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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112592 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Novembre 28, 2011, 07:25:34 pm »

RETROSCENA

Obama e lo spettro di una Lehman mondiale "Subito liquidità illimitata dalla Bce"

Dalla Casa Bianca un messaggio a Barroso: "L'austerità non serve".

Gli Usa contrari a nuovi aiuti dall'Fmi se non cambia il ruolo dell'istituto di Francoforte

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Che la Bce intervenga a offrire liquidità illimitata, per garantire le banche europee più fragili, onde evitare un crac che sarebbe "una bancarotta Lehman all'ennesima potenza". È una raccomandazione che oggi Barack Obama intende consegnare ai rappresentanti dell'Unione europea giunti a Washington. Lo farà con discrezione, per rispetto dell'autonomia della banca centrale. Ma difficilmente l'eurozona otterrà nuovi aiuti dal Fondo monetario internazionale (di cui gli Stati Uniti sono l'azionista di maggioranza relativa) se non cambia qualcosa nel ruolo della Bce. Arginare il credit crunch, lo schiacciamento del credito bancario, per Obama è una priorità da perseguire con la massima urgenza. Lui ricorda bene il pericolo scampato nel 2008 in America: fu il suo battesimo di fuoco, quella bancarotta Lehman, in seguito alla quale le banche smisero di farsi credito tra loro, rischiando così di asfissiare l'economia reale.

Obama era ancora un semplice candidato alla Casa Bianca quando si prese la responsabilità di appoggiare il piano Paulson, 700 miliardi di dollari per creare un cordone sanitario attorno alle banche. Ora è convinto che i leader europei devono osare altrettanto. Lo farà capire stamane a Herman van Rompuy e Jose Barroso, accogliendoli alla Casa Bianca per il vertice annuo Usa-Ue. Userà i suoi due ospiti come "messaggeri", perché riferiscano a chi di dovere: Angela Merkel, l'unica che può sbloccare l'impasse europea. Obama teme che la Merkel e gli altri leader non abbiano ancora colto tutta la gravità della situazione, ha l'impressione che sottovalutino la velocità con cui una crisi di sfiducia dei mercati può precipitare verso esiti irrimediabili. Gli eventi delle due ultime settimane lo hanno allarmato. Obama aveva salutato - dal vertice Apec di Honolulu, il 12 novembre - i "positivi sviluppi in Italia e in Grecia", l'avvento dei governi Monti e Papademos. La settimana scorsa ha osservato con costernazione le nuove convulsioni di sfiducia: i tassi record sui bond italiani e spagnoli, il downgrading del Belgio, i tremori che lambiscono Austria, Francia, la stessa Germania. I progetti di Europa a due velocità, revisioni dei trattati, sanzioni fiscali automatiche sui paesi indisciplinati, tutto questo a Washington appare irrilevante nell'immediato: le risposte vanno date subito, entro pochi giorni o al massimo settimane, non mesi o anni.

Ora Obama ha un potere contrattuale per far leva sulla Merkel. E' proprio la Germania ad avere chiamato indirettamente in gioco il presidente americano. Venerdì a Berlino i tre ministri delle Finanze tedesco olandese e finlandese (guarda caso i tre paesi che la speculazione vede come candidati a una "mini-unione" dei forti) hanno firmato un comunicato congiunto per chiedere al Fmi di giocare un ruolo più importante nella costruzione della "muraglia anti-incendio" che deve impedire la disgregazione dell'euro. E' l'ammissione implicita che il fondo salva-Stati dell'eurozona (Efsf) non basta già più. Ma per mettere in campo la potenza di fuoco del Fmi è indispensabile il via libera degli Stati Uniti. Un passo non facile, in piena campagna elettorale: Obama dovrà spiegare ai suoi contribuenti perché l'America deve contribuire a finanziare il salvataggio dell'euro, mentre in casa propria è l'ora dei tagli di bilancio. Obama ha cominciato a preparare il terreno, dichiarando che "non ci sarà crescita negli Stati Uniti e nell'economia globale, finché l'eurozona non avrà risolto i suoi problemi". L'emergenza euro dunque tocca gli interessi vitali degli Stati Uniti, minacciando la ripresa.

Ma cosa chiederebbe Washington agli europei, come contropartita per un via libera a nuovi aiuti del Fmi?
Il ruolo della Bce è uno degli aspetti cruciali per Obama: nella banca centrale lui vede un possibile argine contro i default a catena che possono travolgere gli istituti di credito europei. Per vincere le resistenze tedesche, gli americani agitano scenari da Apocalisse: i crac bancari porterebbero a una deflagrazione sistemica, una nuova paralisi dei mercati finanziari perfino peggiore di quella avvenuta nel 2008. L'intero commercio mondiale subirebbe un colpo durissimo. Non parliamo poi della disgregazione dell'euro: i grandi studi legali di New York e Londra hanno già cominciato a "simulare" il boom del contenzioso giuridico che si aprirebbe all'indomani dell'uscita di questo o quel paese, per stabilire come andrebbero convertiti tutti i contratti denominati in euro. Sarebbe la fine del mercato unico europeo, un ritorno delle restrizioni valutarie, un balzo indietro con effetti disastrosi per i maggiori partner commerciali dell'Europa, America e Cina. Ma non è solo di finanza che Obama vuol parlare con i rappresentanti Ue. Ha un messaggio che riguarda la crescita: non c'è risanamento possibile dei conti pubblici, se si ricade nella recessione. Quando l'economia decresce, l'unico valore che sale sono i debiti. La Casa Bianca addita l'esempio dell'Irlanda: virtuosa nell'applicare le ricette rigoriste dettate da Berlino e Bruxelles, ha visto la disoccupazione salire al 14%, e i tassi sui suoi bond sono tuttora all'8%, superiori a quelli italiani.

(28 novembre 2011) © Riproduzione riservata

    http://www.repubblica.it/economia/2011/11/28/news/obama_liquidit_bce-25708542/

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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 06, 2012, 08:52:42 am »

C’è un futuro per il capitalismo: ma quale?

di Federico Rampini, da http://rampini.blogautore.repubblica.it


Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi “terminale” o è ancora curabile all’interno delle regole di un’economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?

Martin Wolf, l’economista più autorevole del Financial Times, ammette che l’idea di una “estinzione” del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell’epicentro della recessione. “Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi”. La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica “distruzione creatrice”.

Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell’opinione pubblica, presenti nell’agenda dei governi e sugli schermi radar degli espertti. Al primo posto c’è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono “fabbricate” da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un’influenza spropositata.

A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell’Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell’economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l’arrivo all’età pensionabile delle generazioni più popolose. Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una “inefficienza” che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti. Quarto tema nell’elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall’arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. E’ una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.

E’ impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l’azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l’élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili. Il problema numero sei è la questione dei “beni pubblici” in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l’acqua, l’aria, le risorse naturali; la sicurezza o l’accesso all’istruzione.

Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle “macro-instabilità” e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione. La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall’Economist nell’inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell’Occidente. Anche India Brasile e Russia hanno governi in vario modo dirigisti.

L’Economist approda a una conclusione consolatoria: nella storia del capitalismo, la formula statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all’Italia dell’Iri), poi con l’arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma “puro”, quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici.

(2 febbraio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/c%E2%80%99e-un-futuro-per-il-capitalismo-ma-quale/
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:20:33 pm »

10
mar
2012

Occupazione Usa: ancora meglio di quanto sembra.

Federico RAMPINI

227.000 posti di lavoro “netti” creati a febbraio, ma forse una notizia ancora migliore è quella nascosta dietro un numero che è rimasto fermo: il tasso di disoccupazione pari all’ 8,3% della forza lavoro. Come può restare invariata quella percentuale, se l’occupazione cresce? La spiegazione sta nel fatto che finalmente tornano a presentarsi sul mercato del lavoro i “disoccupati scoraggiati”, cioè tutti coloro che nella fase più dura della crisi avevano smesso di cercare un posto e quindi erano scomparsi dal conteggio della forza lavoro. Lo conferma il fatto che la partecipazione alla forza lavoro è salita dal 63,7% al 63,9% della popolazione attiva, a sua volta in crescita perché gli Stati Uniti continuano ad avere un saldo demografico positivo (nascite più immigrazione). Un altro dato interessante riguarda la composizione per sessi: nel corso degli ultimi due mesi la ripresa è decisamente “rosa”.

Dall’inizio dell’anno le assunzioni aggiuntive hanno riguardato due volte più donne che uomini. In totale gli occupati maschi sono oggi 75,3 milioni, le donne sono 66,7 milioni.

L’andamento positivo dell’occupazione si aggiunge ad altri indicatori tutti convergenti: la fiducia dei consumatori migliora da mesi, come pure l’attività manifatturiera. Resta debole invece la dinamica delle retribuzioni, col salario medio che è cresciuto in modo impercettibile da un mese all’altro (da 23,28 dollari l’ora a 23,31) ma la moderazione salariale può contribuire a invogliare le assunzioni da parte delle imprese. Complessivamente, nell’arco degli ultimi due anni l’economia americana ha aggiunto 3,9 milioni di posti di lavoro, al netto dei licenziamenti. E’ finalmente fugato lo spettro della “jobless recovery”, cioè la ripresa senza creazione di nuova occupazione, così com’era apparsa nella prima fase post-recessione.

