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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112532 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Gennaio 26, 2017, 12:30:12 pm »

24 genaio 2017

Perché l'ultima bugia di Trump è grave

Federico RAMPINI

Continua la tempesta suscitata dalla sua ultima sparata menzognera, quella sui "tre o cinque milioni di immigrati illegali che hanno votato per Hillary". Che sia una bugia glielo stanno dicendo in tutte le salse anche i repubblicani: molti di loro sono governatori degli Stati, hanno quindi avuto il potere/dovere di vigilare sulla regolarità del voto. I brogli, è bene ripeterlo perché è verità appurata e bipartisan, in America sono così rari da rappresentare percentuali infinitesimali. Nei seggi elettorali hanno controllato lo scrutinio tantissimi repubblicani. Un appello particolarmente accorato al neopresidente viene dal suo compagno di partito Lindsay Graham, che lo esorta a non infangare il processo elettorale e la democrazia americana. Proprio perché qui i brogli sono pressoché inesistenti, far credere che ve ne siano su scala massiccia è una menzogna davvero grave. Molti in queste ore stanno osservando che un broglio su simile scala (milioni!) esigerebbe che il presidente non ne parli buttando lì una battutella, ma faccia immediatamente partire delle indagini sulla terribile perturbazione della consultazione elettorale. Ovviamente non lo fa perché qualsiasi indagine federale confermerebbe che lui è un bugiardo. Ma di menzogna in menzogna, è la fiducia nelle istituzioni, la tenuta del tessuto civile, il rispetto della nazione per se stessa, ciò che lui ferisce quotidianamente. L'aspetto più vergognoso è che questa bugia ha come unica motivazione l'amor proprio ferito di un egomaniaco patologico, che non può sopportare di essere stato superato da Hillary nel voto popolare.
N.B. Un'ultima notazione, che nell'attuale contesto e visti i rapporti di forze è pura fanta-politica: se mai un giorno i democratici dovessero riconquistare la maggioranza al Congresso, una bugia come questa sui brogli sarebbe più che sufficiente ad avviare la procedura di impeachment.

Scritto in destra Usa, Donald Trump, immigrazione, politica partiti elezioni Usa

Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2017/01/24/perche-lultima-bugia-di-trump-e-grave/?ref=HROBA-1
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« Risposta #136 inserito:: Febbraio 17, 2017, 12:19:59 am »


Caso Flynn, la causa è "Rottura della fiducia". tensioni Usa-Russia: scoppia la Putin-connection
Il generale Michael Flynn, consigliere per la Sicurezza Nazionale dimissionario (ansa)
A Washington giornata dominata dalle ripercussioni dello scandalo sui contatti illeciti con l’ambasciatore russo del consigliere di Trump più importante per questioni di politica estera, difesa e anti-terrorismo. Non soltanto i democratici ma anche qualche repubblicano vogliono andare a fondo con un’indagine che potrebbe chiamare in causa lo stesso presidente

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
14 febbraio 2017

NEW YORK - “Rottura della fiducia”: è la ragione ufficiale per cui Donald Trump ha cacciato quello che si era scelto poche settimane fa come il massimo consigliere strategico, il generale Michael Flynn. Dietro spunta la vera motivazione ben più inquietante: “Era ricattabile dai russi”. Lo dice lo stesso Dipartimento di Giustizia. In un clima torbido, tra congiure di palazzo e caccia alle spie, casca la prima testa nel nuovo esecutivo, ed è una testa importante. Inoltre le dimissioni del generale giungono sulla scorta di un’accusa infamante: intesa col nemico; aggravata dalla bugia ai propri capi, per coprirsi. Di che rendere inevitabile un’indagine del Senato su Flynn, rischiosa per lo stesso Trump. In quanto al generale, potrebbe rischiare perfino il carcere.

Dimissioni Flynn, Rampini: "Trump vittima della maledizione di Putin"
Si scopre infatti che mentì perfino all’Fbi quando lo interrogò sui suoi contatti coi russi. Ma la giornata dei veleni si è conclusa con una rivelazione-shock del New York Times. Secondo il quotidiano – che cita intercettazioni, fonti d'intelligence e magistratura – diversi collaboratori di Trump durante la campagna elettorale “ebbero ripetuti contatti con dirigenti dei servizi segreti russi”. Il quotidiano basa le sue affermazioni clamorose su “quattro fonti ufficiali”, in seno alle agenzie del contro-spionaggio e alla Giustizia americana, “allarmate per la quantità di contatti” che le intercettazioni hanno rivelato, fra gli uomini più vicini a Trump e i vertici dello spionaggio di Putin.

La caduta del generale segna una nuova ferita nell’idillio fra Trump e Vladimir Putin, un’amicizia a distanza che ha già provocato problemi al presidente americano, e che ora incappa in turbolenze serie. Non bastano le dimissioni del National Security Adviser per placare il “caso Flynn”. Non soltanto l’opposizione democratica ma anche i repubblicani vogliono andare a fondo, con un’indagine che potrebbe chiamare in causa lo stesso presidente. Intanto Mosca non fa nulla per rasserenare il clima. Secondo il Pentagono la Russia avrebbe dispiegato in segreto nuovi missili di crociera che violano i trattati bilaterali sul controllo degli armamenti. La Fox News ieri ha lanciato l’allarme sull’avvistamento di una nave spia russa al largo della East Coast degli Stati Uniti, all’altezza del Delaware. Altro episodio di tensione: nel Mar Nero il 10 febbraio diversi cacciabombardieri russi si sono avvicinati “pericolosamente”, secondo il Pentagono, ad una nave militare americana.

Ma a Washington la politica resta dominata dalle ripercussioni dello scandalo Flynn: lui fino a lunedì sera era di fatto il consigliere più importante del presidente per politica estera, difesa, anti-terrorismo, poiché dirigeva il National Security Council che assiste direttamente il presidente. Flynn ha dovuto abbandonare per avere avuto contatti illeciti con l’ambasciatore russo (sul tema sanzioni) e poi per avere mentito alla Casa Bianca sul tenore di quei contatti. Affondato dunque dalla Putin-connection che già addensò sospetti su Trump per il ruolo degli hacker russi negli attacchi a Hillary Clinton durante la campagna elettorale. La pesantezza dei sospetti sta costringendo la Casa Bianca a rivedere i suoi propositi di disgelo con Mosca: ieri il portavoce del presidente, Sean Spicer, ha improvvisamente sposato la linea Obama su Crimea e Ucraina. Adesso Washington si aspetta “una de-escalation in Ucraina e la restituzione della Crimea”. Temi sui quali in campagna elettorale Trump era stato molto indulgente verso Putin.

Trump vuole dare l’impressione di avere agito con fermezza e decisionismo. Scatena una caccia alla gola profonda dentro la Casa Bianca, si chiede come sia trapelata all’esterno la notizia delle intercettazioni che l’intelligence Usa aveva compiuto sulle telefonate tra Flynn e l’ambasciatore russo. Ma al Congresso la vicenda Flynn ha altri strascichi. Il capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, giudica “molto probabile” un’inchiesta parlamentare su Flynn. Prevale quella destra classica (alla John McCain) che non vuole dare tregua sulla Putin-connection. L’incognita di un’inchiesta parlamentare, è che prima o poi finirà per porre la domanda più destabilizzante: che cosa sapeva esattamente Trump? Ieri lo stesso portavoce Spicer ha ammesso che il presidente era al corrente da settimane delle bugie di Flynn sui suoi contatti col diplomatico russo. L’impressione è che Trump non ha agito fino a quando non vi è stato costretto da uno scoop del Washington Post. Altra domanda imbarazzante: fino a che punto Flynn si era mosso da solo nel sondare i russi e nel promettergli una levata delle sanzioni, in che misura invece agiva con il beneplacito del presidente? Nel frattempo Trump deve sbrigarsi a riempire il ruolo lasciato vacante da Flynn, e sta sondando fra gli altri l’ex capo della Cia, generale David Petraeus. Peraltro travolto anche lui da uno scandalo, sotto Obama.

