Ora e sempre The Donald
Viaggio negli Stati che hanno scelto il loro presidente, per rispondere a una domanda: che cosa pensano oggi? La risposta: lo rivoterebbero. E le promesse mancate? Colpa dei politici L’inquilino della Casa Bianca è malconcio nell’immagine all’estero, ma la sua base tiene
Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI, FOTOGRAFIE DI LUCA MARFÉ
27 ottobre 2017
Ho fatto novemila chilometri, a tappe, per trovare risposte a questa domanda: che cosa pensano di Donald Trump quelli che lo hanno votato, un anno dopo? Degli altri sappiamo tutto. La maggioranza degli americani lo boccia, i sondaggi lo danno sotto il 40% dei consensi. La sinistra lo accusa di avere sdoganato il Ku Klux Klan, di aizzare xenofobia e islamofobia, di sguazzare nei conflitti d’interessi, di sabotare le indagini sulle manovre di Vladimir Putin in campagna elettorale. Come dimostrano due ex presidenti (Barack Obama e George W. Bush) uscendo dal riserbo tradizionale, cresce il timore che l’ex tycoon e showman televisivo stia infliggendo ferite gravi al costume democratico, alla civiltà del dibattito pubblico, al rispetto delle istituzioni. Tutto questo però non scalfisce lo zoccolo duro della sua base elettorale. Non ancora. È il verdetto che riporto da questo lungo viaggio nell’America che lo ha voluto presidente un anno fa. Ho traversato Stati industriali dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Ohio alla West Virginia. Ho ascoltato le loro paure, le sofferenze, l’angoscia e la rabbia. Se sono delusi per le promesse finora disattese – il Muro con il Messico, il protezionismo contro la Cina, l’abolizione del sistema sanitario di Obama – danno la colpa ai politici di mestiere, al Congresso. La rinuncia agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico piace alla sua base. Applaude il linguaggio bellicoso contro la Corea del Nord e l’Iran. La mia puntata al confine con il Messico, mette a dura prova un teorema della sinistra: che l’ispanizzazione etnica conduca inevitabilmente verso un declino dei repubblicani anche nella roccaforte del Texas. Se l’immagine di Trump è sempre più malconcia all’estero e fra quelli che gli erano già contrari un anno fa, non bisogna sottovalutare il suo fiuto: tutto ciò che lui fa, punta a rendere possibile una rielezione “di minoranza”, seguendo la stessa geografia elettorale dell’8 novembre 2016. Trump non fa nulla per conquistare gli altri, lavora a consolidare quella minoranza fedele che – con queste regole elettorali – gli è bastata già una volta.
DETROIT, MICHIGAN: GLI OPERAI
TOLEDO, OHIO: LA CRISI
WEIRTON, WEST VIRGINIA: LE DISEGUAGLIANZE
LAREDO, TEXAS: I MIGRANTI
Detroit, Michigan: gli operai
A che punto è la notte? Un anno dopo l’elezione-shock di Donald Trump, l’America liberal non ha dubbi sul bilancio di una presidenza mostruosa: fallimento totale, tante offese ai valori della democrazia e della Costituzione, pochissimi risultati concreti (e brutti pure quelli). Ma gli elettori di destra, che cosa ne pensano? Sono delusi? Pentiti? Se le promesse non vengono mantenute, con chi se la prendono? Questo viaggio in Trumplandia percorre gli Stati-chiave dove si è giocata la sua “rapina” di collegi elettorali e la beffa ai danni di Hillary Clinton. La mia traversata inizia dal Midwest nella regione dei Grandi Laghi al confine col Canada e si conclude al Sud sulla linea di frontiera Texas-Messico lungo il Rio Grande. In tutto 9.000 km a tappe, fra autostrade e tratte in aereo. Parto da Detroit, Michigan. Dove mi ricongiungo anche ad alcuni personaggi che avevo già incontrato dopo i primi cento giorni dall’Inauguration Day.
Super 8, Rampini tra gli elettori di Trump un anno dopo
Classe operaia di destra. Talvolta ex-democratici convertiti. Metalmeccanici, per lo più. Uomini e donne, bianchi di mezza età. L’elettorato decisivo che un anno fa ha spostato per pochi millimetri l’ago della bilancia è in quest’area del Paese. Lo ritrovo in un’occasione molto speciale. Brian Pannebecker, 57 anni, operaio della Fiat Chrysler, mi dà appuntamento a metà ottobre una domenica mattina davanti allo stadio cittadino di football: il Ford Field dove gioca la squadra locale dei Detroit Lions. Brian è un agnostico del football, infatti mi promette uno spettacolo di tutt’altra natura. Prima della partita, fuori dal campo di gioco. Vuole che io sia testimone di una protesta contro la protesta. “Boycott Nfl!” è la parola d’ordine. Coi suoi compagni di lavoro e altri amici repubblicani, lui contesta i campioni afroamericani di football che in tutta l’America inginocchiandosi all’inizio delle partite hanno inscenato una clamorosa protesta. Quando tutti gli altri stanno in piedi sull’attenti e cantano l’inno nazionale, alcuni giocatori si dissociano. È una ribellione nata all’origine per solidarietà con BlackLivesMatter, il movimento che denuncia le violenze della polizia sui neri. Le immagini di quei gesti di sfida hanno fatto il giro del mondo, è intervenuto Trump a dire che i padroni delle squadre della National Football League (Nfl) dovrebbero punire o licenziare i sediziosi. È una bella mattinata di sole a Detroit, quando all’incrocio tra la Brush Street e la Madison si rovesciano fiumane di spettatori diretti allo stadio. I Detroit Lions ricevono in casa i Carolina Panthers. Le due tifoserie si mescolano bonariamente, fra canti e risate. Le partite di football qui sono uno happening gioioso e pacifico, grandi mangiate e tifo sportivo radunano un pubblico familiare per l’intera domenica.
