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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112540 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Aprile 21, 2016, 05:45:10 pm »

Obama in Arabia Saudita, missione ad alta tensione
La settantennale 'amicizia' con Ryad vacilla davanti ai temi sul tavolo dell'incontro bilaterale: dalla posizione Usa sull'Iran ai disaccordi sul Medio Oriente fino alle richieste di danni dalle vittime dell'11 settembre. Ma Washington ha bisogno dell'alleato per la guerra all'Is sul terreno

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
20 aprile 2016

NEW YORK - Accordo nucleare con l'Iran; petrolio; lotta all'Is; Siria e Libia. Ci mancava solo l'11 settembre. L'agenda è densa, i disaccordi sono tanti tra due ex-alleati di ferro, ufficialmente tuttora amici. E' cominciata oggi la missione di Barack Obama in Arabia saudita, una visita ad alta tensione. L'occasione è un summit che riunisce tutti i paesi del Golfo persico (fuorché il vicino più ingombrante che è l'Iran), ma l'attenzione si concentra sul bilaterale saudita-americano: un asse che un tempo era un pilastro della politica americana in Medio Oriente, e oggi vacilla paurosamente.

Tra i dossier più scottanti c'è il processo di alcuni familiari delle vittime dell'11 settembre per ottenere che l'Arabia saudita paghi i danni (sia per la nazionalità dei terroristi, sia per i finanziamenti sauditi ad Al Qaeda). La Casa Bianca si oppone a quella richiesta dei familiari per ragioni pragmatiche (chissà quanti nel resto del mondo potrebbero usare un simile precedente per chiedere danni agli Stati Uniti) e tuttavia sta crescendo il partito dei favorevoli al Congresso di Washington. Il parere favorevole di Obama per pubblicare le pagine degli "omissis" nel rapporto sull'11 settembre accentua l'allarme dei sauditi.

Poi c'è l'accordo con l'Iran, che minaccia l'asse Washington-Ryad. Ma Obama ha bisogno dei sauditi per la coalizione sunnita che deve mettere "scarponi sul terreno" nella lotta contro l'Is. C'è anche la crisi petrolifera sullo sfondo di questa visita: per la prima volta da un quarto di secolo l'Arabia è costretta a indebitarsi per far fronte al crollo delle sue riserve valutarie.

Simon Henderson, del Washington Institute for Near East Policy, sulla rivista Foreign Policy ha sintetizzato così il paradosso di questo viaggio: "Per Obama il problema cruciale in Medio Oriente è la lotta allo Stato Islamico. Per la monarchia saudita, il problema numero uno è l'Iran". L'Arabia saudita e l'Iran si affrontano da anni come due potenze regionali in rotta di collisione. Sono molteplici le ragioni di questa rivalità: religiosa (sunniti contro sciiti), economica (produttori di petrolio concorrenti), militare e spionistica, con ciascuno dei due regimi impegnato a sostenere fazioni avverse ivi compresi i terroristi.

Poche settimane prima che Obama partisse per il Golfo, una sua lunga intervista alla rivista The Atlantic aveva fatto infuriare i sauditi. In quell'intervista il presidente americano diceva tra l'altro che Riad deve imparare a "condividere il Medio Oriente" con i rivali persiani, come unica via d'uscita dai conflitti regionali "per procura" che stanno divampando in Siria, Iraq, Yemen. Dichiarazioni che hanno ravvivato tra i sauditi la ferita per lo "strappo" compiuto da Obama quando ha sdoganato l'Iran ed ha avviata la levata parziale delle sanzioni togliendolo da un isolamento ultradecennale.

Più in generale, è quando ebbero inizio le "primavere arabe" che i dissensi fra Washington e Riad divennero sempre più visibili ed espliciti. I dirigenti sauditi denunciarono come un errore strategico di Obama l'avere accelerato la caduta di alcuni regimi autoritari. L'Arabia ha criticato anche il ripensamento di Obama quando dopo avere intimato ad Assad di non oltrepassare la "linea rossa" (l'uso di armi chimiche) rinunciò all'intervento militare in Siria. Sul fronte iraniano, viceversa, a Teheran si è spesso sottolineato come le Amministrazioni Usa abbiano adottato due pesi e due misure, condannando gli abusi contro i diritti umani da parte del regime degli ayatollah, e chiudendo un occhio sui comportamenti liberticidi della monarchia saudita. Su quest'ultimo punto qualcosa è cambiato con Obama che ha cominciato a criticare più che in passato le condanne a morte ed altri abusi sauditi contro le libertà.

Per Obama questo è il quarto viaggio in Arabia saudita dall'inizio della sua presidenza. L'alleanza con l'Arabia saudita dura ormai da oltre 70 anni. E nonostante le tensioni e incomprensioni più recenti, c'è una costante immutabile: le colossali forniture di armi made in Usa ad una monarchia armata fino
ai denti. L'Arabia saudita contraccambia con un ruolo di punta nella coalizione anti-Is a guida americana. Una delle richieste di Obama è che i paesi a religione sunnita mandino più "scarponi sul terreno" nelle zone ancora controllate dai jihadisti del Grande Califfato.

© Riproduzione riservata
20 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/20/news/obama_in_arabia_saudita-138080653/?ref=HREC1-38
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« Risposta #121 inserito:: Aprile 23, 2016, 12:01:53 pm »

La Grande metamorfosi: lobbisti e discorsi scritti, così Trump si converte allo stile presidenziale
The Donald cambia stile per compiacere l’establishment repubblicano in vista della convention


Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
22 aprile 2016
   
NEW YORK - "You are fired!". La celebre frase che Donald Trump urlava ai concorrenti eliminati nello show televisivo The Apprentice, adesso incombe sui suoi consiglieri. Sei licenziato! Inizia così la Grande Metamorfosi, nuovo colpo di scena nell'avventura politica di The Donald. Accelerata dal trionfo nella primaria casalinga di New York, è la conferma di una dote che i suoi amici gli conoscono da tempo: Trump è un camaleonte. La versione 2.0 che sta adottando, lo presenta più moderato, rassicurante, presidenziale. Per placare le ansie dell'establishment repubblicano. Per siglare una pace coi vertici del partito in vista della convention. E per ridurre l'alta percentuale di elettori ed elettrici ostili, in vista della sfida finale con Hillary. Contrordine su tutta la linea, ora Trump licenzia fedelissimi e assume vecchie volpi della politica, recluta lobbisti, si fa scrivere discorsi, legge dal teleprompter. Abbandona la tradizionale tirchieria e accetta di spendere 20 milioni di tasca sua per le primarie in Pennsylvania tra una settimana, poi Indiana, infine California. Un cambiamento totale. O quasi.

"You are fired!". La vittima più illustre finora è Stuart Jolly, direttore delle sue operazioni sul terreno, regista organizzativo e logistico della campagna elettorale. "Avevamo una formula vincente", ha scritto con rimpianto nella lettera di dimissioni in cui prende atto del nuovo corso. Jolly era un uomo del clan di Corey Lewandowski, fino a ieri potentissimo campaign manager, la cui influenza rimpicciolisce di ora in ora. Il nuovo uomo forte, assunto di recente, è Paul Manafort. Guarda caso, un veterano della politica che ha lavorato nelle convention repubblicane per Gerald Ford, George Bush padre, Bob Dole. (È anche stato consulente di Vladimir Putin). Attenzione all'anagrafe. Lewandowski, caduto in disgrazia, ha 42 anni. L'astro nascente Manafort ne ha 67. È il ritorno in auge dei vecchi mestieranti della politica. Un ricambio non solo di personale, ma di filosofia. Dopo essersi vantato di fare una campagna "da outsider, contro l'establishment che mi odia, contro i politici corrotti di Washington", ecco The Donald intento ad assumere proprio quel personale. Manafort a sua volta ha reclutato due vecchie volpi del sottobosco repubblicano, Rick Wiley e William McGinley. Missione: tranquillizzare le lobby e le correnti del partito, portare ramoscelli d'ulivo ai notabili del Senato e del Congresso, offrire posti in un futuro esecutivo Trump. Hanno avvicinato anche Colin Powell, l'ex segretario di Stato di George W. Bush. Insomma l'annuncio è chiaro: "Open for Business", siamo aperti a fare affari assieme. L'insurrezione è finita, le grandi manovre fervono per riconciliare Trump con chi gli ha fatto guerra finora.

