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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 104879 volte)
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« inserito:: Settembre 19, 2008, 10:29:46 am »

ECONOMIA    La fuga dei risparmiatori provoca danni incalcolabili all'economia

I rendimenti dei bond statunitensi crollano ai valori del 1941

Paura come ai tempi di Hilter patrimoni a caccia del rifugio


di FEDERICO RAMPINI


 
BISOGNA risalire al Blitz su Londra, il bombardamento ordinato da Hitler nel '41 che parve annunciare lo sbarco tedesco in Gran Bretagna.

Il panico sul mercato del credito ha raggiunto livelli che non si erano più visti dai giorni più bui della Seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo di tanti patrimoni la fuga dei risparmiatori verso un "rifugio sicuro" - come i buoni del Tesoro americani - ha prodotto un risultato incredibile: i rendimenti sui Treasury Bonds degli Stati Uniti sono crollati (0,03% i buoni trimestrali) al livello più basso dai tempi dei raid aerei della Luftwaffe sulla capitale inglese. Questo fuggi fuggi verso la sicurezza infligge dei danni incalcolabili non solo alle finanze ma all'economia reale.

Nessuno si fida più della solvibilità della controparte: i prestiti fra banche in Europa e negli Stati Uniti sono quasi congelati. La paura dei crac a catena sta intaccando per la prima volta il valore dei fondi comuni monetari: sono investimenti considerati liquidi quasi come dei conti correnti, tranquilli, "da buon padre di famiglia". Dall'epicentro originario di Wall Street il disastro si è dilatato sprigionando conseguenze sul tenore di vita di intere nazioni. I tassi sui mutui sono rincarati anche in Italia. La recessione americana ha bloccato la crescita europea, colpisce le prospettive di chi cerca lavoro. I fondi pensione, ormai diffusi nel mondo intero compresa l'Italia, sono esposti a perdite pesanti che ridurranno il tenore di vita dei futuri pensionati.

Anche i risparmiatori più cauti sono vulnerabili: la "finanza esoterica" ha infilato i suoi titoli-spazzatura ovunque, gli inviti alla calma dei nostri banchieri e dei nostri assicuratori vanno presi con beneficio d'inventario; sono validi solo fino alla prossima sorpresa. Il Welfare semi-privato si morde la coda: i fondi pensione per tamponare le loro perdite hanno speculato al ribasso nel tentativo di recuperare qualcosa nel crollo generale. Così sono diventati parte di quella "orda selvaggia" che ha contribuito al crac: la banca d'affari Morgan Stanley ha dovuto contattare direttamente i gestori delle maggiori casse previdenziali americane, per scongiurarli di cessare le puntate ribassiste contro il suo titolo.

La speculazione al ribasso è nel mirino delle autorità di Borsa, a cominciare dall'organo di vigilanza di Wall Street, la Securities and Exchange Commission (Sec). Nell'emergenza la Sec ha varato nuove regole contro la "vendita allo scoperto" (l'operazione in cui un investitore prende in prestito un'azione che non ha per venderla subito, poi ricomprarla in futuro scommettendo che costerà meno, e restituire il prestito guadagnando sulla differenza). Le misure tecniche per scoraggiare la speculazione ribassista sono state invocate dall'American Bankers Association e da diversi politici del Congresso di Washington. Tutti a caccia degli "untori", gli avvoltoi che si avventano su nuove prede da scarnificare tra le grandi banche quotate in Borsa.

Ma la speculazione al ribasso in questo contesto è fisiologica e inarrestabile. Dov'erano invece l'associazione dei banchieri, dov'erano i legislatori del Congresso, quando i loro interventi avrebbero potuto colpire le cause primarie di questa crisi? Nel disastro globale di questi giorni ciò che sconcerta è la totale assenza di misure preventive. Questa crisi, nella sua forma acuta e palese è ormai vecchia di 15 mesi: il collasso dei titoli legati ai mutui subprime iniziò a fine giugno del 2007. Inoltre c'è chi l'aveva visto arrivare molto prima, e non si tratta di "profeti" eterodossi e marginali ma di protagonisti centrali del sistema.

Warren Buffett, il secondo miliardario più ricco degli Stati Uniti, gestore del colosso finanziario Berkshire di Omaha, nel 2002 dichiarava: "I titoli derivati sono armi di distruzione di massa". Sul sistema di regole e controlli aggiungeva: "Nessuna banca centrale ha il compito di prevenire i crac a cascata nei derivati e nelle assicurazioni". Dunque uno dei finanzieri più influenti del pianeta, regolarmente chiamato a testimoniare al Congresso e al Senato di Washington nelle audizioni sulla politica economica, aveva avvisato i guardiani del mercato. Più esplicito di così non poteva essere.

Quelle parole oggi suonano come un terribile atto di accusa per governi, banche centrali, authority di vigilanza. Negli Stati Uniti e in Europa. Nulla è veramente cambiato nell'architettura portante della finanza globale, dal 2002 a oggi. Nessuna riforma radicale è stata varata neppure negli ultimi 15 mesi, quando la crisi era ormai visibilissima e stava dispiegando i suoi effetti letali, dapprima al rallentatore, poi in una sequenza sempre più frenetica di catastrofi.

Dare addosso alla speculazione ribassista oggi è una misura patetica, un'autentica presa in giro: è il malato che in un impeto d'ira spezza il termometro che gli sta indicando la sua febbre. Ben altri sono i limiti che andavano decisi. Il mondo dei derivati è rimasto un universo parallelo, un sistema bancario-ombra dove non vigono le stesse regole e gli stessi controlli imposti all'attività creditizia ordinaria. Gli hedge fund continuano a essere una giungla selvaggia. I titoli strutturati, i misteriosi contratti di copertura dal rischio-fallimento che hanno travolto il colosso Aig, tutto questo bubbone è stato lasciato ipertrofizzare. I banchieri centrali si incontravano nei convegni dell'Fmi a Washington, o della Bri a Basilea, e si scambiavano dotte relazioni sulla "necessità" di correggere le falle del sistema. Di quegli studi sono pieni gli archivi delle banche centrali. Compresi i lavori della task force sui rischi sistemici guidata dal nostro Mario Draghi.

Ma le conseguenze concrete finora sono state pressoché nulle. Abbiamo una finanza globale ma non abbiamo una vigilanza globale. I gestori di patrimoni immensi hanno continuato a operare in zone grigie di lassismo, irresponsabilità, impunità. I mercati sono interconnessi a livello planetario, ma le regole e i controlli sono un paesaggio frammentario e balcanizzato. Il panico di questi giorni è un terribile fallimento delle autorità di sistema, che paghiamo tutti.

Anche nelle colpe vi è una gerarchia e un ordine. Il primo imputato è l'establishment americano, da Wall Street alla classe politica legata a filo doppio agli interessi delle grandi lobby del denaro. L'America vive da anni sotto l'egemonia culturale di uno slogan che fu lanciato da Ronald Reagan, poi ripreso dai Bush padre e figlio, infine riciclato con ardore dal duo McCain-Palin in questa campagna elettorale: "Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema". E' questa l'ideologia che ha teorizzato i benefici del laissez-faire. E' stata fatta propria anche da Alan Greenspan, al timone della Federal Reserve per ben 17 anni, il massimo teorico della capacità dei mercati di autoregolarsi. Greenspan ha continuato a difendere quell'ideologia fino a poche settimane fa, salvo improvvisamente cambiare tono e definire la crisi attuale come "la più grave da un secolo". Il suo successore e l'Amministrazione Bush ora nazionalizzano a tutto spiano. Questa crisi travolge le ideologie e sposta di colpo il terreno su cui si combatte la battaglia presidenziale americana.

Ma il 4 novembre è lontano; il gennaio 2009 in cui il nuovo presidente Usa assumerà i poteri è lontanissimo. Di qui ad allora il bilancio dei danni potrà essersi aggravato. L'Europa e il resto del mondo non possono permettersi di aspettare.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:32:46 am »

ECONOMIA    IL COMMENTO

Alla guerra con armi vecchie

di FEDERICO RAMPINI

 
"LA più violenta crisi finanziaria dagli anni Trenta" la definisce il Fondo monetario internazionale. Il paragone evoca il rischio che i danni finali possano aggravarsi molto, prima di vedere una vera schiarita. Se guardiamo all'indice più significativo della Borsa americana (S&P 500), dal 7 settembre 1929 all'8 luglio 1932 la sua caduta fu dell'86%. Attualmente lo stesso indice ha perso "solo" il 36% rispetto ai massimi dell'anno scorso.

Se si prende alla lettera il parallelo tracciato dal Fondo monetario, la distruzione di risparmio rischia di essere appena iniziata. E che dire di beni ancora più essenziali che sentiamo minacciati, a cominciare dai posti di lavoro? I paragoni storici vanno maneggiati con cautela. Nella Grande Depressione degli anni Trenta il tasso di disoccupazione in America raggiunse il 25% della popolazione attiva. Oggi nonostante le ondate di licenziamenti siamo ancora sotto il 7% di disoccupazione americana. La differenza storica fondamentale sta nel salto immenso compiuto dalla presenza dello Stato nell'economia: era minima nel 1929, oggi è pervasiva. Neppure la cosiddetta "rivoluzione reaganiana e thatcheriana" degli anni Novanta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con le privatizzazioni e la deregulation, ha ridotto significativamente la quota del Pil che fa capo al settore pubblico. Lo Stato non licenzia in una recessione. Non smette di gestire scuole e ospedali. E' questo il potente "stabilizzatore" che fu voluto proprio per evitare che si ripetesse una Grande Depressione dai costi sociali spaventosi.