Tra gli amici di Brian, il baffuto Trucker Randy accoglie i tifosi al passaggio con una bandiera americana e uno striscione: “Stand By The Anthem, Kneel To The Cross”. In piedi per l’inno, in ginocchio davanti alla croce. Così deve comportarsi un vero americano. «Che c’è di male — mi dice — se una volta alla settimana per due minuti ci raccogliamo davanti alla bandiera nazionale? Non possiamo unirci almeno per cantare l’inno, e smetterla per un attimo di essere faziosi?». Pannebecker aggiunge: «Sono un reduce dell’esercito, ho servito la patria sotto le armi e adesso è mio figlio che fa il militare. Quelli che rifiutano l’omaggio alla bandiera ci offendono, è una mancanza di rispetto». Interviene un terzo contro-manifestante, il più pittoresco: Rob Cortis, che nel tempo libero gira l’America con un camion-rimorchio intitolato “TrumpUnity- Bridge”. Sembra un carro di carnevale, ma carico di foto e slogan pro-Trump, tipo “Una Bandiera Una Nazione Un Dio”, “Legge e Ordine”, e il classico “MAGA” che sta per Make America Great Again. Madre tedesca, padre siciliano, Rob ha osato sfidare col suo camion di propaganda repubblicana la manifestazione oceanica delle donne anti- Trump a Washington il giorno dopo l’Inaugurazione presidenziale. A Detroit è venuto pure lui per l’anti-protesta contro i campioni neri del football: «Quegli atleti sono dei multimilionari, delle star che guadagnano cento volte più di noi comuni cittadini. E osano mancare di rispetto ai simboli dell’unità nazionale, dissacrano una bandiera che avvolge le bare dei nostri caduti in guerra». Sono solo un manipolo, forse una dozzina, questi protagonisti della contro-manifestazione. In un momento in cui tanti media nazionali santificano le gesta degli atleti neri contestatori, l’impressione che hai leggendo il New York Times o guardando la Cnn è che la gente stia con i campioni sportivi. Pannebecker, a scanso di rischi, è arrivato allo stadio con un giubbotto antiproiettile. «Mia moglie è preoccupata — dice — e allora ho preso questa precauzione.
Comunque la maglia anti-pallottole non mi proteggerà dai cazzotti, se qualcuno mi aggredisce. Non sono un picchiatore, malgrado l’addestramento militare non ho mai fatto a botte in vita mia». Timori infondati. Non solo l’atmosfera nella folla che affluisce allo stadio è scanzonata e gentile, ma molti simpatizzano proprio con questi contro- manifestanti di destra. La scena si ripete più volte: quando un gruppetto di spettatori bianchi intravede questi operai ed ex-militari coi loro striscioni in difesa dell’inno e della bandiera, gli si avvicinano e li applaudono, li salutano con le cinque dita alzate, o pugno contro pugno: “God bless our veterans”, che Dio benedica i nostri reduci. No, da questo spicchio di tifoseria da stadio che vedo nella capitale dell’automobile, nella città più operaia d’America, la Cnn e il New York Times e il partito democratico non hanno capito cosa sta succedendo. Ancora una volta, l’istinto viscerale di Trump è più in sintonia con gli umori profondi della classe operaia. «Milionari viziati che insultano la bandiera e l’inno», è la frase che sento ripetere da tanti. Quelli che tv e stampa liberal hanno osannato come eroi, nella middle class bianca suscitano solo repulsione. Trump ha capito subito da che parte stare, twittando furiosamente contro i campioni contestatori ha cavalcato e ingigantito una polemica che sembra fatta su misura per lui. (In Europa, con tutte le differenze del caso, immaginatevi se Cristiano Ronaldo entrando in campo indossasse una maglietta con slogan in favore degli immigrati: forse toglierebbe voti alle destre xenofobe? O confermerebbe che il buonismo è un lusso delle élite?).
La sinistra americana a volte sembra credere che le elezioni le vince chi ha l’appoggio dello star-system, chi ha più celebrity dalla sua parte. Ma su quel conteggio Hillary vinceva mille a uno. Diversioni, distrazioni. Quando le cose gli vanno male, Trump è un maestro nel cambiare discorso, inventare polemiche, distogliere l’attenzione. E gli avversari ci cascano sempre. La sua polemica sulla National Football League è da manuale, lui ci si è infilato quando la sua agenda di governo stava girando a vuoto, dopo molteplici tentativi falliti di varare una contro-riforma sanitaria, che cancelli Obamacare e lo sostituisca con qualcos’altro. Dunque, parliamo di cose serie. A fine partita — persa dai padroni di casa, i Lions sono stati sgominati dai Carolina Panthers — raduno alcuni di quei contro-manifestanti trumpiani attorno a un hamburger, nella piazza dello Eastern Market di Detroit. Gli cito un sondaggio nazionale di Usa Today secondo cui per il 57% degli americani Trump “non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale”. Un anno dopo il voto, non vi sembra che il bilancio sia poverissimo, che tra le intenzioni e le cose fatte il divario sia spaventoso? Sheri Townsend, 55 anni, è un’ex operaia che si è messa in proprio come artigiana. «Il nostro problema è il Congresso — dice — non il presidente. Per sette anni i repubblicani ci hanno promesso che avrebbero cancellato la pessima riforma sanitaria di Obama, che ci avrebbero dato una sanità meno statalista, meno costosa.