The Donald è fatto così, da sempre. Michael Kruse in un'inchiesta per Politico Magazine, e un reportage di BuzzFeed, ricordano questa costante della sua vita: Trump è un uomo per tutte le stagioni, capace di cambiare amici, opinioni politiche, immagine personale, a seconda delle opportunità. Dopo aver vinto più di venti primarie, ma senza agguantare la maggioranza assoluta di delegati, il suo problema oggi è farsi accettare, scongiurare le trame dell'establishment che vuole scippargli la nomination alla convention di Cleveland a luglio.

Nel tono e nello stile, la Grande Metamorfosi si è vista in diretta la sera di martedì a New York. Dopo avere stracciato i rivali, con il 60% dei voti e la quasi totalità dei delegati, Trump ha fatto un discorso breve e sobrio. Ha parlato del "senatore Ted Cruz" invece di chiamarlo come al solito "Bugiardo Cruz". I suoi tweet si stanno diradando. Non appare in un talkshow da giorni, lui che ne faceva maratone quotidiane. Ha annunciato che terrà un discorso programmatico di politica estera, ma seguirà un testo scritto da altri usando il teleprompter (il leggìo elettronico per il quale lui sbeffeggiava Obama). Prima del prossimo Supermartedì del Nord-Est (Pennsylvania, Maryland, Rhode Island, Connecticut, Delaware) tira fuori 20 milioni, lui che finora contava su pubblicità gratuita grazie alle sue "sparate" in tv. Una spacconata gli sfugge lo stesso: "Per comprare i delegati della convention ho i giocattoli più belli. Li faccio viaggiare sul mio Boeing, li porto in Florida nei miei resort, club di golf e beauty spa". I media di destra sono affascinati dalla Grande Metamorfosi. Il Washington Post si chiede se non sia "troppo poco e troppo tardi" per sgonfiare l'immenso serbatoio di ostilità nell'elettorato.

© Riproduzione riservata
22 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/04/22/news/la_metamorfosi_di_trump-138177567/?ref=HREC1-7
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« Risposta #122 inserito:: Maggio 28, 2016, 11:52:59 am »

G7 con l'incubo populismi: Obama inseguito dall'ombra di Trump

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
26 maggio 2016

ISE SHIMA – Al di là dell’agenda dei lavori, è l’assedio dei populismi il fenomeno che segna questo G7. Al punto da dirottare una parte del tempo e dell’attenzione di Barack Obama, alla vigilia della sua storica visita a Hiroshima. Un tempo sembrava una maledizione dei leader italiani, rincorsi dalla politica interna anche quando partecipavano a summit internazionali. Ma ora tocca a Obama, occuparsi di "quell'ignorante di Donald Trump" nel bel mezzo di un summit in Giappone fra i potenti della terra.

Non importa se l'agenda del G7 presieduto dal premier Shinzo Abe è su ben altri temi: terrorismo, flussi migratori, debolezza della ripresa economica mondiale, o l’espansionismo della Cina nei mari di quest’area. Nelle pause dei lavori ufficiali tutti i leader vogliono sapere da Obama "le ultime su The Donald", ora che le chances di vittoria del tycoon appaiono (dagli ultimi sondaggi) alla pari con quelle di Hillary Clinton. Obama non si tira indietro e nella conferenza stampa riassume così quel che ha detto agli altri leader: "Gran parte delle cose che dice rivelano o un'ignoranza della realtà internazionale, o un atteggiamento spavaldo". Obama ha confermato che gli altri leader seguono con "attenzione e apprensione" la campagna elettorale americana. "Non sanno se prenderlo sul serio, ma sono turbati dalle cose che dice". Obama ha fatto del suo meglio per rassicurarli, ripetendo che secondo lui Trump non vincerà.

Il capogabinetto del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker (anche lui presente qui al G7) ha riassunto a modo suo il clima del vertice con questo tweet: “Il G7 del 2017 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario horror che fa capire bene perché vale la pena combattere il populismo”.

© Riproduzione riservata
26 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/05/26/news/obama_trump_g7_analisi_rampini-140643055/?ref=HRER3-1
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« Risposta #123 inserito:: Luglio 01, 2016, 05:45:05 pm »

Globalizzazione addio: il mondo che rivuole le frontiere.
La crisi del Mercato unico
L'inchiesta.
L'ordine economico degli ultimi 25 anni rimesso in discussione dal dilagare dei movimenti populisti. Prima puntata di cinque

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
27 giugno 2016

NEW YORK. La competizione globale - dice Barack Obama - dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati. Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie ricchezze e potere. L'angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono politici che sfruttano queste frustrazioni". Pronunciate poche ore dopo il risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l'Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell'opinione pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all'indietro, verso un'Età dell'Oro pre-globalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell'immigrazione. Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l'ordine economico mondiale nell'ultimo quarto di secolo. Una storia che ha origini in due trattati. Il primo è l'Atto che crea nel 1992 il grande Mercato unico europeo.

Il secondo è il Nafta (North American Free Trade Agreement) negoziato nel '92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare Cina e altre nazioni emergenti. Ma dall'inizio Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere oggi. Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un'offensiva neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l'economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L'implosione dell'Urss e dei suoi satelliti è l'altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro, l'America e l'Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d'ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Reagan-Thatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel dell'economia, capo della "scuola di Chicago". Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun paese può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i "vantaggi comparativi".

Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che gode dell'appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il Mercato unico sia accompagnato da una "carta sociale" dei diritti: per evitare che la competizione fra paesi di livello diverso si trasformi in una "rincorsa al ribasso" verso il minimo comune denominatore. Nel Mercato unico c'è qualcosa dell'idea di Delors. Tant'è che i conservatori inglesi allora denunciano un'Europa "socialista" che impone rigidità al mercato del lavoro. E' di quegli anni un progresso nelle tutele dei consumatori, terreno sul quale l'Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli Stati Uniti.

Il Mercato unico è più di un'area di libero scambio. Elimina barriere occulte all'esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all'emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali, industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il mercato dei lavori pubblici. Vieta gli aiuti di Stato. Il celebre Rapporto di Paolo Cecchini (eseguito su richiesta di Delors) prevedeva, tra i benefici del Mercato unico, due milioni di posti di lavoro.

Il Nafta dal primo gennaio 1994 estende un esperimento simile a tutto il Nordamerica: un'area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione scolpita nella pietra, che ancora oggi viene rinfacciata a Hillary. "Il Nafta - dice Bill firmando il trattato - significa lavoro. Nuovi posti per gli americani, ben pagati". Fin dall'inizio ci furono resistenze. I sindacati, e non solo. Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché nell'elezione del 1992, a rubare voti al presidente uscente George Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato indipendente, un Trump ante litteram: l'industriale Ross Perot. Il suo slogan più celebre, contro Bush che aveva negoziato il Nafta: "Quel trattato è un gigantesco aspirapolvere, succhierà fabbriche e occupazione dagli Usa al Messico". Perot puntava il dito sul divario salariale: la paga oraria di un operaio messicano arrivava a stento a un decimo di quella Usa.

Oggi Trump riprende gli stessi argomenti. Oltre al Muro contro l'immigrazione promette pesanti ritorsioni e multe contro le imprese Usa che delocalizzano nei paesi a basso salario. Il bilancio del Nafta che "perseguita" Hillary è meno brillante di quanto prometteva suo marito nel firmarlo. Uno studio indipendente del Congressional Research Service un quarto di secolo dopo definisce "modesti" i benefici del Nafta. L'organismo confindustriale U.S. Chamber of Commerce lo difende attribuendogli il boom di scambi: quintuplicati nel mercato nordamericano. Ma la confederazione sindacale Afl-Cio ha censito oltre 700.000 posti di lavoro trasferiti dagli Usa al Messico. Se si allarga lo sguardo oltre il Messico, si arriva a tre milioni di posti operai eliminati nella vecchia Rust Belt, la "cintura della ruggine", gli Stati industriali del Midwest che furono il centro della potenza industriale Usa per due secoli. E' lì che si gioca a novembre la sfida decisiva tra la Clinton e Trump. La decideranno elettori come Joe Shrodek, metallurgico in pensione, nella cittadina di Warren, Ohio. Ha sempre votato democratico. Ma oggi indica l'altoforno siderurgico dove lui lavorava: "Lì quando cominciai eravamo in diecimila operai. Oggi? Zero. Impianto chiuso. Trump dice le cose giuste. Al cento per cento".