© Riproduzione riservata
14 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/14/news/caso_flynn_e_tensioni_con_la_russia-158319999/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_15-02-2017

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« Risposta #137 inserito:: Febbraio 28, 2017, 11:29:38 pm »

Guardia nazionale contro gli immigrati illegali: un'ipotesi estrema per uscire dall'impasse
La notizia di una simile iniziativa da parte della Casa Bianca è stata diffusa dall'Associated Press.
L'amministrazione Trump smentisce, ma l'autorevole agenzia ribatte: abbiamo un documento interno

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
17 febbraio 2017

NEW YORK – E’ arrivata in un lampo la smentita della Casa Bianca alla notizia dell'Associated Press: quella sulla mobilitazione della Guardia nazionale (riservisti dell’esercito) per le retate degli immigrati illegali in vista della loro espulsione. L’Associated Press sostiene però di avere ottenuto un “memo” – documento interno – dell’Amministrazione in cui quell’ipotesi veniva contemplata. Può darsi che sia una delle tanti ipotesi di lavoro, simulazioni, opzioni, che il presidente vuole avere sul suo tavolo prima di decidere il da farsi. Può darsi che sia stata esaminata e poi scartata. Può darsi che la smentita della Casa Bianca valga oggi, e non domani. Tutto è possibile con un’Amministrazione di cui negli ultimi 20 giorni abbiamo verificato lo stile caotico. Per capire la portata enorme che avrebbe l’uso delle forze armate, ecco i quattro punti essenziali.

1) Non sarebbe la prima volta che la Guardia Nazionale viene usata per funzioni di ordine pubblico (la vidi in azione ancora di recente a Ferguson, Missouri, per le proteste anti-razzismo che la polizia non riusciva a contenere), e tuttavia è inevitabile ricordare quante volte ebbe un utilizzo "progressista": per esempio per difendere i diritti civili dei neri nel profondo Sud quando governatori, sindaci e polizie locali li calpestavano. Qualora la usasse come ipotizzato dall’Associated Press, Trump rovescerebbe questa tradizione nel suo contrario.

2) Se mai dovesse arrivare a tanto, Trump sarebbe spinto a questo gesto estremo da un'impasse in cui si è cacciato lui. Il bando anti-musulmani è bloccato dai tribunali federali, il Muro col Messico è di là da venire e non può certo dare il senso di un'azione immediata contro i clandestini. Le espulsioni dei giorni scorsi fanno chiasso ma sono numeri piccoli (centinaia), analoghi a quelli di Obama.

3) Mettere in campo la Guardia nazionale sarebbe un modo per by-passare il sabotaggio attivo delle 30 città-santuario, da New York a Chicago a San Francisco, dove le polizie locali hanno l'ordine di non collaborare con gli agenti federali dell'Immigration nelle retate. Si aprirebbe quindi uno scontro ai massimi livelli, anche di tipo costituzionale, tra il governo centrale e la logica del federalismo.

4) C’è un ostacolo operativo che può spiegare la rinuncia della Casa Bianca, se il progetto è stato esaminato e poi accantonato. Per aver visto da vicino la Guardia nazionale mobilitata in alcune città d’America durante le proteste razziali degli anni scorsi, ricordo distintamente una caratteristica: i soldati venivano regolarmente tenuti “un passo indietro” rispetto ai poliziotti, i loro reparti e le loro autoblindo facevano una difesa statica di punti nevralgici, coprivano le spalle alle forze dell’ordine, ma si guardavano bene dall’entrare in contatto coi manifestanti. Una delle ragioni: i soldati non hanno addestramento per operazioni di polizia, né tantomeno hanno i poteri tipici della polizia giudiziaria. Non sono, per intenderci, “polizia militare” come i carabinieri italiani. Perciò sarebbe problematico usarli per effettuare arresti di immigrati. Trump rischierebbe un altro fiasco legale come con l’ordine esecutivo sigilla-frontiere.

© Riproduzione riservata
17 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/17/news/usa_casa_bianca_guardia_nazionale_immigrati-158554708/?ref=HREA-1
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« Risposta #138 inserito:: Aprile 09, 2017, 04:43:50 pm »

8APR2017

E' nato in Siria il "nuovo Trump"?

Federico RAMPINI

Una presidenza giunta al terzo mese sembrava già impantanata in una serie di crisi interne, ma l'intervento in Siria consente a Trump di aprire una pagina nuova:
1) Ritrova un Nemico esterno, il più chiaro e tradizionale che ci sia, in Vladimir Putin. Tutta la storia del Russia-gate improvvisamente può sbiadire nel passato, di fronte alla durezza dello scontro con la Russia che assume toni da guerra fredda.
2) Mette sulla difensiva la Cina, che deve decidere il da farsi sulla Corea del Nord. Xi Jinping non può più escludere che Trump sia davvero disposto a un attacco contro Pyongyang, un'opzione che era sempre stata impossibile con i presidenti americani che lo hanno preceduto.
3) E inaspettatamente Trump fa l'unità tra gli alleati europei, ritrovando anche qui un ruolo "naturale" dell'America che finora sembrava non interessargli affatto.
4) Anche se non c'entra con la politica estera, tuttavia è interessante che il nuovo capitolo della presidenza Trump coincida con la nomina del suo candidato alla Corte suprema, il giudice conservatore Gorsuch, passato ieri al Senato dopo una modifica del regolamento per superare l'ostruzionismo democratico.

DA - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2017/04/08/e-nato-in-siria-il-nuovo-trump/?ref=RHPF-WB
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« Risposta #139 inserito:: Aprile 21, 2017, 11:55:14 pm »

Usa-Corea tra giallo e farsa: Trump si è "perso" l'Invincibile Armada
La flotta ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta.
Allontanandosi sempre di più dal paese che doveva intimidire

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
19 aprile 2017

NEW YORK - Dov'è finita l'Invincibile Armada che Donald Trump stava mandando al largo della Corea del Nord? Ha continuato a navigare, per una settimana, nella direzione opposta. Allontanandosi sempre di più dal paese che doveva minacciare, intimidire, indurre alla ragione. Si tinge di giallo, o di farsa, il gesto imperioso con cui il presidente voleva mandare un messaggio a Kim Jong-un per costringerlo a rinunciare a nuovi test nucleari. Lo stesso Trump aveva dato l'annuncio l'8 aprile, usando proprio quel termine, "armada", evocando gloriose gesta navali. Era passato poco tempo dal lancio di 89 missili Tomahawk su una base militare siriana. La decisione di reagire all'escalation nucleare nordcoreana con l'invio di una poderosa flotta militare - inclusa la mega-portaerei Uss Carl Vinson - era stata recepita nel mondo intero come una conferma del "nuovo corso" trumpiano, da isolazionista a interventista in politica estera.

Gli unici a non avere ricevuto quel messaggio, a quanto pare, sono stati proprio gli ammiragli della U.S. Navy e tutti gli equipaggi della flotta in questione. Che ha continuato per una settimana a navigare nella direzione opposta. Dirigendosi, imperterrita, verso la sua destinazione "normale", puntando cioè verso quei mari dell'Australia dov'era attesa per un'esercitazione.

I primi ad accorgersi della sconcertante situazione sono stati i cronisti dello Huffington Post. Poi la vicenda è stata confermata ai massimi livelli, al punto che il New York Times ne ha fatto il titolo di apertura del suo sito. Tardivamente, la flotta ha finito per seguire gli ordini del presidente. Ma con un tale ritardo, da mettere a dura prova la credibilità della Casa Bianca. Il gesto che doveva intimorire Pyongyang non c'era stato, o non era stato trasmesso "per li rami" ai vari livelli della gerarchia militare? O qualcuno non aveva preso sul serio quell'annuncio, all'interno del Pentagono?

