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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112524 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:25:55 pm »

IL RETROSCENA

E Washington ora puntella l'alleato "Troppi rischi da una crisi in Italia"

L'allarme economico-finanziario spiega l'urgenza per il segretario di Stato di rassicurare Berlusconi.

Obama teme l'euro-crac: "Non alla destabilizzazione"


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Mentre Hillary Clinton è impegnata all'estero nel suo "apology tour", le scuse che rivolge a Silvio Berlusconi sono giustificate anche da un'emergenza nuova, che si affianca allo choc WikiLeaks. Perché in America la crisi italiana fa irruzione sulle prime pagine dei maggiori giornali. Una rara sintonia appaia New York Times e Wall Street Journal, il più grande giornale liberal e il massimo organo conservatore. Tutt'e due hanno in prima pagina grandi foto degli scontri tra studenti e polizia, a Roma e Bologna. A fianco la notizia principale è l'allargamento della crisi dell'eurozona che lambisce l'Italia. "La paura si estende fino a coinvolgere Italia e Belgio", per il New York Times. "Gli investitori esigono tassi record per compensare il rischio su Spagna e Italia", secondo il Wall Street Journal. "E' già abbastanza grave se tocca alla Spagna, ma ora l'Italia...." osserva il Nobel dell'Economia Paul Krugman.

Tensioni sociali, politiche ed economiche si sovrappongono nella rappresentazione che l'establishment americano dà dell'Italia. L'acuirsi di un allarme economico-finanziario sull'Italia spiega l'urgenza per il segretario di Stato di rassicurare il presidente del Consiglio. Dopo avere definito "iperbole, esagerazione" la definizione data dal ministro degli esteri Franco Frattini di un "11 settembre della diplomazia", il vice della Clinton Philip Crowley a una domanda di Repubblica conferma "l'importanza dell'incontro bilaterale del segretario
di Stato con Berlusconi per affrontare gli interessi comuni". In cima ai quali ora si è aperto un fronte che Washington considera d'importanza strategica, la crescente destabilizzazione dell'eurozona. La fragilità dell'Italia diventa un caso a parte, compare di colpo sugli schermi radar del governo americano, ma in una categoria diversa. Non è più solo una questione che riguarda il Dipartimento di Stato, coinvolge la Casa Bianca e il Tesoro. Se tremano non solo i "piccoli" alla periferia dell'eurozona ma anche un pezzo grosso come l'Italia, l'Amministrazione Obama calcola che i fondi mobilitati per i salvataggi non basteranno. Le conseguenze dell'effetto-domino si farebbero sentire fino negli Stati Uniti, con l'apertura di una "terza fase" nella grande crisi globale. E un giallo circonda il viaggio di un alto esponente del Tesoro Usa per consultare gli europei sulla crisi finanziaria: sono previste tappe a Berlino Parigi e Madrid ma è assente Roma dall'itinerario.

A lanciare l'allarme per primo sul sito del New York Times era stato il premio Nobel Krugman con un intervento intitolato "The Italian Job". Illustrato da un grafico che mostra l'impennata dei tassi sui Btp decennali rispetto ai buoni del tesoro tedeschi, l'intervento di Krugman ha segnalato la nuova frontiera del "contagio" dopo Grecia, Irlanda, Portogallo. Lo scenario di una disgregazione della moneta unica, con l'uscita dell'Italia dall'eurozona, prefigura per Krugman una "Europa germanica" che l'economista considera inaccettabile. Gli fa seguito l'inchiesta di prima pagina del New York Times che conferma: "L'attenzione si è spostata verso i titoli di Stato italiani". "Sale la paura  -  scrive invece il Wall Street Journal  -  che nazioni finanziariamente instabili come Portogallo Spagna Italia possano fare la stessa fine di Grecia e Irlanda, cioè avere bisogno di un salvataggio dall'estero".

Proprio di questo salvataggio dall'estero discute a partire da oggi l'inviato speciale del Tesoro Usa nell'eurozona. E' Lael Brainard, sottosegretario agli affari internazionali, numero due del segretario al Tesoro Tim Geithner. E' partito per una missione speciale, a riprova di quanto Washington consideri pericolosa la febbre di sfiducia verso l'euro. "Arriva proprio mentre sono sotto tiro i titoli pubblici di Italia e Spagna", commenta l'agenzia finanziaria Bloomberg. Il segno della missione lo dà questa dichiarazione del Tesoro Usa: "Siamo pronti a sostenere un maggiore intervento del Fondo monetario internazionale, attraverso lo speciale fondo europeo". Dunque l'Amministrazione Obama è disposta perfino a ri-metterci del suo  -  essendo il primo azionista relativo del Fmi  -  pur di arrestare il contagio delle insolvenze verso gli anelli deboli dell'eurozona. Il mistero però riguarda le tappe della missione di Brainard. Il sottosegretario al Tesoro infatti sarà ricevuto dai governi di Germania, Francia e Spagna. Manca nel suo programma una sosta in Italia, proprio il paese che occupa le prime pagine dei giornali Usa per l'emergenza sociale e finanziaria.