© Riproduzione riservata
27 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/27/news/che_rivuole-142887461/?ref=HRER3-1
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« Risposta #124 inserito:: Luglio 30, 2016, 10:58:00 am »

Usa, Hillary accetta la nomination: "Comincia un nuovo capitolo"
Nel discorso che chiude la convention democratica Clinton insiste molto sullo slogan "Stronger Together" ("più forti insieme").
Attacca pesantemente Trump, "il signor risolvo-tutto-io".
E cerca di conquistare i sostenitori di Sanders


Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
29 luglio 2016

PHILADELPHIA - Sono le 22.47 sulla East Coast, Hillary Clinton ha cominciato a parlare da un quarto d'ora, quando arriva alla fatidica frase: "Con umiltà e determinazione, e con la massima fiducia nel futuro dell'America, io accetto la vostra nomination. Per la prima volta nella storia un grande partito ha designato una donna per la presidenza degli Stati Uniti. Sono felice per le nostre nonne e le nostre bambine. Anche per i ragazzi: quando cade una barriera si aprono nuove strade per tutti, e il cielo è l'unico limite". Hillary entra nella storia, e promette di fare la storia: "Sono qui per dirvi che il progresso è possibile. Da oggi cominciamo a scrivere un nuovo capitolo. Tutti insieme". Stronger Together, più forti insieme, è lo slogan che la Clinton ha voluto per questa convention. Forse non è originale come l'audacia della speranza o Yes We Can di Barack Obama. Ma rende l'idea di una donna che vuole costruire una società più solidale, ed è un bel contrasto con il suo avversario Donald Trump che conosce solo la prima persona: "Io, io, io".

In una serata festosa e ben orchestrata, Hillary viene "lanciata" per la sua performance storica dalla figlia Chelsea. Né l'una né l'altra hanno carisma, le emozioni palpitanti e le lacrime di nostalgia sono state riservate alla serata precedente con Barack Obama. Ma Hillary la secchiona, la lavoratrice, supplisce con diligenza. E tanta intelligenza politica. Buona parte del suo discorso (60 minuti in tutto) è riservata a conquistare i sostenitori di Bernie Sanders, la cui adesione sarà essenziale per sconfiggere Trump l'8 novembre. "Voglio ringraziare Bernie - dice lei - perché ha ispirato milioni di persone, tanti giovani ci hanno messo il cuore e l'anima. A tutti i tuoi sostenitori voglio dire: la vostra battaglia di giustizia sociale è la nostra, il paese ha bisogno di voi, delle vostre idee e della vostra energia, ora la vostra piattaforma deve diventare il cambiamento reale". Elenca puntigliosamente tutte le riforme che ha concordato con Sanders: aumento del salario minimo legale, no a trattati di libero scambio "iniqui", università gratuita per gli studenti meno abbienti, sovratasse sui ricchi, una stangata fiscale sulle multinazionali che delocalizzano, un giro di vite contro Wall Street. E la madre di tutte le riforme, lei l'annuncia con un vigoroso omaggio a Sanders: "La nostra economia è squilibrata perché la nostra democrazia è malata. Troppo denaro alla politica. Nominerò un giudice alla Corte suprema che s'impegni per abolire la sentenza Citizen United (quella che ha allargato a dismisura la possibilità di finanziare le campagne elettorali, ndr). Se necessario farò passare un emendamento alla Costituzione".
La Clinton fa da raccordo tra la presidenza Obama - "ci ha salvato dalla più grave crisi economica dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, sotto di lui sono stati creati 15 milioni di posti" - e l'insoddisfazione della base di Sanders. "Non mi soddisfa lo status quo, da presidente mi batterò per creare più posti di lavoro, meglio pagati, perché tutti abbiano le opportunità che meritano. Mi dedicherò ai dimenticati, a quelli che non hanno visto i frutti della crescita, agli operai delle fabbriche chiuse e delocalizzate, a chi si sente abbandonato". Promette, nei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, "il più grande programma di investimenti per l'occupazione mai varato dalla seconda guerra mondiale".

Stronger Together, è l'occasione per segnare l'enorme distanza dall'America di Trump, dal messaggio "di divisione, di paura". La risposta la prende a prestito dal più grande dei presidenti democratici, Franklin Delano Roosevelt: "L'unica cosa di cui dobbiamo avere paura, è la paura stessa". Sottolinea le umili origini dei propri genitori, "che costruivano un futuro migliore per i propri figli, ma non avevano il proprio nome in bella vista su palazzi come altri costruttori". È dalla storia di sofferenza della madre che trae ispirazione per la sua etica del servizio pubblico, l'impegno di una vita sulle riforme per l'infanzia, la scuola, la sanità. Il contrasto con Trump, "il signor risolvo-tutto-io" è l'occasione per segnalare la divaricazione estrema tra le due Americhe di Cleveland (convention repubblicana) e di Philadelphia. "Io non costruirò Muri, ma un percorso per la cittadinanza degli immigrati che arricchiscono il nostro paese. Io non metterò al bando un'intera religione, per battere il terrorismo lavorerò coi nostri alleati".

Riprende l'allarme su Trump che il giorno prima è stato lanciato con toni durissimi da Obama. "Abbiamo sbagliato a sottovalutarlo, a ridere delle sue sparate. Uno che insulta donne e stranieri, che umilia i disabili, che aggredisce un giudice, è un bullo al quale bisogna opporsi. Qualcuno si è illuso che fosse solo spettacolo, e ha pensato che prima o poi sarebbe venuto fuori un altro Trump. Non esiste un altro Trump". L'America e il mondo sarebbero in pericolo, "se l'arma nucleare finisse nelle mani di un uomo che può essere provocato con un semplice messaggio su Twitter, uno che ha perso le staffe per qualche domanda di una giornalista". E se alla sicurezza degli americani crediamo sul serio, "non possiamo eleggere uno che è al soldo della lobby delle armi".

La serata si chiude con la coreografia abituale: fuochi d'artificio e diluvio di palloncini colorati a stelle e strisce. Sul palco la raggiungono Bill e Chelsea, il vice Tim Kaine e la moglie. È stata una performance onorevole, per una serata storica. La scommessa che si possa fare ancora politica in modo "normale": costruendo alleanze sociali, proponendo un progetto positivo, elaborando programmi di riforme. Dall'altra parte c'è un improvvisatore diabolico e geniale, un teorico del caos. Uno dei due ha sbagliato epoca. La posta in gioco è immensa, e non solo per l'America.   

© Riproduzione riservata 29 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/07/29/news/usa_convention_democratica_hillary_clinton-145000399/?ref=HREC1-1
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« Risposta #125 inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:48:50 pm »

Intervista a Obama: "L'austerità blocca la crescita europea"
Il capo della Casa Bianca incontra oggi a Washington il presidente del Consiglio italiano. "Voi siete in prima linea e avete un ruolo di leadership nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe e rappresenta un test della nostra comune umanità". La sfida. "Occorrono politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze"

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
18 ottobre 2016

WASHINGTON - "L'AUSTERITY ha contribuito a rallentare la crescita europea". Barack Obama parla in quest'intervista esclusiva a La Repubblica in occasione dell'arrivo del premier italiano. Affronta il fenomeno Trump e tutti i populismi, indicando come risposta una politica economica che "riduca le diseguaglianze, aumenti i salari, investa nell'istruzione". Rende omaggio al ruolo dell'Italia nell'affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo ma avverte che "un piccolo numero di Paesi non possono sostenere quest'onere da soli". Invoca più collaborazione tra i servizi segreti occidentali "per prevenire gli attacchi terroristici". E offre un "pieno sostegno alle riforme di Renzi".
 