Secondo le ricostruzioni dei media americani è stata la stessa U.S. Navy a sbugiardare involontariamente il proprio presidente, avendo messo sul proprio sito ufficiale le foto della portaerei Ccarl Vinson mentre attraversava lo stretto che separa le isole indonesiane di Giava e Sumatra, ben quattro giorni dopo l'annuncio della spedizione al largo della Corea del Nord. Rivelando così che in quei quattro giorni la flotta si era allontanata, non avvicinata alla penisola coreana.

Forse ha portato sfortuna l'uso della metafora storica. Come sanno gli appassionati di storia navale, l'Invincibile Armada spagnola nonostante il nome altisonante fece una brutta fine. Salpata nel 1588, doveva partecipare all'invasione spagnola dell'Inghilterra, scortando un esercito dalle Fiandre. Dopo una serie di disavventure e soprattutto un terribile uragano nel Mare del Nord, la flotta dovette battere in ritirata con un terzo delle navi colate a picco. 

© Riproduzione riservata 19 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/19/news/_trump_si_e_perso_l_invincibile_armada-163332866/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
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« Risposta #140 inserito:: Maggio 02, 2017, 11:42:20 am »

Corea del Nord, l'ipotesi dell'intelligence dietro ai flop dei test missilistici
Il secondo esperimento consecutivo fallito da Pyongyang alimenta le dietrologie: qualcuno tra Cina e Usa potrebbe aver avuto un ruolo. Ma potrebbero anche essere stati entrambi

Di FEDERICO RAMPINI
29 aprile 2017

NEW YORK – E’ già il secondo test consecutivo di un missile nordcoreano che fallisce. Proprio quando fa comodo a molti che fallisca: Washington e Pechino in primis. E allora si capisce che questo rilanci le dietrologie. Qualcuno li fa fallire? E’ già stata evocata in precedenza l’ipotesi di un sabotaggio elettronico, forse a distanza. E’ un’operazione che potrebbe far capo all’intelligence militare cinese, o a quella americana o infine (ipotesi ancora più avvincente) a tutt’e due. Quest’ultima è decisamente la più improbabile perché non c’è fra le due intelligence il livello di affinità politica che caratterizza, ad esempio, americani e israeliani (protagonisti di un celebre sabotaggio elettronico del programma nucleare iraniano).

Il flop del missile nordcoreano ha concluso una giornata dove il centro dell’azione era stato qui a New York, al Palazzo di Vetro. “L’intera comunità mondiale deve aumentare drasticamente le sue pressioni sulla Corea del Nord, altrimenti si va verso una catastrofe. E l’America è pronta a intervenire militarmente se necessario”. Lo ha detto venerdì il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, alle Nazioni Unite. Il capo della diplomazia Usa si è allineato con l’avvertimento che il suo presidente aveva lanciato la sera prima in un’intervista all’agenzia Reuters. “C’è una possibilità – aveva detto Donald Trump – che finiamo in una grande, grande guerra con la Corea del Nord. Assolutamente”.

Tillerson ha specificato le azioni che la comunità internazionale deve prendere immediatamente: primo, applicare con la massima severità le sanzioni già approvate dall’Onu e in vigore contro la Corea del Nord; secondo, sospendere o ridimensionare le relazioni diplomatiche con quel paese (per chi ne ha ancora: non è il caso degli Usa); terzo, aumentare l’isolamento finanziario e tecnologico di Pyongyang applicando sanzioni anche contro quei paesi terzi che continuino in qualche modo a sostenere il programma missilistico e nucleare di Kim Jong-un. Primo destinatario di queste tre proposte è sempre la Cina, il paese che ha le maggiori relazioni politiche ed economiche con il suo “vassallo” nord-orientale. L’Amministrazione Trump, in continuità con quelle che l’hanno preceduta alla Casa Bianca, è convinta che la Cina non abbia usato tutte le leve di cui dispone per costringere la Corea del Nord a rinunciare ai suoi test illegali.

Tillerson ha riproposto anche l’opzione di un dialogo diretto fra Washington e Pyongyang. Ma lo ha fatto ponendo come condizione preliminare che la Corea del Nord smantelli il suo programma nucleare prima ancora che il dialogo cominci. Diverse Amministrazioni Usa nel passato esplorarono anche questa strada, con risultati modesti: un contatto diretto fra i governi dei due paesi è di per sé un grosso successo d’immagine per la Corea del Nord che ne ricava una legittimazione; quando questi contatti ci furono ebbero il risultato di congelare i test nucleari e missilistici ma solo temporaneamente; non appena la Corea del Nord ritenne di non ricavarne concessioni sufficienti (per esempio aiuti economici) i test ripresero.

Da parte sua Trump è tornato anche a esercitare pressione sul suo alleato, la Corea del Sud. Riecheggiando la stessa polemica che lui ha con gli europei sulle spese della Nato, il presidente ha rilanciato la richiesta che Seul paghi il costo del sistema avanzato di difesa missilistica, che lui stima sia di un miliardo di dollari. Quel sistema è lo “scudo” con cui gli americani tenterebbero di proteggere la Corea del Sud da eventuali attacchi missilistici di Kim Jong-un.

© Riproduzione riservata 29 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/29/news/corea_del_nord_ipotesi_dell_intelligence_dietro_ai_flop_dei_test_missilistici-164157964/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P8-S1.8-T2
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« Risposta #141 inserito:: Maggio 17, 2017, 06:33:30 pm »

Trump ordinò all'Fbi di insabbiare il Russiagate
James Comey, capo del Federal Bureau of Investigation fino alla scorsa settimana e licenziato in tronco dal presidente, rivela che a febbraio Donald gli chiese di fermare le indagini sul generale Michael Flynn e sui suoi contatti con Mosca. La Casa Bianca smentisce

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
17 maggio 2017

NEW YORK - La vendetta di James Comey arriva in un "memo", abbreviazione per memorandum. Un dossier, insomma, in cui l'ex-capo dell'Fbi licenziato in tronco la settimana scorsa vuota il sacco e inchioda il presidente. L'accusa è grave: in un incontro fra i due a febbraio, Donald Trump chiese al capo dell'Fbi d'insabbiare l'indagine sul Russia-gate. In particolare l'inchiesta che la polizia federale (che ha anche responsabilità di contro-spionaggio) stava svolgendo sul generale Michael Flynn.

Il ruolo di Flynn nel Russiagate. Quest'ultimo è una figura centrale nel Russia-gate. Trump nominò Flynn come suo massimo consigliere per la sicurezza nazionale, cioè capo del National Security Council che all'interno della Casa Bianca è la cabina di regìa di politica estera, difesa, anti-terrorismo. Ma Flynn aveva nascosto una serie di rapporti con la Russia, incontri clandestini con l'ambasciatore di Vladimir Putin durante la campagna elettorale, perfino pagamenti ricevuti. Di fronte alle rivelazioni Trump dovette cacciarlo. La posizione di Flynn ha continuato ad aggravarsi, ora è stato convocato dalla commissione d'inchiesta parlamentare e su di lui pende un "sub-poena" cioè l'obbligo di testimoniare sotto giuramento.

Il timore della Casa Bianca, si presume, è che dalla testimonianza di Flynn possano uscire altre rivelazioni compromettenti. Per esempio sul fatto che Trump fosse al corrente dei contatti coi russi in campagna elettorale? (Va ricordato che la stessa campagna fu contrassegnata da ripetuti attacchi di hacker russi contro Hillary Clinton). Ora arriva l'ultimo colpo di scena.

Già si sapeva - lo stesso Trump non ne ha fatto mistero - che dietro il licenziamento di Comey c'era l'esasperazione del presidente per l'indagine dell'Fbi sul Russia-gate, tuttora in corso e che genera prove utilizzabili nell'ambito della commissione parlamentare. La soffiata al New York Times indica che il presidente aveva tentato d'interferire pesantemente nel lavoro della polizia federale, che è indipendente dalle direttive dell'esecutivo. Quella richiesta d'insabbiare l'indagine sul Russia-gate che a febbraio Comey respinse, "firmando" così la propria uscita di scena, è ai limiti dell'abuso di potere.