Qualcosa può ancora far deragliare questa locomotiva americana? Nessuno ha dimenticato quel che accadde esattamente un anno fa, quando ci fu una “finta ripresa”, poi abortita. I mesi di febbraio, marzo e aprile del 2011 registrarono tutti degli aumenti netti di occupazione superiori alle 200.000 unità. Poi però ci furono lo tsunami in Giappone e la crisi dell’eurozona, il pessimismo contagiò gli Stati Uniti, e la seconda metà dell’anno fu segnata da un rallentamento. Ora all’orizzonte c’è un altro tipo di minaccia, un possibile conflitto tra Israele e l’Iran che coinvolgerebbe gli Stati Uniti e potrebbe far schizzare ancora più su il prezzo del petrolio. Fatta salva questa incognita, è ovvio che i dati dell’occupazione hanno un impatto politico favorevole a Barack Obama e contrario ai suoi avversari repubblicani. Pur evitando il trionfalismo, ieri il presidente ha salutato il fatto che “stiamo uscendo dalla più grave crisi economica della nostra generazione”.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2012/03/10/occupazione-usa-ancora-meglio-di-quanto-sembra/
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 21, 2012, 03:45:31 pm »

21
apr
2012

La caduta di Bo Xilai e la connection americana

Federico RAMPINI

La caduta del potente Bo Xilai “sfiora” perfino Barack Obama, getta nell’imbarazzo il Dipartimento di Stato, la destra americana vuole saperne di più sul ruolo avuto dall’ambasciata Usa di Pechino. Su Newsweek un celebre sceneggiatore di Broadway vede in questa storia un musical più affascinante di “Evita”, con tanto di donna-drago, la crudele assassina Gu Kailai nei panni della co-protagonista. New York Times e Wall Street Journal sbattono la storia in prima pagina da diversi giorni. L’America è ipnotizzata dal “thriller” cinese che di colpo mette a nudo i segreti di un regime impenetrabile, i vizi dell’oligarchia comunista più potente del mondo, insieme con una trama esotica di amori proibiti, lusso sfrenato, omicidi con avvelenamento. E spionaggio? Una coda dello scandalo lambisce perfino la reputazione della più prestigiosa università americana, Harvard. E’ in questa università di eccellenza, nella più esclusiva delle sue facoltà – la John Kennedy School of Government dove si applicano le teorie di management alla governance e all’amministrazione pubblica – che studia il figlio del deposto gerarca comunista. A 24 anni, Bo Guaga è su tutti i giornali e rotocalchi americani, fotografato in pose che non farebbero troppo scandalo se lui fosse un qualsiasi figlio di papà: lo si vede in party notturni, o al tavolo di lussuosi ristoranti, abbracciato da bionde avvenenti. Ma Bo è “figlio di papà” in un paese dove quelli come lui li chiamano “principini”, con un misto di invidia e di indignazione. La stampa comunista di Pechino si è impadronita delle sue gesta notturne – compreso quando ha “urinato su un recinto universitario”, in stato di ubriachezza – e della sua pagina Facebook, come esempio di uno stile di vita decadente. Il padre ha tentato di difendersi: “Non è vero che mio figlio gira in Ferrari, in quanto alla retta di Harvard non la pago io, perché si è meritato una borsa di studio”. Già, 90.000 dollari l’anno è il costo complessivo per frequentare la School of Government, un po’ troppo per lo stipendio ufficiale di un funzionario comunista, sia pure di alto grado. Sulla borsa di studio, le autorità accademiche di Harvard si chiudono in un silenzio imbarazzato. Rispetto della privacy, dicono. Aggiungono che nell’erogare borse agli studenti la super-facoltà adotta un approccio “olistico” che tiene conto non solo del talento accademico ma anche delle “potenzialità di leadership”. Altrove questo approccio “olistico” si chiamerebbe opportunismo, o servilismo verso i rampolli di Vip stranieri che hanno delle “connection” da offrire. In quanto alla Ferrari: per la precisione Bo Guaga la guidava a Pechino, la sera che andò a prelevare la figlia dell’ambasciatore americano per un appuntamento galante. A Harvard, dicono i suoi compagni, lo si vedeva al volante di una Porsche. Dettagli scomodi, nella posizione in cui si trova suo padre oggi. Tanto più che nella stessa Harvard ci sono altri “principini” cinesi che hanno un profilo più basso. La più importante è Xi Mingze, la figlia di Xi Jinping che alla fine di quest’anno salirà al trono della Cina comunista, sostituendo l’attuale leader Hu Jintao nelle massime cariche del paese. La ragazza è decisamente più prudente: usa quasi sempre un falso nome. E non ha mai avuto una pagina su Facebook.
Harvard è solo una parte della “connection americana” nel più grave scandalo cinese da molti decenni. In realtà tutto “il caso Bo Xilai” diventa visibile solo quando, il 6 febbraio scorso, il consolato Usa di Chengdu nella provincia del Sichuan accoglie un “rifugiato politico” molto particolare. A chiedere asilo ai diplomatici americani quel giorno è Wang Lijun, vicesindaco della megalopoli di Chongqing ed ex braccio destro di Bo Xilai che all’epoca è ancora (o sembra essere) all’apice della sua potenza. Wang è soprattutto il vero capo della polizia di Chongqing, l’uomo che per anni ha assecondato Bo nei suoi metodi feroci per la scalata a potere e ricchezza: arresti arbitrari, violenze poliziesche, ricatti ed estorsioni contro i capitalisti locali o gli avversari politici. Ma quel che accadde “dentro” il consolato Usa di Chengdu, è un mistero che appassiona gli americani e si trasforma in una controversia politica. Perché il consolato il 6 febbraio avvertì immediatamente l’ambasciata a Pechino; e da lì la vicenda fu riferita alla Casa Bianca. Dunque Obama sapeva. Al Congresso di Washington è stato paragonato al film di fanta-spionaggio “Bourne Supremacy”. I repubblicani ora incalzano: “Perché Wang fu riconsegnato alla polizia cinese? Quali informazioni poteva fornire agli Stati Uniti sulle lotte al vertice del regime di Pechino? Quali passi sono stati compiuti, oppure omessi, per meglio tutelare la sicurezza degli Stati Uniti e anche l’incolumità di Wang?” Sono domande contenute nell’interrogazione di Ileana Ros-Lehtinen, la potente deputata repubblicana della Florida che presiede la commissione Esteri della Camera. Domande rivolte a Hillary Clinton. Il segretario di Stato finora ha evitato di rispondere. Ad accrescere l’imbarazzo c’è una coincidenza di date: quel 6 febbraio in cui il superpoliziotto Wang andò a consegnarsi alla diplomazia americana, mancava solo una settimana alla visita di Stato del futuro numero uno cinese a Washington, Xi Jinping. La destra Usa insinua che Obama avrebbe “svenduto” un disertore di altissimo rango e di interesse strategico per gli americani, al fine di non compromettere il summit con Xi. La diplomazia Usa lascia filtrare una versione diversa: Wang in realtà non puntava a essere estradato negli Stati Uniti bensì voleva arrendersi alla polizia centrale di Pechino. Altrimenti sarebbe finito nelle mani degli agenti fedeli a Bo e alla diabolica consorte. E rischiava di fare la stessa fine del businessman inglese Neil Heywood: l’ex amante che la First Lady di Chongqing avrebbe fatto uccidere da un domestico col veleno. A proposito: Heywood fu anche l’uomo chiave per le “promozioni” accademiche del figlio… “Madame Butterfly si mescola con Agatha Christie: è una trama stupenda”: lo sceneggiatore David Henry Hwang, unico sino-americano che ha sfondato a Broadway, si dice pronto a portare questa storia sulle scene. “Stranger than Fiction”, intitola Newsweek, la fantasia narrativa fatica a tenere il passo con il ritmo di questi colpi di scena.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:52:51 pm »

12
mag
2012

Wall Street sotto accusa: i soliti noti colpiscono ancora

Federico RAMPINI

Torna la rivolta contro i banchieri, dopo il buco di 2 miliardi alla JP Morgan. Prima di Occupy, stavolta si muovono i leader democratici: basta con la lobby di Wall Street che sabota le riforme. Il capo di JP Morgan Jamie Dimon (foto in basso a destra) fu alla testa degli sforzi per svuotare di contenuti la nuova normativa dei mercati, e ritornare alle speculazioni azzardate del 2008. Lo scandalo gioca in favore di Obama, perché Romney ha fatto fortuna proprio nel mondo della finanza e continua a difendere l’approccio liberista che vede nelle regole e nei controlli un freno alla crescita.