Ora hanno tutto il potere in mano: Casa Bianca, Congresso, Corte suprema. E non riescono a mettersi d’accordo fra loro sulla nuova sanità. Questi parlamentari tradiscono Trump. Alle prossime primarie, per le legislative del 2018, dovremo mobilitarci per eleggere tra i repubblicani solo quelli leali, fedeli al presidente». Attorno al tavolo approvano tutti. Interviene Gary Frank, 49 anni, ex-metalmeccanico che ora si occupa di formazione: «Senatori e deputati, politici di professione, vogliono che Trump fallisca perché non è uno di loro. Lui è una minaccia per l’establishment, non segue le loro regole». Delle promesse finora mancate, la non-distruzione di Obamacare è cocente. La sanità in questo paese è un problema enorme nella vita di tutti i giorni; è anche un simbolo potente, un discrimine ideologico fra le tribù della politica. Il revival del populismo di destra che preparò il fenomeno Trump, viene da lontano e ha inizio dal Tea Party: quel movimento nasce nel 2009 per protestare contro i salvataggi delle banche di Wall Street, s’ingigantisce nel 2010 quando la battaglia numero uno diventa demolire l’odiata riforma sanitaria. In ambedue i casi il populismo di destra semplifica delle cose molto complicate. Il salvataggio delle banche fu gestito abbastanza bene dall’Amministrazione Obama, alla fine il Tesoro recuperò le spese, per i contribuenti l’operazione finì in pareggio. Il Tea Party campa di rendita denunciando un gigantesco regalo a Wall Street da una parte, e ai debitori poveri dall’altra: cioè neri o altre minoranze etniche. Tra gli atti fondatori del Tea Party nel 2009 c’è una memorabile sfuriata dell’anchorman Rick Santelli sulla tv Cnbc, contro «i vicini di casa irresponsabili, quelli che vivono al di sopra dei loro mezzi, a cui dobbiamo ripagare i mutui noi». L’idea di una sanatoria generalizzata dei mutui insolventi per le famiglie troppo indebitate, che fu accarezzata a sinistra, in realtà non si è mai materializzata. Milioni di famiglie dopo il crack del 2008 subirono pignoramenti giudiziari e perdettero le case. Ma nel popolo di destra la convinzione è tenace: quando la sinistra è al governo, il ceto medio paga, i poveri (soprattutto se di colore) vivono a sbafo, rovesciano sulla collettività il costo dei loro errori. Lo schema si ripete su Obamacare.
Quella riforma è piena di difetti gravi; non cura il vizio originario di un sistema troppo privatistico, dove dettano legge le compagnie assicurative e Big Pharma. Però Obamacare ha esteso l’assistenza medica a venti milioni di americani che ne erano sprovvisti, dandogli delle sovvenzioni perché si possano comprare le polizze private. Questo ha coinciso — come Trump denuncia — con tremendi rincari delle tariffe assicurative: un po’ pagati dal contribuente, un po’ dai pazienti del ceto medio. Ecco, di nuovo, la semplificazione: Obamacare è statalismo che aiuta neri, minoranze etniche, immigrati, “gli altri”. Il conto lo paghiamo “noi”. «Mille dollari al mese di assicurazione sanitaria sono troppi — dice Sheri — sono soldi che una famiglia del ceto medio deve togliere da altre spese, rinunciare all’università del figlio, non comprare la macchina nuova». La parola d’ordine “abrogare Obamacare” è irresistibile, unificante, una di quelle bandiere identitarie su cui la tribù della destra si compatta. Salvo scoprire, quando il Congresso si mette a votare un progetto alternativo, che la maggioranza repubblicana si sfascia. È accaduto tre, quattro, cinque volte in un anno di presidenza Trump. Non è colpa sua, mi ripetono i suoi elettori del Michigan. Quando usciamo dal bar-ristorante delle interviste con hamburger, si avvicina un’altra fan del presidente. Attirata dal taccuino del cronista e dalla videocamera del fotografo, la bionda platinata Cheryl Hadzik ha un diploma d’ingegneria e insegna matematica all’università. Non si chiede l’età a una signora, ma lei dichiara tre figlie ventenni e ha l’aria di essere una mia coetanea.
Ha votato Trump e non è pentita neanche un po’. Semmai ce l’ha con la sinistra che vuole «cambiare la demografia, inondare l’America di stranieri che voteranno per sempre democratico, per vivere di Welfare». I fan del presidente ripetono gli argomenti che sento nei talkshow dell’unica tv che «non calunnia Trump, non semina zizzania, non diffonde fake news»: la Fox. Sulla Corea del Nord «lui cerca di risolvere un problema che gli hanno scaricato addosso i tre presidenti venuti prima». Sull’Iran e su Cuba? «Finalmente un leader che si fa rispettare, non cede alle dittature». Si discute in piazza, l’Eastern Market è pieno di bancarelle, affluiscono famiglie di tifosi nel dopo-partita. Se dentro la cinta dello stadio non si vende birra, qui il tasso alcolico è salito. Cadono freni inibitori, al camion “TrumpUnityBridge” di Rob Cortis si avvicina un gruppetto di afroamericani. Scherzando, s’inginocchiano proprio lì di fronte, esigono di essere fotografati mentre imitano il gesto dei “loro” campioni di football. Uno mi si avvicina, si chiama Vince Butler, chiede una sorta di par condicio: visto che sto intervistando dei repubblicani, devo sentire anche lui. «Sono un operaio metalmeccanico come alcuni di loro — dice Butler — e credo che sotto sotto siano delusi. Si aspettavano che il loro presidente gli rivoltasse l’America. Capisco anche alcuni dei loro risentimenti. Noi afroamericani negli ultimi decenni abbiamo lottato, abbiamo avuto le nostre conquiste, loro si sono sentiti sotto pressione. Ma gli stereotipi sono sbagliati. Io vivo in un quartiere di Detroit prevalentemente nero. Il luogo comune su noi afroamericani che viviamo di welfare non è quello che vedo tutti i giorni. Io e i miei vicini di casa ci alziamo ogni mattina per andare al lavoro, come loro. Se la facciata di casa ha bisogno di riparazioni, ci rimbocchiamo le maniche e passiamo il weekend ad aggiustarla, proprio come loro». Un intellettuale nero radicale, Ta-Nehisi Coates, ha sintetizzato lo stato della questione razziale in America con una definizione provocatoria. Lui chiama Trump “il primo presidente bianco”. Cioè la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle.
