vive anche di questa fase, in cui si tende a spaccare l’unità sindacale, in cui l’ostilità nei confronti della Cgil è massima e, come insegna la vicenda Alitalia, ogni giorno è buono per un nuovo attacco».

Però il documento degli industriali è da bocciare. La Cgil ha preso le distanze in modo inequivocabile.
«Perchè riaccentua e ingessa un sistema di relazioni sindacali che invece va snellito. C’è una contraddizione tra le enunciazioni di principio, tutte tese ad una maggiore produttività legata al secondo livello, e le regole proposte che invece, di fatto, non vanno affatto in questa direzione. Di sicuro, il documento rappresenta un passo indietro sulla strada dell’intesa».

Però la riforma è indispensabile, lei dice.
«Il modello del luglio ‘93 ha avuto una funzione fondamentale, ha garantito per 15 anni regole condivise per il rinnovo dei contratti. Ma è un modello che fotografa la realtà del ‘93, appunto, e che oggi non regge più. Le condizioni sono mutate: il costo della vita è elevatissimo, e nonostante questo all’elevata produttività che registriamo in molte aziende, parlo soprattutto del nord, non corrisponde un adeguato livello salariale».

Lei sostiene, quindi, che la produttività inneggiata da Confindustria c’è già, almeno in molti casi, mentre quello che non c’è è l’adeguamento salariale.
«La produttività che già c’è non viene redistribuita sui salari. Io penso si debba innanzitutto garantire la contrattazione di primo livello, poi anche attraverso la leva fiscale lo sviluppo del secondo livello. E che una fetta consistente della ricchezza prodotta debba andare a vantaggio dei redditi dei lavoratori».

Qual è lo scenario che si prospetta?
«Primo, nessun accordo, e in questo caso si andrebbero a rinnovare i contratti senza un sistema di regole condivise. Secondo, un accordo separato, il che significherebbe trattative distinte e differenti da settore a settore, da categoria a categoria. Risultati che non credo possano giovare a nessuno, tantomeno in questa delicata e preoccupante fase economico-finanziaria. L’unica soluzione è riprendere una vera trattativa per arrivare a regole omogenee e condivise».

Pubblicato il: 23.09.08
Modificato il: 23.09.08 alle ore 9.07   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 23, 2008, 09:46:03 pm »

Il fantasma dell’italianità

Marco Simoni *


Quante cose non sappiamo della vicenda Alitalia? Decisamente troppe tenuto conto che al momento la compagnia sta volando grazie a un prestito di fondi pubblici già praticamente esauriti: dalla giornata di ieri si deduce che a meno di conigli dal cappello, tra una settimana circa non vi saranno più i soldi per far volare gli aerei. Sarebbe confortante sapere che il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha una idea di cosa succederà.

Quanti giorni dovranno passare prima che un gestore straniero rilevi le rotte che al momento vengono coperte da Alitalia? Quante settimane dovranno passare perchè i collegamenti aerei in Italia tornino a corrispondere alla domanda di voli? Le autorità competenti hanno un’idea di cosa accadrà il primo ottobre se, come sembra probabile, non vi sarà alcun compratore di tutta la azienda, ma solo offerte sui pochi asset rimasti (aerei, tratte, personale qualificato)? Per la maggior parte degli italiani queste domande ormai sono pressanti, e sarebbe, ripeto, confortante, sapere che il governo ha almeno una idea di ciò che ci si può attendere. Dal 1999, anno in cui l’Alitalia ha smesso di generare utili e dunque ha iniziato la parabola che ha portato al disastro attuale, ogni attore coinvolto nella vicenda ha collezionato una serie di torti sufficiente da consentire ad ognuno, a turno, di poter recriminare.

La punta di irresponsabilità verbale si è tuttavia registrata ieri, quando il signor Berti, rappresentante dei piloti, ha paventato incidenti aerei a seguito dello “stress psicologico” a cui sono sottoposti. Seriamente, bisognerebbe vergognarsi se si avesse un barlume di idea di come ci si comporta, da adulti responsabili, in consessi civili. Tuttavia, appunto, quando nessuno è immune da colpe e nessuno decide di fare un passo indietro, la vicenda si avvita a spirale fino al fallimento. Fare un passo indietro è rischioso perchè può darsi che la controparte ne approfitti. Per farlo, dunque, bisogna fidarsi, mentre in questa vicenda, verrebbe da dire in questo paese, la fiducia è ai minimi storici.