Signor Presidente, all'inizio del suo primo mandato l'economia americana e quella europea erano in una profonda recessione. Da allora l'economia Usa ha goduto di 7 anni di crescita, mentre l'Europa soffre ancora: bassa crescita e alta disoccupazione. È ora di rivalutare il ruolo della politica fiscale, gli investimenti pubblici? In altri termini, hanno fallito le politiche di austerità?
"Prima di tutto, vorrei dire quanto io e Michelle siamo lieti di ospitare il primo ministro Renzi e la signora Landini. L'Italia è da lungo tempo uno degli alleati più forti e vicini dell'America. Credo che l'esperienza degli Stati Uniti nel corso degli ultimi otto anni dimostri la saggezza del nostro approccio. Poco dopo il mio insediamento, abbiamo passato il Recovery Act, (la manovra di investimenti pubblici, ndr) per stimolare l'economia. Ci siamo mossi rapidamente per salvare la nostra industria automobilistica, stabilizzare le nostre banche, investire in infrastrutture, aumentare i prestiti alle piccole imprese e aiutare le famiglie a non perdere le loro case. I risultati sono chiari. Le imprese americane hanno creato oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è stato dimezzato. Abbiamo ridotto il deficit. I lavoratori stanno finalmente vedendo un aumento nelle loro retribuzioni. I redditi sono aumentati, e i tassi di povertà sono caduti. Abbiamo ancora molto da fare per aiutare i lavoratori e le famiglie a migliorare, ma ci stiamo muovendo nella giusta direzione.

"Altri Paesi hanno adottato un approccio diverso. Credo che le misure di austerità abbiano contribuito al rallentamento della crescita in Europa. In certi Paesi, abbiamo visto anni di stagnazione, che ha alimentato le frustrazioni economiche e le ansie che vediamo in tutto il continente, soprattutto tra i giovani che hanno più probabilità di essere disoccupati. Ecco perché penso che la visione e le riforme ambiziose che il primo ministro Renzi sta perseguendo siano così importanti. Lui sa bene che Paesi come l'Italia devono proseguire il loro percorso di riforme per aumentare la produttività, stimolare gli investimenti privati e scatenare l'innovazione. Ma mentre i Paesi si muovono in avanti con le riforme che renderanno le loro economie sostenibili a lungo termine, lui riconosce che hanno bisogno di spazio per effettuare gli investimenti necessari a sostenere la crescita e l'occupazione e ampliare opportunità. L'economia italiana ha ricominciato a crescere. Più italiani stanno lavorando. Matteo sa bene che il progresso deve essere ancora più veloce, e un tema centrale delle nostre discussioni sarà come i nostri Paesi possano continuare a lavorare insieme per creare più crescita e occupazione su entrambe le sponde dell'Atlantico".

Il "fenomeno Trump" negli Stati Uniti è stato prefigurato dai movimenti populisti e nazionalisti in Europa. Qual è il suo suggerimento per i suoi alleati europei, su come affrontare lo scenario post- Brexit? Come rispondere ai movimenti che vogliono isolare l'Europa, costruire muri, ridurre l'immigrazione, limitare la nostra esposizione al commercio internazionale?
"Nei nostri Paesi, le stesse forze della globalizzazione che hanno portato tanto progresso economico e umano nel corso dei decenni, pongono anche sfide politiche, economiche e culturali. Molte persone ritengono di essere svantaggiate dal commercio e l'immigrazione. Lo abbiamo visto con il voto nel Regno Unito per lasciare l'Unione Europea. Lo vediamo nella crescita dei movimenti populisti, sia a sinistra che a destra. In tutto il continente, vediamo mettere in discussione il concetto stesso di integrazione europea, insinuando che i Paesi starebbero meglio fuori dall'Unione.

"In momenti come questi, anche se riconosciamo le vere sfide che abbiamo di fronte, è importante ricordare quanto i nostri Paesi e le nostre vite quotidiane traggono vantaggio dalle forze di integrazione. La nostra economia globale integrata, incluso il commercio, ha contribuito a rendere la vita migliore per miliardi di persone in tutto il mondo. La povertà estrema è stata drasticamente ridotta. Grazie alle collaborazioni internazionali nel campo della scienza, della salute e della tecnologia, le persone vivono più a lungo e hanno più opportunità rispetto al passato. L'Unione Europea rimane uno dei più grandi successi politici ed economici dei tempi moderni. Nessun Paese dell'Unione ha alzato le armi contro un altro. Le famiglie in Africa e nel Medio Oriente rischiano la vita per dare ai loro figli la qualità della vita e i privilegi di cui godono gli europei, e che non dovrebbero mai essere dati per scontati.

"La nostra sfida, quindi, è quella di fare in modo che i benefici dell'integrazione siano condivisi più ampiamente e che eventuali problemi economici, politici o culturali, siano affrontati correttamente. Ciò richiede politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze. Richiede un sistema di scambi commerciali che protegga i lavoratori e l'ambiente. Richiede di tenere alti i nostri valori e tradizioni in quanto società pluraliste e diverse; e di rifiutare una politica di "noi" contro "loro" che cerca di fare di immigrati e minoranze un capro espiatorio".

Su entrambi i lati dell'Atlantico, i negoziati per il trattato Ttip sono in fase di stallo. Il protezionismo è in aumento in tutto il mondo. Conosce bene le obiezioni americane sul libero scambio, ma la prospettiva europea è leggermente diversa: molti dei nostri cittadini, anche in Paesi come la Germania, che hanno goduto di enormi surplus commerciali, ritengono che un nuovo trattato con gli Stati Uniti abbasserebbe la protezione dei nostri consumatori, i nostri lavoratori, la nostra salute. Per molti europei, il suo Paese è diventato un simbolo di un capitalismo senza freni in cui le multinazionali dettano le regole. Qual è la sua risposta a queste preoccupazioni europee?
"Sì, nei nostri Paesi è complicata la politica in materia di commercio. Ma la storia dimostra che il libero mercato e il capitalismo sono forse la più grande forza per la creazione di opportunità, stimolando l'innovazione e alzando il tenore di vita. Lo abbiamo visto nell'Europa occidentale nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Lo abbiamo visto nell'Europa centrale e orientale dopo la fine della guerra fredda. E lo abbiamo visto in tutto il mondo, dalle Americhe all'Africa all'Asia. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto come la globalizzazione possa indebolire la posizione dei lavoratori, rendendo più difficile la possibilità di guadagnare uno stipendio decente, e causare il trasferimento di posti di lavoro nell'industria manifatturiera in Paesi con costi di manodopera più bassi. E ho messo in guardia contro un capitalismo senz'anima che avvantaggia solo i pochi in alto e che contribuisce alla disuguaglianza e a un gran divario tra ricchi e poveri.

"Nella nostra economia globale in cui molto del nostro benessere dipende dagli scambi tra i nostri Paesi, non è possibile tirarsi indietro e alzare il ponte levatoio. Il protezionismo rende le nostre economie più deboli, danneggiando tutti, in partico- lare i nostri lavoratori. Invece, dobbiamo imparare dal passato e fare commercio nel modo giusto in modo che l'economia globale sia in grado di offrire vantaggi a tutta la popolazione e non solo i pochi in alto. Gli imprenditori hanno bisogno di sostegno per aiutare a trasformare le loro idee in un business. Abbiamo bisogno di forti reti di sicurezza per proteggere le persone in tempi di difficoltà. E dobbiamo continuare a lavorare per frenare gli eccessi del capitalismo adottando standard più severi per il settore bancario e in materia fiscale, e una maggiore trasparenza, per aiutare a prevenire le ripetute crisi che minacciano la nostra prosperità condivisa.

"Abbiamo anche bisogno di accordi commerciali di alta qualità come il Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership. Anche se l'interscambio tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea sostiene circa 13 milioni di posti di lavoro nei nostri Paesi, ci sono una serie di tariffe e regolamenti diversi, regole e standard che impediscono di aumentare gli scambi, investimenti e posti di lavoro. Eliminando le tariffe e le differenze nelle normative, renderemo il commercio più facile, soprattutto per le nostre piccole e medie imprese. Il TTIP non abbasserà gli standard. Al contrario, alzerà gli standard in materia di protezione dei lavoratori e dei consumatori, tutela dell'ambiente e garantirà una rete Internet aperta e gratuita, elemento essenziale per le nostre economie digitali. Per tutte queste ragioni, gli Stati Uniti rimangono impegnati a portare a conclusione i negoziati sul Ttip, e ciò richiederà la volontà politica di tutti i nostri Paesi".