Toledo, Ohio: la crisi
Un grupp di tifosi afroamericani allo stadio di Detroit: loro sono contro Trump e scelgono provocatoriamente un furgone di supporter del presidente per inscenare una protesta come quella dei giocatori della Nfl: in ginocchio all’inno nazionale
«Sì, certo, sarebbe bello se Amazon venisse a costruire la sua nuova sede qui, porterebbe lavoro e soldi, ce n’è un gran bisogno». Sue Depew ha cinquant’anni e ne mostra dieci di più. Ha occhi celesti chiarissimi che le vengono dai genitori di origine polacca. Sono occhi affettuosi, tristi e rassegnati, circondati di rughe, comunicano pazienza e sottomissione. Questa storia di Toledo che sogna di attirare il nuovo quartier generale di Amazon l’avevo letta prima di arrivare. Qui nella Rust Belt — “cintura della ruggine” — gli anni d’oro sono lontani, quando l’economia prosperava grazie al trio carbone-acciaio-auto. Tante fabbriche, tanti operai, sindacati forti. Un ricordo lontano. Adesso nel centro di Toledo lungo il fiume Maumee il grattacielo più appariscente ospita Blue Shield-Blue Cross, compagnia di assicurazione sanitaria. La speranza è che un gigante dell’economia digitale voglia rianimare questa città decaduta. Speranza o miraggio, perché tra i cinquantamila posti promessi da Amazon nel futuro quartier generale-bis ci saranno anche fattorini che guadagnano metà di un metalmeccanico. E poi sono molte le città in gara, in tutti gli Stati Uniti, che stendono tappeti rossi di esenzioni fiscali per attirare Jeff Bezos. Qui vicino anche Cleveland si è candidata come sede Amazon.
Con maggiori chance, presumo, perché Cleveland è più grande (390.000 abitanti contro i 280.000 di Toledo), ha buone università e un aeroporto internazionale. Ho buttato lì una domanda sul tema del giorno in città, per spezzare il ghiaccio e fare un po’ di conversazione. Sue ha tutto il tempo per parlare. Anche se su Amazon ha idee vaghe, non vuole deludermi. Risponderà a tutto, volentieri. D’altronde Luca ed io oggi siamo gli unici clienti che deve servire a mezzogiorno, al bancone del Mad Dog Saloon. Periferia di Toledo, squallore e solitudine. Mi vengono in mente altri saloon immaginari situati in qualche deserto americano, quelli dei film “Paris, Texas” di Wim Wenders e “Bagdad Cafe” di Percy Adlon, ma questo è reale ed è in un deserto urbano. L’ingresso del saloon è poco invitante. Dalla strada l’insegna al neon si nota a stento. La finestra del locale è protetta da assi di legno inchiodato. Dentro, in pieno giorno è quasi buio, non fosse un grande schermo tv sempre acceso. A mezzogiorno l’unica altra presenza al bancone è quella di John Gyuras, fratellastro di Sue che le dà una mano nella gestione del bar e a quest’ora ha già l’aria di aver bevuto parecchio. Proprietaria è l’anziana madre, che non si vede. Ordiniamo scegliendo tra le specialità del posto, che sono esattamente due. Per me ali di pollo fritte, per Luca un hot dog “impanato” in una farina di mais e molto fritto pure quello. Sue si occupa di tutto, è cameriera al bar e anche cuoca. L’olio della friggitrice deve avere anni di carriera alle spalle. Rischiamo l’avvelenamento, ma bisogna pur dare un po’ di lavoro a questo Mad Dog Saloon così vuoto e deprimente malgrado il juke-box, il biliardo, perfino un mini-bowling. Sue faceva la baby-sitter — lo sguardo dolce tradisce una gran nostalgia quando ricorda il contatto coi bambini — prima di venire a lavorare nel bar comprato dalla mamma tre anni fa. «Quelli che glielo hanno venduto non ce la facevano più a tirare avanti. Usciva più denaro di quanto ne entrasse.
Qua attorno la gente ha poco da spendere. Altri tre locali come questo hanno chiuso, sono in vendita da mesi e non trovano compratori». Mentre consumiamo e le teniamo compagnia, passa velocemente un ragazzo alto e bruno, un bel mulatto dai capelli ricci e neri. Lo sguardo di Sue è tutto tenerezza: «Mio figlio Ronald». Appena lui esce e scompare dalla vista, lei racconta la sua storia. «Il padre è sparito, è in prigione da quando Ronald aveva due anni. Il ragazzo aveva un buon lavoro come taglialegna, ben pagato. Poi c’è stato l’incidente: la caduta di un tronco d’albero lo ha ferito. Ha cominciato a prendere pillole contro il dolore. Da lì è passato all’eroina. Si è spaventato quando ha avuto un’overdose ed è arrivata l’ambulanza, credeva di morire. Sono riuscita a convincerlo di entrare in terapia, in un gruppo di disintossicazione. Adesso è pulito, da tre mesi. È un bravo ragazzo davvero, mi creda, altrimenti io da sola non sarei riuscita a tirarlo fuori con le mie forze. Ci ha messo del suo, per ritrovare la retta via». Qui attorno al bar, Sue mi descrive un quartiere-fantasma di giorno, dove al tramonto cominciano ad affluire «prostitute drogate ad ogni angolo, quelle si fanno soprattutto di oppioidi». Racconta una rapina a mano armata, e la sua paura che facessero del male a Ronald, che era dentro il Saloon quella sera. Parlare di politica con uno sconosciuto non la disturba affatto, è solo stupita che possa interessarmi il suo parere. Trumpiana? «No di certo. Quando lo vedo penso che la politica non è il suo mestiere. È come se mia madre si candidasse alla presidenza». Da un anno in qua lei non ha visto miglioramenti nell’economia locale, ma non ha idea se il presidente possa fare qualcosa. Non ha idea, per la verità, se stia facendo qualcosa.