L'allarme resta, tuttavia. Di questa crisi ignoriamo ancora la durata e i costi finali. Le banche centrali hanno sfoderato ieri un "intervento senza precedenti": così lo ha definito la Federal Reserve. Il taglio concertato dei tassi d'interesse su scala globale è stato operato simultaneamente dalla Fed e dalla Bce insieme alle consorelle inglese, svizzera, canadese, svedese, perfino dalle banche centrali della Cina e degli Emirati arabi uniti. Ma per i mercati il gesto "senza precedenti" è tutt'altro che risolutivo. Li assale il dubbio che le banche centrali usino strumenti antiquati, che siano in ritardo di una crisi, che stiano combattendo la guerra precedente.

A lungo le classi dirigenti hanno sottovalutato questa tempesta. Ad ascoltare le imbarazzate autodifese di tanti banchieri, si direbbe che il dramma sia scoppiato in un baleno, come una calamità naturale, e in una concatenazione così veloce che nessuno poteva prevederla. In realtà i segnali precisi di un grave dissesto finanziario originato dai mutui americani (e da altri eccessi di indebitamento) risalgono alla fine del mese di giugno 2007.

Nell'agosto 2007 ci furono già pesanti turbative nel mercato del credito in tutto il mondo. Al Forum di Davos a gennaio non si parlava d'altro che della tempesta globale. Da quelle prime avvisaglie fino a oggi sono già state scritte intere biblioteche sulle cause di questo disastro, da autorevoli economisti come Robert Shiller (lo stesso che aveva già denunciato negli anni Novanta la bolla speculativa della New Economy e previsto il successivo crollo del Nasdaq).

L'opinione pubblica ha il diritto di chiedere dei conti su cosa è stato fatto durante questo lungo periodo costellato di "preavvisi di uragano": quali misure furono prese dai top manager delle banche, dalle autorità di vigilanza, dai governi. E' sconcertante che spuntino nell'affanno dei piani di emergenza estemporanei, per fronteggiare una crisi che si sviluppa alla luce del sole da ben 16 mesi. I costi potevano essere inferiori se i banchieri avessero detto la verità prima, anziché sperare di farla franca e augurarsi di lasciare l'ultimo cerino acceso in mano a qualche concorrente. Quel cerino ha causato un incendio che era largamente annunciato. Ma dall'America all'Europa i massimi esponenti dell'establishment sembrano i conigli abbagliati all'improvviso dai fari dell'auto su una strada di notte.

Per essere stata a lungo esorcizzata, la recessione sarà più estesa e più pesante, anche nelle conseguenze sociali. L'epicentro cruciale del disastro non sono le Borse, e il problema maggiore non è certamente il costo del denaro. E' la crisi di fiducia generalizzata che paralizza il credito. Di questa crisi sono protagoniste le banche per prime, affondate dalla dimensione misteriosa delle loro esposizioni. Una veduta del baratro su cui si affaccia il settore bancario si è avuta nei giorni scorsi, quando in Germania certi esercizi commerciali hanno cominciato a rifiutare i pagamenti con carte di credito emesse da istituti inglesi. Arrivati sull'orlo di un simile abisso di paura, la nazionalizzazione delle banche inglesi era una scelta obbligata. I tagli dei tassi iniziati ieri sono solo il primo, timido passo nel lavoro di lunga lena che impegnerà le banche centrali. Il loro compito assomiglia alla rieducazione di un paziente colpito da ictus: possono essere necessari mesi, forse anni, per ripristinare la normalità in alcune funzioni. E' una funzione vitale per l'economia reale il recupero di una base di fiducia e riattivare la circolazione del credito.

Se a qualcosa serve il taglio dei tassi, è a rendere meno cara la ricapitalizzazione delle banche.
Ma sarà un'operazione onerosa, che può richiedere ulteriori sforzi da parte dei contribuenti. Negli Stati Uniti, se si sommano i salvataggi pubblici già effettuati, le iniezioni di liquidità da parte della Fed, e il nuovo fondo del Tesoro per rilevare i titoli - spazzatura delle banche, si arriva già oggi ben oltre i 1.500 miliardi di dollari: è più della metà dell'intero bilancio pubblico americano (incluse la difesa e l'istruzione) ad essere già andato in fumo, in un falò che sarà ricordato con sgomento per diverse generazioni.

(9 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 12, 2008, 05:15:08 pm »

ECONOMIA    L'ANALISI.

Nel piano Ue non ci saranno stanziamenti anti-crisi ma una serie di misure per ridare solidità al sistema bancario

L'Eurogruppo segue Gordon Brown la ricetta Paulson non è più l'esempio

Sarà aumentata la vigilanza per poter avere dei "guardiani" dei mercati in grado di controllare i colossi del credito


di FEDERICO RAMPINI
 


L'EUROPA si aggrappa a uno spiraglio di speranza: è un piano inglese per una potente offensiva degli Stati che aggredisca tutti i nodi del collasso finanziario. Il vertice G7 di Washington non è bastato per lanciare un'azione unificata contro la débacle del sistema finanziario mondiale. Ci riprovano oggi a Parigi i ministri economici europei in un vertice pomeridiano animato da un'urgenza febbrile.

Hanno poche ore di tempo prima della riapertura delle Borse, per scongiurare un altro lunedì nero. Il piano di Londra è la base per le decisioni che potrebbero essere approvate stasera. Al primo punto c'è l'estensione della tutela pubblica anti-crac non più soltanto ai conti correnti dei risparmiatori ma anche a tutta l'attività di prestito tra banche.

Gli Stati garantirebbero dall'insolvenza le emissioni di obbligazioni bancarie e altre operazioni a termine, quella linfa vitale che scorre nel settore del credito in tempi normali e che ora si è inaridita: il mercato interbancario. Al secondo posto c'è la ricapitalizzazione delle banche stesse, con massicce iniezioni di fondi statali. E' un'imponente nazionalizzazione o semi-nazionalizzazione, sia pure provvisoria nelle intenzioni; in attesa di una schiarita che consenta di rivendere in futuro quelle quote pubbliche ad azionisti privati. Al terzo posto viene una revisione delle norme contabili. Con questa si vuole arrestare la spirale della sfiducia provocata dal fatto che certi "titoli tossici" in questo momento non hanno più mercato. Nessuno ha idea di cosa possano valere e nell'abisso del pessimismo si tende a valutarli zero. Di conseguenza affondano i bilanci delle banche e di certe assicurazioni. Infine si dovrebbe creare una cellula europea per la vigilanza bancaria. In modo che gli Stati dell'Unione abbiano finalmente dei guardiani dei mercati di dimensioni comparabili ai colossi bancari sovranazionali, formatisi a colpi di acquisizioni straniere.

Da questa bozza di progetto resterebbe fuori invece l'idea del fondo "alla Paulson" sostenuta dall'Italia - e inizialmente anche dai francesi - ma avversata dalla Germania. Contro la proposta di replicare in Europa quel fondo americano (i 700 miliardi di dollari per riacquistare dalle banche montagne di "titoli tossici" legati ai mutui subprime) all'inizio sembrava esserci solo una forma di egoismo tedesco: il timore della Germania di doversi sobbarcare l'onere maggiore, mentre il fondo sarebbe servito a salvare anche le banche altrui. C'erano anche dubbi sulla gestione, visto che l'Europa non ha un ministero del Tesoro federale, e pochi vogliono affidare alla Commissione di Bruxelles o alla Bce poteri così importanti. Ma un colpo di scena ha creato un ostacolo nuovo sulla strada di quel fondo: il piano Paulson è stato abbandonato da Paulson.

In una débacle personale che distrugge la sua credibilità già scarsa, il ministro del Tesoro Usa ha dovuto stravolgere il suo stesso progetto, già bocciato dai mercati. Dopo averlo imposto al Congresso con un ricatto - come l'ultima speranza contro un crac generalizzato dell'economia americana - tra venerdì sera e sabato al G-7 Paulson ha fatto un voltafaccia clamoroso. Si è reso conto che l'operazione di acquisto dei titoli tossici richiederà troppo tempo e sarà tecnicamente complessa. Nell'immediato il fondo da 700 miliardi verrà usato per ricapitalizzare le banche, con nazionalizzazioni parziali o totali come quelle che hanno salvato dalla bancarotta Fannie Mae, Freddie Mac e il gigante assicurativo Aig. Anche in America lo Stato acquisterà nuove quote nel controllo azionario delle banche. Washington si adegua al modello inglese? In realtà Paulson "riscopre" una clausola del suo piano che gli fu imposta dal Congresso a maggioranza democratica: furono i parlamentari ad aggiungere un emendamento che permette di usare i 700 miliardi per acquisti di azioni nelle banche in crisi.

La ricetta inglese che raccoglie forti consensi, è però densa di incognite. Parlare di un'azione comune dell'Europa è ancora prematuro. La filosofia dominante resta quella che ciascun paese applicherà il piano al proprio contesto tenendo conto delle differenze nazionali. L'autonomia dei singoli governi può tradursi in differenze cruciali, gravide di effetti sui mercati dei capitali. Quanto ampio e costoso sarà l'ombrello di garanzia statale sui prestiti tra banche e sulle obbligazioni? La Gran Bretagna ha stanziato 250 miliardi di sterline, in Germania circolano stime di 400 miliardi di euro e si parla di estendere la protezione ai fondi comuni monetari. Altri paesi meno generosi potrebbero essere destabilizzati da fughe di capitali verso le nazioni con le banche più protette. Si rischiano nuovi episodi di concorrenza tra Stati come quando l'Irlanda varò per prima l'assicurazione illimitata sui depositi, attirando folle di risparmiatori inglesi. Sarà necessaria una vera armonia nell'applicazione del piano per impedire tensioni pericolose.