Stiamo vincendo la guerra contro l'Isis in Iraq e in Siria? E per quanto riguarda l'"altra" guerra contro l'Isis, la prevenzione di attacchi terroristici all'interno dei nostri Paesi?
"La nostra coalizione continua ad essere implacabile contro l'Isis su tutti i fronti. I raid aerei della coalizione continuano a martellare obiettivi dell'Isis. Continuiamo ad eliminare alti dirigenti e comandanti Isis in modo da impedire loro di minacciarci di nuovo. Continuiamo a colpire le loro infrastrutture petrolifere e reti finanziarie, privandoli del denaro per finanziare il loro terrorismo. Sul terreno in Iraq, l'Isis ha perso oltre la metà del territorio popolato che controllava una volta, e le forze irachene hanno iniziato le operazioni per liberare Mosul. È da più di un anno che l'Isis non è riuscita a portare avanti una grande operazione di successo in Iraq o in Siria. Insomma, l'Isis rimane sulla difensiva, la nostra coalizione è sull'offensiva, e anche se questa continuerà ad essere una lotta molto difficile, io ho fiducia che vinceremo e l'Isis perderà.

"L'Italia è un partner essenziale della nostra coalizione. L'Italia da uno dei più grossi contributi in formatori e consulenti sul terreno in Iraq. I carabinieri italiani stanno addestrando migliaia di poliziotti iracheni che contribuiranno a stabilizzare le città irachene una volta liberate dall'Isis. Inoltre, l'Italia è un partner indispensabile per quanto riguarda la Libia. La diplomazia italiana ha avuto un ruolo importante nel processo che sta portando alla creazione del Libyan Government of National Accord. Gli Stati Uniti e l'Italia stanno lavorando per aiutare il governo libico a rafforzare la sua capacità di respingere le forze dell'Isis e riprendere possesso del suo Paese.

"Detto questo, anche se l'Isis continua a perdere terreno in Iraq, Siria e Libia, ha ancora la capacità di condurre o ispirare attentati, come abbiamo visto nel Medio Oriente, Nord Africa, negli Stati Uniti e in Europa. Prevenire gli individui solitari e le piccole cellule di terroristi che progettano di uccidere persone innocenti nei nostri Paesi rimane una delle nostre sfide più difficili. Anche se all'interno di ognuno dei nostri Paesi si lavora per sventare possibili attentati, dobbiamo fare di più insieme: condividere informazioni e intelligence, prevenire gli spostamenti dei terroristi stranieri e rafforzare la sicurezza alle frontiere".

A volte sembra che il nostro Paese sia quasi lasciato solo ad affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo. Come valuta l'importanza della solidarietà europea su questo tema?
"L'Italia è in prima linea nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe umanitaria e un test della nostra comune umanità. Le immagini di tanti migranti disperati, uomini, donne e bambini che affollano piccole imbarcazioni e annegano nel Mediterraneo, sono più che strazianti. L'Italia continua a svolgere un ruolo di leadership. La forza navale europea nel Mediterraneo, comandata dall'Italia, ha salvato la vita di centinaia di migliaia di migranti. Renzi si adopera per arrivare ad una risposta compassionevole e coordinata alla crisi, mettendo in evidenza la necessità di dare assistenza ai Paesi africani dai cui tanti di questi migranti provengono. Molti italiani hanno dimostrato la loro generosità accogliendo i rifugiati nelle loro comunità. Ma come ho detto al vertice dei rifugiati che ho convocato alle Nazioni Unite il mese scorso, poche nazioni in prima linea non possono sopportare da solo questo peso enorme. È per questo che la Nato ha accettato questa estate di aumentare il nostro supporto alle operazioni navali dell'Unione Europea nel Mediterraneo. È il motivo per cui gli Stati Uniti ritengono che l'accordo tra l'Unione Europea e la Turchia sia importante per condividere i costi di questa crisi e garantire un approccio coordinato che rispetti i diritti umani dei migranti e garantisca una politica migratoria ordinata e umana. Ed è il motivo per cui gli Stati Uniti continueranno ad essere il più grande donatore di aiuti umanitari in tutto il mondo. Lo saranno anche nei confronti dei rifugiati con il nostro nuovo impegno di accogliere e reinsediare 110.000 profughi nel corso dei prossimi dodici mesi.

"Data l'enormità di questa crisi, tutto il mondo deve fare di più. Il vertice dei rifugiati del mese scorso è stato un importante passo avanti. Quest'anno più di 50 nazioni e organizzazioni hanno aumentato di circa 4,5 miliardi di dollari i loro contributi all'Onu e alle Ong. Collettivamente le nostre nazioni stanno raddoppiando il numero di rifugiati accolti nei nostri Paesi, arrivando quest'anno a più di 360.000. Aiuteremo più di un milione di bambini rifugiati ad andare a scuola, e aiuteremo un milione di profughi ad ottenere una formazione e trovare un lavoro. Però abbiamo bisogno che ancora più nazioni diano assistenza e accettino più rifugiati. E abbiamo bisogno di riaffermare il nostro impegno verso la diplomazia, lo sviluppo e la tutela dei diritti umani, contribuendo in tal modo a porre fine ai conflitti, alla povertà e all'ingiustizia che portano così tante persone ad abbandonare la propria casa. In questo lavoro cruciale, siamo grati per l'importante collaborazione dei nostri amici e alleati italiani".
* (Traduzione dall'inglese di Daria Masullo)

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18 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/obama_intervista-150003856/?ref=HREA-1
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« Risposta #126 inserito:: Ottobre 31, 2016, 06:49:50 pm »

Usa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal votoUsa, Clinton e le mail segrete: inquietante che Fbi riapra indagini a poca distanza dal voto
Lettere riguardano Anthony Weiner, ex marito dell'assistente di Hillary che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai della coppia possano danneggiare la candidata non è chiaro. Ora Trump gongola: notizia-shock è nuovo elemento di suspense proprio in dirittura d'arrivo di campagna elettorale

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
28 ottobre 2016

NEW YORK - Ci aspettavamo sorprese da WikiLeaks, ma lo shock arriva dall'Fbi. Che non prende ordini da Vladimir Putin. Un brivido di paura è percepibile nel campo democratico. A 11 giorni dal voto, improvvisamente il capo della polizia federale James Comey in una lettera al Congresso annuncia di avere riaperto il caso delle email segrete di Hillary Clinton. Trapelano pochi elementi, per adesso.

Si sa che le email in questione non sono state mandate dalla Clinton, riguardano invece Anthony Weiner. Chi è costui? E' un politico democratico di New York, ex-marito dell'assistente di Hillary (Huma Abedin), che ha il vizietto di mandare selfie erotici a signore e ragazzine. Ma come i guai di Anthony e Huma Abedin possano danneggiare Hillary, non è affatto chiaro.

Di certo è irrituale, inatteso, inquietante che l'Fbi prenda una decisione così grave a poca distanza dal voto. A luglio la stessa Fbi aveva chiuso la sua istruttoria decidendo che non c'erano estremi di reato. Quella decisione fu criticata da Donald Trump e da tanti altri repubblicani. Ora, come si vede, almeno una critica era ingiusta: l'Fbi non si comporta come un docile strumento dell'Amministrazione Obama, la sua funzione di polizia giudiziaria prevede ampi spazi di autonomia dall'esecutivo, anche se in ultima istanza dipende dal Dipartimento di Giustizia. Ora Trump gongola: vedete, posso ancora vincere le elezioni. Ha ragione. Anzitutto perché questa notizia-shock dall'Fbi arriva in una fase in cui già Trump stava rimontando nei sondaggi. Non una rimonta formidabile, ma sufficiente a ridurre un po' il margine di vantaggio di Hillary, reintroducendo un elemento di suspense e di incertezza proprio in dirittura d'arrivo in questa campagna elettorale.

Trump appena è uscita la notizia ha interrotto un comizio per dire: "Applaudo la decisione dell'Fbi, che torna ad occuparsi delle azioni criminali di Hillary". L'esultanza in campo repubblicano è comprensibile. La tempistica dell'annuncio di Comey è sconcertante: per riaprire un caso chiuso tre mesi fa, e farlo a 11 giorni dall'elezione presidenziale, l'Fbi deve avere dei motivi solidi. Se lo scandalo è grosso, quanto voti può ancora spostare? A questo punto del calendario la percentuale di elettori indecisi è piuttosto ridotta, ma una rivelazione che inchiodi la Clinton a responsabilità gravi può influire sul morale della base democratica e ridurre l'affluenza alle urne.