E comunque si sente lontanissima da tutto questo. Anti-trumpiana? Boh. «Né io né mio fratello abbiamo votato. Mai. Non ci siamo neppure iscritti (in America non è automatico essere sui registri degli elettori, ndr). Nessuno mi ha mai convinto». Le chiedo: ricorda se Trump un anno fa ha vinto qui nell’Ohio? La vedo incerta. Guarda il fratello, smarrito quanto lei. «Non sono sicura. Forse sì». (Trump vinse in questo Stato col 52% e otto punti di vantaggio su Hillary). Non vede perché la politica dovrebbe riguardarla. È una cosa che ogni tanto appare sullo schermo tv del bar, quelle rare volte in cui non è sintonizzato sul canale tutto- sport della Espn. I suoi clienti, quando ne ha, non parlano di politica. Probabilmente non votano neanche loro. Perfino all’elezione presidenziale — un appuntamento che attira molta più attenzione e affluenza rispetto alle legislative o alle amministrative — qui nell’Ohio si è astenuto quasi un terzo degli elettori già iscritti al registro dei votanti (e molti altri come la Depew non s’iscrivono neppure). Sue non si è mai occupata di politica perché dà per scontato che la politica non si occupa di quelli come lei. Sue ha problemi più pressanti. «Mia madre si è presa un bel rischio comprando questo bar. Non può permettersi di pagarmi più del salario minimo legale, che qui a Toledo è otto dollari e dieci centesimi l’ora. E io ho bisogno di traslocare, sto cercando un appartamento in un quartiere diverso, lontano da qui. Non posso lasciare che mio figlio abiti in una zona dove tutti gli spacciatori lo conoscono. Ma il minimo che riesco a trovare è un affitto da 675 dollari al mese. Sono troppi per quel che guadagno».
Dopo un’ora lasciamo il Mad Dog Saloon con l’odore di frittura che aleggia nell’aria. Sue e il fratello escono e si siedono sul marciapiedi a fumare, ci salutano mentre partiamo in macchina. La strada è sempre vuota, come il loro bar. L’intermezzo in questa no man’s land desolata alla periferia di Toledo mi porta un po’ fuori tema: il mio viaggio nel Midwest è dedicato a tastare il polso di quelli che un anno fa votarono Trump. Al Mad Dog Saloon ho incontrato un paio di americani che non lo amano né lo stimano neanche un po’, se costretti a pronunciarsi su di lui alternano scetticismo, sarcasmo, diffidenza, ostilità. Ma la sinistra non è riuscita neppure a catturare la loro attenzione; per non parlare di fiducia.
Weirton, West Virginia: le diseguaglianze
«Non ho mai sparato un solo colpo in vita mia, neanche al tiro a segno. Sei mesi fa, all’età di 48 anni, per la prima volta da quando sono nato ho deciso di entrare in un’armeria. Per 900 dollari ho comprato un AR-15, un fucile semi-automatico, simile a quello che i nostri soldati hanno al fronte. Più 500 pallottole. Non avrei mai creduto di arrivare a tanto». Chi parla non è un fanatico, non ha l’identikit del paranoico. Tutt’altro. Louie Retton, in realtà si chiamerebbe Luigi Redondo, «ma quando immigravano qui i nostri genitori italiani, dovevano cambiarsi i nomi per non farsi riconoscere, per sembrare come gli altri, farsi accettare, perché all’inizio gli italiani non li assumevano neppure in miniera». Di mestiere fa il preside di liceo, sente sulle spalle la responsabilità per il futuro di tanti giovani.
È sinceramente preoccupato, addolorato, perché attorno a sé vede «una società sempre più diseguale», nella sua cittadina di Weirton «pochi benestanti come me abitano qui in cima alla collina, tutti gli altri sono a fondo valle e stanno male, molto male». A differenza di certi militanti dell’ultra-destra che hanno il culto delle armi, che vaneggiano nostalgie assurde di milizie popolari contro i “federali”, lui si è rassegnato a comprare quell’AR-15 solo per paura. «Non ho certo incubi sull’arrivo di un invasore straniero, tantomeno che il governo venga a disarmarmi. Se un giorno scoppia la guerra sarà tra noi, americani contro americani. Quelli che non hanno niente contro quelli che hanno qualcosa. Guarda le immagini in tv dopo ogni uragano, da Katrina all’ultima inondazione di Houston o di Tampa: appena la forza dello Stato scompare dalle strade cominciano gli assalti ai supermercati, i saccheggi, le rapine di massa. Un giorno potrebbe succedere qui. E c’è una sola via di fuga. Se quelli che stanno giù a fondo valle salgono per prenderci la roba nelle nostre case, l’unica uscita è questa strada che porta verso di loro.
Per loro siamo i ricchi, perché le nostre case valgono mezzo milione. Quando verrà il giorno in cui vorranno prendersi la nostra roba, io devo essere pronto a difendermi». Prima di arrivare fino a questo angolo della West Virginia dove Trump ha stravinto col più ampio margine della storia (68,5% contro il 26,4% di Hillary), prima di raggiungere la casa del suo elettore Louie Retton, ho attraversato il paese del carbone e dell’acciaio. Ho fatto avanti e indietro tra Pittsburgh, capitale decaduta degli altiforni e delle dinastie industriali che dominarono la Pennsylvania e l’America un secolo fa (i Carnegie, Mellon, Frick), e Steubenville nella valle dell’Ohio, città siderurgica che diede i natali a un altro immigrato italiano, il cantante Dean Martin. Ho già raccontato in un altro reportage su Repubblica la mia visita a un porto del carbone, Bellaire sul fiume Ohio, che benedice Trump e la sua deregulation anti-ambientalista. Ed Spiker, un manager dell’azienda carbonifera Westmoreland Resources, mi ha dato una valutazione realistica sull’effetto-Trump. «Per la prima volta dopo otto anni di Obama, c’è un presidente che rivaluta il carbone, e per l’economia di questa zona è importante. Annunciando l’uscita dagli accordi di Parigi, lui ha mantenuto le promesse che fece ai minatori in campagna elettorale, mentre Hillary parlava di un futuro fatto solo di energie rinnovabili, e a noi in sostanza prometteva disoccupazione.