I colloqui tra Trump e Comey. Comey, rivela il Nyt, creò un memorandum - inclusi alcuni appunti che sono classificati - su ognuna delle telefonate e gli incontri avuti con il presidente. Non è chiaro se Comey denunciò al ministero della Giustizia, da cui dipende, la conversazione avuta con Trump e la sua richiesta e l'esistenza degli appunti. Comey vide Trump il 14 febbraio, il giorno dopo le dimissioni di Flynn, costretto a lasciare l'incarico perchè, si era scoperto, aveva mentito al vicepresidente Mike Pence assicurandogli che non c'era nulla di male nella telefonata con l'ambasciatore russo. Quel giorno, ricostruisce il Times, Comey era nello Studio Ovale con Trump ed altri vertici della sicurezza nazionale per un briefing sul terrorismo. "Quando la riunione si concluse Trump disse ai presenti, incluso Pence ed il ministro della Giustizia Jeff Session, di lasciare la stanza per restare da solo con Comey". Una volta solo Trump iniziò un filippica contro le fughe di notizie suggerendo a Comey di "considerare (l'opzione) di mettere in prigione i reporter per pubblicare informazioni classificate prima di affrontare l'argomento Flynn" riferisce una delle due persone vicine a Comey, che hanno parlato con il Times. Comey "si consultò con i suoi più stretti consiglieri sull'accaduto e tutti condivisero l'impressione che Trump avesse cercato di influenzare l'indagine (un accusa che ove mai trovasse una conferma indipendente potrebbe configurare il gravissimo delitto di 'intralcio della giustizia', per cui in questo caso Trump rischierebbe la presidenza, ndr) ma tutti decisero che avrebbero cercato di mantenere segreta la conversazione (con Trump), anche agli stessi agenti dell'Fbi che stavano conducendo l'inchiesta sul Russiagate, in modo che la richiesta del presidente non influenzasse il loro lavoro".

Il pezzo del Times sembra suggerire che l'avvertimento minaccioso di Trump a Comey, all'indomani del suo licenziamento, di stare attento a cosa avrebbe deciso di far filtrare alla stampa perché potrebbero esserci "registrazioni degli incontri", non preoccupi affatto Comey. Da sottolineare anche il fatto che il New York Times rivela la sua fonte: uno stretto collaboratore di Comey. La guerra dell'intelligence contro il presidente, a colpi di dossier e fughe di notizie, diventa sempre più spietata. 

La risposta della Casa Bianca. La Casa Bianca nega che il presidente Donald Trump abbia chiesto all'ex capo dell'Fbi, James Comey, licenziato in tronco lo scorso 9 maggio, di fermare l'indagine sul suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn. "Il presidente non ha mai chiesto a Comey o a chiunque altro di porre fine ad alcuna indagine, compresa ogni indagine relativa al generale Flynn", si legge nella nota della Casa Bianca. Trump "ha il più alto rispetto per le nostre agenzie delle forze dell'ordine e per tutte le inchieste - si sottolinea nel comunicato - questa non è una presentazione vera o accurata della conversazione tra Trump e Comey".

Repubblicani spaccati. Il presidente della commissione di vigilanza della Camera, il repubblicano Jason Chaffez, chiede all'Fbi di consegnare tutti i documenti e le registrazioni delle comunicazioni fra l'ex direttore dell'Fbi, James Comey, e il presidente Donald Trump. La richiesta mostra la spaccatura all'interno del partito repubblicano, all'interno del quale solo in pochi difendono Trump. Molti preferiscono tacere. Per gli esperti questo è il 'momento della verità' nel partito.

Democratici all'attacco. E insorgono i democratici, dopo questa nuova tegola sulla testa del presidente Usa. ''Quando è troppo è troppo'' sbotta il parlamentare democratico, Adam Schiff. ''Il paese viene messo sotto esame in un modo senza precedenti. La storia ci sta a guardare'' tuona Chuck Schumer, il leader della minoranza democratica in Senato. ''Servono i mandati per ottenere i documenti legati a Flynn'' dice il parlamentare Elijah Cummings. Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera, parla di ''assalto alla legge'': se la ricostruzione di Comey è vera, il presidente ''ha commesso un grave abuso del suo potere esecutivo. Nel peggiore dei casi si è trattato di ostruzione alla giustizia''.
 
© Riproduzione riservata 17 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/17/news/trump_ordino_all_fbi_di_insabbiare_il_russiagate-165619197/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
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« Risposta #142 inserito:: Maggio 22, 2017, 11:55:50 am »

Viaggio in Arabia, da Trump mano tesa all'Islam: "Guerra al terrore non è guerra di religione"
A Riad, davanti ai leader musulmani, il presidente statunitense conferma le distanze da Obama ma non insiste sui toni razzisti della campagna elettorale: "Non sono qui per darvi lezioni"

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
21 maggio 2017

RIAD - "Non sono venuto qui a darvi lezioni, non sono io a dirvi come dovete vivere. Ma occorre una coalizione internazionale contro il terrorismo. Le nazioni del Medio Oriente non possono aspettare che sia l'America a sconfiggerlo. Dovete battere voi questo nemico che uccide in nome della fede". E' l'atteso discorso di Donald Trump sull'Islam. Lo pronuncia a Riad davanti ai leader del Gulf Cooperation Council (Gcc) che riunisce gli Stati del Golfo Persico con l'ovvia eccezione del nemico Iran.

C'è dentro il discorso un elemento di rottura col suo predecessore: "realismo fondato sui principi", che Trump declina così: "la sicurezza si costruisce nella stabilità, noi non molleremo i nostri alleati". E' un chiaro riferimento all'accusa che la destra americana ha rivolto a Barack Obama per quel periodo in cui appoggiò le primavere arabe, contribuendo alla caduta di Mubarak in Egitto. Trump è chiaro: non rifarebbe quella scelta. Parlando qui a Riad nella capitale di uno dei regimi più reazionari, si guarda bene dall'evocare il tema delle libertà, della democrazia. C'è però un passaggio sulla "oppressione delle donne" e sulla persecuzione delle minoranze religiose (ebrei, cristiani) che indirettamente può suonare critico verso l'Arabia saudita che lo ospita. Subito contraddetto, o almeno fortemente attenuato, dalla sua invocazione di un realismo politico e di un appoggio incondizionato agli alleati.

Il suo sostegno ai regimi dell'area è totale, purché si uniscano all'America nella battaglia al terrorismo, condannandolo anche in nome della fede musulmana. In questo senso il discorso pronunciato davanti al Consiglio dei paesi del Golfo soddisfa le attese: era previsto che fosse un-anti Obama, con riferimento al celebre e controverso intervento che il predecessore fece all'università del Cairo nel giugno 2009. Quello conteneva un appello a valori universali comuni. Venne interpretato a posteriori, forse esagerandone la portata, come uno dei fattori che avrebbero contribuito a innescare le primavere arabe. Trump dice l'esatto contrario: non m'interessa sapere come trattate i vostri cittadini (sudditi, nel caso della monarchia saudita ed altre) in casa vostra, purché siate dalla nostra parte nella lotta al terrorismo.

C'era attesa anche perché Trump si presentava qui (ieri l'accordo per la fornitura miliardaria di armi) dopo che tra i primissimi atti della sua amministrazione figuravano due decreti sigilla-frontiere - poi bloccati dalla magistratura - che impedivano l'ingresso da sei paesi a maggioranza islamica. E a scrivere il discorso di oggi sull'Islam il presidente ha chiamato proprio il suo consigliere più coinvolto nella stesura dei decreti anti-islamici, Stephen Miller. Ma non ci sono asperità o provocazioni nel testo pronunciato a Riad.