E’ difficile immaginare che esista una giustizia divina sui mercati finanziari, però qualcosa di molto simile a un fulmine provvidenziale ha colpito Dimon, il chief executive di JPMorgan Chase. E’ la stessa “sentenza del fato” che ha riscattato trionfalmente Paul Volcker (foto in basso a sinistra), l’ex presidente della Federal Reserve trasformatosi nel più feroce castigatore di Wall Street. Il weekend si è chiuso, provvisoriamente, sull’uno a zero nel match tra Dimon e Volcker. Il disastro in cui è incappata la JP Morgan Chase, che è la più grande banca americana e forse mondiale (a meno di prendere sul serio certe ipervalutazioni di Borsa delle cinesi), ha una valenza politica fortissima qui negli Stati Uniti. Dimon, anche se gioca il ruolo del “banchiere gentile” perché ha un certo dono per la comunicazione e una parlata molto soft, si è distinto dopo la crisi del 2008 per la sua accanita resistenza contro le riforme dei mercati finanziari. In particolare, Dimon ha preso di mira la “regola Voclker”, quella cioè che dovrebbe impedire alle grandi banche americane di fare scommesse speculative usando mezzi propri. Questa regola è al centro di una battaglia politica furibonda. In linea di principio, è stata accolta nella legge Dodd-Frank approvata dal Congresso su spinta di Barack Obama. In pratica, come molti contenuti della Dodd-Frank, la regola Volcker attende di essere precisata attraverso i regolamenti interpretativi a cui stanno lavorando diverse authority dei mercati. Ed è in questa fase che la lobby bancaria ha scatenato un’offensiva poderosa, guidata proprio da Dimon, per svuotare di fatto la regola Volcker. Dandone un’interpretazione molto elastica, perfino vaga, si può consentire che i grossi investimenti speculativi passino “sotto” i radar e i divieti, presentandosi come “coperture dal rischio”. Ahi! Guarda caso, “copertura dal rischio” è proprio la definizione dell’attività che ha creato il buco di 2 miliardi di dollari nel bilancio JP Morgan. Non è un incidente dovuto a qualche “trader-canaglia”, no: le operazioni compiute sul mercato di Londra dallo “squalo” Bruno Iksil, com’era stato battezzato dai colleghi, erano tutte ben note al top management di JP Morgan, incluso Dimon. Erano proprio quelle operazioni che la regola Volcker, se definita e applicata nel modo più rigoroso, renderebbe illegali e vietate alle grandi banche. Come dire: la JP Morgan si è “sparata su un piede” proprio mentre la sua battaglia politica era vicina alla vittoria: passata la grande crisi bancaria, l’opinione pubblica si è distratta, e fino a venerdì scorso il clima era favorevole per l’offensiva delle lobby che sono maestre nell’arte di “lavorare ai fianchi” i parlamentari e le authority. Ora di colpo il partito dei riformatori si è risvegliato, ha ripreso vigore. Il senatore Carl Levin, un democratico del Michigan che segue da vicino l’attuazione della Dodd-Frank, ha dichiarato: “L’enorme perdita della JP Morgan è la prova che quella che i banchieri chiamano la copertura del rischio in realtà nasconde operazioni rischiose, che devono essere proibite a quelle aziende di credito che sono troppo grosse per essere lasciate fallire”. E pensare che poco tempo fa Dimon si permetteva di dileggiare Volcker: “Non capisce niente dei mercati di capitali”, dichiarò il chief executive di JP Morgan in una recente intervista alla rete Fox Business. Dimon ricamava così sulla famosa battuta di Volcker secondo lui “l’ultima innovazione bancaria di qualche utilità fu il Bancomat”. Sante parole, di uno che i mercati finanziari li capisce fin troppo bene.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 07, 2012, 11:15:09 am »

Lo scenario

Crescita zero e banche centrali umiliate

L'intervento congiunto sui tassi di giovedì non è bastato a ridare fiducia alle Borse.

L'euforia per il summit Ue è scomparsa in 48 ore. Ora occhi puntati sulla Fed.

E sul motore bloccato da cui tutto parte: l'economia reale

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Crescita "anemica" in America col tasso di disoccupazione inchiodato all'8,2%. La Triplice delle banche centrali umiliata dai mercati. Il nodo delle banche spagnole torna a dominare le paure: ormai all'ordine del giorno c'è un salvataggio della Spagna come Stato sovrano, non dei singoli istituti. Il Fondo monetario estende l'allarme per un rallentamento a tutte le ex-locomotive emergenti, dalla Cina all'India. Quattro colpi duri, quattro sviluppi nefasti in sole 48 ore.

La settimana si è chiusa in un clima completamente rovesciato rispetto all'euforia del 29: ogni illusione suscitata da quel summit Ue si è già dissipata da tempo. L'ultimo venerdì di giugno sembra una data lontanissima nella storia, per il ritmo convulso degli eventi. La realtà si è presa la sua rivincita, e dice che nulla è cambiato nell'eurozona otto giorni fa.

La Spagna per collocare tra gli investitori i suoi titoli del Tesoro è costretta di nuovo a offrire rendimenti vicini al 7%: cioè insostenibili nel medio-lungo periodo. Avevano ragione dunque quei "maligni" del fronte euroscettico angloamericano, dai grandi media Usa agli uffici studi delle banche di Wall Street e di Londra, che non credettero alla versione del trionfo di Mario Monti su Angela Merkel.

Lo scudo anti-spread si è già arenato di fronte alla minaccia di un veto della Finlandia e a quella - ben più sostanziale - della Csu bavarese che è parte della coalizione di governo a Berlino. Dunque non ci saranno i massicci e risolutivi acquisti di bond italiani e spagnoli per arginare l'escalation dei rendimenti. Peggio: neppure l'operazione-salvataggio delle banche spagnole va in porto come si era sperato e creduto al summit del 29.

La novità risolutiva in quel caso doveva essere la ricapitalizzazione diretta: fondi travasati dall'Europa alle banche stesse, senza passare attraverso il Tesoro di Madrid. Era indispensabile quel passaggio diretto, per spezzare "il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani", così era stato spiegato a Bruxelles otto giorni fa. Chiaro: bisognava evitare cioè l'effetto perverso di un'esplosione del debito pubblico spagnolo, che è automatica se gli aiuti transitano prima sul bilancio dello Stato. E invece il "circolo vizioso" è vivo e vegeto, più funzionante che mai. Con una giustificazione iper-tecnicistica: l'attuale fondo salva-Stati Efsf non può ricapitalizzare direttamente le banche, potrà farlo solo il suo successore Esm quando sarà nato, in futuro.

Arrivarci, al futuro. La ragione vera è politica. Angela Merkel ha detto sì alla ricapitalizzazione diretta delle banche spagnole solo "dopo" che sarà creata una vera vigilanza europea su tutti gli istituti di credito. Richiesta logica e ragionevole. Ma i mercati hanno capito subito che ciò equivale a rinviare tutto verso orizzonti lontani: della vigilanza europea si parla da tempo, le resistenze nazionali sono enormi, quella European Banking Authority che doveva esserne l'embrione è una patetica e impotente caricatura.

La Bce di Mario Draghi ha le sue reticenze e riserve sull'argomento, per non essere in conflitto d'interessi chiede una separazione rigida, una "muraglia cinese" fra i due mestieri di prestatore di ultima istanza e di guardiano dei suoi "clienti" (i banchieri). Insomma ci vorranno ancora mesi, se non anni, perché qualcosa di concreto appaia. Nel frattempo gli investitori stanno suonando le campane a morto per la Spagna, i rendimenti che esigono per sottoscrivere i suoi bond la spingono inesorabilmente verso il default. Ora si torna a parlare di un vertice "risolutivo", stavolta è l'Ecofin di questo lunedì: ma ormai l'eurozona ha speso le ultime riserve di credibilità, a furia di evocare la sua "ultima spiaggia" forse ci sta arrivando davvero.

Il disastro dell'eurozona ha già contagiato ampiamente il resto del mondo. Non lo dice solo la direttrice del Fmi Christine Lagarde che ammonisce sul rallentamento generalizzato dagli Stati Uniti ai Brics. Lo dicono soprattutto le reazioni dei mercati al "giovedì della Triplice", la giornata in cui Bce, banca centrale inglese e cinese sono intervenute simultaneamente con tagli dei tassi d'interesse e pompaggio di liquidità d'emergenza. Un flop micidiale, un buco nell'acqua, che non ha ricostituito la fiducia neanche per pochi minuti.

Uno spettacolo d'impotenza disarmante, che si riverbera adesso anche sulla più potente e rispettata delle banche centrali, la Federal Reserve americana. Saprà essere efficace lei, dove le altre hanno fallito? Le attese di un intervento salvifico della Fed si sono rafforzate ieri, dopo un altro dato deludente sul mercato del lavoro americano. Appena 80.000 posti di lavoro in più, il saldo netto del mese di giugno fra nuove assunzioni e licenziamenti: pochi, troppo pochi per un'America che è uscita dalla recessione con 15 milioni di disoccupati (reali). E infatti con una crescita così debole il tasso di disoccupazione resta inchiodato all'8,2%, un record storico per un periodo così prolungato dal dopoguerra.

La Fed ha il dovere istituzionale di agire contro la disoccupazione, questo ne ha sempre fatto una banca centrale più interventista e risoluta di altre. Ha anche interesse a non lasciare che s'indebolisca troppo l'euro, perché già ieri a quota 1,22 era avviato su un piano inclinato che non piace all'industria esportatrice americana. Ma la Fed è entrata da tempo nel suo "semestre bianco": il banchiere centrale Ben Bernanke deve meditare se gli convenga agire troppo energicamente quando manca così poco all'elezione presidenziale. Il 6 novembre potrebbe vincere il repubblicano Mitt Romney, che al momento del rinnovo dei vertici della Fed forse si vendicherebbe contro chi ha aiutato troppo Barack Obama.

 Più ancora dell'elezione, un'altra angoscia esistenziale attanaglia Bernanke: e se la Fed dovesse fallire, come hanno fallito le sue consorelle dall'Europa alla Cina? Il tasso d'interesse negli Usa è già a quota zero: da tre anni e mezzo. Le precedenti operazioni di massiccia iniezione di liquidità hanno fornito una "droga leggera" a Wall Street e alle banche Usa, ma non hanno sostanzialmente rinvigorito l'economia reale.

La politica monetaria ha dei limiti, conosciuti fin da quando li studiò John Maynard Keynes durante la Grande Depressione. Esiste una "trappola della liquidità", nella quale la moneta viene inghiottita e scompare: se manca fiducia tra i consumatori e le imprese, il denaro può anche costare zero ma nessuno lo prende e lo spende. Draghi lo ha ricordato usando un'altra immagine: "Non si può spingere con una corda". Un suo predecessore alla Banca d'Italia, Guido Carli, aveva coniato l'espressione "il cavallo non beve".