Anche la ricapitalizzazione delle banche si presta ad abusi. Vanno aiutate tutte? Solo le più grandi? O quelle meglio gestite? Se lo Stato elargisce aumenti di capitali a occhi chiusi avremo salvataggi indiscriminati. La crisi di mercato non svolgerà l'unica funzione positiva che ha: operare una selezione tra banche più solide e banche meno sane. La revisione delle regole contabili rischia di essere un altro regalo ai banchieri, che ne approfitteranno per occultare lo stato reale dei loro bilanci.

"Essere trasparenti paga" ha detto ieri il governatore Draghi a Washington, ma i nuovi criteri di contabilità possono spingere nella direzione opposta. La nuova cellula di vigilanza europea sarebbe altrettanto impotente delle authority attuali, se non viene decisa una grande riforma delle regole del settore bancario, che colpisca anche la "finanza ombra" dei derivati. E' importante che l'emergenza non spinga a salvataggi indiscriminati, che oltre ai costi enormi sui contribuenti alimenterebbero future bolle speculative, giustificate dalla certezza che i banchieri la fanno sempre franca.

Infine cresce la possibilità che i salvataggi statali vengano richiesti ben oltre il settore bancario. Le nuove convulsioni di crisi nell'industria automobilistica americana, per esempio, ricordano di colpo ai governi che esiste un'economia reale anch'essa in sofferenza, e quest'ultima potrebbe ben presto presentare un conto pesante in termini di occupazione. La focalizzazione sui problemi del credito allora apparirà troppo limitata. Dal piano europeo ci si aspettano risposte anche sulla strategia anti-recessione.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Ottobre 14, 2008, 08:26:12 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 14, 2008, 08:25:55 am »

ECONOMIA    L'ANALISI /

L'unità ha fatto la differenza: per la prima volta i mercati del Vecchio continente hanno trainato quelli Usa

L'Europa ritrova la credibilità per lanciare la sua Bretton Woods

di FEDERICO RAMPINI
 


L'EUROPA unita ha fatto la differenza. Il suo piano di salvataggio ha superato il primo esame dei mercati. E' prematuro cantare vittoria contro l'epidemia virale della malafinanza. La volatilità isterica delle Borse non è un indicatore su cui costruire grandi teorie, e neppure previsioni di medio termine. I rialzi euforici di ieri del resto non cancellano le perdite accumulate nelle settimane precedenti. L'incubo non si è dissolto in una seduta: non si può escludere che questo fausto lunedì 13 sia stato un rimbalzo tecnico, l'afflusso di investitori "mordi-e-fuggi".

Ma la giornata di ieri è stata comunque a suo modo storica. Per la prima volta non è Wall Street ad avere condizionato le piazze finanziarie del nostro continente. E' successo invece l'esatto contrario. Gli indici Dow Jones, Nasdaq e Standard&Poor hanno ricevuto l'impulso fondamentale dalle decisioni del summit domenicale di Parigi e dall'impetuoso rialzo mattutino di tutte le Borse europee. Dopo settimane di angoscia, in cui dai palazzi del potere di Washington non usciva una cura che convincesse i mercati, quella cura è stata partorita in un vertice dell'Eurozona, "ispirato" a sua volta dalla ricetta del premier britannico Gordon Brown.

E' uno schiaffo all'Amministrazione Bush e al suo segretario al Tesoro Henry Paulson, che hanno estorto al Congresso 700 miliardi di dollari senza riuscire a invertire l'umore catastrofico che prevaleva sui mercati fino a venerdì scorso. La terapia europea non è radicalmente nuova né troppo diversa dalle varie "toppe" usate da Washington: gli americani per primi hanno nazionalizzato diversi colossi finanziari (Fannie Mae, Freddie Mac, Aig); anche la Federal Reserve ha inondato le banche di liquidità; anche i depositi dei risparmiatori Usa hanno ricevuto assicurazioni addizionali. L'aggiunta decisiva, che sembra avere fatto la differenza, è l'ombrello "nucleare" che gli Stati dell'Eurozona hanno steso a protezione di tutto il mercato interbancario, garantendo contro i rischi d'insolvenza anche le operazioni di finanziamento tra gli istituti di credito, il vitale mercato interbancario che era paralizzato. Inoltre i mercati sono stati favorevolmente colpiti dall'unità d'intenti, dalla strategia comune, dal fatto che improvvisamente l'Europa ha reagito compatta di fronte all'emergenza.

La vittoria di ieri - forse temporanea - contro lo tsunami finanziario è stata pagata carissima. Tirando le prime somme dei numerosi piani nazionali che hanno applicato le direttive del vertice di Parigi, si arriva a un costo che in dollari raggiunge i 2.400 miliardi di dollari. E' più del triplo di quanto hanno stanziato gli Stati Uniti, che pure sono l'epicentro originario di questa crisi. Se i mercati sono stati impressionati dal sussulto di decisionismo europeo, i cittadini contribuenti dell'Unione saranno altrettanto colpiti quando comincerà ad arrivare il conto in termini di pressione fiscale.

Anche perché il poderoso aumento dei deficit pubblici provocato dai salvataggi bancari si sovrappone a una congiuntura economica disastrosa, una recessione che a sua volta deprime le entrate fiscali degli Stati. E dopo avere dissanguato le casse pubbliche per rimediare agli errori dei banchieri, bisognerà trovare risorse per sostenere la crescita, alleviare le sofferenze di settori industriali in crisi, fronteggiare l'aumento dei disoccupati. Il tutto in un continente europeo già afflitto dall'invecchiamento demografico e da squilibri finanziari strutturali nei sistemi previdenziali.

Una giornata di tripudio nelle Borse non deve fare abbassare la guardia neanche sul fronte della crisi bancaria. I suoi costi possono ancora lievitare. Gli stanziamenti decisi ieri nelle capitali dell'Unione sono una stima di quel che servirà, ma il vero onere lo conosceremo solo alla fine. Dopo lo scoppio della bolla speculativa di Tokyo nel 1989, la crisi bancaria degli anni Novanta costò al Giappone il 24% del suo Pil. Le grandi crisi finanziarie del passato negli Stati Uniti in media costrinsero a interventi pubblici dell'ordine del 16% del Pil. Gli interventi straordinari annunciati ieri da Berlino e Londra, Parigi e Roma, rischiano di essere solo un acconto preliminare.

Senza prematuri trionfalismi, l'Europa ha comunque l'opportunità di usare questo momento di credibilità per imporre agli Stati Uniti profonde riforme di sistema. E' questa la fase per avviare la Bretton Woods II di cui si è parlato, spesso a sproposito, nei giorni scorsi. I suoi compiti sono chiari. Al primissimo posto c'è la regolamentazione del mostruoso mercato dei titoli derivati: 55.000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli Stati Uniti. Le lobby dei banchieri hanno sempre neutralizzato ogni tentativo di disciplinare la "finanza ombra". In un momento in cui la credibilità dei banchieri è precipitata agli inferi, e le loro colpe saranno pagate dai contribuenti per diverse generazioni, è urgente cambiare le regole del gioco.

L'Unione europea deve anche riportare al centro dell'attenzione - coinvolgendo le superpotenze Cina e India - lo squilibrio macroeconomico fondamentale che è all'origine di questa crisi: l'eccesso di debiti dell'America, favorito da politiche monetarie lassiste, e politiche fiscali irresponsabili. L'accumulo di disavanzi commerciali col resto del mondo da parte degli Stati Uniti è l'altra faccia di quei debiti delle famiglie americane che rappresentano ormai il 140% del Pil Usa.

Ci sono altre lezioni che ogni paese può cominciare a trarre da questa crisi. La deflazione che ha ridimensionato pesantemente i valori di tanti beni capitali, dalle case alle azioni, ha degli effetti sui modelli di sviluppo. Finita l'èra della finanza creativa, finito il boom dei titoli esoterici, le banche sono costrette a ridurre il loro ruolo. Si stima che nell'ultimo decennio in America dietro ogni dollaro di aumento del Pil - l'aumento di reddito dell'economia reale - c'erano cinque dollari di crediti. Una montagna di attività finanziarie sovrastava la produzione di cose, di beni e servizi reali. Il Pil nazionale era solo una frazione, rispetto alla bolla dei debiti che c'era dietro.

Quell'epoca è finita con i crac bancari del 2008. "Bucata" la bolla, l'economia globale è in fase di atterraggio: bruscamente ritrova l'impatto con il suolo. E' realistico prevedere che per una lunga fase il baricentro delle attività economiche tornerà a spostarsi in favore della produzione di cose, di beni reali, di servizi utili alle persone. La finanziarizzazione del capitalismo ha toccato il suo limite, e assisteremo a una retromarcia. Un mondo dove la vocazione manifatturiera e il lavoro produttivo vengono rivalutati rispetto alla finanza, è un mondo dove anche le priorità delle politiche economiche nazionali andranno riviste.

(14 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:15:13 am »

ECONOMIA   

Il governo mette in campo il 20% del Pil: in 2 anni tagli alle tasse e più investimenti

La mossa punta a prevenire un'esplosione della conflittualità sociale

La recessione arriva a Pechino via alla manovra da 600 milioni


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

 
PECHINO - Contro la recessione globale scende in campo la Cina, con una manovra di rilancio della crescita che supera per le sue dimensioni quelle approvate dagli Stati Uniti e diversi paesi europei. E' segno che il governo di Pechino è in allerta per la minaccia alla stabilità sociale e politica del paese: ieri il Consiglio di Stato ha annunciato una terapia d'urto senza precedenti. La Repubblica Popolare mette in campo 586 miliardi di dollari di risorse statali in un biennio, l'equivalente del 20% del Pil cinese. (Il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest'anno negli Usa).

