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Autore Discussione: GIORGIO LA MALFA Meno tasse senza condizioni  (Letto 3572 volte)
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« inserito:: Settembre 19, 2008, 06:03:15 pm »

19/9/2008
 
Meno tasse senza condizioni
 
 
 
 
 
GIORGIO LA MALFA
 
La Bce ha certificato che, quanto a crescita economica, l’Italia è il fanalino di coda fra i Paesi dell’euro. Dai dati Istat emerge che negli ultimi trimestri vi è stata una riduzione del reddito nazionale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale le previsioni di crescita per il Paese sono bassissime. La Confindustria ieri lo ha confermato. L’economia italiana è ferma: poca voglia d’investire da parte delle imprese, quindi ristagno della produttività, perdita di competitività e difficoltà per le esportazioni; debolissima domanda di beni di consumo, anche perché quando si diffonde il pessimismo sul futuro, aumenta la propensione al risparmio. A questo punto il problema d’impostare una politica di rilancio dell’economia italiana dovrebbe avere priorità assoluta rispetto a molte altre questioni dell’agenda politico-parlamentare. Il governo condivide questa valutazione? In un’audizione alla Camera il ministro Tremonti ha difeso con energia le misure relative alla finanza pubblica volte a rassicurare l’Europa circa il mantenimento degli impegni di riduzione del debito concordati con la Commissione europea. Non c’è dubbio che questa sia stata una scelta opportuna, non solo per evitare le polemiche sgradevoli che accompagnarono il governo Berlusconi, in Italia e in Europa, fra il 2001 e il 2006, ma anche perché il risanamento finanziario è, come ha spesso ribadito il presidente della Bce Trichet, la premessa indispensabile per qualsiasi politica di sviluppo. Ma il problema non si esaurisce con il risanamento finanziario. Serve un’azione mirata al rilancio degli investimenti e dei consumi.

Il ministro dell’Economia può rispondere di avere posto la questione di un intervento straordinario alla Banca Europea degli Investimenti. È un’idea giusta; ma il ministro è il primo a sapere che i tempi delle istituzioni europee per mettere a punto qualsiasi programma sono lunghissimi e ancora più dilazionati gli effetti economici concreti. Se un Paese ristagna, nessuno corre in suo soccorso dall’Europa. Siamo quindi soli davanti ai nostri problemi. L’Italia non può abbandonare la linea del risanamento. Ma, insieme, bisogna proporre al Paese una politica di sviluppo e farlo in tempi rapidi. Su La Stampa in luglio ho scritto che l’unica cosa da fare per svegliare l’economia italiana è un programma consistente di riduzione della pressione fiscale distribuito nell’arco degli anni residui della legislatura. Dovendo evitare di aumentare il deficit, questo è possibile solo tagliando la spesa pubblica corrente. Non è un obiettivo impossibile, a condizione di cominciare a studiare immediatamente le misure da introdurre progressivamente nei prossimi quattro anni. Il ministro dell’Economia ha affermato che il governo intende mantenere l’impegno di ridurre le imposte, ma ha aggiunto che lo si farà nel corso della legislatura a mano a mano che la ripresa economica lo consentirà. Questo significa capovolgere la questione. Il suo è un intendimento di equità sociale. Quali misure il governo prenderà per far sì che la ripresa vi sia? La riduzione delle imposte è la sola via per la ripresa. Se essa viene subordinata alla ripresa, non vi sarà né la ripresa, né tanto meno la riduzione delle imposte.

L’esecutivo ha altre idee? Le comunichi al Parlamento e al Paese. Mi auguro che il governo non pensi che non vi sia bisogno di far nulla, fidando magari in quella «cautissima» speranza di ripresa formulata nei giorni scorsi dal governatore della Banca d’Italia. Sarebbe, temo, la ricetta per un brusco e sgradito risveglio di qui a qualche mese.

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« Risposta #1 inserito:: Novembre 18, 2008, 09:26:58 am »