Allargare i mezzi finanziari messi a disposizione del fondo speciale salva-euro, con un'ulteriore partecipazione del Fmi e quindi degli Stati Uniti, pone problemi che ancora nessuno è preparato ad affrontare. Nei tesi rapporti con la maggioranza repubblicana alla camera, Obama deve negoziare una cura di rigore anti-deficit pubblico. Non si sa come la destra americana reagirebbe a nuove richieste rivolte ai contribuenti Usa per salvare degli Stati europei.

(02 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/02/news/usa_italia-9746403/?ref=HREA-1
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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 03, 2010, 04:12:57 pm »

DOSSIER WIKILEAKS

Così Berlusconi ha usato l'Eni "Con Putin la politica estera è business"

Oltre le scuse di rito, il giudizio della diplomazia Usa sulla relazione speciale con Mosca rimane negativo.

L'ex ambasciatore Spogli: "Le forniture energetiche possono compromettere la sicurezza dell'Italia"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - "Due tycoon-oligarchi, con un rapporto personale che scavalca le istituzioni dei loro paesi, Silvio Berlusconi e Vladimir Putin hanno trovato nell'energia il terreno per un business condiviso. Eni e Gazprom sono diventati il centro dei loro interessi comuni". L'accusa è dettagliata nei rapporti dell'allora ambasciatore Usa Ronald Spogli da Roma.

Coincideva con le informative che partivano dall'ambasciata americana di Mosca, ora divulgate da WikiLeaks. E su queste analisi non c'è oggi nessuna scusa ex-post, nessuna smentita: corrispondono con la diagnosi che tuttora a Washington viene fatta sull'anomalo rapporto personale tra i premier italiano e russo. "Affaristi più che statisti, hanno trasformato la politica estera in un business, e le aziende di Stato vanno piegate ai loro fini", è il sunto che viene confidato da uno dei massimi esperti di politica energetica al Dipartimento di Stato.
È il 26 gennaio 2009, manca poco alla sua partenza da Roma, quando l'ambasciatore Spogli nominato da George Bush consegna il suo lungo rapporto classificato "segreto" con il titolo "Italia-Russia, la relazione vista da Roma". Una relazione che Spogli vede "dominata dalle forniture energetiche", anche a costo di "compromettere la sicurezza dell'Italia". Un'analisi preveggente visto che Putin un anno e mezzo dopo nel ventilare la possibilità di ricandidarsi alla presidenza evocherà il disegno di "dominare l'Europa occidentale con le forniture
di gas". Nella relazione dell'ambasciatore Usa si legge che "rispetto all'influenza del ministero degli Esteri e dell'Eni, a determinare la politica dell'Italia verso la Russia il fattore di gran lunga più importante è l'attenzione personale che Putin dedica alla sua relazione con Berlusconi". Spogli dipinge un quadro in cui Eni e Gazprom vengono spremute e manipolate dai due capi di governo. L'ambasciatore si rifà a fonti dello stesso Polo delle Libertà, oltre che dell'opposizione: "Sono convinti che Berlusconi e i suoi accoliti traggano cospicui profitti personali da molti contratti di fornitura energetica tra Italia e Russia". Poi cita l'ambasciatore georgiano a Roma: "Il suo governo ritiene che Putin ha promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da ogni gasdotto sviluppato da Gazprom in coordinamento con l'Eni". L'allusione è ai progetti delle reti Nord Stream e South Stream, per trasportare gas russo verso l'Europa occidentale e meridionale bypassando Ucraina e Bielorussia. Entrambe osteggiati dagli americani che li dipingono come un cappio al collo dell'Europa. Su scelte che toccano il futuro energetico dell'Italia e quindi gli interessi vitali del paese, Spogli riferisce che tutti i suoi interlocutori "alla Farnesina, tra i collaboratori del premier, nel suo partito, e perfino l'Eni, sostengono che Berlusconi decide sulle politiche verso la Russia di testa sua, senza cercare né ascoltare consigli". Tutto si gioca in quel filo diretto con il tycoon-oligarca Putin, con sullo sfondo i sospetti sui rispettivi tornaconti.