Il clima di emergenza che regna tra i leader cinesi è sottolineato dall'annuncio fatto di domenica, dopo aver richiamato improvvisamente a Pechino per "impegni prioritari" il ministro delle Finanze, che stava partecipando al vertice G20 in Brasile. "Negli ultimi due mesi - si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino - la crisi finanziaria globale ha avuto un'accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido".

Il Consiglio di Stato, un organo dell'esecutivo, preannuncia una "politica fiscale aggressiva" fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d'imposte, insieme con una "politica monetaria espansiva" (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a "migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi".

L'annuncio cinese rappresenta una svolta che era attesa nel resto del mondo. Il ruolo della Cina è fondamentale per trovare una via d'uscita dalla recessione globale. L'anno scorso, secondo il Fondo monetario internazionale, la Repubblica Popolare ha contribuito per il 27% alla crescita dell'economia mondiale. E' una locomotiva di cui l'Occidente non può fare a meno. Ma fino a qualche mese fa l'atteggiamento dei leader cinesi era improntato alla cautela.

Per tutto il primo semestre del 2008 sugli schermi radar dei dirigenti comunisti il pericolo numero uno era l'inflazione: i forti rincari di tutte le materie prime (dal petrolio ai metalli, dalle derrate agricole al legname) avevano messo sotto pressione un'economia di trasformazione manifatturiera come quella cinese, oltre a creare tensioni sociali per l'aumento del costo della vita. Solo dopo l'estate Pechino ha cominciato ad aggiustare il tiro. E da un paio di mesi è sfumata definitivamente l'illusione del "decoupling", l'idea cioè che le potenze emergenti potessero "sganciarsi" da questa recessione e restarne sostanzialmente immuni.

Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao inoltre hanno seguito con inquietudine le dichiarazioni di Barack Obama in campagna elettorale: i toni protezionisti, e la richiesta alla Cina di rivalutare la sua moneta. Tra una settimana i leader di Pechino vogliono presentarsi al vertice G14 di Washington con le carte in regola, mostrando che stanno facendo la loro parte per rilanciare lo sviluppo economico nel mondo intero. Un aumento dei consumi delle famiglie cinesi è sempre stato considerato dai governi dell'Occidente come la via maestra perché la Cina eserciti un effetto benefico sulla crescita globale (una parte di quei consumi infatti si traduce in importazioni di prodotti europei, americani, giapponesi).

La maximanovra varata ieri risponde anche a impellenti necessità interne. Anche l'economia cinese sta perdendo colpi vistosamente. La decelerazione della crescita è impressionante. L'anno scorso il Pil aumentò dell'11,7% segnando un record storico. Nel primo semestre di quest'anno il tasso di crescita era già passato al 10%. Nel trimestre scorso (da luglio a settembre) la crescita si è attestata al 9%. Per il 2009 le stime più attendibili prevedono un "magro" +7,5%, il minimo da vent'anni. Una crescita superiore al 7% farebbe sognare ogni altro paese al mondo, ma per la Cina è motivo di allarme.

Ogni anno in media 15 milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne per cercare lavoro in città. Ad essi vanno aggiunti i giovani che escono dalla scuola e appartengono ancora a generazioni numerose, una "gobba" demografica che ancora non sconta gli effetti della denatalità. In totale se la crescita cinese non riesce a creare almeno venti milioni di nuovi posti di lavoro all'anno, ci sono tutte le condizioni per un'esplosione di conflittualità sociale.

E' quello che in effetti si sta già verificando in alcune zone del paese. Il Guangdong, la regione meridionale che ha la più alta densità di industrie, è da mesi l'epicentro di tensioni. Migliaia di fabbriche hanno chiuso per fallimento - soprattutto nel settore tessile-abbigliamento e nella produzione di giocattoli - e i licenziamenti di massa hanno scatenato proteste diffuse. Ancora pochi giorni fa la ricca metropoli industriale di Shenzhen è stata il teatro di scene di guerriglia urbana, migliaia di manifestanti hanno affrontato la polizia. Il detonatore di quest'ultima rivolta - almeno secondo le ricostruzioni dei mass media ufficiali - sembra essere stato un banale diverbio dopo un incidente stradale, ma la sensazione è che le difficoltà economiche stiano trasformando quell'area in una polveriera.

Ora con la maximanovra di politica economica il governo spera di aggiungere due punti alla crescita del Pil dell'anno prossimo. La terapia d'urto include nuovi investimenti pubblici nell'edilizia popolare, l'accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. E' una lunga lista di provvedimenti che hanno un denominatore comune: fare affluire il più rapidamente possibile nuovo potere d'acquisto alla popolazione, prima che sia troppo tardi. Il bilancio pubblico cinese è abbastanza solido da poter reggere un boom di nuove spese. Il dubbio semmai riguarda il peso della corruzione, che può limitare la parte degli aiuti che finirà veramente a beneficio della popolazione.

(10 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 15, 2008, 11:02:00 pm »

Oggi a Washington la "Bretton Woods 2", ma senza Obama si rischia il flop

Anche la Russia nella squadra europea guidata da Sarkozy

G20, missione impossibile per i Grandi della Terra

di FEDERICO RAMPINI
 

Una Bretton Woods 2 per ridisegnare le regole della finanza globale, i poteri di intervento delle autorità pubbliche sui mercati. Più un Piano Marshall 2, un potente rilancio degli investimenti pubblici concertato a livello mondiale per sconfiggere la recessione. Sono le aspettative irrealistiche che alcuni governi europei hanno alimentato sull'agenda del vertice G-20 che si apre oggi a Washington. Un summit al quale gli europei - guidati da Nicolas Sarkozy - si presentano con un sembiante di unità che include perfino la Russia, cooptata in un fronte unito dopo che il crollo del prezzo del petrolio ha turbato le ambizioni neoimperiali di Mosca. Ma a fare gli onori di casa a Washington c'è ancora George Bush, deciso a difendere la sua eredità storica e a respingere ogni processo contro il capitalismo americano. Il presidente uscente - in carica fino al 20 gennaio - ha accolto i suoi ospiti con una difesa dei principi del libero mercato. Ha fatto capire che ostacolerà ogni tentativo della vecchia Europa di imporre forme di "dirigismo" che soffochino i mercati finanziari.

In questo momento in realtà è l'aspetto "Piano Marshall" ad avere il sopravvento. Dopo che l'America, l'Unione europea e il Giappone sono sprofondati nella recessione, l'urgenza di un'azione coordinata per rilanciare la crescita dell'economia reale supera perfino il bisogno di terapie contro la malafinanza. Ma il Piano Marshall - con cui fu finanziata la ricostruzione europea dopo la seconda guerra mondiale - ebbe un pagatore unico, l'America. Oggi nessun paese ha i mezzi per fare da locomotiva unica della ripresa. Molti, anzi, esitano a impegnarsi con manovre di bilancio troppo onerose per i conti pubblici: o perché sono ancora appesantiti dai debiti del passato, o per una logica mercantilista (chi si muove per primo con un forte rilancio della domanda interna rischia di vedere aumentare le importazioni, e di regalare ai propri vicini i benefici della ripresa).

Così sul fronte delle strategie di investimenti statali per promuovere lo sviluppo, a Washington chi vanterà la mossa più ardita paradossalmente è la Cina: nessun altro paese può eguagliare la sua manovra di 586 miliardi di dollari di spese pubbliche (in un biennio), pari a circa il 16% del Pil della Repubblica Popolare. Eppure Pechino, anche se è preoccupata per il netto rallentamento della sua crescita, ha ancora avuto un aumento del Pil del 9% nel trimestre scorso. Gli americani hanno alle spalle un flop: quest'estate Washington aveva varato 150 miliardi di aiuti diretti alle famiglie (assegni del Tesoro recapitati a domicilio), ma il clima di paura ha indotto i consumatori americani a mettere quei soldi da parte anziché spenderli. Barack Obama vuole riprovarci, con un'iniezione di potere d'acquisto di dimensioni analoghe possibilmente entro Natale. Ma non è detto che il Congresso uscente l'approvi. E al G-20 di oggi Obama manda solo due osservatori, per evitare di essere coinvolto anzitempo nelle responsabilità di un eventuale fallimento. Tra i paesi che brillano per timidezza c'è la Germania: colpita duramente dalla recessione, ancora non ha varato manovre significative per rilanciare i consumi e la domanda interna. E' un attendismo che la dice lunga sulla presunta compattezza del fronte europeo. Alla fine il G-20 spaccerà per "azione concertata" contro la recessione un elenco di provvedimenti decisi dai singoli governi, secondo criteri e priorità nazionali.

Sul fronte della Bretton Woods 2 il quadro non è migliore. I leader mondiali hanno già pronto l'alibi: per arrivare alla prima Bretton Woods (nel 1944) ci vollero due anni di preparativi e poi tre settimane di serrate trattative sui dettagli, malgrado la leadership indiscussa dell'America di Franklin Roosevelt e l'illuminata ispirazione teorica di John Maynard Keynes. Non s'improvvisa in un week-end la grande riforma della governance globale che allora creò il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Gatt (antenato del Wto). In realtà già da anni i nuovi progetti di riforma sono sul tappeto, e ogni dettaglio tecnico è stato esaminato ai massimi livelli. Per esempio nella task force dei banchieri centrali presieduta dal nostro Mario Draghi. Ma sulle ricette ci sono profondi dissensi di principio, fossati ideologici che neppure la gravità di questa crisi ha fatto superare.