E' netto l'appoggio agli alleati storici dell'America in quest'area, Arabia saudita in testa, con la quale Obama ebbe rapporti tesi a causa dell'accordo con l'Iran sul nucleare. "I nostri amici - dice Trump - non dovranno mai dubitare del nostro appoggio. Le alleanze migliorano la sicurezza attraverso la stabilità, non gli strappi radicali. Prenderemo le nostre decisioni basandoci sul mondo reale, non su ideologie inflessibili. Quando sarà possibile, cercheremo riforme graduali, non interventi improvvisi".

L'appello di Riad è per la costruzione di una "coalizione di nazioni che condividano l'obiettivo di sradicare l'estremismo, e dare ai nostri figli un futuro di speranza che onori Dio". E' espresso in termini un po' diversi, ma non dissimile dalla "coalizione dei volenterosi" di George W. Bush dopo l'11 settembre 2001. Peraltro anche Obama ha sempre lavorato a tenere unita una coalizione di paesi arabi, per esempio coinvolgendola in azioni militari contro l'Isis in Siria.

Nel discorso di Trump c'è un forte richiamo alle responsabilità primarie dei paesi arabi nel combattere il terrorismo: "Possiamo prevalere su questo male solo se le forze del bene sono unite e forti - e se ciascuno in questa stanza fa’ la sua parte e si prende carico della sua responsabilità. Il terrorismo si è diffuso nel mondo intero. Ma il cammino verso la pace comincia qui, in questa terra antica e sacra. L'America è pronta a stare dalla vostra parte, in nome degli interessi comuni e della sicurezza. Ma le nazioni del Medio Oriente non possono aspettare che sia la forza dell'America a schiacciare questo nemico per loro. Le nazioni del Medio Oriente devono decidere che futuro vogliono per se stesse, per i propri figli".

Trump arriva qui dopo una campagna elettorale in cui aveva lanciato accuse indistinte, generalizzate, contro l'Islam. "Gli islamici ci odiano", aveva ripetuto più volte. Tra i suoi bersagli c'era stata anche l'Arabia Saudita che lui accusò apertamente di essere responsabile per l'attacco dell'11 settembre alle Torri Gemelle. I leader arabi riuniti qui a Riad non gliene tengono rancore: hanno imparato a non prendere troppo sul serio le parole del nuovo presidente americano, si fidano del fatto che lui non fa prediche sui diritti umani e non ha critiche da muovere ai regimi liberticidi. Sul piano militare, poi, l'accordo per la fornitura di armi ai sauditi (110 miliardi subito, 300 miliardi in dieci anni), è il tipo di segnale che piace ai governanti dell'area.

Dove Trump non fa marcia indietro rispetto al suo passato, è nel pronunciare la definizione "terrorismo islamista, estremismo islamista" che Obama preferiva evitare per non offendere le sensibilità religiose. Su questo era atteso al varco dal suo elettorato di destra, che non sopporta il "politically correct" dei democratici.
"Questa - dice Trump - non è una battaglia tra fedi o tra civiltà. E' una battaglia tra barbari criminali che cercano di distruggere la vita umana, e le persone oneste di tutte le religioni che cercano di proteggerla. E' una battaglia tra il bene e il male. Questo implica affrontare onestamente la crisi dell'estremismo islamico e dei gruppi di terroristi islamici che esso ispira. Significa essere uniti nella condanna contro l'uccisione di innocenti musulmani, l'oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei, il massacro dei cristiani. I leader religiosi devono essere chiari: la barbarie non vi darà alcuna gloria, se scegliete il terrorismo la vostra vita sarà vuota, sarà breve, la vostra anima sarà condannata".

© Riproduzione riservata 21 maggio 2017

Da – repubblica.it
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« Risposta #143 inserito:: Maggio 24, 2017, 11:43:17 am »

Trump in Israele, Kushner-Greenblatt: i due uomini che hanno la chiave del viaggio
Al genero fra i tanti incarichi affidò quello di preparare il grande accordo di pace con i palestinesi. Il secondo per molti anni fu l'avvocato d'affari della sua azienda

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
22 maggio 2017

GERUSALEMME - Attenti a quei due: Jared Kushner e Jason Greenblatt. Due ebrei ortodossi potrebbero creare la sorpresa in questa seconda tappa del viaggio di Donald Trump, giunto oggi in Israele?

Kushner è il Primo Genero, gode della massima fiducia di Trump che fra i tanti incarichi delicati gli affidò proprio quello di "preparare il grande accordo di pace tra Israele e i palestinesi". Greenblatt per molti anni fu l'avvocato d'affari della ditta Trump, poi il presidente lo nominò consigliere speciale per i rapporti con Israele. Greenblatt non ha mai fatto mistero di essere a favore di una soluzione definitiva basata sull'esistenza di due Stati, Israele e Palestina, principio che invece Trump era sembrato disposto ad abbandonare.

È il duo Kushner-Greenblatt che ha le chiavi di questa tappa in cui Trump incontrerà sia Benjamin Netanyahu che il capo dell'autorità palestinese Mahmoud Abbas. Paradossalmente, è proprio Abbas ad avere generato un po' di ottimismo. Dopo essere stato ricevuto da Trump alla Casa Bianca, il leader palestinese ne ricavò un'impressione positiva.

Dal lato degli israeliani c'è stata invece una serie di delusioni recenti. Trump li aveva colmati di attenzioni. Quando era presidente-eletto, ma non ancora in carica, attaccò duramente Barack Obama per il voto americano all'Onu di condanna degli insediamenti illegali di coloni nei territori occupati. All'epoca il presidente-eletto mandò dalla Trump Tower un tweet di inequivocabile sostegno a Netanyahu: tieni duro che tra un po' arrivo io e cambia tutto. Più di recente però è successo l'increscioso incidente dello Studio Ovale: quando Trump ha rivelato al ministro degli Esteri russo Lavrov segreti sull'Isis che gli erano stati forniti dall'intelligence israeliana (senza il permesso di quest'ultima).

La Casa Bianca inoltre ha fatto sapere che non ci sarà in questa occasione l'annuncio dello spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Un gesto di alta valenza diplomatica, che Trump in passato aveva promesso in modo avventato, senza valutare l'impatto dirompente che avrebbe sul mondo arabo. La stessa posizione tradizionale degli Stati Uniti, anche sotto precedenti Amministrazioni repubblicane, escludeva di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele a pieno titolo, fino a quando non sia risolto attraverso un negoziato coi palestinesi lo status della parte orientale della città.

Infine, la fornitura di armamenti hi-tech ai sauditi per 110 miliardi non è stata vista di buon occhio da Israele. L'Arabia saudita è sì un alleato storico degli Stati Uniti, ma è anche uno dei massimi sostenitori dei palestinesi. I palestinesi - dopo l'incontro di Abbas alla casa Bianca - hanno diffuso l'aspettativa che il presidente americano a Gerusalemme rilancerà i negoziati di pace con l'obiettivo di arrivare a un accordo entro un anno. Nientemeno. Il Big Deal, insomma, come lo aveva definito Trump ricorrendo al suo gergo da businessman. Su quale base possa accadere il miracolo, lo sanno (forse) Kushner e Greenblatt.

© Riproduzione riservata 22 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/22/news/trump_israele_viaggio-166069420/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #144 inserito:: Maggio 26, 2017, 05:04:28 pm »

Il Papa politico regala a Trump un libro sull'ambiente, "per la cura della nostra casa comune"
Bergoglio anticipa le pressioni del G7 sul presidente Usa sugli accordi di Parigi, che lui ha criticato ed è pronto a rinnegare

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
24 maggio 2017

CITTÀ DEL VATICANO - Papa Francesco ha regalato a Donald Trump tre libri che trattano, sono le sue parole, "i temi della famiglia, la gioia del Vangelo, e la cura della nostra casa comune che è l'ambiente". Quest'ultimo è il regalo più carico di una valenza politica. Papa Bergoglio ha ripreso la tradizione francescana del Cantico delle Creature per caratterizzarsi come il pontefice più ambientalista della storia (l'enciclica).