Per questa ragione appare fantascientifica l’idea che nello spazio di una settimana si metta insieme una cordata nuova, con al centro i piloti ed altri partner, basata sul modello di compartecipazione della Lufthansa. La fiducia tra le organizzazioni sindacali e manageriali, che è anche fiducia tra le persone, operai, quadri, dirigenti, è al centro del modello tedesco di relazioni industriali, e fonte del vantaggio competitivo della Germania. Fiducia di cui, qui, non appare traccia. Anche le frasi irresponsabili non sono una esclusiva di nessuno. L’intera vicenda degli ultimi mesi è cominciata da un’idea falsa e traditrice, una trappola logica mai contestata: che sia un bene che Alitalia rimanga in mani italiane. E perché? Non esiste alcun ragionevole argomento, nè di buon senso, nè di senso incerto, che giustifichi un sacrificio collettivo, come quello che il governo ha imposto a tutti gli italiani, al fine mantenere la proprietà della compagnia aerea nelle mani di signori col passaporto italiano. Si aggiunga inoltre che tale condizione, secondo voci mai confermate da documenti ufficiali, non sarebbe comunque durata per più di altri cinque anni. Dunque a che pro i sacrifici? Per quale ragione metter su una cordata di cui fanno parte molti imprenditori legati a concessioni pubbliche, a cui si garantiscono condizioni fuori mercato che probabilmente, dopo un tempo burocratico non breve, le istituzioni europee avrebbero sanzionato? Per nessuna ragione trasperente. A cominciare dalla campagna elettorale, la retorica di centro-destra sull’importanza della proprietà italiana non è stata mai seriamente contestata, nessuno ha avuto la forza politica o la autorevolezza professionale per dire che si trattava di una falsa priorità, di un obiettivo inutile, di un fine senza alcuna consistenza.

Basata su queste premesse, con sacrifici asimmetrici tutti a svantaggio dei lavoratori, e nel disinteresse totale dei viaggiatori, la trattativa con i sindacati era destinata a fallire, come è puntualmente avvenuto. Dal punto di vista dell’interesse generale, inteso come una miglior gestione delle risorse pubbliche presenti in Alitalia, non c’è dubbio che fosse meglio chiudere la trattativa piuttosto che farla saltare. La ragione è semplice: in una situazione finanziaria deteriorata come quella di Alitalia, ogni offerta è migliore dell’offerta che viene dopo perchè nel frattempo si sono bruciati altri milioni di euro. Era anche interesse dei lavoratori più deboli e meno qualificati, per una ragione molto simile. Ogni offerta successiva sarebbe stata certamente peggiore e, in caso di fallimento, i lavoratori meno qualificati o precari hanno certamente meno probabilità di trovare un'altra occupazione in tempo di crisi.

Nelle condizioni che si sono determinate è ormai improbabile che un compratore si faccia avanti: piuttosto che acquisire un’azienda caratterizzata da un personale diviso in fazioni, in crisi di liquidità, e con il governo che appare stupito e confuso della situazione in cui ha spinto la compagnia, conviene aspettare che Alitalia fallisca per poi rilevarne gli asset a prezzi vantaggiosi. Un prezioso articolo di Giuseppe Provenzano sull’Unità di sabato ci spiegava la necessità che la politica torni ad usare un lessico comprensibile e quotidiano. Il signor Berti, ci informa ieri il Riformista, guadagna oltre 120mila euro l'anno. Chiamare “sindacalista” una persona con un reddito di questo livello significa confondere drammaticamente i piani della regolamentazione delle professioni, della rappresentanza del lavoro e della difesa dei diritti. Le organizzazioni confederali, se sono consapevoli del conflitto che hanno davanti e della crisi di legittimità in cui il centro-destra vuole farle affondare, dovrebbero avere molta più cura e tutela delle proprie parole.

London School of Economics

Pubblicato il: 23.09.08
Modificato il: 23.09.08 alle ore 9.06   
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