L'idea di creare una Organizzazione mondiale della finanza - con poteri analoghi a quelli che ha il Wto per il commercio - continua a essere osteggiata da lobby che estendono i loro tentacoli da Wall Street ai paradisi fiscali off-shore. Portare sotto un controllo stringente delle banche centrali gli hedge fund; costringere le banche a inserire nei loro bilanci anche gli strumenti derivati: queste soluzioni si scontrano con resistenze fortissime soprattutto in America.

Obama darà forse un segno di cambiamento se sceglierà un segretario al Tesoro che non abbia legami con Wall Street. Per il momento il summit creerà gruppi di studio, per prendere tempo senza decidere nulla di concreto. L'unica novità di oggi è che il G-20 prende di fatto il posto del G-8. E' un riconoscimento dell'importanza delle potenze emergenti. Ma la Cina, l'India o il Brasile non hanno ancora il know how finanziario per essere gli ispiratori di modelli nuovi di regolazione. E sospettano che li stiamo cooptando nella governance globale soprattutto per esigere da loro contributi generosi.

(15 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 09, 2008, 02:58:20 pm »

Rubriche » La piazza asiatica     

Giappone, la crisi si aggrava

Fallite 31 società: è record


Federico Rampini

Si aggrava la recessione giapponese. A Tokyo la de-crescita del Pil nel terzo trimestre di quest'anno è stata rivista al ribasso: il dato aggiornato rivela un arretramento dello 0,5% dell'economia nipponica da luglio a settembre, contro un dato iniziale che era stato misurato a meno 0,1%. Il declino del terzo trimestre, proiettato su base annua, fa prevedere adesso una contrazione per l'intero 2008 pari a meno 1,8% del Pil.

A confermare la debolezza del Sol Levante, il numero di società quotate alla Borsa di Tokyo che sono fallite dall'inizio dell'anno è salito a quota 31, un record storico dalla fine della seconda guerra mondiale. Il pessimo stato dell'economia nipponica può sorprendere se si considera che il sistema bancario sembra quasi immune dalla contagione dei titoli "tossici" che perseguita le banche occidentali. Ma il tallone d'Achille del Giappone è un altro: malgrado il suo decollo economico abbia preceduto di trent'anni quello cinese, il modello di sviluppo non è mai veramente cambiato e l'economia giapponese resta eccessivamente dipendente dalle esportazioni. Sono state le sofferenze dei giganti dell'export, da Toyota a Sony, a trainare il Giappone nel vortice della recessione euro-americana.

Come la Cina, anche l'India continua a rafforzare la manovra di sostegno della crescita. L'ultimo annuncio è un pacchetto di provvedimenti fiscali e di spesa pubblica pari a 4 miliardi di dollari. Sale così a 60 miliardi di dollari il totale dei provvedimenti annunciati a New Delhi per contrastare gli effetti della recessione globale. Alla politica di bilancio espansiva si aggiunge il continuo calo del costo del denaro: dalla bancarotta Lehman Brothers a oggi la banca centrale indiana ha ridotto del 2,5% i tassi direttivi.

E nell'elettorato indiano non c'è stato un "effetto Mumbai" come molti si aspettavano. Nella tornata di elezioni locali che si è tenuta subito dopo l'attacco terroristico, il partito di governo (il Congresso) ha vinto tre delle cinque consultazioni: Delhi, Rajasthan e Mizoram. Il partito d'opposizione (i nazionalisti indù del Bjp) ha dovuto accontentarsi di conservare gli Stati del Madhya Pradesh e del Chhattisgarh in central India. Il Bjp aveva tentato di sfruttare la tragedia di Mumbai accusando il Congresso di avere trascurato la sicurezza. Le elezioni nei cinque Stati erano un test importante in vista del rinnovo del Parlamento federale: il voto nazionale dovrà tenersi al più tardi nel maggio 2009.


(9 dicembre 2008)
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 11, 2008, 11:13:28 am »

Rubriche » La piazza asiatica     

Il modello cinese cambia vestito

Federico Rampini.


La competitività del made in China basata sui bassi salari è un modello in via di graduale superamento. La Cina diventerà entro il 2012 il numero uno mondiale nel numero di nuovi brevetti tecnologici internazionali depositati, raccogliendo i frutti dello sforzo compiuto attraverso gli investimenti nella ricerca e nell'innovazione.

E' la conclusione a cui giunge il rapporto pubblicato da Thomson Reuters-World IP Today con il titolo: "Patented in China -- The Present and Future State of Innovation in China".

Lo studio indica che il modello di sviluppo cinese sta rapidamente modificando le sue priorità, con uno spostamento di risorse dai settori tradizionali come l'agricoltura e la manifattura ad alta intensità di lavoro, in favore di attività più innovative. Oltre al consistente aumento degli investimenti pubblici nelle università e nella ricerca scientifica e tecnologica, il governo ha introdotto da anni importanti incentivi fiscali e monetari per spingere le imprese a sviluppare innovazioni al loro interno.

Stati Uniti, Giappone, Europa, Cina e Corea del Sud rappresentano assieme il 75% di tutti i brevetti internazionali depositati nel mondo. All'interno di questo gruppo tuttavia negli ultimi cinque anni la velocità di crescita dei brevetti cinesi ha nettamente surclassato ogni altra zona. L'ufficio brevetti internazionali cinese è già il terzo del mondo per le invenzioni depositate e la sua ascesa verso il primato assoluto a questo ritmo sarà cosa fatta entro quattro anni.

Malgrado i venti di recessione il venture capital non ha smesso di sentire l'attrazione fatale verso la Cina. Almeno fino al terzo trimestre di questo anno gli investimenti di venture capital nella Repubblica Popolare hanno continuato a salire a ritmi robusti: da luglio a settembre sono affluiti nuovi investimenti pari a 964 milioni di dollari, in aumento del 22% sullo stesso trimestre del 2007. Nei primi nove mesi del 2008 il volume complessivo di fondi di venture capital investiti in Cina ha raggiunto 3,29 miliardi di dollari, superando quello che era stato il precedente record storico (ma su 12 mesi) di 2,88 miliardi nel 2001.

(11 dicembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 15, 2008, 12:20:44 pm »

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L'alleanza Tokyo-Pechino per proteggere la Corea


Federico Rampini
 

La paura della recessione ha fatto il miracolo: è nata una santa alleanza anti-crisi fra Cina, Giappone e Corea del Sud, tre paesi che hanno passato l'ultimo mezzo secolo a guardarsi in cagnesco e diffidare l'uno degli altri. Per la prima volta nella storia, nel weekend si è riunito in Giappone un vertice a tre, con i primi ministri nipponico e cinese e il presidente sucoreano. All'ordine del giorno, la concertazione delle manovre pubbliche dei tre paesi per sostenere la crescita.

Nessuna decisione concreta è stata presa che possa assomigliare ad un maxipiano asiatico (non c'era da aspettarselo). Tuttavia il summit ha sancito un accordo che invece è di una concretezza immediata: una rete di currency swaps fra le tre banche centrali che crea un dispositivo di mutuo soccorso. E' un passo importante. Dietro si intravvede il timore che questa crisi globale possa mettere in serie difficoltà l'anello più debole della neonata triplice alleanza: la Corea del Sud già da settimane subisce attacchi speculativi contro la sua moneta nazionale, fughe di capitali e svalutazioni. Né Pechino né Tokyo hanno interesse a stare alla finestra se affonda la Corea del Sud, importante partner commerciale e nona potenza industriale del pianeta. Gli accordi di currency swaps sono quindi, anzitutto, un messaggio forte lanciato ai mercati: dietro alla Corea del Sud ora ci sono le due banche centrali più ricche del pianeta. La cinese e la giapponese insieme "pesano" per più di 3.000 miliardi di riserve valutarie. Adesso quelle risorse possono essere mobilitate istantaneamente per interventi di sostegno della moneta sudcoreana.

Un altro miracolo politico è stato, se non provocato, almeno accelerato dai timori della crisi. Questo riguarda le relazioni fra la Cina continentale e Taiwan. Da oggi partono alla grande i collegamenti diretti con l'isola: 16 voli passeggeri nonstop al giorno; via libera anche al primo collegamento nonstop per i voli cargo, da Guangzhou (Canton) a Taipei; inaugurazione di rotte dirette per la navigazione mercantile fra 63 porti della Repubblica navale e 11 a Taiwan; lancio del servizio di recapito postale diretto. Prima per ragioni politiche la maggior parte dei collegamenti dovevano transitare da "zone terze", in particolare Hong Kong (che appartiene alla Cina ma ha lo statuto di Regione amministrativa speciale con molte diversità e privilegi).

Questo balzo in avanti nel disgelo fra Pechino e Taipei è un'evoluzione politica che matura da mesi, per la precisione da quando gli elettori taiwanesi hanno scelto un presidente meno apertamente indipendentista. Tuttavia la crisi economica ha fatto la sua parte. I dirigenti politici sulle due sponde dello Stretto hanno capito che in una fase come questa tutto ciò che può dare slancio al commercio estero e agli investimenti internazionali è manna dal cielo.

(15 dicembre 2008)
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 02, 2009, 04:15:12 pm »


1 Gen 2009


Un ricordo di Huntington

FEDERICO RAMPINI


Sobbalzò quando provai a definirlo un neoconservatore. Non amava essere messo nel mucchio con Paul Wolfowitz, William Kristol e Richard Perle, cioè quei falchi che ebbero un ruolo cruciale nel teorizzare la guerra in Iraq. Volle che mettessi nero su bianco la sua presa di distanza nell’ultimo colloquio che ebbi con lui per Repubblica, nel 2004.