Negli Stati Uniti uno studioso della Depressione come Bernanke ha immaginato ogni possibile "offensiva anti-convenzionale" fino a ipotizzare una Fed che manda elicotteri a lanciare banconote su tutti gli Stati Uniti: resta da verificare che i consumatori beneficiati dalla manna celeste la vadano a spendere, non a tesaurizzare per accumulare un risparmio precauzionale (o per ripagare i propri debiti). Il Fondo monetario evoca un altro Armageddon entro la fine dell'anno: nella stasi tra Obama e la Camera a maggioranza repubblicana, scatterebbero degli aumenti automatici d'imposte riducendo ulteriormente il reddito disponibile e il potere d'acquisto delle famiglie. È quello il motore bloccato su cui il Fmi attira l'attenzione: l'economia reale, a cui nessuno sta rifornendo il carburante.
 

(07 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/07/07/news/crescita_zero_banche_centrali_umiliate_cos_la_crisi_dell_euro_contagia_il_mondo-38669105/?ref=HRER2-1       
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« Risposta #96 inserito:: Settembre 30, 2012, 02:06:01 am »

STATI UNITI

Obama blocca progetto eolico di Pechino "Questione di sicurezza nazionale"

Il presidente si avvale di un raro potere di veto per fermare l'acquisto di impianti da parte dell'azienda cinese Ralls.

Intanto Romney lo accusa di non essere stato abbastanza duro nei confronti della concorrenza sleale dei progetti "made in China"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK  -  Niente eolico, siete cinesi. Barack Obama sfodera un raro veto presidenziale per bloccare l'acquisizione di impianti di energia eolica da parte della Ralls, azienda cinese. Anzi, per cacciarla, visto che la Ralls l'investimento lo aveva già fatto: all'inizio dell'anno era diventata proprietaria di quattro centrali eoliche nell'Oregon.

E' da 22 anni che un presidente americano non usava questo potere. La vicenda è complicata da ramificazioni militari, e dalla coincidenza con la campagna elettorale. Obama ha invocato l'interesse strategico, per costringere la Ralls a "disinvestire", espropriandola. Il sospetto che i cinesi avessero altre finalità, oltre alla produzione di energia eolica, nasce dal fatto che quelle centrali si trovano vicino a una base della U. S. Navy. E non una base qualsiasi: dalla Naval Weapons Systems Training Facility di Broadman vengono effettuati voli di addestramento per i droni e altri velivoli ad alta capacità tecnologia. I cinesi usavano l'eolico come copertura per spiare? Forse.

L'intervento di Obama, pur se inusuale, rientrerebbe nella stessa logica per cui il Congresso sbarrò la strada a Cnooc (petrolio) e Huawei (elettronica e telecom) nei loro progetti di investimento. Ma l'altra coincidenza è quella con il voto. In campagna elettorale, guai a chi presta il fianco all'accusa di "intesa con la Cina". Mitt Romney attacca Obama per non essere duro con i cinesi per la loro concorrenza sleale. I democratici ribattono con accuse altrettanto pesanti:
nel periodo in cui dirigeva Bain Capital, Romney sarebbe stato protagonista di diverse operazioni di delocalizzazione in Cina.

(28 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2012/09/28/news/cina-43495850/?ref=HREC2-4
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« Risposta #97 inserito:: Aprile 13, 2013, 11:21:06 pm »

Bitcoin, la moneta virtuale rischia di scoppiare

Nessuna autorità controlla, quotazioni in altalena. Il valore circolante supera il miliardo di dollari e molti siti la accettano per i pagamenti.
Le banche centrali, le uniche abilitate all'emissione, spiazzate dai guru del web

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Una nuova bolla speculativa eccita la fantasia degli americani: dopo le case, dopo l'oro, ecco il boom delle Bitcoin, cioè monete digitali. E' nata come un gioco virtuale, ma ha preso piede rapidamente nella Silicon Valley e ora cresce il numero di esercizi commerciali e società online che l'accettano come mezzo di pagamento. I "re" di questa speculazione sono i celebri gemelli Cameron e Tyler Winklevoss già soci di Mark Zuckerberg alla fondazione di Facebook, immortalati dal film The Social Network. C'è chi paragona il fenomeno alla "febbre dei tulipani", la prima bolla speculativa narrata nelle cronache del capitalismo mercantile, nell'Olanda del Seicento. Ma dovrebbe preoccuparsi la Federal Reserve, che sta perdendo il monopolio nell'emissione di moneta? La prerogativa delle banche centrali, sotto il controllo dello Stato sovrano, è proprio quella di essere le uniche abilitate a stampar moneta. Fin qui avevano a che fare con concorrenti minori come i falsari. O con quella funzione di amplificazione della base monetaria legata alle carte di credito, facilmente governabile. Come reagiranno, se si afferma come un fenomeno di massa la "moneta Internet"?

I gemelli Winklevoss vengono intervistati dal New York Times e sbattuti in prima pagina, perché sono personaggi ad alta visibilità: il film sulla storia di Facebook (dove i due sono impersonati da un solo attore) ce li rivelò anche nella loro altra passione, i campionati di canottaggio (furono nella selezione olimpica Usa). Ma restano due patiti dell'innovazione hi-tech. In questo caso sono saltati su un treno in corsa. Bitcoin non è invenzione loro. Nessuno sa bene come sia nata la moneta virtuale, i suoi esordi risalgono al 2009 e i programmatori che l'inventarono non sono stati rintracciati neppure dal New York Times. Sta di fatto che oggi il mercato finanziario dei Bitcoin vale già 1,3 miliardi di dollari. E' caratterizzato da fluttuazioni folli, vere montagne russe: fino al 60% di variazione del valore in una sola seduta. E' un mercato ancora ristretto perché la creazione di nuovi Bitcoin è sottoposta a limitazioni severe. Chi ha immaginato il sistema, all'origine, riservò la potestà di "battere" moneta ai patiti di informatica capaci di risolvere complessi enigmi matematici. Al momento sono in circolazione (si fa per dire) solo 11 milioni di queste cyber-monete. Le possibilità di spenderle restano ancora ridotte. Ci sono dei siti online che le accettano come mezzi di pagamento, alcuni di dubbia fama come per esempio Silk Road dove si dice vengano spacciati stupefacenti. A Berlino è apparso uno dei primi annunci sulla porta di un pub: qui si accettano Bitcoin.

La zona del mondo che dovrebbe essere più ricettiva a questo genere di esperimenti è naturalmente la Silicon Valley californiana e qualcuno già immagina che a Palo Alto o a Cupertino si comincerà a pagare in Bitcoin il cappuccino da Starbucks. Per adesso i gemelli Winklevoss sono riusciti a convincere un giovane talento informatico dall'Ucraina a lavorare per loro pagandolo in Bitcoin.

E' facile fare dell'ironia su questo nuovo gioco, che per certi aspetti ricorda la "società virtuale" di Second Life, quell'universo parallelo in 3-D dove i patiti possono costruirsi un'identità alternativa, una vita immaginata. Ma nella Silicon Valley Bitcoin comincia a essere presa sul serio da alcuni veterani del venture capital come la società Andreessen Horowitz. Hanno imparato a non disdegnare le innovazioni più stravaganti: troppe volte ciò che cominciò come un gioco per fanatici dell'informatica ebbe poi un balzo dimensionale fino a diventare mercato di massa. In Giappone c'è una società, la Mt. Gox, che si è specializzata nel trading di Bitcoin e sostiene di gestire l'80% delle transazioni. A Malta è stato creato perfino uno hedge fund che investe in questa "moneta Internet".

Può sembrare quasi una nemesi storica: la cyber-valuta fa notizia proprio quando i padroni delle monete reali, i banchieri centrali, sono impegnati in un esperimento senza precedenti per dilatare la creazione di liiquidità. Dalla Federal Reserve di Ben Bernanke alla Banca del Giappone, la gara è a chi immette più circolante per rianimare l'economia reale. Forse non c'è da stupirsi se qualcuno si rifugia in un conio immaginario, nell'attesa che un'Apocalisse monetaria risvegli i demoni dell'inflazione e sminuisca il valore delle banconote "reali". Se dietro la strategia delle banche centrali c'è il progetto di lungo periodo di monetizzare il debito pubblico deprezzandone il valore reale, Bitcoin potrebbe trasformarsi perfino in un bene-rifugio?

(13 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/04/13/news/bitcoin_rischio-56525771/?ref=HREC2-9
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« Risposta #98 inserito:: Aprile 16, 2013, 03:09:12 pm »

Più Europa o meno euro: l’Italia non può restare a metà del guado
   
In assenza di una svolta radicale e strutturale delle politiche economiche europee, è probabile che l’Italia sia condannata a rimanere a lungo in recessione. L'austerity è come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di salassi, togliendogli sempre più sangue. Se le cose non cambiano non va esclusa l'opzione estrema di un'uscita dall'euro.


Intervista di Federico Rampini a Joseph Stiglitz, da la Repubblica, 12 aprile 2013

«L'Italia è vittima di un fallimento dell'austerity europea, state pagando un prezzo più elevato della Grande Depressione, le vostre imprese sono penalizzate a tutto vantaggio di quelle tedesche. Non accusate Beppe Grillo di populismo: i temi che solleva sono legittimi, compresa l'opzione estrema di un'uscita dall'euro. Niente governissimo Pd-Pdl, per salvarsi l'Italia deve tagliare i ponti con la corruzione dell'era Berlusconi».

Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, parla nel suo “tempio”, alla Columbia University di New York. L’occasione è una conferenza molto dotta, patrocinata dalla Italian Academy e dal nostro Istituto di cultura. Il tema è impegnativo e attuale: Stiglitz smonta uno per uno tutti i dogmi del pensiero economico neoclassico, o delle sue versioni neoliberiste. Se c’è uno che ha le carte in regola per istruire questo processo, è lui. Già consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca, iniziò a contestare il pensiero unico sulla globalizzazione negli anni Novanta; fu licenziato da vicepresidente della Banca mondiale per le sue critiche all’istituzione; più di recente fu uno dei primi a solidarizzare con gli “indignados” spagnoli e a giustificare le rivolte anti-austerity. Con rigore teorico implacabile, fa a pezzi l’idea di un homo economicus razionale, di un mercato capace di auto-regolarsi. Espone l’inutilità del Pil come misuratore di benessere (lui stesso ha ispirato molti governi e organismi internazionali nella ricerca di indicatori alternativi). Stigmatizza l’avidità dei banchieri e lo strapotere delle oligarchie capitalistiche. Finita la conferenza, Stiglitz accetta di parlare di noi: l’Italia nella trappola del-ìl’austerity, e come uscirne. Il premio Nobel sa di essere diventato il massimo “guru” economico del Movimento 5 Stelle. E non si tira indietro. Conosce la situazione politica italiana, risponde a tutte le domande, anche le più delicate. Difende Grillo, pur spingendolo nella direzione di un accordo con il Pd.

Grillo ha proposto un referendum sull’euro, le sembra concepibile agitare la possibilità di una nostra uscita dalla moneta unica?
«L’eurozona deve cambiare le sue politiche di austerity. Perché l’euro funzioni occorrono una vera unione bancaria con regole comuni, un’assicurazione unica per i depositi dei risparmiatori, una vigilanza europea; poi ci vuole la vera unione fiscale, l’emissione di euro-bond. Il sistema attuale è instabile, incompiuto. Ci vuole più Europa oppure meno euro, non si può restare a metà del guado. Alcune posizioni del M5S sono fondate: un Paese come l’Italia potrebbe arrivare fino al punto di dover abbandonare l’euro per salvare l’Europa. Sarebbe preferibile di no, sarebbe meglio che fosse l’Europa ad abbandonare l’austerity».

Perché ritiene che per l’Italia possa diventare insostenibile l’appartenenza a questa unione monetaria?
«Le regole attuali dell’Unione europea restringono la vostra possibilità di fare una politica industriale, di cui avete gran bisogno. Il mercato unico all’origine doveva creare condizioni eque di competizione, una concorrenza leale. E’ fallito. Anzi: la competizione fra nazioni europee non è mai stata così diseguale. Le imprese italiane oggi devono pagare tassi d’interesse molto più alti delle imprese tedesche, anche ammesso che riescano ad avere accesso al credito bancario. Questa non è concorrenza leale, è un mercato squilibrato, altamente instabile. Se non cambia, non vedo via d’uscita».

Per il momento non c’è segnale che l’eurozona voglia cambiare rotta in modo sostanziale, rinnegando l’austerity voluta dalla Germania.
«In assenza di una svolta radicale e strutturale delle politiche economiche europee, è probabile che l’Italia sia condannata a rimanere a lungo in recessione. Oggi il vostro reddito nazionale è inferiore a quello del 2007, il danno economico che subite è superiore perfino a quello della Grande Depressione degli anni Trenta. Questo non è l’effetto ineluttabile di un terremoto o di uno tsunami, è un fallimento economico determinato da politiche sbagliate. L’Unione europea deve ammetterlo, deve rilanciare la crescita, e allora anche il vostro debito pubblico diventerà governabile».

Dunque lei difende un referendum sull’euro, che viene considerato una fuga in avanti populista.
«Gli italiani devono poter valutare, e mi rendo conto che questa valutazione è molto
complessa. Dovete soppesare da una parte le possibilità concrete di ottenere un cambiamento drastico nelle attuali politiche europee; dall’altra, gli eventuali costi di una uscita dall’euro. Dibattere queste idee non è populismo, è democrazia. Si tratta di restituire sovranità ai cittadini, che hanno il diritto di volere un futuro migliore. Affermare che le politiche economiche hanno peggiorato le vostre condizioni di vita non è populismo».

Nell’immediato, dati i vincoli della nostra appartenenza all’euro, cosa può fare un governo italiano?
«Voi avete rinunciato a gran parte della vostra sovranità entrando nell’euro, la vostra libertà è limitata. Ma ci sono cose che potete fare. Rendere il vostro sistema bancario più efficiente per stimolare la crescita. Passare al setaccio le voci della spesa pubblica. Riformare la corporate governance del vostro capitalismo. Aggredire quei problemi di corruzione di cui Silvio Berlusconi è una manifestazione».

Vasto programma, per il quale bisognerebbe avere un governo. A cinquanta giorni dalle elezioni non si è trovato un nuovo governo. Le posizioni sembrano inconciliabili, il M5S non ha accettato compromessi.
«In ogni democrazia è necessario che ci siano dei compromessi. Si parte da posizioni diverse, ma bisogna lavorare assie-
me. Capisco la preoccupazione di non cedere sulle questioni di principio. Io credo che una maggioranza di italiani abbia alcune esigenze comuni: una riforma dello Stato; far ripartire la crescita; di conseguenza cambiare le politiche di austerità».

Cosa pensa dell’ipotesi di un governissimo tra Pd e Pdl?
«Questo mi sembra il compromesso più difficile da raggiungere. Il livello di corruzione associato a Berlusconi e al suo partito non è compatibile con i programmi di governo di quelle forze che si battono contro la corruzione. Vedo più naturale una convergenza con Grillo».

Tra le proposte considerate demagogiche c’è quella di un salario di cittadinanza garantito a tutti.
«L’India, che resta una nazione povera, ha introdotto un sistema di occupazione garantita per le popolazioni rurali. Bisogna partire dal principio che la disoccupazione è il fallimento di una società. E la società deve assumersi la sua responsabilità, deve riuscire a generare una forma di sostegno, commisurata alle sue risorse. Non è populismo affermare che il 12% di disoccupazione è un fallimento dell’Europa. Non c’è dramma più grave di questo, di quando ci sono venti disoccupati che si presentano per un solo posto di lavoro».

Lei è stato uno dei pionieri nell’elaborazione di nuovi indicatori del benessere collettivo. Dal Prodotto interno lordo si è passati al Fil (felicità interna lorda) e altri misuratori alternativi come l’indice di sviluppo sociale. Qual è l’utilità di questa ricerca?
«Il Pil non ci dà una misura delle cose che contano davvero per noi: per esempio la qualità dell’ambiente, la sostenibilità dello sviluppo, la diseguaglianza, la giustizia sociale. Per fare due esempi ispirati dagli Stati Uniti: abbiamo un sistema sanitario molto inefficiente e molto costoso, ma proprio i suoi alti costi contribuiscono a “gonfiare” il valore del Pil; abbiamo degli Stati Usa che spendono per le prigioni più di quanto stanziano per le loro università, ma anche la spesa carceraria va a contribuire al Pil. Sul tema della giustizia sociale un tempo la dottrina economica prevalente diceva che la distribuzione del reddito è irrilevante, anzi arrivava a sostenere che le diseguaglianze contribuiscono a rendere efficiente un’economia di mercato. Invece oggi anche il Fondo monetario internazionale ammette che esiste una correlazione fra diseguaglianze e instabilità».

Ai leader europei che continuano a pensare che l’austerity ci tirerà fuori dalla crisi, lei cosa dice?
«E’ come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di salassi, togliendogli sempre più sangue. Questa gente seleziona solo le informazioni che conferma le loro idee preconcette. L’austerity non funziona neppure per l’obiettivo che si prefigge, di ridurre il debito pubblico. Se non abbiamo la capacità di trarre le lezioni di questa crisi, come fu fatto dopo la crisi del 1929, temo che saremo condannati ad un’ulteriore ricaduta».

(12 aprile 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/piu-europa-o-meno-euro-litalia-non-puo-restare-a-meta-del-guado/
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« Risposta #99 inserito:: Giugno 11, 2013, 11:29:47 am »


6
giu
2013

Intercettazioni e ragion di Stato nell’era Obama

Federico RAMPINI

Lo scandalo dello spionaggio telefonico di massa ai danni di milioni di utenti americani, segue a breve distanza le varie “affaires” di giornalisti intercettati dal Dipartimento di Giustizia. Conferma una inquietante tendenza di questa Amministrazione a prendersi delle liberta` con… le liberta` fondamentali della Costituzione. In nome della sicurezza nazionale, della lotta al terrorismo, naturalmente. Ma a sinistra e tra le associazioni per i diritti civili, in molti si chiedono se il confine tra Obama e le logiche di Bush non stia diventando pericolosamente sottile.
All’inizio, gli scandali sembravano colpire dei settori ben definiti. Da una parte, I giornalisti dell’Associated Press e della Fox soggetti a sorveglianza delle telefonate; l’Agenzia delle Entrate (Internal Revenue Service) impegnata a fare accertamenti mirati verso organizzazioni politiche di destra. Le proteste sembravano venire solo da interessi “di parte”, i giornalisti o la destra repubblicana. Ma adesso si scopre che milioni di utenze telefoniche dell’operatore Verizon erano sotto sorveglianza. L’ex direttore del New York Times, il liberal Bill Keller, si trova fianco a fianco con la destra nell’impugnare i diritti costituzionali.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2013/06/06/intercettazioni-e-ragion-di-stato-nellera-obama/?ref=HREA-1
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« Risposta #100 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:36:48 am »

E ora i mercati temono il terremoto
   
di Federico Rampini, da Repubblica, 13 giugno 2013

E' finita davvero l'èra dei tassi calanti. La svolta avviene dove conta di più: qui in America. Contagia il mondo intero, con effetti a cascata che possono preludere a una nuova "tempesta perfetta" sui mercati finanziari. Il titolone del Wall Street Journal in prima pagina è allarmante: "Un tumulto globale s'impadronisce dei mercati". Nell'articolo del quotidiano economico si evoca uno "spostamento tettonico dell'economia mondiale", come quelle dislocazioni della crosta terrestre che possono preludere a terremoti, creazioni di catene montuose, e altri cataclismi geologici.

