Admin
|
 |
« Risposta #181 inserito:: Gennaio 20, 2021, 12:02:54 am » |
|
Rep: Outlook di Federico Rampini
19 gennaio 2021
È il grafico che un italiano non vorrebbe mai vedere. È in prima pagina sul Wall Street Journal di oggi. Illustra la crescita economica nel 2020, per le 12 economie più ricche del pianeta. Annus Horribilis visto che il Pil mondiale è sceso del 4,4%. Però le performance delle varie economie divergono. E l’Italia è proprio l’ultima, 12esima su 12, dietro l’India. La Cina è prima ed è l’unica a finire col segno più, in crescita del 2,3%. È la vincitrice del 2020 e questo continua ad avere conseguenze economiche e geopolitiche rilevanti, sullo scenario della nuova guerra fredda tra le due superpotenze. Dietro la Cina, altre due nazioni dell’Estremo Oriente, Corea del Sud e Giappone figurano nel quintetto di testa, nel 2020 hanno avuto Pil negativi ma sono riuscite a contenere i danni. In parte lo devono alla loro efficienza sanitaria nel contenere il Covid, in parte alla loro integrazione con l’economia cinese. Gli Stati Uniti se la cavano meno peggio di tutte le altre economie occidentali, Canada incluso. Il Pil americano ha perso il 4,3% nel 2020, il che significa una performance di quasi 7 punti inferiore alla Cina. Però l’America è quarta in classifica e distanzia tutti gli europei. La Germania, prima della classe in Europa, ha avuto due punti di crescita in meno degli Stati Uniti.
Non vi è una ragione unica per cui l’America è riuscita a subire un danno meno pesante dell’Europa. L’economia Usa viene da un lungo periodo di maggiore dinamismo, seppe riprendersi prima e meglio dell’Europa dalla crisi del 2008; ha un ambiente fiscale e normativo più favorevole all’attività d’impresa e alla creazione di lavoro; ha una politica monetaria più aggressiva in favore della crescita. L’altro fattore che ha contribuito senza dubbio nel 2020 è stato il vigore delle manovre di spesa pubblica, concordate fra Donald Trump, la Camera a maggioranza democratica, il Senato a maggioranza repubblicana. Le stime quantitative sulle dimensioni precise di quelle manovre variano molto, a seconda di quello che si vuole considerare dentro o fuori, quello che si considera spesa d’emergenza o spesa ordinaria. Io in questa newsletter ho adottato una stima molto larga, fatta dal Congressional Budget Office, che arriva a 5.400 miliardi di dollari, pari al 25% del Pil. Altri considerano che le manovre di spesa veramente extra, anti-Covid e anti-recessione, sono state la metà. Resta un dato incontestabile, e cioè l’eredità sui conti pubblici: l’indebitamento complessivo (a cui ha contribuito anche il calo di gettito fiscale) è aumentato facendo salire l’ammontare di titoli del Tesoro di 7 trilioni, ovvero 7.000 miliardi di dollari in un anno. Lo stock di titoli del debito federale ha raggiunto 21,6 trilioni o 21.600 miliardi cioè il 100% del Pil. Non è un livello allarmante per un’economia come quella degli Stati Uniti, visto che Paesi come Italia e Giappone sono da molti anni ben al di sopra di quella soglia, e non hanno neppure l’appannaggio imperiale che ha l’America, cioè la facoltà di emettere titoli in una moneta universale, che il mondo intero considera la più liquida, la più sicura. E tuttavia il debito eguale al Pil per gli americani è una soglia politicamente significativa. In queste ore Janet Yellen, designata da Joe Biden come la futura segretaria al Tesoro, passa gli esami al Senato per la conferma della sua nomina. La stessa Yellen incarna nella sua persona una parabola ideologica molto emblematica. Quando fu la capa dei consiglieri economici della Casa Bianca, sotto Bill Clinton, lei era l’esponente tipica di una sinistra convertita al neoliberismo, favorevole ai trattati di libero scambio, e al rigore nei conti pubblici. Quando Barack Obama la nominò alla guida della Federal Reserve aveva già cominciato una correzione ideologica, un pentimento: riassorbire la disoccupazione creata dalla crisi del 2008 era diventata la priorità, il pareggio dei disavanzi e la lotta all’inflazione passavano