«Io mi definisco un conservatore tout court – mi disse Huntington – . Anzi, scriva pure che sono un conservatore all’ antica. Il termine neocon si riferisce a persone e idee impegnate a promuovere un’ economia liberista e a ridurre l’ intervento dello Stato. In politica estera negli anni Settanta e Ottanta i neocon predicavano il braccio di ferro con l’ Urss. Ispirarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Dal crollo dell’ Unione sovietica in poi, essi hanno voluto un’ America attiva nel diffondere la democrazia e l’ economia di mercato in tutto il mondo. Un conservatore tradizionale come me vede il mondo in termini di equilibrio di poteri, e non ha simpatie per le potenze imperiali».

Più ancora dell’etichetta neocon, ricordo che lo preoccupava il “processo” morale a cui era stato sottoposto dopo l’11 settembre 2001. La sua più celebre intuizione era stata rovesciata contro di lui, diventando quasi un corpo di reato. L’opinione progressista e liberal lo additava come il vero ispiratore dei toni da crociata usati da George Bush nelle prime reazioni dopo l’attacco alle Torri gemelle.

Il suo libro del 1996 “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (pubblicato in Italia da Garzanti), fu riletto come una teorizzazione dell’ inevitabilità del conflitto tra Occidente e Islam. Come spesso accade in questi casi, il successo ha un prezzo: la sua opera più famosa venne citata regolarmente, e polemicamente, da chi non l’aveva mai letta. Il suo scontro delle civiltà venne riscoperto come la classica profezia che si auto-avvera: l’ idea che il conflitto tra “noi” e “loro” è ineluttabile, quindi in ultima istanza la visione di Bush di una guerra mondiale tra il bene e il male. Huntington mi offrì una confutazione sdegnata.

«Nessuna profezia è capace di avverarsi da sola, tutto dipende da come la gente reagisce alla profezia stessa. Mi spiego: negli anni Cinquanta e Sessanta molti leader politici intelligenti, diversi diplomatici ed esperti militari prevedevano l’ inevitabilità di una guerra atomica tra Stati Uniti e Unione sovietica. La guerra non avvenne perché quella profezia fu presa così sul serio da provocare una serie di rimedi preventivi e contromisure: politiche di controllo degli armamenti, una linea rossa di comunicazione d’ emergenza tra la Casa Bianca e il Cremlino, più alcune regole di comportamento che bene o male furono seguite dalle due superpotenze durante la guerra fredda. Nel mio saggio sullo scontro delle civiltà ho indicato alcuni conflitti che all’epoca apparivano minori, e ho avvertito il pericolo che essi degenerassero fino a diventare grandi conflitti. Concludevo quel libro proprio esortando i governi ad agire per prevenire quello scenario».

A conforto di quelle parole ricordo la sua netta dissociazione verso il conflitto in Iraq, una scelta con cui Huntington ruppe i legami con quasi tutta la destra americana (rimase però legato fino all’ultimo con Francis Fukuyama, il suo allievo più fedele anche nella condanna della politica estera di Bush-Cheney). Quella rottura, Huntington ebbe il coraggio di consumarla in tempi non sospetti: nel 2002, quando l’America era ancora compatta nel sostenere il suo presidente, e perfino molti leader democratici (da Hillary Clinton in giù) si apprestavano ad appoggiare l’invasione di Bagdad.

«Esattamente un anno prima che cominciasse l’ attacco – mi disse – io mi opposi ai piani che già venivano discussi alla Casa Bianca. Allora prevedevo che avremmo avuto non una ma due guerre. La prima, contro Saddam, l’ avremmo vinta rapidamente. La seconda guerra invece ci avrebbe opposti al popolo iracheno». Altrettanto decisa fu la sua condanna di Guantanamo e Abu Ghraib. «Le fotografie delle torture, in particolare le umiliazioni sessuali, rafforzano nei paesi arabi la convinzione di essere vittime, il senso di rivolta contro un Occidente depravato».

Pensatore austero, analista rigoroso delle relazioni internazionali, Huntington non era a suo agio nel ruolo di star. Dopo aver rotto con l’intellighenzia di destra non fece nulla per accattivarsi le simpatie della sinistra. Al contrario, il suo ultimo saggio importante – “Who Are We?” (Chi siamo?) – gli creò intorno un vuoto di consensi. Quel grido di allarme contro il pericolo che un’ immigrazione incontrollata alteri l’ identità e i valori della nazione americana non era accettabile in campo democratico, ma neppure tra la maggioranza dei repubblicani (da Bush a McCain tradizionalmente favorevoli all’immigrazione perché sensibili agli interessi delle imprese).

Ma anche quel saggio fu in larga parte frainteso. Che non fosse un banale manifesto xenofobo o isolazionista, lo dimostra ciò che Huntington mi disse sull’immigrazione islamica in Europa. «La bassa crescita demografica europea non vi lascia alternativa, se non quella di cercare di assimilare gli immigrati. L’ esperienza americana del Novecento offre a voi europei delle lezioni importanti per le politiche di integrazione. Gli immigrati che provengono da culture diverse devono essere dispersi nel territorio. Bisogna spezzare le loro comunità, allo scopo di diffonderli e mescolarli con il resto della popolazione, negli stessi quartieri dove abitate voi. In passato per gli immigrati cattolici o ebrei in America la dispersione ebbe un ruolo notevole». Rimaneva convinto però che un blocco dei flussi in entrata potesse diventare necessario in certi periodi storici.

«L’ assimilazione degli immigrati che erano giunti qui in America dall’ Europa del Sud o dell’ Est prima della prima guerra mondiale, fu aiutata dal fatto che negli anni Venti ci fu un vero e proprio blocco delle frontiere. I flussi migratori verso gli Stati Uniti furono stoppati per legge durante un periodo consistente. Quindi quegli immigrati che c’ erano già, anziché essere rafforzati dal costante arrivo di altri connazionali, dovettero fondersi nella società americana».

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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 07, 2009, 04:47:19 pm »

Braccio di ferro Mosca-Kiev, l'Europa resta senza rifornimenti russi

La Ue oggi sconta la mancata costruzione di un mercato unico del gas

Bruxelles presa in ostaggio paga le divisioni interne

di FEDERICO RAMPINI

 
LA puntualità è sospetta. Un'ondata di gelo polare attanaglia l'Europa. Subito esplode la lite Mosca-Kiev; la penuria "politica" del gas russo con cui ci riscaldiamo e produciamo corrente elettrica. La crisi coglie l'Italia sorprendentemente impreparata, anello debole di una Unione europea anch'essa colpevole di imprevidenza. Ieri i volumi di fornitura di gas russo al nostro paese sono crollati del 90% rivelando la nostra fragilità. Siamo uno dei paesi più dipendenti da Gazprom. Non consola trovarsi in compagnia di ex-satelliti dell'Unione sovietica come la Slovenia e l'Ungheria. Né rassicurano le parole del ministro Scajola che annuncia "riserve sufficienti per alcune settimane".

L'inverno è ancora lungo, altri paesi hanno in stoccaggio scorte strategiche valide per mesi.
Visto che questa crisi sembra un remake del braccio di ferro tra Russia e Ucraina nel gennaio 2006, il Financial Times ricorda la massima di Karl Marx secondo cui "la storia si ripete prima sotto forma di tragedia poi di farsa". L'umorismo si addice agli inglesi, che grazie ai giacimenti del Mare del Nord sono autosufficienti in gas naturale. Per noi continentali è più tragico che farsesco scoprire che a tre anni di distanza nulla è cambiato nelle nostre fonti di approvvigionamento. Un quarto di tutto il gas continua a venire dalla Russia. E l'80% di quella fornitura continua a traversare l'inaffidabile Ucraina.

Il conflitto tra Mosca e Kiev sull'energia ha origini storiche. Il gasdotto che traversa l'Ucraina fu costruito quando questa faceva ancora parte dell'Unione sovietica e quindi subiva i diktat del Cremlino. Dopo la fine dell'Urss gli ucraini hanno conservato un lascito ereditario e una servitù di passaggio. Il lascito positivo è un prezzo politico del gas, inferiore fino a ieri alle quotazioni del libero mercato. Il privilegio lo pagano ospitando sul loro territorio un'imponente autostrada di tubature, il pipeline strategico che Mosca usa per procurarsi valuta pregiata vendendo il gas all'Europa occidentale.

A intermittenza, di solito dopo abbondanti nevicate e temperature sottozero, Gazprom si "ricorda" improvvisamente che gli ucraini pagano il gas troppo poco e gli chiude il rubinetto. I dirigenti di Kiev reagiscono servendosi da soli, cioè rubando dalle megacondutture il gas destinato a noi. E l'Unione europea viene presa in ostaggio.

Dietro le ragioni commerciali Mosca ha motivazioni politiche. L'ultimo braccio di ferro sul gas con gli ucraini fu una plateale interferenza politica. Nostalgici dell'impero sovietico, Putin e Medvedev hanno tentato di ostacolare la formazione a Kiev di un governo filo-occidentale. I rubinetti del gas vennero chiusi subito dopo le elezioni ucraine.

L'episodio attuale è probabilmente una vendetta a freddo - è il caso di dirlo - per far pagare a Kiev il suo appoggio politico alla Georgia durante il conflitto dell'estate scorsa.

Ma se il regime russo è una caricatura grottesca e feroce della democrazia, l'Ucraina non versa in condizioni molto migliori. Ha un presidente e un premier impegnati in una lotta fratricida, il Pil in caduta libera (meno 14%), la bancarotta di Stato rinviata momentaneamente grazie a un prestito d'urgenza (16,4 miliardi di dollari) del Fondo monetario. Perfino la sua banca centrale è lambita da pesanti sospetti di corruzione.