Una dopo l'altra stanno crollando le certezze degli ultimi anni: si dava per scontato il proseguimento di una politica monetaria ultra-generosa (abbondanza di liquidità fornita dalle banche centrali a tassi minimi), così come una crescita vigorosa delle nazioni emergenti, Cina in testa. Contrordine, su ogni fronte. Tutti i punti cardinali che davano stabilità ai mercati, sono in movimento. E soprattutto, gli investitori hanno di colpo la sensazione che le banche centrali abbiano perso il controllo degli eventi.

Questa è la novità più inquietante. La Federal Reserve non riesce più a "comunicare certezze" sulla sua azione futura. La Banca del Giappone è impotente davanti a un indice Nikkei che viaggia impazzito sulle montagne russe, con rialzi e tracolli eccessivi. Le banche centrali dei paesi emergenti subiscono una fuga di capitali, le loro monete fino a ieri sopravvalutate stanno perdendo a rotta di collo sul dollaro.

Da New Delhi a Brasilia a Johannesburg, tutte cercano di correre ai ripari rialzando i tassi. Si conferma così quella che potrebbe essere la vera "dislocazione tettonica" di lungo termine: si torna ai tassi d'interesse in risalita. Un grafico del New York Times, depurando dalle fluttuazioni di breve periodo, dimostra che siamo stati dentro un "ciclo lungo" addirittura trentennale, di calo dei rendimenti. L'impressione è che stia volgendo al termine, e tutti cercano di correre ai ripari, o quantomeno di capire come sopravvivere nel nuovo mondo che verrà.

A scatenare il tumulto, almeno all'origine c'è un fatto positivo: l'America è ormai fuori dal tunnel della crisi. L'uscita dalla recessione Usa compie ormai quattro anni; e da tre anni questa ripresa genera occupazione a ritmi fra i 150.000 e i 200.000 posti al mese. In queste condizioni, il presidente della Fed Ben Bernanke ha fatto capire che prima o poi toglierà la "droga" ai mercati. La cura da cavallo che la sua banca centrale ha usato per uscire dalla crisi - tasso zero e massicci acquisti di bond, ultimamente 85 miliardi di dollari ogni mese - perderà la sua ragion d'essere. Buona notizia, dunque, anche se "comunicata" con tali riserve e cautele che provocano incertezza.

Bernanke non ha detto esattamente "quando". I mercati però giocano d'anticipo, si comportano come se la cura fosse agli sgoccioli. E come un drogato in crisi d'astinenza, hanno dei momenti di vero panico. Devono ripensare il mondo intero attorno a sé. Un universo di tassi in risalita, rovescia tutti i calcoli rispetto al passato. I rendimenti in ripresa risucchiano capitali verso gli Stati Uniti sottraendoli a quei mercati che erano stati beneficiati dalla speculazione: gli emergenti.

La fuga di capitali non risparmia nessuno: in Indonesia, Filippine e Thailandia, qualcuno teme addirittura il replay della tremenda crisi asiatica del 1997. Cadono le materie prime, dal petrolio ai metalli, trascinando monete come il dollaro australiano. La Cina rallenta vistosamente e non si capisce se sia per ritrovare un equilibrio di crescita più sostenibile, o invece qualcosa di peggio.

Anche in America, le "profezie che si autoavverano" stanno facendo danni. A furia di anticipare le prossime mosse della Fed si è innescata una vendita di bond che coinvolge tutti: buoni del Tesoro e obbligazioni private delle aziende. Perdite importanti colpiscono i fondi comuni obbligazionari, i più usati dal risparmio popolare e dalla previdenza.

Mentre all'inizio sembrava una Grande Rotazione ordinata (il deflusso dai bond, a favore degli investimenti azionari) ora anche la Borsa scende insieme con il valore capitale dei portafogli di titoli di Stato. La volatilità di Wall Street non è ai livelli di Tokyo ma è comunque anomala: una seduta ogni tre si chiude con l'indice Dow Jones al rialzo o (più spesso) al ribasso con punteggi a tre cifre. Potrebbe essere solo una fase di assestamento, turbolenta come tutte le transizioni. Purché i mercati tornino ad avere l'impressione che c'è un timoniere al comando: almeno della Fed.

(13 giugno 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-ora-i-mercati-temono-il-terremoto/
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« Risposta #101 inserito:: Agosto 27, 2013, 11:50:30 pm »

Il conto alla rovescia di Obama, Nato e Lega araba come alleati

Ma il no di Mosca apre un fronte al G20 tra una settimana

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Barack Obama è ormai pronto a lanciare l'attacco alla Siria. Il presidente manda avanti il suo segretario di Stato, John Kerry, con un discorso inequivocabile: nel tono e nei contenuti. Il tono è quello delle occasioni solenni, drammatiche.

Kerry ha il compito di preparare l'opinione pubblica americana, fin qui molto distratta (la prova sta nel 60% di contrari all'intervento militare, sondaggio Reuters/Ip sos del weekend). La durezza del linguaggio serve ad allertare l'America: siamo di fronte a una "oscenità morale", un crimine contro l'umanità, ma anche una violazione di tutte le norme internazionali che da decenni vietano l'uso di armi chimiche.

Per questo l'interesse vitale degli Stati Uniti è in gioco. Oltre che la credibilità di un presidente che parlò di "linea rossa da non varcare" (le armi chimiche) ormai un anno fa. La reazione di Mosca non si fa attendere, e anche dalla durezza dei toni russi ("dall'intervento ci saranno conseguenze gravissime") si capisce che Vladimir Putin non si fa più illusioni.

Rischia di saltare tutta l'agenda del vertice G20, inprogramma tra una settimana a San Pietroburgo. Nel febbrile conto alla rovescia, molti a Washington si chiedono se Obama vorrà aspettare il G20 e fare un ultimo tentativo  -  senza illudersi affatto  -  di ottenere una neutralità russa. Oppure se i tempi stanno precipitando e il G20 si aprirà con l'intervento militare in corso. Sarebbe un summit di fuoco, a casa del più potente alleato della Siria.

Sui contenuti la svolta di Kerry è questa: l'America non aspetta più i risultati dell'ispezione Onu. Assad ha avuto tutto il tempo di far sparire le prove, in quei 5 lunghissimi giorni durante i quali ha negato l'accesso agli ispettori Onu e al tempo stesso la sua artiglieria ha continuato a bombardare le stesse zone già martoriate dall'attacco chimico.

"C'è una ragione molto chiara  -  spiega Kerry  -  per cui Obama avvisò Assad che una violazione delle leggi sulle armi chimiche avrebbe avuto conseguenze. È la stessa ragione per cui quellearmi furono messe al bando dal mondo civile molto tempo fa, con l'accordo di nazioni che su poche altre cose sono d'accordo " (allusione alla Russia).

Dunque il presidente "prenderà una decisione informata" dopo avere concluso le consultazioni di molti leader internazionali. Ma "nessuno si illuda, ci saranno conseguenze". Obama esamina nei dettagli la lista dei possibili bersagli perun attacco missilistico. Sul tavolo del presidente dallo scorso weekend ci sono i principali arsenali di armi chimiche di Assad, e altri obiettivi militari da colpire.

Per quanto riguarda la legittimazione internazionale, scontando che fallirà il tentativo di ottenere una risoluzione Onu (sicuramente bloccata dal veto di Putin) Obama può cercarla con due altri organismi internazionali: da una parte la Nato, dall'altra la Lega araba.

Per quanto riguarda la Nato come "seconda opzione" in mancanza di una risoluzione Onu, il precedente è il Ksovo nel 1999 (primo test del "dovere d'ingerenza umanitaria"). Nel mondo arabo, decisivo è il ruolo del principe saudita Bandar, eminenza grigia di una potente coalizione anti-Assad che ha la sua cabina di regìa a Ryad.

Ma non chiamatela "guerra". Bensì "colpo". La distinzione la traccia il presidente del Council of Foreign Relations, Richard Haass, e prepara il terreno alla giustificazione che Obama potrebbe dare: non si tratta di iniziare un intervento militare per deporre Assad ma di "castigarlo" con un colpo mirato.

Una serie di lanci missilistici, con missili di crociera Tomahawk in dotazione ai quattro incrociatori della Sesta Flotta che la U. S. Navy ha dispiegato nel Mediterraneo al largo delle coste siriane. Più eventuali lanci da cacciabombardieri pronti a decollare da varie basi "in Europa e in Medio Oriente".