Però non ci facciamo illusioni. Il 2018 sarà un anno eccezionale, il carbone tornerà a sorpassare il gas naturale come energia per le centrali elettriche. Ma molte utility hanno già avviato una riconversione, le grandi aziende elettriche cominciarono anni fa i piani di lungo termine per abbandonare il carbone, è solo questione di tempo». Qualche anno in più, per tanti minatori significa arrivare alla pensione. Hanno votato Trump, in massa. A loro è andata bene, per adesso. Disfacendo le regole di Obama, questo presidente ha tolto tutti i limiti alle emissioni carboniche delle centrali. “Coal country”, il paese del carbone, vede allontanarsi il giorno del giudizio. Viaggiando lungo la valle del fiume Ohio, la vera sorpresa non è trovare ancora le chiatte cariche di carbone, le miniere, gli impianti siderurgici e le centrali fumanti. La sorpresa sono i boschi. Com’è verde questa vallata! A perdita d’occhio. Un manto di foreste quasi ininterrotto copre le colline intorno al fiume. Questa stagione regala lo spettacolo autunnale del “foliage”, l’esplosione di colori giallo arancione oro rosso verde delle foglie. È questo che frega l’America, in un certo senso.
È questa la maledizione paradossale che colpisce tanti americani, li rende ciechi di fronte al disastro ambientale che avanza, ai danni del cambiamento climatico, all’inquinamento che uccide. Hanno ancora “troppa natura” in casa, perfino in aree di antica industrializzazione come Pennsylvania, Ohio, West Virginia. Tanti spazi disabitati o quasi, le distese infinite di verde, danno la falsa impressione che le risorse siano illimitate, che guidare Suv energivori o tenere l’aria condizionata a temperature polari o surriscaldare le case d’inverno siano comodità innocue, lussi legittimi. È in mezzo al verde anche la villetta di Michael Arlia, amico e vicino di Louie Retton. Sua moglie sta potando gli alberi in giardino, mentre noi ci riuniamo attorno al tavolo della cucina e a un bicchiere di vino. Italo-americano pure lui, Michael incarna l’American Dream di una volta, quando le cose in questo paese andavano per il verso giusto. «I miei genitori immigrarono qui da Belmonte, Calabria. Mio padre si è fatto strada da solo, in un’epoca in cui non era facile essere italiani qui. Ha lavorato sodo, miniere e acciaierie. Ha pagato gli studi a due figli. In confronto ai suoi tempi, l’America di oggi è piena di bambini viziati, che pretendono tutto, si offendono per qualsiasi cosa. Mio padre ci insultava, proprio come Trump insulta tanti connazionali oggi. Mi piace la sua retorica dura, aggressiva. Questa nazione si è adagiata, ha bisogno di essere presa a calci nel sedere, per darsi una svegliata». Michael era stato democratico per tutta la vita, solo un anno fa ha deciso di cambiare e ha votato per Trump. La ragione? Per disperazione. «Non disperazione per me stesso, no, tutt’altro. Io ce l’ho fatta. Mi hanno licenziato, ho perso il lavoro, mi sono messo in proprio e oggi possiedo tre imprese. In confronto alla gente che abita qui vicino, appaio perfino straricco. Ma non mi godo questo benessere solitario. La cittadina intorno a me è irriconoscibile.
Negli anni Quaranta, quando questo posto a furia d’immigrazione si conquistò il nome di Little Calabria, c’era un acciaieria a fondo valle che dava lavoro a 27.000 operai, mio padre incluso. Lavoro sicuro e ben pagato. Oggi lo sai quanti ne sono rimasti? 800. Ot-to-cen-to! La middle class non esiste più. Il benessere lo abbiamo lasciato fuggire con le fabbriche, verso il Messico o la Cina». Il preside Louie racconta la stessa storia vista attraverso il mondo della scuola: «Quando eravamo ragazzi noi, figli d’immigrati dal Mezzogiorno, avevamo delle famiglie solide che puntavano sui nostri studi. Oggi nel liceo che dirigo gli insegnanti non possono dare compiti a casa. Le famiglie sono sfasciate, i ragazzi quando tornano a casa non hanno genitori che li aiutano o li sorvegliano. Il 75% ha diritto alla mensa gratuita per povertà, roba che ai nostri tempi non ricordo. Eroina e spaccio dilagano. Quella di oggi non ha più niente in comune con la cittadina in cui eravamo cresciuti noi». Trump per loro è l’elettroshock che potrebbe smuovere un pezzo d’America condannato al declino. Qui in questo triangolo fra West Virginia, Ohio e Pennsylvania, siamo nel cuore di un mistero. L’economia americana cresce da otto anni, la ripresa trumpiana prolunga quella obamiana. Dalla fine della crisi nel 2009, a livello nazionale sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto livelli europei superando il 10% nel 2009, è ricaduto vicino al 4%. Se continua così potrebbe riavvicinarsi a quel 3% che gli esperti definiscono “pieno impiego”. Però, però. Quest’America operaia che compra armi per proteggersi dalla rabbia del vicino troppo povero, non è in preda ad allucinazioni. Le statistiche ufficiali non descrivono quel che accade qui. Il tasso di disoccupazione è ai minimi, tuttavia sono spariti dagli schermi radar un milione e mezzo di ex-lavoratori. Dispersi, “missing in action”. Hanno smesso di cercarsi un lavoro, e quindi sono stati cancellati dalle rilevazioni: non fanno più parte della popolazione attiva. Il nuovo mondo del lavoro non li vuole, non sa che farsene, e loro ne prendono atto. Una ricerca di Alan Krueger, economista dell’università di Princeton, rivela che metà di quegli uomini spariti dalle statistiche, stanno prendendo quotidianamente medicinali anti- dolorifici. In mezzo a loro si è infilata un’epidemia di massa, la tossicodipendenza da oppioidi. I più “fortunati” ne escono per poi sopravvivere con pensioni d’invalidità. I più deboli vanno ad aumentare le statistiche dei suicidi. In quel buco nero che è la condanna all’inutilità sociale, gli ultimi minatori del carbone erano convinti che ci sarebbero finiti anche loro: se avesse vinto Hillary Clinton. Anche per chi il lavoro lo ha conservato, o ritrovato, l’American Dream non è più quello dei genitori di Louie e Michael.