I remake dei film non sempre hanno il successo dell'originale. La Russia sta esaurendo rapidamente la sua capacità di usare il ricatto energetico per ricostruirsi una sfera d'influenza imperiale. La rendita gas-petrolifera si assottiglia a vista d'occhio. Noi europei stiamo ancora pagando il gas russo intorno a 500 dollari per mille metri cubi, in virtù di contratti a lunga scadenza firmati quando i costi energetici erano ai massimi storici. Ma quei contratti hanno clausole d'indicizzazione che adattano il prezzo del gas a quello del petrolio, con sei o dodici mesi di ritardo.

Le casse del Tesoro di Mosca, come il rublo, stanno soffrendo. Una nuova bancarotta di Stato della Russia (o il crac di pezzi portanti della sua industria di Stato) non è un evento impossibile nel corso del 2009. La recessione globale rivela gli errori strategici compiuti da Putin-Medvedev e dai loro oligarchi. Hanno sprecato gli anni delle vacche grasse, trascurando di investire nella scoperta di nuovi giacimenti e nelle infrastrutture di trasporto dell'energia. Per non parlare della mediocre situazione socio-economica della maggioranza dei loro connazionali, appena sfiorati dal benessere del boom.

I russi pagheranno presto una politica arrogante e di corto respiro per la quale vengono a mancargli le risorse finanziarie. E' una magra consolazione per l'Europa occidentale, che ha dimostrato una pericolosa miopìa. Anzitutto per la viltà da noi praticata quando l'Orso russo sembrava irresistibile; donde la sostanziale rinuncia a sostenere la costruzione di una democrazia sana in Ucraina e in altre nazioni dell'ex impero sovietico.

Anche nel settore dell'energia abbiamo colpe serie. Come il ritardo nel completare il progetto Nabucco, cioè la rete di gasdotti che attraverso i Balcani e la Turchia devono consentirci un accesso diretto al gas dell'Asia centrale, riducendo la nostra dipendenza da quello russo. E' imperdonabile la mancata costruzione di un vero mercato unico europeo del gas, che doveva fluidificare la circolazione dentro l'Unione e quindi consentire di ovviare rapidamente ai deficit energetici congiunturali di questo o quel paese. Su tutto pesa l'ombra di giganteschi e inconfessabili conflitti d'interessi: negli anni del suo boom Gazprom ha notoriamente "reinvestito" una parte della rendita per garantirsi i favori di importanti leader politici europei.

Ora l'Unione si ritrova catapultata nell'improbabile ruolo di mediatore tra Mosca e Kiev, per garantire che il gas torni presto ad affluire in casa nostra. Come per il Medio Oriente anche questa crisi sembra fatta su misura per esaltare le nostre divisioni interne. Come al solito c'è un fronte del sorriso che ama dire sempre di sì a Mosca. E c'è un fronte che vorrebbe affrontare i russi a muso duro, ma non ne ha i mezzi.

(7 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 20, 2009, 05:03:02 pm »

ECONOMIA      L'ANALISI

Il fantasma di Londra

di FEDERICO RAMPINI


Recessione dell'economia reale, frana della finanza pubblica, recrudescenza di dissesti bancari: in questo "triangolo delle Bermude" la crisi si avvita di nuovo a ritmi convulsi. Il deficit italiano è in brusca risalita al 3,8%, il debito viaggia verso il 110% del Pil. Rischia di esplodere ben oltre quel livello, qualora - l'ipotesi è della Commissione europea - anche l'Italia sia "costretta a ricapitalizzare qualche banca in crisi", come sta facendo Londra in preda a una nuova emergenza. Si conferma per il 2009 una brutale decrescita in Italia e nell'Eurozona: meno 2% del Pil.
In un biennio la nostra disoccupazione arriverà a minacciare quasi un lavoratore italiano ogni dieci. C'è un nesso implacabile tra i gravissimi costi sociali e la crisi delle banche. La finanza malata, su cui finora si è intervenuti con terapie inefficaci, continua a trascinarci a picco.

In Inghilterra crolla la Royal Bank of Scotland ma i tremori si allargano a Lloyds Banking; non sono al sicuro Barclays e Hsbc. L'insieme degli attivi delle banche inglesi vale 4.000 miliardi di sterline, due volte e mezzo il Pil britannico. Basta che il 15% dei titoli custoditi nei bilanci di quelle banche valgano zero, e un terzo del Pil inglese va in fumo. Questa aritmetica spinge il Financial Times fino a ventilare il rischio di bancarotta sovrana per il Regno Unito. Ma anche senza arrivare allo scenario estremo dell'insolvenza statale, il salvataggio delle banche può portare il debito pubblico inglese ai livelli della Grecia. L'arrivo di un membro così illustre nel club dei Pigs (Italia Spagna Grecia Portogallo) non sarebbe una buona notizia per noi. Anzi, si riaffaccia lo spettro del 1992, quando Roma e Londra precipitarono assieme in una drammatica crisi di sfiducia dei mercati, facendo esplodere gli interessi sul nostro debito pubblico. Più si ingrossa la lista degli stati fragili, più i mercati diventano diffidenti e i capitali fuggono verso poche oasi: i buoni del Tesoro americani o tedeschi.

Siamo daccapo all'ottobre del 2008, si riparte da zero. Tre mesi fa una catena di insolvenze bancarie spinse sull'orlo del baratro la finanza globale. Ai primi di ottobre l'America annaspava col piano Paulson, 700 miliardi di dollari per resuscitare le banche. Quel progetto di ricomprare i titoli-spazzatura coi fondi del contribuente finì in un vicolo cieco. L'Inghilterra sembrò aver trovato la soluzione: ricapitalizzare direttamente gli istituti di credito, con una nazionalizzazione parziale. Gordon Brown gettò sul piatto 500 miliardi di sterline fra iniezioni dirette di capitale pubblico nelle banche, prestiti straordinari della banca centrale, e altre garanzie di Stato. Molti lo imitarono, compresa l'America. In tre mesi quei fondi sono spariti in un buco nero.
Ieri Londra era di nuovo sull'orlo del precipizio. Giovedì un allarme parallelo era già scoppiato negli Stati Uniti, dove i due giganti Bank of America e Citigroup hanno rivelato nuove voragini di perdite. Giovedì il Tesoro di Washington in stato di allerta ha dovuto staccare in pochi minuti un nuovo assegno da 20 miliardi per Bank of America, e accollarsi altri 100 miliardi di future perdite dell'istituto sui titoli-spazzatura.

Mentre Obama celebra il suo ingresso alla Casa Bianca la sua task force economica deve già entrare in sala operatoria e intervenire sul malato a cuore aperto. In America e in Europa è ormai chiaro che sono stati compiuti errori imperdonabili, dopo la falsa tregua di ottobre. I massicci aiuti alle banche non sono stati accompagnati da vincoli stringenti per obbligare i banchieri a redistribuire il favore, cioè a riprendere l'erogazione del credito all'economia reale. Inoltre l'eccessiva autonomia lasciata ai banchieri ha prolungato la mancanza di trasparenza sui bilanci.
Donde le clamorose sorprese di buchi sempre nuovi e crescenti. Qui sta il punto di congiunzione perverso con le sofferenze dell'economia reale, il crollo della produzione, dei consumi, i licenziamenti di massa. Da un lato la crisi del mondo finanziario pesa sui conti pubblici, fa esplodere i deficit statali, impaurisce i risparmiatori. D'altro lato lo "sciopero dei banchieri" continua a privare il settore produttivo della linfa vitale che è il credito. Ora in America torna d'attualità il piano che prevedeva di svuotare l'ascesso comprando alle banche i loro titoli invendibili sui mercati. Forse saranno parcheggiati in una enorme bad bank di stato, una sorta di deposito di scorie radioattive. Gordon Brown non esclude quella ricetta ma intanto spinge ancora più avanti la nazionalizzazione, che nel caso della Royal Bank of Scotland diventa totale. Resta l'urgenza di fissare obblighi per il settore bancario, che ha tradito la sua ragion d'essere. L'immenso sperpero di denaro pubblico, che pagheremo per generazioni, deve almeno servire a qualcosa. In quanto all'Italia, è finita l'illusione che sia meno esposta perché finora "periferica" nello tsunami bancario. I dati sulla finanza pubblica, l'allarme sul rischio sovrano, ci dicono che la campana suona anche per noi.

(20 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:52:12 pm »

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Federico Rampini


Tokyo, crollo inarrestabile e il governo entra in campo


DI fronte alla frana inarrestabile dell'indice Nikkei, torna ad affacciarsi in Giappone l'ipotesi di un intervento diretto del governo per comprare azioni in Borsa e tentare così di arginare la caduta delle quotazioni, che tra l'altro ha effetti deleteri sulla stabilità delle banche nipponiche.

E' il ministro delle Finanze Kaoru Yosano ad aver ventilato questa possibilità evocando "misure statali a sostegno del mercato" che oggi ha toccato i minimi da 27 anni precipitando al livello del 1982. Tenuto conto che gli istituti di credito giapponesi possiedono importanti portafogli azionari, il ministro Yosano ha dichiarato che "la continua caduta delle azioni può avere conseguenze serie, abbiamo iniziato l'esame delle possibili azioni". Diversi esponenti del mondo industriale hanno rivolto appelli al governo perché entri in campo. Un lontano precedente risale al 1965, quando Tokyo istituì un organismo pubblico per acquistare azioni in Borsa.