La Chiesa è decisamente schierata per il rispetto degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Il presidente americano in campagna elettorale denunciò quegli accordi e sposò invece le tesi negazioniste che da anni sono il credo della destra americana, ben foraggiate dalla lobby petrolifera. Trump arrivò a dire che il cambiamento climatico sarebbe "una bufala inventata dai cinesi per rovinare l'industria americana".

Alla vigilia di questo suo primo viaggio all'estero, Trump ha accennato ad una vaga disponibilità a ricredersi. Poco prima di partire da Washington ha detto, sull'accordo di Parigi, che "ascolterà quel che gli europei avranno da dirgli". Si riferiva al G7 di Taormina evidentemente, dove il tema è all'ordine del giorno.

Papa Francesco ha bruciato i tempi e lo ha anticipato. È possibile che anche sul clima Trump faccia qualche giravolta, come su tanti altri temi. L'incontro in Vaticano per lui è stato un successo d'immagine, ha cancellato il ricordo degli scambi infuocati che ebbe con il papa in campagna elettorale. È nello stile del personaggio, che già si è rinnegato su altri temi come la Nato, prima vituperata e poi rivalutata. Non bisogna illudersi sulla sostanza, però. Quand'anche Trump dovesse decidere di non strappare formalmente gli accordi di Parigi - firmati da un vasto arco di nazioni inclusa la Cina - le sue azioni da quando è alla Casa Bianca sono la demolizione sistematica delle politiche ambientaliste di Barack Obama.

Sui limiti delle emissioni carboniche imposti dal suo predecessore alle auto e alle centrali elettriche questa Amministrazione ha già fatto marcia indietro. Ha autorizzato trivellazioni in aree naturali protette. Ha autorizzato la costruzione di grandi oleodotti che Obama aveva vietato. Ha messo a capo dell'authority federale per l'ambiente (Environmental Protection Agency) un politico che ha fatto la sua carriera al servizio dei petrolieri. Ha tagliato i fondi alla ricerca, inclusi perfino i satelliti meteorologici. Queste sono scelte che contano e che rimangono, al di là delle parole formali su Parigi.

© Riproduzione riservata 24 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/24/news/il_papa_politico_regala_a_trump_un_libro_sull_ambiente_per_la_cura_della_nostra_casa_comune_-166264582/?ref=RHPPTP-BH-I0-C12-P1-S1.12-T2
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« Risposta #145 inserito:: Maggio 26, 2017, 05:07:11 pm »

G7, i risultati operativi saranno modesti G7.
"Sovranismo", spostamento del baricentro dell'economia mondiale verso i paesi emergenti, Trump e May intenzionati a non concordare decisioni comuni, questi gli ostacoli per i "Grandi" riuniti a Taormina.

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
26 maggio 2017

ITALIA ECLISSATA.
La presidenza italiana fa tutto quello che può ma non gliene viene dato atto: i media mondiali parlano di un asse Merkel-Macron per un pressing finale su Trump sul tema dell'ambiente, è come se Gentiloni non esistesse. Non è una gran novità, ma dispiace sempre constatarlo.

CONCLUSIONI OPERATIVE?
L'esito di questo G7 sarà comunque modesto, non certo per demerito dell'Italia che lo ospita e gestisce l'agenda; neppure per colpa di Trump da solo. E' il formato del G7 ad essere profondamente superato in un'era contrassegnata da tre fenomeni che sono il "sovranismo" (una parte dell'opinione pubblica vuole un ritorno alla centralità dello Stato-nazione); l'identificazione delle istituzioni sovranazionali con gli interessi delle élite e dell'establishment; infine lo spostamento di baricentro dell'economia mondiale verso i paesi emergenti. Gli elettori di Trump e della May vogliono dei leader che vadano ai vertici a fare il muso duro, non a concordare decisioni comuni.

STORIA DI UN ESPERIMENTO.
Il G7 nacque - in realtà come G5 a un'epoca in cui non c'erano ancora Italia e Canada - dopo i primi due shock petroliferi, per concordare una risposta dei paesi industrializzati a un problema comune. Metà anni Settanta, dunque. Con differenze enormi rispetto ad oggi. Problemi globali ce ne sono anche oggi ovviamente, dal cambiamento climatico all’emergenza-profughi. Ma c'era negli anni Settanta un'apertura di credito verso la governance globale, anche nelle opinioni pubbliche. C'era un'Europa più piccola ma più coesa, con un binomio franco-tedesco (Giscard-Schmidt) che addirittura ebbe un ruolo di supplenza rispetto ad un presidente americano debole (Carter). I paesi emergenti avevano un peso molto ridotto nell'economia globale, anche se stava iniziando uno spostamento di risorse Nord-Sud, limitato ai paesi Opec; e di lì a poco l'avvento della teocrazia khomeinista in Iran che avrebbe aperto per la prima volta il problema islamico.

BILANCI E RIFLUSSO ANTI-GLOBAL.
E' in questo contesto che va inquadrato l'esperimento dei G7, poi G8, infine con l'aggiunta dei G20. Sono stati per una certa fase la cabina di regia della globalizzazione. Il G8 con Eltsin per esempio ebbe un ruolo di punta dopo la caduta del Muro di Berlino per indirizzare la Russia verso le privatizzazioni (con esiti non particolarmente brillanti). Fu sempre in quell'ambito che l'America di Bush padre e Bill Clinton progettò il passaggio al Wto e la cooptazione della Cina nell'economia globale. Tutto il bilancio di quelle scelte oggi è sotto attacco, gran parte dell'opinione pubblica occidentale (e non solo gli elettori dei partiti populisti) rivede tutta quell'epoca come una grande delusione. Inevitabile quindi che le architravi istituzionali come il G7 subiscano un invecchiamento e siano avvolte in una diffidenza che le rende impotenti.

EFFETTI SU TRUMP.
In questa situazione ci si potrebbe accontentare per Taormina di un obiettivo minimalista: educare Trump. E' un fatto che lui era partito da posizioni molto più estreme in campagna elettorale (sulla Nato, sul commercio estero) ma via via che incontra leader stranieri e questi gli rendono il dovuto omaggio, la sua vanità viene appagata e in qualche modo lui si accomoda nella scenografia di leader di una superpotenza che deve gestire una vasta rete di alleati e partner. Non cambia l'orientamento di fondo della sua politica però ne smussa le asperità. L'educazione di Mr Trump all'estero sarà forse l'unico risultato: è già sorprendente che abbia cominciato a leggere i discorsi che gli preparano, un gesto di umiltà che in America non gli era consueto.

 © Riproduzione riservata 26 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/26/news/g7_risultati_operativi_saranno_modesti-166448773/
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« Risposta #146 inserito:: Luglio 11, 2017, 10:02:27 am »

7LUG2017

Trump-Tillerson dilettanti allo sbaraglio?