Vale la pena di ricordare qual è il nucleo della questione. Hillary commise un'imprudenza ed anche una grave scorrettezza - ma non un reato, almeno secondo quanto detto dall'Fbi fino a ieri - usando un indirizzo privato di email anziché quello governativo. WikiLeaks, diffondendo alcune di quelle email segrete, ha messo a fuoco un conflitto d'interessi reale: quando era segretario di Stato, Hillary alternava e confondeva spesso le sue funzioni governative con le attività della Fondazione filantropica di famiglia. Certo le donazioni alla Fondazione servivano ad opere benefiche, e tuttavia chi staccava grossi assegni per la Fondazione aveva anche un accesso preferenziale al Dipartimento di Stato.
 
© Riproduzione riservata 28 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/presidenziali-usa2016/2016/10/28/news/email_segrete_di_clinton_inquietante_che_fbi_riapra_indagini_a_poca_distanza_dal_voto-150816080/?ref=HREA-1
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« Risposta #127 inserito:: Novembre 03, 2016, 12:03:30 pm »

Obama si schiera contro l'Fbi
Il presidente Usa sconfessa l'operato di Comey: "C'è una regola per cui quando ci sono delle indagini, non operiamo per allusioni, non operiamo sulla base di informazioni incomplete"

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
02 novembre 2016

NEW YORK -   Scende in campo perfino Barack Obama, con una stoccata all'Fbi.
"C'è una regola - dice il presidente in un'intervista - per cui quando ci sono delle indagini, non operiamo per allusioni, non operiamo sulla base di informazioni incomplete". E' una sconfessione pacata ma dura, nei confronti dell'operato di James Comey. L'ultima che ha combinato il capo dell'Fbi? Ieri sera ha tirato fuori carte inedite perfino da uno scandalo di 15 anni fa, relativo a Bill Clinton. Che tempismo. L'Fbi è diventata un attore ingombrante di questa campagna elettorale. Il New York Times in prima pagina sottolinea la contraddizione stridente fra la decisione presa a luglio - quando l'Fbi decise di accantonare due inchieste, una su Hillary l'altra sui legami Trump-Russia (più precisamente fra il direttore della campagna elettorale di Trump e il partito filo-russo in Ucraina) - proprio per non influenzare la campagna; e l'improvvisa riapertura di una sola indagine, quella su Hillary, proprio a ridosso del voto. Il Washington Post sottolinea con sconcerto l'altro gesto inspiegabile, la pubblicazione di 129 pagine di documenti interni sull'inchiesta relativa al perdono presidenziale che Bill Clinton concesse al suo finanziatore Marc Rich, una storia vecchia di 15 anni fa. Rich era un finanziere lestofante, costretto a fuggire all'estero. Fu molto discusso all'epoca il gesto di Bill che lo perdonò, in ringraziamento delle donazioni ricevute. E' rimasta come una delle tante macchie nella reputazione di Bill. Però perché riesumarla proprio adesso? A sei giorni dal voto?

IL PERSONAGGIO. CHI È JAMES COMEY
Molti ormai tracciano dei paralleli non proprio lusinghieri fra l'attuale capo dell'Fbi James Comey e il suo leggendario (famigerato) predecessore Edgar Hoover negli anni Cinquanta-Sessanta, celebre per le sue persecuzioni contro sospetti simpatizzanti del comunismo o militanti dei diritti civili come Martin Luther King. Ecco un profilo di Comey, repubblicano nominato da Obama, che sta diventando un "convitato di pietra" in questa campagna. O forse no, il "convitato di pietra" nel Don Giovanni viene indicato come una "muta presenza inquietante e minacciosa", ma Comey è insolitamente loquace...
 
© Riproduzione riservata
02 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/02/news/fbi_clinton_comey-151167542/?ref=HREA-1
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« Risposta #128 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:51:21 pm »


4 nov 2016
Campagna Usa, il momento della nausea

Di Federico RAMPINI

"L'elezione del disgusto". Lo sospettavamo da tempo ma ora ce lo conferma l'ultimo sondaggio del New York Times: gli elettori sono proprio schifati da questa campagna. Ma la nausea è equamente ripartita? Non proprio, a quanto parte nelle rilevazioni sul livello di "entusiasmo" se la cavano meglio i repubblicani dei democratici. A conferma che alcune constituency cruciali per Hillary - neri, Millennial - rischiano di avere una bassa affluenza alle urne. In controtendenza positiva: gli ispanici stanno votando più che in passato.

Poiché nello sforzo finale bisogna soprattutto combattere l'assenteismo tra i propri ranghi, può essere utile ricordare i grandi numeri di questa elezione: nel 2012 votarono circa 127 milioni di elettori cioè un modesto 55% degli aventi diritto. E qui è utile introdurre delle distinzioni rispetto ai sistemi elettorali che prevalgono in Europa. Gli "aventi diritto" teoricamente sarebbero tutti i cittadini americani maggiorenni. Però, però. Anzitutto, chi ha subito una condanna penale spesso viene anche punito con la privazione del diritto di voto. E nel paese che ha il record di popolazione carceraria, sono numeri grossi. Poi, a differenza che in Italia e altri paesi europei, qui oltre ad essere cittadino, maggiorenne, bisogna iscriversi al registro elettorale, in certi Stati precisando la propria appartenenza (democratico, repubblicano, indipendente: peraltro questa affiliazione non impedisce di votare per chi si vuole). E' un piccolo passaggio burocratico, ma non tutti lo fanno anche perché significa spesso recarsi in un ufficio pubblico, tipicamente lo stesso che rilascia patenti di guida, fare file, perdere ore di lavoro ecc. ecc.

Scritto in Donald Trump, Hillary Clinton, politica partiti elezioni Usa | 5 Commenti»

Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/
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« Risposta #129 inserito:: Novembre 12, 2016, 12:22:58 pm »

Trump sulle orme di Berlusconi lancia il "Contratto con gli americani"
Sul suo sito, include il programma dei primi cento giorni.
Ma già alle prime letture si scoprono evidenti effetti-annuncio.
E già in una intervista al WSJ il neoeletto presidente frena sulla modifica solo di parte dell'Obamacare

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
11 novembre 2016

NEW YORK - Le analogie con Silvio Berlusconi continuano ad aumentare. Donald Trump lancia il suo “Contratto con l’elettore americano”, che include il suo piano per i 100 giorni. Ben visibile sul suo sito, il Contratto elenca provvedimenti che il neo-presidente intende varare non appena s’insedierà alla Casa Bianca (l’Inauguration Day è il 20 gennaio). Molti di questi erano già stati anticipati sull’edizione cartacea di Repubblica ieri e oggi.

Cancellate le restrizioni all’estrazione di petrolio, gas naturale. Ritiro o ri-negoziazione dal trattato Nafta che un quarto secolo fa creò il mercato unico con Canada e Messico. Denuncia formale della Cina per manipolazione della valuta (preludio a sanzioni commerciali). Avvio delle procedure di espulsione per due milioni di “immigrati criminali”. Congelamento di tutte le assunzioni nel pubblico impiego (federale ovviamente, gli Stati fanno quello che vogliono). Stop a qualsiasi versamento all’Onu per la lotta al cambiamento climatico.

Segue una seconda parte, spalmata sui 100 giorni, e fatta per lo più di iniziative che Trump intende lanciare ma che poi andranno approvate dal Congresso. E’ in questa parte che si trova l’abrogazione di Obamacare, la riforma sanitaria del suo predecessore. Così come i 1.000 miliardi di dollari di investimenti per l’ammodernamento delle infrastrutture. Ovvero la riforma fiscale che dovrebbe ridurre il prelievo su tutti, persone fisiche e imprese.

Una lettura attenta rivela che ci sono molti effetti-annuncio. Per esempio: la ri-negoziazione del Nafta è un processo lungo nel quale intervengono i tre paesi firmatari, non basta la volontà del presidente americano; poi qualsiasi nuova formulazione di quel trattato andrà sottoposta a ratifica del Congresso, dove una parte dei repubblicani legati alle lobby industriali restano liberoscambisti. Ancora: per abrogare Obamacare bisogna prevedere un sistema sanitario alternativo; l’esperienza insegna che disegnare la sanità americana è un cantiere su cui i parlamentari si cimentano su tempi lunghi (anche lì intervengono le lobby: assicurazioni, Big Pharma, ospedali privati, medici). A riprova: in un’intervista appena uscita sul Wall Street Journal, Trump sta già facendo una parziale marcia indietro su Obamacare, invece dell’abrogazione totale accenna alla possibilità di modificare solo parte di quella riforma sanitaria.