Un'azione che infligga danniseri ad Assad, ma non l'inizio di un conflitto vero e proprio. Qui il precedente è del 1986: il bombardamento aereo ordinato da Ronald Reagan sulla Libia, per punire Gheddafi di alcuni attentati terroristici (in particolare la bomba esplosa in una discoteca a Berlino), nonché delle sue intenzioni di costruirsi armi nucleari. L'attacco aereo, in codice Operazione El Dorado Canyon, fece 40 morti in Libia ma fallì nell'obiettivo di uccidere lo stesso Gheddafi.

Haass sottolinea che "è importante distinguere tra una risposta all'uso di armi chimiche, e un intervento vero e proprio nel conflitto siriano". Sempre il presidente del Council of Foreign Affairs sottolinea che Obama non può più sottrarsi ad un colpo, sia pure limitato: "Un presidente degli Stati Uniti non può annunciare la linea rossa, e poi non fare nulla contro chi l'ha varcata. La sua credibilità è in gioco anche verso altri attori, come l'Iran".

(27 agosto 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/dal-quotidiano/reportage/2013/08/27/news/il_conto_alla_rovescia_di_obama_nato_e_lega_araba_come_alleati-65351977/?ref=HREA-1
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 25, 2013, 04:31:07 pm »

Il volo del Bitcoin e la sfida alla volatilità.

Così la moneta virtuale è diventata reale

Nata nel 2009 è caratterizzata dalla modalità di creazione della "base monetaria". A differenza delle valute tradizionali, non esiste una banca centrale con il potere esclusivo di stampare moneta: chiunque può "coniarla", a condizione di saper risolvere problemi matematici complessi perché la liquidità non può essere infinita. La settimana scorsa il debutto al Congresso Usa

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - Qualcuno storcerà il naso nell'apprendere che tra le prime istituzioni non americane ad accettare Bitcoin come moneta di pagamento c'è l'università (privata) di Nicosia. Poiché l'isola di Cipro è associata all'idea di bancarotta, come sponsor forse non è il massimo. E tuttavia Christos Vlachos, direttore amministrativo della University of Nicosia, è convinto che questa scelta metterà l'ateneo all'avanguardia. Non solo Bitcoin può essere usata per pagare le rette, ma ben presto diventerà materia d'insegnamento. Vlachos considera la moneta digitale come "uno sviluppo inevitabile" che trascinerà con sé altre innovazioni nel commercio online, nei pagamenti internazionali, nelle relazioni economiche globali.

Chiamarla moneta "virtuale" ormai è riduttivo. Quattro anni dopo la nascita di questa valuta digitale (2009), negli Stati Uniti ormai si moltiplicano gli esercizi commerciali "fisici", che esibiscono in vetrina l'annuncio "Bitcoin accepted here". Hanno cominciato a proliferare nella Silicon Valley californiana, poi si sono diffusi in tutta la West Coast, infine in altre zone degli Stati Uniti. Si tratta ancora di una minoranza, e per lo più sono dei locali che si rivolgono a una clientela giovane, tecnologica. Accettare i Bitcoin, come minimo, è una discreta trovata pubblicitaria per far parlare di sé e attirare l'attenzione. Poi si vedrà.

Un altro sintomo del successo di Bitcoin è il boom delle imitazioni. Un'inchiesta del Wall Street Journal dedicata a queste "cripto-valute" ne ha contate 80. La più antica, Litecoin, nacque nel 2011 quindi appena due anni dopo Bitcoin. Ma è in tempi molto più recenti che il successo di Bitcoin e la pubblicità sui media hanno provocato il boom dei "cloni". A ottobre e novembre di quest'anno sono nate Gridcoin, Fireflycoin, Zeuscoin. Si sono aggiunte alle pre-esistenti Worldcoin, Namecoin, Hobonickels. La febbre delle imitazioni ha un nome: si parla ormai di "criptomania".

Un altro momento di gloria per le cripto-valute c'è stato questa settimana, quando la loro regina ha fatto il suo ingresso al Congresso. I parlamentari di Washington per la prima volta hanno dibattuto molto seriamente sul fenomeno Bitcoin. A far scattare le audizioni congressuali, per la verità, era stato un campanello d'allarme. Di recente l'Fbi ha chiuso un sito, Silk Road, che faceva pagare in Bitcoin gli acquisti online di droga. Al termine delle audizioni, dopo aver sentito il parere delle forze dell'ordine e dell'autorità monetaria, il Congresso è arrivato ad una conclusione piuttosto rassicurante per i fautori della cripto-valuta: Bitcoin è una moneta legittima, anche se ha bisogno di essere regolata e sottoposta a controlli onde evitare che sia usata per business criminali.

Bitcoin fu creata nel 2009 da un collettivo che si nasconde sotto uno pseudonimo giapponese: Satoshi Nakamoto. La sua caratteristica più originale è la modalità di creazione della "base monetaria" o liquidità digitale. A differenza delle valute tradizionali, non esiste una banca centrale con il potere monopolistico ed esclusivo di stampare moneta. Chiunque può "coniare" Bitcoin, ma a condizione che sappia risolvere con l'ausilio del suo computer dei problemi matematici complessi. Il numero di Bitcoin che può essere creato ha un limite, dunque la "liquidità" non può essere aumentata all'infinito... a differenza di quel che la Federal Reserve sta facendo con i dollari.

I Bitcoin possono essere scambiati solo nel formato digitale, non esistono "su carta". Il loro valore viene fissato in tempo reale su delle vere e proprie Borse globali, dove gli investitori comprano e vendono il bene raro. E qui s'incontra un primo problema serio che può compromettere il futuro di Bitcoin. E' la sua eccessiva volatilità. Per fare un esempio: nel gennaio di quest'anno Bitcoin valeva 13 dollari, questa settimana durante le ore di massima visibilità e attenzione collegate all'audizione al Congresso, il suo valore ha toccato i 900 dollari. La quotazione media della settimana, a 548 dollari, corrisponde a una circolazione globale di Bitcoin pari a 6,6 miliardi di dollari. Per altri beni d'investimento la volatilità può essere un effetto collaterale della febbre speculativa: abbiamo visto l'oro andare su e giù sulle montagne russe negli ultimi anni. Ma una moneta, usata come mezzo di pagamento nelle transazioni commerciali di tutti i giorni, deve avere una certa stabilità.

Sappiamo che i periodi di iperinflazione, quando il potere di acquisto delle monete era aleatorio, fecero gran danno all'economia, ai risparmi, alle tasche dei consumatori. Lo stesso può valere per la deflazione, quando la moneta si rivaluta troppo. Una moneta troppo soggetta alla speculazione non è rassicurante, né per noi consumatori né per i commercianti, se con essa dobbiamo andare a fare la spesa. Alcuni stanno cercandosi delle soluzioni rudimentali, per poter continuare a usare Bitcoin proteggendosi dalle fluttuazioni selvagge.

E' il caso di un'agenzia viaggi online basata a Los Angeles, CheapAir.com, che nel suo settore è la prima ad accettare i Bitcoin come pagamento per l'acquisto di biglietti aerei. Jeff Klee, chief executive di CheapAir, ha deciso di affidarsi a un intermediario, la società Coinbase, che gli gestisce il sistema di pagamenti e "isola" il suo business dal rischio di cambio: cioè dal rischio che improvvisamente i Bitcoin che lui ha accettato perdano una parte del loro valore. La vicenda di CheapAir è un caso da manuale che illustra le contraddizioni della moneta digitale.

Non c'è dubbio che una delle attrattive di Bitcoin sta nel fatto di fare a meno delle banche: sia le banche centrali, sia quelle di deposito. In un'epoca in cui i banchieri sono odiati per i danni inflitti all'economia mondiale e alle condizioni di vita di ciascuno, una moneta non-bancaria esercita un fascino indubbio. E tuttavia l'accorgimento adottato da CheapAir per tutelarsi dall'eccessiva volatilità, in qualche modo equivale a dare spazio a una nuova forma di intermediazione bancaria. L'operazione che fa la società Coinbase per il suo cliente, è quello che nel gergo dei trader si chiama "hedging" ovvero copertura del rischio, in questo caso il rischio di cambio. Manca poco, e sentiremo parlare di boom dei derivati di Bitcoin. E' una strada inclinata, e sappiamo già a quali aberrazioni può condurre...

(23 novembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2013/11/23/news/bitcoin_moneta_virtuale_internet-71714714/?ref=HRLV-4
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« Risposta #103 inserito:: Dicembre 24, 2013, 05:57:50 pm »

19
dic
2013

Billie King, la tennista lesbica che Obama manda a Putin

Sarà una lesbica dichiarata e molto famosa, Billie Jean King, a guidare la delegazione olimpica americana ai Giochi d’Inverno di Sochi. E’ lo schiaffo di Barack Obama a Vladimir Putin, il persecutore dei gay. “Un colpo di genio”, lo definisce Usa Today che dedica alla King l’intera prima pagina. Scelta magistrale, perché l’ex campionessa di tennis non è solo una militante gay, a 70 anni è una leggenda dello sport americano. E’ una combattente nata, già sfida Putin prima ancora di partire. “Abbiamo bisogno – dichiara la King – di un gesto alla John Carlos”. Allude alla clamorosa protesta del velocista americano che segnò le Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Il campione Carlos fu espulso perché, dal podio olimpico, mentre riceveva la medaglia alzò il pugno chiuso (insieme a Tommie Smith) per protestare contro le discriminazioni razziali. Per Putin la dichiarazione della King equivale a un’istigazione sovversiva, un invito agli sportivi gay perché usino Sochi come platea per le proteste. E non è solo la capa-delegazione ad essere una lesbica dichiarata (dal 1981). Della rappresentanza ufficiale selezionata da Obama fa parte anche Caitlin Cahow, ex-olimpica di hockey su ghiaccio, anche lei dichiaratasi apertamente omosessuale e militante per la parità dei diritti. Obama non fa mistero del messaggio che vuole mandare al leader russo. “Spero proprio – dice il presidente americano – che qualche atleta gay o lesbica porti a casa una medaglia, il che aiuterebbe a contrastare gli atteggiamenti ostili che ci sono in Russia. Se la Russia non vuole avere atleti omosessuali nelle sue squadre, avrà squadre meno competitive”.