L'ipotesi di investimenti pubblici nell'acquisto di azioni si aggiunge a un altro intervento già in cantiere: la banca centrale del Giappone ha in progetto di comprare fino a 1.000 miliardi di yen (oltre 10 miliardi di dollari Usa) in obbligazioni emesse da imprese nipponiche. Le obbligazioni dovrebbero avere almeno un rating "A". Questo intervento della Banca del Giappone, che equivale a finanziare direttamente le imprese senza passare attraverso i normali istituti di credito, imita analoghe azioni già avviate negli Stati Uniti dalla Federal Reserve. La banca centrale nipponica ha anche in progetto di acquistare fino a 3.000 miliardi di yen di commercial paper, titoli a breve termine emessi dalle aziende industriali per il finanziamento dell'attività corrente.

In Cina per la prima volta la banca centrale lancia l'allarme deflazione. L'autorità monetaria di Pechino ha ammonito che "di fronte alla debolezza della domanda le spinte inflazionistiche sono esaurite mentre si rafforzano le pressioni al ribasso dei prezzi". A gennaio l'indice dei prezzi alla produzione in Cina è calato del 3,3%.

(24 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:35:58 pm »

ECONOMIA     

Il Pil americano al 6,2%: è stato il venerdì nero dell'economia reale

Difficile ritrovare nella memoria una giornata così densa di segnali negativi

Il bisturi spuntato

di FEDERICO RAMPINI



È stato il "venerdì nero" dell'economia reale, un malato ben più importante delle banche e delle Borse. È difficile ritrovare nella memoria una giornata così densa di segnali tutti negativi da ogni angolo del pianeta. Il Pil americano è caduto del 6,2% (quasi il doppio rispetto alle stime iniziali), i consumi delle famiglie Usa sono in ritirata del 4,3% insieme alla frana dei prezzi delle case. In Giappone le esportazioni sono falcidiate del 45% e la produzione industriale del 10%. L'India, uno degli ultimi giganti asiatici con il segno più davanti al Pil, vede dimezzarsi la sua crescita. Sul fronte delle aziende: 30 miliardi di dollari di perdite alla General Motors, 16.000 licenziamenti alla Sony. E alle porte di casa nostra i sinistri scricchiolìi di bancarotta sovrana che minacciano i più giovani Stati membri dell'Unione, nell'Europa dell'Est.

Volendo trovare ad ogni costo un chiodo a cui aggrapparsi per attenuare l'ansia, si può osservare che la pesante revisione al ribasso del Pil americano ci descrive un evento che ormai è già alle nostre spalle. I dati sul Pil sono uno specchietto retrovisore sul recente passato (l'ultimo trimestre del 2008), non ci insegnano nulla di nuovo sul presente né tantomeno sul futuro. Si può anche ricordare che per ritrovare una caduta del Pil americano così accentuata non occorre evocare la Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo semestre del 1982 l'America ebbe una de-crescita del 6,4% eppure non conserviamo un ricordo tragico di quella recessione.

Purtroppo c'è una differenza cruciale rispetto ai primi anni Ottanta (che pure videro la concomitanza di importanti fallimenti bancari, le Savings & Loans). Allora non ci fu quella eccezionale simultaneità nella crisi che oggi contagia tutte le aree del mondo. America, Europa, Giappone, dragoni del Sudest asiatico, Russia, Opec, vanno tutti a fondo contemporaneamente. È la ragione per cui questa viene pronosticata come una recessione durevole. Secondo tutte le istituzioni internazionali sarà la più lunga dal dopoguerra.

Poche nazioni finora hanno reagito con provvedimenti all'altezza di questo shock. Solo gli Stati Uniti e la Cina hanno varato manovre di spesa pubblica consistenti in proporzione ai rispettivi Pil. E perfino quelle rischiano di non bastare. L'America, dove si gioca la partita decisiva, sentirà nel tessuto economico-sociale i primi frutti della terapia Obama (787 miliardi di dollari di spesa) solo a partire dalla seconda metà dell'anno. Per allora la recessione avrà già inferto ferite nuove e profonde. Si renderà probabilmente necessaria una seconda cura a base di iniezioni di spesa statale. Uno sforzo immane, se si pensa che già oggi il deficit federale americano viaggia verso il 12% del Pil, ai livelli della seconda guerra mondiale.

Obama sente il bisogno di rassicurare i mercati finanziari - dove deve piazzare una marea di nuovi titoli del debito pubblico - e quindi promette una riduzione del deficit in tempi ragionevoli. Impossibile: l'orizzonte di durata di questa crisi gli imporrà una prolungata "overdose" di spesa pubblica per compensare la ritirata dei consumi e degli investimenti privati. La sua azione è complicata dal persistente collasso del credito. Qui il team di Obama continua a peccare di timidezza. Non osa pronunciare la parola "nazionalizzazione" neppure nel giorno in cui lo Stato diventa il principale azionista del colosso Citigroup col 36% del capitale.

Una certa ritrosìa è comprensibile: Obama sta già facendo uno strappo al giorno rispetto a trent'anni di pensiero unico neoliberista, in un paese dove il candidato repubblicano che lo accusava di "socialismo" prese comunque il 46% alle presidenziali. Ma la lentezza nell'affondare il bisturi dentro il sistema bancario ha dei prezzi pesanti. Ogni salvataggio parziale (Fannie e Freddie, Aig, Citigroup) ha un conto che continua a crescere all'infinito. I mercati s'interrogano su quale sarà la prossima "nazionalizzazione non-detta": Bank of America? Intanto si avvicina il momento in cui si abbatterà sui conti del sistema creditizio una nuova marea di dissesti, non più i vecchi titoli tossici legati al mercato immobiliare ma i nuovi fallimenti di aziende industriali. La frana dell'economia reale si prenderà a sua volta una crudele rivincita su quelle banche che furono all'origine della crisi.

Come Franklin Roosevelt nei celebri "cento giorni" del 1933, Obama è costretto a muoversi su due livelli paralleli: tappare falle in estrema urgenza, e al tempo stesso varare i cantieri delle grandi riforme che affrontino le debolezze strutturali del sistema americano. La fretta moltiplica le occasioni di errori. Roosevelt ne commise molti. Il più grave fu il ripiegamento dell'America su se stessa. Non solo attraverso il protezionismo ma anche nella manipolazione della politica monetaria il New Deal fu pervicacemente introverso e nazionalista. Oggi gli Stati Uniti non possono permettersi una simile deviazione. Sono molto meno autosufficienti che negli anni Trenta, hanno bisogno dei capitali cinesi per il loro debito, del mercato europeo per le loro esportazioni.

L'Unione europea non è ancora uscita dal torpore; non offre una sponda reale in questa crisi. I piani di rilancio della domanda nel Vecchio continente sono ancora modesti, frammentari, incoerenti, macchiati di protezionismo. Non c'è stata finora una risposta energica per organizzare il salvataggio dei vicini più deboli, in quell'Europa orientale e balcanica da cui può partire un improvviso effetto-domino, crac finanziari seguiti da agitazioni sociali e instabilità politica. Dobbiamo fare la nostra parte al più presto: perché l'esperimento Obama abbia il successo finale del New Deal senza riprodurne i costi; e per evitare che dalla conclusione di questa lunga crisi emerga un G-2 sino-americano che non avrà mai più bisogno di noi.

(28 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 03, 2009, 05:22:38 pm »

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Dubai, scoppia la bolla immobiliare

Federico Rampini.


E' scoppiata la bolla immobiliare di Dubai: il valore delle case crolla, molti cantieri sono stati chiusi a lavori incompiuti per l'insolvenza dei costruttori, e il sistema creditizio locale mostra segni di gravi difficoltà. Nei sette Stati che fanno parte degli Emirati arabi uniti sono stati cancellati 250 miliardi di dollari di progetti edilizi, la maggior parte dei quali erano concentrati a Dubai. Dalla crisi non sono immuni neppure i gruppi edilizi di proprietà statale, come Nakheel e Emaar. E' di fatto congelato anche il completamento del Dubai World Trade Center. Di fronte a queste notizie lascia perplessi l'annuncio - fatto ieri dal governo indonesiano al vertice internazionale della finanza islamica - secondo cui le banche islamiche sarebbero meno vulnerabili in questa crisi.

Il governo giapponese ha deciso di attingere alle riserve ufficiali della sua banca centrale (circa 1.000 miliardi di dollari, la seconda riserva più ricca del mondo dopo la Cina) per fornire prestiti a tassi agevolati alle aziende nipponiche che operano sui mercati internazionali. L'inusuale ricorso alle riserve della banca centrale è motivato dall'estrema difficoltà in cui si trovano gli esportatori giapponesi. 500 miliardi di yen saranno messi subito a disposizione delle imprese esportatrici perché possano fare fronte al finanziamento della propria attività quotidiana sui mercati esteri. Intanto la Toyota ha rivelato per la prima volta che chiederà ufficialmente di poter ricevere aiuti governativi da Washington, per la filiale finanziaria (credito all'acquisto rateale) che opera per i suoi stabilimenti situati negli Stati Uniti.

Il renminbi (o yuan) cinese ha subìto per il sesto giorno consecutivo un declino nella parità con il dollaro. Oggi ha toccato i 6,8392 renminbi per un dollaro Usa. La valuta della Repubblica Popolare fluttua entro una banda di oscillazione dello 0,5% quotidiano. Dal 2005 ha smesso di essere agganciata al dollaro, e fino a questa recente scivolata si era lentamente rivalutata, del 20% in tre anni rispetto al dollaro. La parità con l'euro oggi è a quota 8,5962. La moneta cinese non sfugge alla generale debolezza delle valute asiatiche che favorisce il dollaro.

(3 marzo 2009)
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