Quando chiude un’acciaieria che i padroni spostano in Cina, qui scompaiono posti di lavoro che pagavano dai 18 ai 25 dollari l’ora. Quando al suo posto apre un ipermercato discount, assume per 13 dollari all’ora. Trump ha promesso di riportare le fabbriche qui, di rinegoziare trattati commerciali, di combattere la concorrenza sleale del Messico o della Cina. Risultati, per ora: quasi nulla. Qualche segnale di reindustrializzazione degli Stati Uniti c’è, ma bisogna sapere di cosa si parla. Anzitutto, un principio di rinascita manifatturiera c’era stato già sotto Obama, aiutato dai bassi costi dell’energia e da una strisciante svalutazione del dollaro. Piccole cose in termini di occupazione, perché le fabbriche che riaprono oggi hanno tanti robot (comprese le stampanti 3D) e pochissimi operai. In quanto alle buste paga, l’aumento medio del 2,9% in un anno è davvero mediocre in un paese vicino al pieno impiego. Con la quasi-scomparsa dei sindacati, gli aumenti salariali di una volta sono introvabili. Un calcolo fatto dall’Economic Policy Institute rivela questo: il salario medio per l’80% della forza lavoro americana nel 1972 era di 739 dollari a settimana; fatti i dovuti adattamenti per l’inflazione e il potere d’acquisto, oggi quel salario medio vale solo 724 dollari di allora. L’80% degli americani, in sostanza, guadagna meno di 45 anni fa. I figli guadagnano meno dei genitori. E in questi 45 anni si sono alternati a parità repubblicani e democratici, alla Casa Bianca abbiamo avuto tre presidenze di destra (Nixon e due Bush) e tre di sinistra (Carter, Clinton, Obama).
Nessuno ha invertito la tendenza. «Non so se Trump ce la farà — dice Michael — e non so se gli lasceranno il tempo. Ma è da tanto che non avevamo un leader così, uno che pensa fuori dagli schemi. È diverso da tutti gli altri». Le élite delle due coste non possono capire cosa sta succedendo qui, dice Louie. Le élite non capiscono tante cose, insiste, su Trump hanno detto sciocchezze enormi. «I media liberal, i cosiddetti esperti, hanno detto che se vinceva lui sarebbe crollata la Borsa e sarebbero fuggiti i capitali. Invece a un anno dal voto la Borsa è ai massimi storici, l’economia cresce, l’occupazione pure. Hanno previsto che avrebbe fatto cose orrende, per esempio deportazioni di massa, e neanche questo è successo. Non è presidenziale? Certo che no. È un populista. Lo sapevamo quando lo abbiamo eletto. A me piace quando va alla Nato e dice agli europei che non possono sempre dipendere da noi per difendersi dalla Russia. Mi piace quando dice che il nostro confine meridionale va rispettato. Non è possibile che entrino qui sei milioni di clandestini, che vengano a profittare del nostro welfare, e noi stiamo a guardare. Se io voglio andare in Canada a farmi curare, quelli mica me lo lasciano fare». Michael: «Lo sai perché io non so parlare l’italiano? Perché a casa mia era proibito. Dovevamo passare il test d’inglese per la cittadinanza. E quindi mio padre ci costringeva tutti a parlare inglese, la sera a cena. Quella era l’America dove l’immigrazione funzionava, era regolata». Louie mi congeda con questa osservazione, sull’8 novembre di un anno fa: «Sai che ti dico? Che se i democratici avessero candidato Bernie Sanders, io lo votavo».
Un cantiere a Laredo, Texas, al confine con il Messico
Volo da New York a San Antonio, poi tre ore di autostrada, ed ecco il confine col Messico. Laredo-Texas da una parte, Nuevo Laredo dall’altra. In mezzo: il Rio Grande. Dopo una lunghissima estate calda prolungata fino a fine ottobre, è un fiumiciattolo poco impressionante. Eccoci di fronte al Muro. Cioè: il non-Muro, la madre di tutte le promesse mancate. Perché di Muro qui non c’è l’ombra. Eppure poche cose scatenavano le urla di entusiasmo nei comizi elettorali, quanto questo annuncio ripetuto a oltranza: «Costruirò un Muro e lo farò pagare ai messicani, perché una nazione non è una nazione se non riesce a controllare i suoi confini». Seguendo le vie ufficiali, il mio primo contatto a Laredo è con la Border Patrol-South Laredo Station. La polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) è abituata ai giornalisti, e ci considera una seccatura: sa di essere al centro dell’attenzione, noi veniamo a sfrugugliare, il tema è rovente. Hanno procedure lunghe e tortuose per le interviste, bisognare passare dai loro uffici centrali di Washington, che insabbiano le nostre richieste. La South Laredo Station è circondata da un alto recinto di filo spinato. L’unico Muro visibile: sembra rinchiudere loro, i poliziotti a guardia del confine. Dopo un lungo negoziato via interfono, mi viene incontro l’agente W. Taylor. Resta di là dalla barriera, non mi apre, il colloquio è breve ma cordiale. Sorprendente, anzi. Perché l’agente W. Taylor tra sorrisi e ammiccamenti mi fa capire di non essere davvero trumpiano. «Muro? Ma quale muro? Giusto qualche cinta, qua e là, in alcuni tratti del confine.