In quanto al piano delle infrastrutture, per aggirare la resistenza dei repubblicani ortodossi che non amano la spesa pubblica, Trump proporrà che i 1.000 miliardi ce li mettano i privati. Ma con sgravi fiscali che di fatto li finanzierebbero fino all’82%. Il compito più facile per Trump sarà abrogare quelle riforme che Obama aveva varato attraverso atti esecutivi: ricadono in questa categoria diverse normative ambientaliste dell’Environmental Protection Agency.

© Riproduzione riservata
11 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/11/news/trump_sulle_orme_di_berlusconi_lancia_il_contratto_con_gli_americani_-151832771/?ref=HREA-1
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« Risposta #130 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:10:40 pm »

Trump, marcia indietro che gela i sostenitori

Il presidente Usa prende le distanze da tante promesse fatte in campagna elettorale soprattutto quella relativa alla riabilitazione delle energie fossili

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
22 novembre 2016

NEW YORK - Marcia indietro tutta, anche su Parigi? Donald Trump sta infliggendo una doccia fredda ai suoi sostenitori, prendendo le distanze da varie promesse della campagna elettorale. Già diversi siti e commentatori della destra radicale sono furiosi perché ha detto di non voler continuare le indagini su Hillary Clinton. Nei comizi le folle urlavano entusiaste "Lock her up" (mettetela in carcere), e perfino in un duello televisivo lui glielo disse in faccia, che avrebbe nominato uno "special prosecutor" per incriminarla. Scherzava. Ma fin qui, la retromarcia è comprensibile, perfino prevedibile. Si possono dire cose durissime in campagna elettorale, poi quando uno ha vinto volta pagina, e sotterra l'ascia di guerra. Tanto più che Hillary agli ultimi conteggi ha preso due milioni di voti in più di lui, accanirsi con inchieste giudiziarie contro di lei oltre che una brutta vendetta sarebbe un gesto che acutizzerebbe le divisioni di una nazione già lacerata.

Ma Parigi? Qui la questione è molto più delicata. Non solo Trump ha più volte detto di considerare il cambiamento climatico "una bufala" (o addirittura "un'invenzione dei cinesi per danneggiare la competitività dell'industria americana"); non solo ha promesso più volte di stracciare quegli accordi; inoltre ha inserito quelle promesse in un più generale piano di riabilitazione delle energie fossili, petrolio e carbone.

Oltre ad essere perfettamente in linea con la tradizione repubblicana (i Bush padre e figlio erano espressione della lobby Big Oil), quelle promesse gli valsero voti cruciali, ad esempio tra i minatori delle montagne Appalachian. Wall Street sale dalla sua elezione, anche perché le multinazionali energetiche festeggiano. La Famiglia Koch, potentato petrolchimico di destra che aveva avuto una certa freddezza verso Trump, ora lo appoggia. Insomma retrocedere sull'anti-ambientalismo non gli sarà facile.

Un'avvertenza ulteriore. La frase "possibilista" su Parigi, Trump l'ha pronunciata in queste ore nel corso di un incontro con la direzione e redazione del New York Times, quotidiano liberal che lo ha osteggiato e continua ad essere fortemente critico verso di lui. Trump - anche in questo fedele al suo modello Berlusconi? - ha una certa tendenza a plasmare la sua oratoria sui gusti di chi lo sta ascoltando. Gli piace piacere. Adora accattivarsi l'audience che ha davanti. Se domani sera lo intervistasse un giornalista alla O'Reilly o alla Hannity su Fox News, sarebbe capace di dire cose molto diverse da quelle che ha appena detto al New York Times.

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22 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/22/news/trump_parigi_accordo_distanza_da_promesse_campagna_elettorale-152581933/?ref=fbpr
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« Risposta #131 inserito:: Novembre 30, 2016, 08:53:18 pm »

Attacco campus Ohio, polizia: "Non escludiamo pista terrorismo"
L'assalitore ha colpito con modalità che ricordano assalti avvenuti in Paesi europei: vittime investite con l'auto, altre accoltellate. I network tv ora intitolano i notiziari sulla pista jihadista, una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
28 novembre 2016

NEW YORK - "Gli dava la caccia con la sua auto, investendo pedoni sui marciapiedi, poi li aggrediva con un coltello da macellaio". È la descrizione dei primi testimoni, come la riferisce alla Cnn il presidente dell'Ohio State University, Michael Drake, sull'attacco che ha sconvolto stamattina quel campus universitario: il bilancio è di dieci feriti, tra cui uno in gravi condizioni. L'assalitore è morto, ucciso dalle forze dell'ordine, e "il campus ora è sicuro", secondo le autorità locali. "Se non avete un'arma da fuoco usate un coltello, o un'automobile".

Quelle "istruzioni" dell'Isis ai jihadisti su come colpire l'Occidente, vengono rievocate ora dalla polizia dell'Ohio. "Le indagini non escludono la pista terrorista", dice la portavoce della polizia. L'aggressore viene descritto dalla stessa polizia come un giovane di origini somale: secondo fonti anonime raccolte da Nbc avrebbe avuto regolare permesso di soggiorno, ma a suo tempo accolto come rifugiato. Ha colpito con modalità che ricordano alcuni attacchi avvenuti in Paesi europei: alcune vittime le ha investite con la sua auto, altre accoltellate.

La città di Columbus ospita una vasta comunità di rifugiati dalla Somalia. Tra i primi testimoni, studenti che hanno visto da vicino la scena dell'attacco, nessuno però ha sentito l'aggressore rivendicare o spiegare il suo gesto. Uno di questi studenti, Jacob Bower, ha detto alla Cnn: "Era silenzioso, ma aveva uno sguardo da folle. Il poliziotto che lo ha abbattuto ha dovuto sparare tre volte per fermarlo".

Tutti i network tv ora intitolano i notiziari sulla pista terrorista e di colpo l'attacco può apparire come una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo del terrorismo islamista fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale. Dall'inizio delle primarie fino al voto, l'America subì due attacchi terroristici a San Bernardino (California) e Orlando (Florida), e fu anche sconvolta dall'eco delle stragi di Parigi e Bruxelles. Trump attaccò Barack Obama e Hillary Clinton per la loro reticenza a usare il termine di "terrorismo islamico".

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28 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/28/news/ohio_rampini-153040500/?ref=HREA-1
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« Risposta #132 inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:27:58 am »

Se Trump incita a uscire dall'Ue

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
16 gennaio 2017

NEW YORK – Se qualcuno ancora s’illudeva che Donald Trump potesse moderarsi con la vicinanza del potere; oppure che la sua carica dirompente potesse rimanere relativamente circoscritta dentro gli Stati Uniti… questa intervista al Sunday Times e a Bild è un brutale richiamo alla realtà. Trump non vi dice nulla di veramente nuovo rispetto alla sue sparate di campagna elettorale, certo, però la tempistica e la virulenza impressionano.

A soli quattro giorni dall’Inauguration Day il presidente-eletto fa un intervento “a gamba tesa” negli affari europei. Inneggia a Brexit, vuole un rapporto privilegiato con Londra proprio in quanto secessionista, e prevede-auspica che altri Stati seguiranno il suo esempio. Rompe cioè con una tradizione bipartisan che risale a John Kennedy, una lunga sequenza di Amministrazioni americane decisamente favorevoli al progetto europeo.

Mai nessun altro presidente degli Stati Uniti, da quando nacque la Comunità europea, ne aveva augurato apertamente il fallimento e la disintegrazione. Non è davvero una novità da poco, avere a Washington un leader che esorta gli europei ad andarsene dalla loro casa comune. Tra l’altro questo è un magnifico regalo a Vladimir Putin: un’Europa spappolata è una preda ben più facile per chi intende ripristinare influenze egemoniche.