Il match del giorno, inizio previsto alle 15.45, durata 30 minuti, oppone Trump e il suo segretario di Stato Rex Tillerson alla coppia formata da Vladimir Putin e dal suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Cioè, visto dalla stampa americana: due neofiti, due dilettanti allo sbaraglio, contro due vecchie volpi che li surclassano per esperienza, astuzia, competenza. Putin si è formato da giovane nel servizio segreto Kgb, e fa il presidente da molti anni; Lavrov ha fatto le sue prove in una diplomazia sovietica che è sempre stata una palestra strategica di alto livello. I due americani vengono da professioni diverse, uno ha fatto il palazzinaro e lo showman, l'altro il top manager della multinazionale petrolifera Exxon. La maggiore debolezza di Trump forse non è neppure l'inesperienza ma la sconfinata presunzione: lui stesso si vanta d'improvvisare, di non studiare i dossier, di arrivare agli incontri senza un'agenda precisa. Il primo rischio, il più banale, è che Putin rubi il tempo all'interlocutore, che abbia già pronto un lungo discorso infarcito di lamentele e di accuse per le presunte scorrettezze dell'America nei suoi confronti (dall'Ucraina alla Siria). Molti osserveranno con curiosità maniacale anche il "body-Language" tra i due leader, che hanno investito su una immagine "macho" e curano molto le apparenze. Ricordo a questo proposito che durante la campagna elettorale nei duelli tv sia contro i candidati repubblicani alla nomination, sia contro Hillary, alcuni esperti suggerivano di seguire i dibattiti spegnendo il volume, per concentrarsi sull'impressione di "dominio fisico dell'avversario" che Trump riusciva a trasmettere. In conclusione, molti americani questo pomeriggio si accontenterebbero di uno striminzito pareggio...

Scritto in Donald Trump, Politica estera Usa, Primarie 2016, Putin | Nessun Com

Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-L
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« Risposta #147 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:21:41 pm »

La lunga campagna elettorale del non candidato Zuckerberg
Mr. Facebook: "Niente politica". Ma visita 30 Stati per "conoscere meglio gli americani"
E assume i consiglieri di Obama e Hillary.
La sua popolarità però è solo al 24 per cento

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
08 agosto 2017

MARK ZUCKERBERG for President? La sinistra americana, tuttora depressa e disorientata nonostante il caos-Trump, sogna un cavaliere bianco che arrivi al galoppo per salvarla. Chi meglio del giovane che ha inventato il social media da due miliardi di utenti? Il padrone di Facebook smentisce: "Non sarò candidato". Ma dicono tutti così, fino a un minuto prima del fatidico annuncio. Sui piani di Zuckerberg per scalare la Casa Bianca - e scalzare The Donald il più presto possibile - è lui stesso ad aver seminato indizi. E' partito per un tour nazionale in 30 Stati Usa con lo scopo dichiarato di "conoscere meglio gli americani". Ha cominciato dall'Iowa dove hanno inizio ogni quattro anni le primarie per la nomination. Poi il Michigan dove ha incontrato a Detroit gli operai della Ford, una constituency che fu decisiva per l'elezione di Trump. E' passato nell'Ohio, altro Stato-chiave per conquistare la presidenza. Prima di partire aveva assunto nella propria Fondazione uno degli strateghi delle vittorie di Barack Obama, David Plouffe, considerato un genio del marketing elettorale. Pochi giorni fa un altro reclutamento, Joel Benenson: pure lui lavorò con Obama come esperto di analisi demoscopiche, poi fu il chief strategist della campagna di Hillary Clinton. Alle dietrologie su queste due assunzioni, Zuckerberg risponde: Plouffe e Benenson sono talenti al servizio dell'impegno umanitario. Quei due aiutano la Fondazione Chan Zuckerberg (il primo cognome è della moglie) nei progetti per "curare malattie, migliorare l'istruzione, dare voce a tutti coloro che vogliono costruire un futuro migliore".

Non bastano queste smentite a placare i sospetti. La Fondazione può diventare un ideale trampolino per la candidatura. Nell'azione umanitaria c'è un condensato dei valori che Zuckerberg propone agli americani, un suo identikit etico e politico. Non è detto che un suo ingresso in politica debba avvenire attraverso uno dei due partiti tradizionali. Altri imprenditori si candidarono da indipendenti: Ross Perot che fu battuto alle presidenziali del 1992 ma ebbe un seguito superiore alle previsioni e prefigurò il protezionismo di Trump; Michael Bloomberg con più successo come plurieletto sindaco di New York. Tuttavia se c'è un partito che in questo momento ha un gran bisogno di volti e idee nuove, ricambio generazionale e progettuale, è il partito democratico. "Missing in action", come i soldati scomparsi in guerra: per quanti disastri abbia combinato Trump nei primi 200 giorni, si parla solo di lui. Cosa faccia l'opposizione democratica, lo sanno in pochi. E sul partito incombe ancora il potere dei Clinton che non hanno mollato la presa. La selezione di una nuova classe dirigente urge: già tra 15 mesi si vota per le legislative di mid-term, la prima occasione di rivincita contro Trump. Guai ad arrivarci senza messaggi chiari e candidati convincenti.

Zuckerberg ha delle qualità evidenti. E' giovane: 32 anni. E' un outsider. Ha costruito un'impresa che vale cento volte quella di Trump: 45 miliardi di dollari la capitalizzazione di Facebook. E non è un'impresa qualsiasi, è la nuova "piazza virtuale" dove quasi un terzo della popolazione mondiale dialoga e socializza, si scambia informazioni, emozioni, amicizie. E' disinteressato: donerà alla sua Fondazione il 99% della ricchezza. E' progressista... ma su quest'ultima affermazione si apre un problema. I liberal della Silicon Valley sono fin troppo di sinistra - rispetto al baricentro politico della nazione - su temi come l'ambiente, i matrimoni gay o la marijuana. Ma hanno costruito un'alleanza malefica con Wall Street e un capitalismo diseguale, afflitto da problemi sociali enormi. Che non si risolvono a colpi di beneficenza: proprio Zuckerberg è incappato in un disastro quando ha donato 100 milioni per risanare le scuole pubbliche di Newark (New Jersey) con risultati fallimentari. E così dal sito Politico.com parte una messa in guardia, dell'opinionista Bill Scher: "Zuckerberg, stai attento. Non confondere la popolarità di Facebook con la tua personale ". In effetti solo il 24% degli americani ha un'opinione positiva di lui. La sinistra rischia di credere che dopo Trump qualsiasi imprenditore può vincere. Dimenticando due cose. Primo, Trump si è allenato per decenni come figura pubblica, protagonista di controversie e polemiche feroci (per esempio su "Obama nato all'estero") per saggiare i suoi potenziali elettori. Secondo: una regola d'oro è che gli americani dopo un presidente vogliono un successore che sia l'estremo opposto. Vedi la sequenza Bush-Obama-Trump. Il multimiliardario forse deve saltare un turno.

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/08/news/la_lunga_campagna_elettorale_del_non_candidato_zuckerberg-172612628/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1
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« Risposta #148 inserito:: Agosto 16, 2017, 07:56:17 am »

E nell'era di Donald la finanza riconquista la libertà di fare danni

I motori dello sviluppo non sono ripartiti e la deregulation potrebbe favorire nuovi incidenti

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
09 agosto 2017

DIECI anni fa si accendevano segnali di allarme per il crac dei mutui subprime: l'inizio della Grande Crisi. È una storia dalla quale non siamo veramente usciti. Le cause profonde di quell'evento non sono state curate. Un altro shock, magari innescato da un detonatore diverso, non si può affatto escludere.

La finanza domina il mondo più che mai, anche grazie ad un'alleanza di ferro con i giganti delle tecnologie digitali. Inoltre la Grande Crisi ci ha lasciato in eredità una svolta politica inaudita. Donald Trump non sarebbe alla Casa Bianca, se quella maxi-recessione non avesse generato disastri economici, sofferenza sociale, un profondo senso di ingiustizia mescolato a risentimento, che il populismo di destra ha cavalcato con efficacia.