18/11/2008
 
Quel piano che ci salvò le banche
 
GIORGIO LA MALFA

 
Tra il 1931 e il ’33 l’Italia si trovò nel pieno di una vasta crisi bancaria. Non era la prima. La storia unitaria è punteggiata da crisi bancarie, scandali e salvataggi: la caduta del Credito Mobiliare, lo scandalo della Banca Romana, il fallimento della Banca di Sconto. Ma in quella circostanza, anche in conseguenza della depressione mondiale seguita al crollo di Wall Street del ’29, le maggiori banche entrarono in crisi, a cominciare dalla Comit, allora la più importante banca italiana e tra le maggiori in Europa. Forse, pur nella diversità della situazione attuale, può essere di qualche interesse ricostruire quelle lontane vicende nelle quali il piano di salvataggio messo a punto da Alberto Beneduce si dimostrò molto efficace. Sulle cause della crisi vi sono le testimonianze di due protagonisti del tempo. Raffaele Mattioli, successore del capo della Comit, Giuseppe Toeplitz, racconta: «Alla vigilia della crisi 1930-31, la struttura delle grandi banche italiane di credito ordinario aveva subito trasformazioni, o meglio deformazioni. Il grosso del credito erogato era fornito a un ristretto numero di aziende, un centinaio, che con quell’aiuto avevano potuto svilupparsi notevolmente, ma che ne dipendevano ormai al punto di non poterne più fare a meno. La fisiologica simbiosi si era mutata in una mostruosa fratellanza siamese. Le banche erano ancora banche “miste” sotto l’aspetto formale, ma nella sostanza erano divenute banques d’affaires, istituti di credito mobiliare legati a filo doppio alle sorti delle industrie del loro gruppo. Per salvaguardarsi dai fin troppo evidenti pericoli di questa situazione, le banche avevano ricomprato praticamente tutto il loro capitale. Una prima deformazione ne provoca un’altra. Abyssus vocat abyssum».

La seconda parte della storia riguarda il coinvolgimento drammatico della Banca d’Italia nella crisi. La narrò, nel ’44, Donato Menichella, direttore generale dell’Iri dalla sua costituzione nel 1933 prima di tornare in Banca d’Italia e divenirne governatore. Quando le banche cominciarono ad avere difficoltà a farsi rimborsare dai grandi debitori, «si rivolsero all’Istituto di emissione e questo largamente concesse loro credito sia sotto forma di anticipazioni e sconti dapprima di portafoglio commerciale, poi di grossi cambialoni emessi dalle aziende industriali». Ben oltre metà della circolazione bancaria nel ’33 era costituita da questi finanziamenti della Banca d’Italia. A tal punto, prosegue Menichella, «che in tale situazione non si poteva più parlare di un problema delle grandi banche distinte e separate da quello dell’Istituto di emissione; se le banche avessero avuto ancora bisogno di fondi lo Stato si sarebbe trovato non già di fronte al problema di fare o non far fallire le banche, sibbene di fronte all’altro problema di far concedere ancora crediti all’Istituto di emissione o di dichiarare la bancarotta di esso». Sia detto fra parentesi, ma il rischio di alcune delle misure prese in queste settimane dai governi e dalle banche centrali è di questa natura.

L’aspetto notevole del piano d’intervento di Beneduce fu l’organicità. Nel gennaio ’33 il governo istituì l’Iri. Non gli attribuì alcun fondo iniziale di dotazione, ma gli garantì un contributo annuale per vent’anni e l’autorizzò a emettere obbligazioni. L’Iri fece due operazioni. Con la prima rilevò da Comit, Credito e Banco di Roma i pacchetti azionari che detenevano. Stimando queste attività 7 miliardi di vecchie lire, riconobbe alle banche un credito di 12 miliardi di lire che s’impegnò a restituire in 20 anni a un tasso del 4%. Il calcolo del debito venne fatto nel presupposto di offrire alle banche un reddito annuale sufficiente a ricondurre i conti all’equilibrio. Come risulta da uno studio degli Anni 50 di Pasquale Saraceno, per lo Stato la creazione dell’Iri fu un affare eccellente. Con una seconda operazione l’Iri salvò la Banca d’Italia dal fallimento: prese a suo carico il debito delle banche verso l’Istituto di emissione che s’impegnò a rimborsare anch’esso nel giro di un ventennio.

Il cardine della sistemazione beneduciana fu la netta separazione del credito a breve termine dal credito a medio e lungo termine. Prima con un impegno d’onore all’atto del salvataggio, poi con le leggi bancarie del ’36-37, le banche salvate furono costrette a limitare la propria attività al credito a breve, mentre il credito agli investimenti divenne il compito di istituti speciali, come l’Imi fondato nel ’31 o Mediobanca fondata all’indomani della seconda guerra mondiale. Misure analoghe di compartimentalizzazione del credito furono prese in quegli anni negli Stati Uniti con il Glass-Steagall Act. L’abolizione di queste norme in America, come da noi, negli Anni 90 non è estranea alla crisi di questi anni. Il mestiere del banchiere d’investimenti è molto diverso da quello del banchiere commerciale e la tentazione, alimentata anche da un mercato monetario troppo facile, che sia possibile finanziare sul mercato monetario investimenti di medio e lungo periodo è parte della storia di questa crisi. Il secondo insegnamento è che se lo Stato deve intervenire qualcuno dei responsabili deve, come avvenne a Toeplitz, essere sostituito. Il terzo insegnamento è che lo Stato può svolgere una funzione positiva. Certo, osservò Enrico Cuccia, in quegli anni l’Iri «non subì la mainmise da parte della fazione dominante». Sfortunatamente non è stato così nel secondo dopoguerra. Ed è per questo che è così difficile oggi trovare una buona soluzione alla crisi finanziaria.