in secondo piano. Adesso la Yellen si appresta a guidare il Tesoro in pieno revisionismo: al diavolo l’equilibrio delle finanze pubbliche, bisogna curare una depressione con ogni mezzo possibile. Delle tesi che ancora pochi anni fa erano sostenute solo dalle frange più radicali della sinistra, come Bernie Sanders e i fautori della Modern Monetary Theory, ora sono accettate da tanti democratici più moderati. Non necessariamente da tutti, però. E bisogna vedere quanti repubblicani continueranno a sostenere maxi-manovre di spesa anche ora che non c’è più Trump alla Casa Bianca. Il presidente uscente, infatti, dal punto di vista dell’ideologia economica era più vicino ai democratici che non ai conservatori tradizionali. Il 2021 si apre all’insegna di un “monocolore democratico” visto che il partito di Biden ha conquistato la Casa Bianca e di strettissima misura anche il Senato, oltre a conservare una risicata maggioranza alla Camera. Però per passare grandi manovre di spesa pubblica quelle maggioranze esili rischiano di non bastare. Sono vulnerabili alle defezioni di democratici moderati. E le procedure parlamentari, soprattutto al Senato, rendono molto più agevole l’approvazione di leggi di bilancio con una maggioranza qualificata di 60 senatori su 100. La Yellen dovrà allargare la platea dei convertiti alla bontà dei maxi-deficit.
L’altra superpotenza guarda il mondo intero dall’alto in basso, ma non può ignorare i propri problemi interni. Dietro l’ottima crescita del 2020 affiora una debolezza strutturale pre-esistente, la bassa produttività dell’economia cinese in generale. E quest’ultima si è aggravata via via che Xi Jinping ha aumentato il peso delle grandi imprese pubbliche. I dati che cito sono in un rapporto del Fondo monetario internazionale, secondo cui la produttività media dell’economia cinese è solo il 30% di quella delle altre grandi economie mondiali, cioè Stati Uniti, Giappone e Germania. Certo, in questo dislivello enorme si vede la traccia della storia: la Cina è ancora in parte un’economia emergente, il che significa che alcuni pezzi del suo settore produttivo ereditano arretratezze, capitali insufficienti, macchinari e metodi di produzione basati sulla disponibilità di manodopera a buon mercato. L’agricoltura ha ancora un peso superiore a quello di Paesi di più antica industrializzazione. Ma l’altra causa del notevole ritardo della Cina in termini di produttività è legata al suo modello di sviluppo che Xi ha ulteriormente rafforzato: il ruolo enorme delle grandi imprese di Stato. I calcoli del Fmi dicono che questi conglomerati pubblici in media hanno una produttività che è solo l’80% di quella delle imprese private cinesi. Negli ultimi anni la Cina ha addirittura rallentato i suoi progressi in termini di efficienza aziendale, la crescita della produttività era stata del 3,5% annuo dal 2008 al 2012 ed è calata allo 0,6% dal 2012 al 2017. Questo è legato al fatto che con Xi Jinping – al timone proprio dal 2012 – le grandi aziende di Stato sono tornate al centro delle attenzioni del governo, e il loro peso sull'economia è aumentato. Nel 2018 gli attivi totali delle aziende di Stato valevano il 194% del Pil, più di quanto valessero vent’anni prima e molto più che in qualsiasi altra economia sviluppata. Il modello di “capitalismo politico” che caratterizza la Cina – primato della politica sull’economia, dirigismo, forte ruolo dello Stato – non è solo criticabile dal punto di vista occidentale perché esercita una concorrenza sleale. Per la stessa ragione per cui un’impresa italiana o americana si sente svantaggiata a competere con un’azienda cinese che ha accesso a sussidi pubblici e credito agevolato, anche un’impresa privata cinese subisce la stessa concorrenza sleale. È all’interno della stessa Cina che si svolge una competizione ad armi impari, fra chi gode della benevolenza governativa e chi no.
Washington, 19 gennaio 2021
Ricevi questa e-mail perché hai prestato a GEDI Digital S.r.l., Società controllata del Gruppo GEDI S.p.a., il consenso al trattamento dei dati.
|