L'antefatto? La crescita americana era già segnata dalle diseguaglianze sociali (una patologia in peggioramento costante da 30 anni); classe operaia e ceto medio faticavano a mantenere il tenore di vita. Il sistema bancario "curò" quegli squilibri a modo suo: speculandoci sopra. Wall Street facilitò l'accesso alla casa in modo scriteriato. Mutui ad alto rischio venivano concessi a debitori in situazioni precarie, che al primo shock congiunturale sarebbero diventati insolventi. I banchieri si disinteressavano degli enormi rischi accumulati, spalmandoli sul mercato, nascondendoli dentro complicati titoli strutturati. Sullo sfondo, altri macro-squilibri: l'eccesso di risparmio in paesi esportatori come Cina e Germania, protagonisti di un vasto "riciclaggio" dei surplus commerciali. Episodi di iperinflazione delle materie prime. In un clima torbido, con controlli inadeguati e conflitti d'interessi a gogò, arrivò il Dies Irae: prima il crac di alcuni fondi immobiliari Bnp (9 agosto 2007), qualche mese dopo l'insolvenza di Bear Stearns, un anno dopo il crac di Lehman. Una spirale di panico, seguita dal contagio all'economia reale in tutto l'Occidente. Si salvò solo la Cina, irrobustendo il dirigismo di Stato.

Dieci anni dopo, il paesaggio sembra irriconoscibile. L'economia americana è nell'ottavo anno di crescita consecutiva, il pieno impiego è vicino. Eppure l'8 novembre ha prevalso la narrazione trumpiana su un paese allo sfascio. Il candidato più catastrofista della storia ha conquistato i voti dei metalmeccanici, i cui posti di lavoro erano stati salvati da Barack Obama. Una volta al potere, Trump ha riempito la sua Casa Bianca di uomini (e una donna) della Goldman Sachs. E sta lavorando per smantellare i controlli su Wall Street introdotti dal suo predecessore, la legge Dodd-Frank. Le banche si riconquistano un pezzo alla volta la libertà di far danno. Non che fossero veramente rinsavite negli ultimi anni. Malgrado le multe miliardarie la propensione della finanza a delinquere non è diminuita: alcuni degli scandali più gravi (come la manipolazione del Libor di Londra) sono avvenuti diversi anni dopo il 2007. Dalla Deutsche Bank alla Popolare di Vicenza e Banca Etruria, l'Europa non si è dimostrata migliore. Certo alcune falle del sistema sono state tappate, i requisiti di capitalizzazione (leggi: solidità) delle banche sono più severi.

Tuttavia Obama dovette ammettere che "nessun banchiere è finito in prigione" per i disastri del 2009, e la causa la indicò nelle leggi sbagliate, piegate agli interessi delle lobby. Ma lo stesso Obama appena è andato in pensione si è adeguato al vizietto di Hillary Clinton: conferenze a Wall Street lautamente pagate (centinaia di migliaia di dollari "all'ora") dagli stessi banchieri. Le élite progressiste sono apparse troppo spesso organiche agli interessi della finanza. Fu proprio questa una scintilla iniziale dell'ondata di populismo. Precursore di Trump fu il Tea Party. Movimento radicale di una destra anti-tasse e anti-Stato, nacque nel 2009 per protestare contro il maxi- salvataggio delle banche di Wall Street: 800 miliardi sborsati dai contribuenti. È vero che quell'operazione si saldò in pareggio e perfino con un piccolo guadagno per le finanze pubbliche, molti anni dopo. Ma nel 2008-2009 ci fu un'ecatombe di piccole imprese, una carneficina di posti di lavoro, e con loro lo Stato non fu così solerte e generoso.

Poi arrivò una terapia d'eccezione: il "Quantitative easing" della banca centrale, quando la Federal Reserve comprò titoli in quantità enormi per inondare l'economia di credito a buon mercato. Un'alluvione da 4.000 miliardi solo negli Stati Uniti; in ritardo, la ricetta fu copiata dalla Bce. Ha funzionato a metà. La crescita rimane "sub-ottimale", nettamente inferiore rispetto all'Età dell'Oro tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. La finanza continua a esercitare un peso eccessivo, prelevando rendite parassitarie dall'economia reale. Il mondo galleggia sulla liquidità creata dalle banche centrali. Gli stessi Padroni della Rete, le "cinque sorelle" Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google privilegiano la finanza sull'innovazione. (Le diseguaglianze più estreme si registrano proprio nella Silicon Valley). Ci sono gli ingredienti di una stagnazione secolare perché si sono guastati i motori storici dello sviluppo capitalistico: demografia, diffusione di potere d'acquisto, progresso della produttività, decollo di paesi emergenti. E ora che i repubblicani al potere a Washington lanciano ai banchieri il segnale del "liberi tutti" con la deregulation finanziaria, un nuovo incidente non è davvero da escludere.

© Riproduzione riservata 09 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/08/09/news/e_nell_era_di_donald_la_finanza_riconquista_la_liberta_di_fare_danni-172679632/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
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« Risposta #149 inserito:: Agosto 26, 2017, 11:30:08 am »

Usa, Trump licenzia lo stratega Bannon. E lui commenta: "È finita la presidenza per cui abbiamo lottato"
L'ennesimo rimpasto porta all'uscita di scena del collaboratore più legato all'estrema destra.
Un prezzo che il presidente paga per la disastrosa gestione delle violenze di Charlottesville

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
18 agosto 2017

NEW YORK - Salta un'altra testa alla Casa Bianca, tra le più prestigiose ma anche controverse. A lasciare lo staff presidenziale è Stephen Bannon, di tutto l'entourage trumpiano l'uomo più chiaramente legato agli ambienti dell'estrema destra. Il nuovo rimpasto - l'ultimo di una lunga serie in soli sette mesi di governo - vista la tempistica appare come il prezzo politico che Donald Trump paga per il disastro di Charlottesville, con le violenze dei suprematisti bianchi e neonazisti sono state trattate con indulgenza e perfino comprensione dallo stesso presidente. Le reazioni indignate, non solo a sinistra ma dentro il partito repubblicano e nell'establishment economico, non accennano a placarsi. Bannon sembra quindi l'agnello sacrificale che Trump decide di offrire in pasto all'opinione pubblica e al suo partito per spegnere un incendio che lui stesso ha appiccato.

E da Bannon arriva un commento amaro: "La presidenza Trump per cui abbiamo lottato, e vinto, è finita", ha detto in una intervista concessa al Weekly Standard dopo il licenziamento. "Abbiamo ancora un enorme movimento - ha aggiunto - e faremo qualcosa di questa presidenza Trump. Ma quella presidenza è finita. Sarà qualcos'altro". Confermando poi il suo ritorno alla guida del sito di destra Breitbart, Bannon ha aggiunto: "Adesso sono libero".

E' Maggie Haberman del New York Times a firmare per prima lo scoop sul sito del giornale, poi arriva la conferma della Casa Bianca: Bannon e il generale John Kelly che è il capo di gabinetto del presidente, hanno concordato la partenza fissandola per oggi stesso. E' quindi l'ultimo giorno di Bannon alla Casa Bianca. Nello stesso articolo del New York Times si ricorda che Bannon sostiene di aver già offerto al suo capo le dimissioni il 7 agosto, cioè prima di Charlottesville.

Da tempo Bannon è nel mirino. Ex direttore del sito di estrema destra Breitbart specializzato in fake news, era considerato uno degli strateghi della campagna elettorale di Trump. Ma già fece storcere il naso la decisione del presidente di inserirlo nel National Security Council (Nsc), importante organo che è la cabina di regìa della politica estera e militare. Quando Trump dovette cacciare dalla guida del Nsc il generale Michael Flynn, in odore di Russiagate, e sostituirlo con il generale McMaster, quest'ultimo chiese e ottenne la rimozione di Bannon da quell'organo. Tuttavia Bannon rimaneva a pochi metri dallo Studio Ovale, spesso inserito nelle delegazioni di alto livello e nei viaggi all'estero di Trump. Ancora ieri ha fatto scalpore una sua intervista in cui teorizzava una

"guerra economica contro la Cina". Il caos post-Charlottesville gli è stato fatale. L'uomo della "alt-right" paga per le parole con cui il suo presidente si è messo nei guai da solo, equiparando i razzisti del Ku Klux Klan a quelli che gli manifestavano contro.

© Riproduzione riservata 18 agosto 2017

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