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« Risposta #2 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:09:18 pm »

11/6/2010

Ma era meglio attaccare il debito
   
GIORGIO LA MALFA*

Caro direttore, a proposito della manovra economica del Governo, di cui inizia in questi giorni il cammino parlamentare, vorrei esprimere una perplessità di fondo rispetto alla impostazione del provvedimento. Nel mondo politico e nell’opinione pubblica sta passando l'idea che un intervento di questo genere fosse più o meno largamente inevitabile. Per cui, salvo la discussione su singoli aspetti della manovra - i settori colpiti, l’equità della distribuzione dei sacrifici, l’efficacia delle norme contro l’evasione e così via - non si registrano obiezioni sulla necessità dell’intervento. A ciò si aggiunge che nei giorni scorsi il governo ha buttato lì la storia dell’apertura delle imprese in un solo giorno: una questione, sì rilevante, ma che solleva una marea di discussioni che distolgono ulteriormente l’attenzione dal decreto-legge del Governo. In queste condizioni sembra proprio che non vi sia modo di affrontare una discussione di fondo sulla manovra.

E invece è proprio questo che a me sembra necessario. Il problema non sono i singoli aspetti dell’intervento, bensì la sua filosofia e i suoi obiettivi concreti. Per metterla in termini semplici e diretti: il problema è che la manovra affronta un problema serio ma non così urgente, mentre trascura un altro problema, più grave che potrebbe scoppiarci addosso all’improvviso.

Il riferimento è al Trattato di Maastricht e al cosiddetto Patto di Stabilità. Questi documenti sanciscono che il giudizio sulle condizioni della finanza pubblica di ciascun paese si fonda su due parametri: il rapporto fra il deficit annuale e il Pil e il rapporto fra lo stock del debito e il Pil. Le cifre di riferimento sono il 3% per il primo, il 60% per il secondo. L’Italia ha oggi un deficit dell’ordine del 5,5% del Pil e un rapporto debito/Pil pari a circa il 120%. Dati questi numeri, qual è il problema italiano? E’ il deficit o il debito? E se dobbiamo fare degli interventi urgenti per attenuare o evitare il rischio che un giorno la speculazione, o magari le agenzie di rating, ci dicano che l’Italia ha problemi di solvibilità, in quale delle due direzioni dobbiamo muoverci?

La manovra del Governo riduce di un po’ il deficit dei prossimi due anni. Il taglio è di circa lo 0,8%, l’anno. E’ un passo non negativo. Ma il debito resta dov’è. Si attenua il rischio di rilievi sui deficit di bilancio, me resta aperta la ferita vera, la più seria, la più rischiosa che è il problema del debito pubblico e della sostenibilità del suo rifinanziamento.

A me sembra che il rischio di un attacco sul tema dello stock del debito sia molto serio nelle condizioni di nervosismo dei mercati e di iperattività della speculazione. Per questo ritengo, per la verità non da ora, che la priorità sia una grande operazione di riduzione del debito che nel giro di un paio di anni porti a una sostanziosa riduzione del rapporto debito/Pil. Questa, non quella prescelta dal Governo, è per me la direzione verso cui bisogna andare.

Probabilmente il Governo risponderà che l’Europa ha dato un giudizio positivo sulla manovra e, soprattutto, che la Francia e la Germania stanno prendendo misure analoghe alle nostre. E’ vero, ma Francia e Germania non hanno un problema di debito. Il loro debito sta al 77% per la Francia, al 73% per la Germania. Il deficit della Francia è al 7,5%, quello della Germania sotto il 6%. A confronto, il nostro deficit è relativamente contenuto. E’ il debito il problema più serio per l’Italia ed è di questo che un Governo previdente si dovrebbe occupare. Bisogna dunque fare qualcosa di completamente diverso da quello che è scritto nel decreto-legge all’esame del Parlamento. La via maestra è la cessione di attività patrimoniali a riduzione del debito. Oltretutto, mentre la riduzione del debito pubblico mediante cessione di attività patrimoniali non ha un effetto depressivo sull’economia e, se ben architettata, potrebbe anche averne di espansive, la riduzione del deficit ha comunque un impatto deflazionistico, tale da rischiare di non essere neppure efficace nella direzione della riduzione del deficit.

*deputato del Gruppo Misto

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