La figura che domina per il suo potenziale dirompente è la King. La sua carriera sportiva fu un susseguirsi di provocazioni. Nata nel 1943 a Long Beach, in California, è stata la più grande campionessa di tennis dei suoi tempi: vinse 39 Grand Slam, fu tre volte capitana della squadra Usa alla Federation Cup. Per una donna, ai suoi tempi segnò il record delle vincite: oltre due milioni di dollari di premi, somma considerevole nell’èra pre-Navratilova. Il centro nazionale di tennis di New York è stato ribattezzato col suo nome. E’ stata nominata nella Hall of Fame, tra le “persone dell’anno” di Time magazine, e ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom. Le sue battaglie sessuali e politiche sono altrettanto importanti dei trofei sportivi. Nel 1971 fece scalpore per un aborto pubblicizzato: lei era ancora sposata con il tennista Larry King, ma aveva già una relazione stabile con la sua segretaria Marilyn Barnett. Nel 1973 la King vinse la “Battaglia dei sessi”, uno dei match di tennis più controversi della storia. In piena epoca di femminismo militante, il 55enne ex campione Bobby Riggs voleva dimostrare la superiorità innata dei maschi sul terreno della forza fisica e delle prestazioni sportive. Accettò di affrontare la King, di 26 anni più giovane. Il campione fu umiliato, lei stravinse in tre set con un punteggio netto: 6-4, 6-3, 6-3. Già allora Billie Jean aveva un gusto pronunciato per le provocazioni: nel giorno del match, 20 settembre 1973, fece il suo ingresso all’Astrodome di Houston (Texas) come una moderna Cleopatra, su una portantina sollevata da quattro uomini seminudi, come schiavi egizi.

Anche come militante gay la King fu pioniera. Il suo “outing” risale al 1981, un’epoca in cui la stragrande maggioranza degli atleti gay erano costretti a nascondere la propria sessualità. In parte la sua scelta fu precipitata dalla separazione: la sua partner Marilyn Barnett le fece causa per ottenere gli alimenti, il primo processo di quel genere ad avere ampia pubblicità negli Stati Uniti. Forse la King avrebbe potuto evitare lo scandalo, pagando tanto e subito, per patteggiare con la sua ex ottenendo in cambio clausole di riservatezza. Ma lo scandalo non le ha mai fatto paura. Secondo alcune versioni un’altra tennista gay, Martina Navratilova, decise di uscire dalla clandestinità grazie all’esempio della King.

“Io penso – dice la King – che ci sono momenti di svolta, che diventano dei punti di riferimento. Spero che la maggioranza degli atleti gay si manifestino apertamente. I Giochi invernali di Sochi sarebbero un palcoscenico formidabile. Mi piacerebbe avere 21 anni, ed essere lì per gareggiare…”

Anche il resto della delegazione è frutto di una selezione accurata di Obama. In Russia non andranno né il presidente né il suo vice né alcun ministro. Zero esponenti dell’Amministrazione: si avvicina quasi a un boicottaggio della cerimonia ufficiale di apertura. A guidare la delegazione non-sportiva sarà Janet Napolitano, donna single, femminista militante, ex ministro e attualmente presidente della University of California. I Giochi di Sochi diventano così l’ultimo capitolo della tormentata saga Obama-Putin. Appena eletto per il suo primo mandato, nel 2009 Obama ebbe una sorta di idillio con la Russia, ma col leader “sbagliato”… l’allora presidente Dmitri Medvedev con cui firmò il trattato di disarmo nucleare Start 2. Con Putin i rapporti sono stati gelidi. Ultimo il G20 di San Pietroburgo dove il presidente russo manovrò per isolare Obama sulla Siria. In seguito forse Obama deve averlo ringraziato in cuor suo: la proposta di Putin sulle armi chimiche ha evitato all’America un intervento militare molto controverso, osteggiato dal Congresso e dall’opinione pubblica. I rapporti con Putin sono di nuovo in tensione sull’Ucraina, dove la Casa Bianca denuncia le interferenze russe. Sullo sfondo c’è anche la sfida energetica, con l’America che ha superato la Russia nella produzione di gas naturale e presto comincerà a esportarlo riducendo i prezzi mondiali e le entrate di Mosca. Sui diritti dei gay, Putin ha forse sottovalutato l’importanza che hanno nell’America di oggi: Obama considera la parità come uno dei lasciti più simbolici della sua presidenza, e spesso traccia un parallelo con le lotte dei neri per i diritti civili negli anni Sessanta.

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« Risposta #104 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:14:29 pm »

La sorpresa di Natale della Fed. E la borsa festeggia

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - La sorpresa di Natale infiamma l'entusiasmo di Wall Street, con l'indice Dow Jones che chiude in rialzo di quasi 300 punti, il migliore guadagno dell'anno in una singola seduta. La sorpresa di Natale è che la Federal Reserve comincia a crederci: a una ripresa americana capace di reggersi sulle proprie gambe. La banca centrale anticipa  -  rispetto alle attese dei mercati  -  l'inizio della fine della "droga monetaria".

La maggioranza degli investitori si aspettavano questa mossa a marzo, invece avverrà fin da gennaio. Lo ha annunciato Ben Bernanke nella sua ultima conferenza stampa, anche per lui gennaio 2014 è "l'inizio della fine". Il suo mandato giunge a conclusione e Barack Obama ha designato a succedergli la prima donna banchiere centrale, Janet Yellen. A coronamento di una carriera eccezionale ("ma spero di vivere abbastanza per leggere cosa ne diranno i manuali di storia", ironizza lui) Bernanke ha ottenuto di anticipare questo gesto simbolico. L'esperimento che lui ha condotto per quasi quattro anni, chiamato "quantitative easing", ha dispiegato nuovi strumenti per rianimare la crescita dopo lo shock sistemico del 2008.

La Fed sta tuttora acquistando bond sul mercato
aperto al ritmo di 85 miliardi al mese. E' un intervento senza precedenti, per dare credito all'economia a tassi storicamente bassi. E' anche servito  -  senza dichiararlo  -  a favorire una svalutazione competitiva del dollaro. Ma la cura o "droga" monetaria ha contribuito a una ripresa che ormai supera il terzo anno di durata. In particolare Bernanke prende atto che il miglioramento è sensibile su quello che definisce "l'indicatore economico più importante": il tasso di disoccupazione, sceso dal 12% della recessione al 7% di oggi.

Ecco allora la decisione: già a gennaio la Fed ridurrà i suoi acquisti di bond (titoli di Stato e obbligazioni bancarie legate ai mutui) di 10 miliardi, scendendo così dagli 85 miliardi a 75 mensili. Si tratta di una riduzione modesta, all'insegna della cautela e del gradualismo. E' comunque l'inizio di quello che in gergo viene definito il "tapering": riduzione graduale, fino a esaurimento. Tuttavia lo stesso Bernanke ha rassicurato i mercati sul fatto che non siamo ancora a una svolta restrittiva nel senso classico. Non solo perché "lima" di 10 miliardi gli acquisti di bond, non una riduzione drastica. Inoltre i tassi direttivi della banca centrale resteranno inchiodati a quota zero per un periodo lungo, almeno fino al 2015. "Occorre che la disoccupazione scenda sotto il 6,5%".

La Fed vuole anche vedere rianimarsi l'inflazione, che oggi è dello 0,7%, fino al 2%. Un indice dei prezzi così piatto come quello attuale continua a far temere il rischio-deflazione. Proprio mentre la Fed celebra il centesimo anniversario dalla sua nascita (venne istituita dal presidente Woodrow Wilson il 23 dicembre 2013), l'annuncio di ieri ha il sapore di una semi-vittoria. Usando risorse senza precedenti  -  oltre 3.100 miliardi di dollari gettati sui mercati per comprare bond  -  e tenendo i tassi a zero per cinque anni, la banca centrale sotto Bernanke ha interpretato in modo audace il proprio mandato: che impone non solo di vigilare sulla stabilità dei prezzi ma anche di sostenere la crescita e l'occupazione.

I più generosi vedono nelle scelte della Fed un fattore decisivo per l'uscita dell'America dalla crisi con almeno tre anni di anticipo sull'Europa. I mercati hanno reagito bene, con l'indice Dow Jones in salita di 280 punti. In parte la Borsa Usa ha accolto bene il messaggio positivo di Bernanke su una ripresa economica in grado di camminare da sola. In parte ha festeggiato l'altra metà del messaggio: su una politica monetaria che resta comunque espansiva, visto che non c'è segnale di rialzo dei tassi all'orizzonte di breve-medio periodo. Il mercato dei titoli del Tesoro ha dato retta soprattutto al primo aspetto del messaggio, quello sulla ripresa, tant'è che i tassi sui buoni pubblici sono risaliti, com'è normale in un contesto di ripresa economica.

(18 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/rubriche/il-commento/2013/12/18/news/la_sorpresa_di_natale_della_fed_e_la_borsa_festeggia-73986321/?ref=HREC1-6
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