Il discorso filo-Brexit e anti-Ue si completa perfettamente con quel distacco dalla Nato, che l’intervista riconferma. A poco serve consolarsi sperando che i tanti generali di cui Trump si circonda lo convinceranno che il Patto Atlantico non è proprio un inutile ferrovecchio. In politica estera è il presidente ad avere l’ultima parola. Anche la prima, del resto. Certe parole pronunciate oggi possono già scatenare effetti incalcolabili, offrendo una sponda e una legittimità nuova a tutti i movimenti anti-europei.

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16 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/16/news/se_trump_incita_a_uscire_dall_ue-156109492/?ref=HREA-1
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« Risposta #133 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:08:08 pm »

Nazionalismo e populismo nel discorso-comizio di Trump: chi sperava in un nuovo Reagan è deluso
L'analisi sull'Inauguration Day.
Il nuovo presidente ha sciorinato tutti i temi ascoltati ossessivamente in campagna elettorale, che oggi suonano ancora più falsi.
E non una parola sul programma dei cento giorni

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
20 gennaio 2017

WASHINGTON - "Questo non è un normale passaggio di consegne da un presidente a un altro. Oggi il potere passa a voi, al popolo". E' il classico tema populista, l'apertura che Donald Trump sceglie per il suo discorso inaugurale: io non sono un politico, mi avete eletto perché volevate un vero outsider, io rappresento la rottura con l'establishment.

E' uno dei temi forti della sua campagna elettorale - oltre che di tutti i populismi - ma in questo venerdì 20 gennaio 2017 qualcosa suona falso, ancora più falso che in campagna elettorale. Fino a novembre, si poteva obiettare che Trump - come Silvio Berlusconi in Italia - è un membro dell'establishment capitalistico, quindi sfoggia una notevole ipocrisia quando si presenta come "uno di noi". La sua risposta classica, sulla falsariga di Berlusconi: ma io da imprenditore ho creato vera ricchezza, mentre i politici la prelevano dai contribuenti e la dilapidano; io perché sono già ricco non ho bisogno di rubare, sono incorruttibile; io ho senso pratico e risanerò l'America così come ho fatto fiorire le mie aziende. Tutto molto discutibile, per esempio alla luce delle sue varie bancarotte. Ma dal 9 novembre ad oggi, quel discorso è stato compromesso dallo stesso Trump per un'altra ragione: le nomine. Avendo selezionato ben tre banchieri di Goldman Sachs, un ex chief executive di Exxon Mobil ed altri lobbisti legati al petrolio, Trump si è avviluppato in un rete di affaristi e intrallazzatori che sono puro establishment. Oggi molto più di due mesi fa, la sua promessa di segnare il ritorno del potere al popolo, già suona come una beffa.

L'altro tema forte di questo discorso inaugurale è il nazionalismo. A cui Trump vuole dare dignità ideologica erga omnes, captando l'atmosfera del nostro tempo ci vede il filo comune che lega tante rivolte anti-globali. Rifarò l'America grande. E non solo l'America, ma tutti i paesi hanno il diritto-dovere di rimettere al centro l'interesse nazionale. Poi questo si declina soprattutto sul versante economico: compriamo americano, assumiamo americani. E' un tema popolare, piace anche a sinistra, dove Bernie Sanders fu altrettanto feroce di Trump contro i trattati di libero scambio. Quindi Trump vuole anzitutto restituire il favore a quella classe operaia bianca degli Stati più colpiti dalle delocalizzazioni industriali. E' a loro che promette aiuto e protezione. E qualcosa ha già cominciato a fare, ancorché a livello "micro", prevalentemente simbolico, salvando una fabbrica di condizionatori d'aria e convincendo la Ford a dirottare nel Michigan un investimento che era destinato al Messico.

Ma siamo comunque fermi a temi e slogan della campagna elettorale. Trump ci ha rifatto un comizio, come ne avevamo ascoltati a dozzine prima dell'8 novembre. Se voleva suonare come un novello Ronald Reagan, non c'è riuscito. Gli manca la fantasia retorica, il pathos. Ed è troppo presuntuoso per farsi aiutare da speech writer più bravi di lui. Poche le immagini forti, e quasi tutte riciclate. L'altra mancanza: il programma dei cento giorni. Non
è obbligatorio inserire un vero piano di governo nel discorso dell'Inauguration Day. Però molti suoi predecessori lo fecero. E' ora che dagli slogan dei comizi Trump passi allo stadio successivo, dicendo come li realizzerà. Oggi siamo rimasti ancora una volta a digiuno.

© Riproduzione riservata
20 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/20/news/nazionalismo_e_populismo_nel_discorso-comizio_di_trump_chi_si_attendeva_un_nuovo_reagan_e_deluso-156503958/?ref=fbpr
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« Risposta #134 inserito:: Gennaio 26, 2017, 12:20:53 pm »


Usa, Trump annuncia il via alla costruzione del Muro. Stop all'ingresso di rifugiati
Al via oggi l'ordine esecutivo per l'edificazione, al confine meridionale. Verrà firmata anche una direttiva per bloccare l'arrivo di profughi dalla Siria, oltre che da altre "nazioni esposte al terrorismo"

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
25 gennaio 2017

INSTANCABILE, Donald Trump continua a macinare decisioni che realizzano le sue promesse elettorali. E' la volta del Muro col Messico. Al terzo giorno di governo, arriva anche la sua promessa più simbolica e controversa, quella fortificazione di frontiera che fu il segno distintivo della sua campagna. E' annunciato per questo mercoledì l'ordine esecutivo - l'equivalente di un decreto presidenziale - in cui "orienterà fondi pubblici federali per l'edificazione di un muro al confine meridionale". Nella stessa occasione firmerà anche una direttiva per bloccare l'arrivo di profughi dalla Siria, oltre che da altre "nazioni esposte al terrorismo".
 
Prende corpo così la sua proclamata intenzione di svoltare rispetto a Barack Obama anche sul fronte dell'immigrazione: da un lato il giro di vite contro l'immigrazione "economica" che viene dal Sud, d'altro lato si tratta di sigillare i confini rispetto all'afflusso dai paesi islamici. E' quest'ultima la parte più controversa, perché in diverse occasioni durante la campagna elettorale Trump evocò degli "esami di religione" all'ingresso, che sarebbero contrari ai principi costituzionali. Lui stesso, allargando l'area di rischio a tutti i paesi "bersagli di attentati terroristici", più volte auspicò anche delle restrizioni sugli ingressi dall'Europa, che potrebbero cancellare il sistema Esta di visti online concessi anche ai turisti italiani. Sapremo fra poche ore se anche questa parte delle sue proposte sarà inclusa nei decreti anti-immigrati. In quanto al Muro, resta invece da verificare quanto sarà ampio: in realtà una barriera fortificata esiste già, al confine californiano tra San Diego e Tijuana, e fu costruita nientemeno che da Bill Clinton. Bisognerà vedere se Trump si limiterà ad un'operazione simbolica che allunghi la muraglia già esistente. Da verificare anche se riuscirà a "farlo pagare ai messicani", come promesso nei comizi elettorali.

Di certo il ritmo con cui legifera il neo-presidente è sostenuto. Venerdì sera, poche ore dopo la cerimonia dell'Inauguration Day, aveva firmato un primo decreto per intaccare la riforma sanitaria Obamacare. Poi lunedì mattina ha cancellato il trattato di libero scambio con l'Asia-Pacifico (Tpp). Martedì è stata la volta dell'ambiente, con la decisione di autorizzare gli oleodotti Keystone XL e quello del Dakota, rovesciando le ultime decisioni di Obama. L'annuncio sul Muro arriva al termine di una giornata densa di polemiche. Trump infatti martedì pomeriggio nel corso di un incontro coi parlamentari ha ribadito la sua accusa - palesemente falsa - su "tre o cinque milioni di immigrati clandestini che hanno votato per Hillary". Le smentite dei media lo lasciano indifferente. Così come le critiche che vengono dal suo stesso partito: il senatore repubblicano Lindsay Graham è stato uno dei più autorevoli, nell'accusare il presidente di screditare la democrazia americana con la menzogna sui brogli.

© Riproduzione riservata
25 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/01/25/news/usa_trump_annuncia_il_via_alla_costruzione_del_muro_stop_all_ingresso_di_rifugiati-156812606/?ref=HRER3-1
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