L’ingresso degli uffici della Border Patrol-South Laredo la stazione della polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) della cittadina texana
Una recinzione l’abbiamo dovuta costruire vicino al Rio Grande perché qualche clandestino fu visto passare sotto le finestre di un college, disturbava le lezioni, distraeva gli studenti. No, mi creda, qui siamo tranquilli. Tutto bene, insomma. Non so come la pensiate voi…». In realtà lo sa benissimo, un giornalista che arriva da New York è automaticamente classificato liberal, simpatizzante dei democratici, sta dalla parte degli immigrati. Il mio breve colloquio con l’agente in divisa verde sembra confermare una teoria del complotto molto in voga alla Casa Bianca e in tutti gli ambienti della destra radicale: contro Trump è in azione il Deep State, lo “Stato profondo”, una sorta di cupola dell’Amministrazione federale infarcita di obamiani, una burocrazia che boicotta ostinatamente questo presidente. Qualcosa di vero c’è, le burocrazie sono sempre in favore dello status quo, il “rivoluzionario” Trump ha già scatenato contro di sé tanti giudici che lo considerano un nemico della Costituzione. Gli hanno bocciato, forse perfino con un eccesso di zelo, tutte le versioni dei suoi Muslim Ban, anche l’ultimo decreto in cui lui bloccava gli ingressi da Paesi non solo islamici, con l’inclusione di Corea del Nord e Venezuela. C’è un pezzo delle istituzioni che si mobilita a oltranza, crede nei “checks and balance”, poteri e contropoteri che impediscono una prevaricazione dell’esecutivo. Se tornano in campo due ex presidenti, non solo Obama ma anche George Bush, per mettere in guardia gli americani contro il “nazionalismo becero”, vuol dire che l’allarme è diffuso e il Deep State lo ha raccolto. L’altra sorpresa, di segno opposto, mi aspetta nel centro di Laredo. A poche centinaia di metri da quell’International Bridge dove scorre un flusso continuo di passaggio tra Stati Uniti e Messico, con tanti transfrontalieri che vanno avanti e indietro dalla sera alla mattina. A fianco alla stazione degli autobus Greyhound, entro nel ristorante Juano’s. Il proprietario è Juan Alonso, 54 anni, nato a Monterrey in Messico. «Sono entrato negli Stati Uniti nel 1989 — racconta — e ho vissuto un po’ dappertutto, ho fatto ogni mestiere. Laureato in ingegneria, ho lavorato nelle fonderie dell’Indiana, nell’industria tessile del Michigan.
Qualche anno fa mi sono trasferito qui, e ho cominciato questa nuova carriera da ristoratore». Nel suo ristorante non c’è una sola scritta in inglese, anche il menù è solo in spagnolo. Si avvicina Halloween, ma qui le maschere sono quelle tradizionali della Festa dei Morti, antichissimo rito messicano. Le statistiche federali dell’Immigration and Customs Enforcement dicono che dall’insediamento di Trump è scattato il pugno duro verso l’immigrazione illegale, le retate e le espulsioni sono in forte aumento rispetto agli anni di Obama, da pochi giorni la Homeland Security ha annunciato la costruzione di nuove carceri speciali. Gli arresti di clandestini da gennaio a settembre sono stati 97.482, in aumento del 43% rispetto all’Amministrazione Obama. Ma Juan Alonso racconta un’altra storia, più simile alla realtà sonnacchiosa che ho osservato a poca distanza dal suo ristorante, lungo il Rio Grande: placido fiumiciattolo, facile da attraversare, dove le pattuglie su motoscafo passano raramente. «Qui da noi niente retate, niente espulsioni di massa. C’è un po’ di Muro tecnologico, fatto di droni e raggi infrarossi. Ma c’era anche prima». Questa storia del Muro è una commedia degli equivoci che dura da anni. I democratici denunciano la promessa di Trump come un’infamia, eppure fu uno di loro (Bill Clinton) a costruire l’unica fortificazione davvero imponente, al confine californiano tra San Diego e Tijuana. La destra dice di volerlo, ma qui nel Texas sono i proprietari terrieri di fede repubblicana l’ostacolo maggiore. Il Muro andrebbe costruito espropriando dei loro appezzamenti. Orrore: l’esproprio è statalismo, socialismo, i ricorsi in tribunale dei latifondisti bloccano continuamente i progetti di Trump. In quanto a Juan Alonso, lui di questo presidente si è innamorato. Il colpo di fulmine è accaduto per una ragione molto semplice. Il ristoratore ha ottenuto la cittadinanza americana.
È una procedura automatica, per chi la richiede dopo cinque anni di Green Card. Ma il caso ha voluto che per lui il diritto sia maturato proprio pochi mesi fa, sotto questa Amministrazione. «E tutti i miei amici mi dicevano: povero illuso, non hai capito che è cambiato tutto? Trump non vuole messicani. Quando ti presenterai per la cittadinanza ti tratteranno male, ti cacceranno. E invece no! Sono stati gentilissimi, mi hanno dato il passaporto». Forse Alonso non ha le idee chiare sullo Stato di diritto, sul fatto che questa cittadinanza ormai gli spettava, e neppure un presidente può commettere l’arbitrio di cancellare la legge. Ma Trump gli piace, e non solo per questo. Quando gli dico che voglio percorrere il fatidico ponte e passare a Nuevo Laredo, Messico, inorridisce: «Non ci andate. Vi riconoscono subito, vi prendono di mira. Rapiscono gli americani, per ottenere un riscatto immediato». (Il mio sospetto che lui stia esagerando viene contraddetto dal sito del Dipartimento di Stato: mette in guardia i turisti americani, sconsiglia di mettere piede a Nuevo Laredo, i rapimenti ci sono stati davvero). Strana frontiera. Da una parte e dall’altra sono tutti messicani. È come se la guerra del 1846-48 tra Stati Uniti e Messico, che sancì l’appartenenza del Texas alla potenza settentrionale, fosse stata lentamente ribaltata. Un’attrazione etnica più profonda, una forza d’inerzia demografica restituisce al Messico i suoi ex-territori a Nord del Rio Grande. È di origine messicana la capa della Border Patrol che incrocio per tentare un’ennesima intervista (negata), Sarah Melendez; sono di origini messicane i due agenti in divisa che la scortano. La città Usa, Laredo- Texas, ha il 95,61% di ispanici nel censimento ufficiale della sua popolazione. Nuevo Laredo è la sua gemella siamese, l’International Bridge tiene incollate le due metà. «Ma gli stessi messicani che a Nuevo Laredo sono dei delinquenti — dice Juan Alonso — appena passano di qua rigano dritto, stanno attenti a non violare le leggi americane.
Di qua c’è l’ordine, di là dalla frontiera in Messico c’è corruzione e violenza. Questa è la differenza. Ha ragione Trump a volere imporre il rispetto delle regole. A me mi hanno dato la cittadinanza perché pago le tasse. Quelli che non lo amano, sono di un’altra categoria. Quelli bisogna tenerli fuori».
© Riproduzione riservata 27 ottobre 2017
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