Eppure l'Eni, per quanto "usato" da Berlusconi per i suoi interessi personali secondo quei comunicati, nel rapporto dell'ambasciatore viene descritto come una potenza. Diversi paragrafi sono dedicati a sottolineare "il suo immenso potere politico", la "sua rete di lobby" più ricca di molte strutture governative, "l'accesso diretto dell'amministratore delegato Paolo Scaroni a Berlusconi, almeno equivalente a quello che il premier concede al suo ministro degli Esteri". Il direttore delle relazioni istituzionali dell'Eni si vanta con l'ambasciatore Usa di vedere Gianni Letta una volta alla settimana. L'azienda "secondo esponenti di tutti i partiti è uno dei principali finanziatori dei think tank che organizzano dibattiti sulle relazioni Italia-Russia". C'è anche il sospetto, riferisce Spogli al Dipartimento di Stato "che l'Eni mantenga dei giornalisti a libro-paga". In quanto alla rappresentanza Eni a Mosca, "è superiore all'ambasciata italiana". Spogli lamenta il fatto che "i leader di tutti gli schieramenti politici italiani sembrano stranamente indifferenti rispetto alla dipendenza energetica verso la Russia", un'allusione al fatto che l'accordo Eni-Gazprom per il gasdotto South Stream era stato firmato quando era presidente del Consiglio Romano Prodi, durante una visita a Mosca dello stesso Prodi il 22 novembre 2007. Ma è Berlusconi quello che sembra trattare l'Eni come roba sua, e al Dipartimento di Stato ancora oggi ricordano la sorpresa del 10 ottobre 2008, quando al culmine della crisi finanziaria globale e con le Borse mondiali in picchiata, Berlusconi in una conferenza stampa distribuì "consigli d'acquisto" dicendo che era il momento di comprare azioni Eni, "che quest'anno farà profitti eccezionali".

Oggi Washington ci tiene a distinguere le divergenze "storiche" e "fisiologiche" tra gli Stati Uniti e l'Eni, dalla gestione berlusconiana della politica energetica italiana in stretta sintonia con Putin. Con l'Eni, ammettono i miei interlocutori di Washington, i conflitti geoeconomici risalgono all'èra di Enrico Mattei, per arrivare fino alla partecipazione di Gheddafi nel capitale. C'è un'antica rivalità tra l'Eni e la sua proiezione d'interessi verso l'Africa, l'Asia, l'America latina, e le compagnie petrolifere Usa. Su questo fronte l'Amministrazione Obama considera un successo l'impegno che l'Eni abbandonerà ogni nuovo progetto in Iran e si limiterà a recuperare gli investimenti già compiuti in passato (ne restano 1,4 miliardi di dollari). E' sempre WikiLeaks ad avere diffuso il resoconto di un incontro di Scaroni a Washington il 16 settembre 2009 in cui ha promesso agli americani "l'abbandono dei piani di sviluppo per la terza fase del giacimento petrolifero iraniano di Darquain". Per Washington resta invece da indagare il ruolo dei due premier. Con i ribassi nelle quotazioni dell'energia dopo la recessione, tutti i calcoli di lungo periodo sul mercato del gas sono stravolti. Due esperti indipendenti come Julia Nanay di Pfc Energy e Jonathan Stern dell'Oxford Institute for Eenergy Studies concordano che nei grandi investimenti sui gasdotti dalla Russia c'è più politica che logica economica. E Hillary Clinton fino alla vigilia della bomba-WikiLeaks non ha smesso di premere sulle sue ambasciate: per saperne di più sulla dimensione privata in quel business energetico tra Berlusconi e Putin.

(03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/03/news/rampini_gas-9786369/?ref=HREA-1
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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 05, 2010, 11:41:11 am »

Wikileaks, la verità americana "Silvio, un leader inaffidabile"

Mai avevamo saputo così tanto e così presto quello che gli Stati Uniti pensano di noi.

L'ambasciata descrive Letta e Frattini "sgomenti davanti alla raffica di berlusconismi...".

"È il portavoce di Vladimir. Il suo desiderio è rimanere nelle grazie del russo".

L'avvertimento a Obama: "È inetto, vanitoso, incapace come statista europeo moderno"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Uno dei cablo era indirizzato al presidente Usa Barack Obama


NEW YORK  - Due Amministrazioni Usa, George Bush e Barack Obama, due ambasciatori in Italia, un repubblicano e un democratico. Cinque anni di comunicazioni dall'Ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato. Mai avevamo saputo così tanto e così presto, su quello che l'America pensa di noi. A una settimana dall'avvio del ciclone WikiLeaks, i rapporti Italia-Usa e soprattutto la posizione di Washington su Silvio Berlusconi sono messi a nudo da 3.012 dispacci confidenziali. Un pezzo di storia contemporanea disvelato senza censure, senza il velo delle cortesie diplomatiche.

Il linguaggio è così crudo che questa settimana Hillary Clinton ha già fatto opera di ricucitura, elogiando l'alleanza tra i due paesi al vertice nel Kazakistan. È la stessa attenzione per un'amicizia strategica dimostrata dal precedente ambasciatore, Ronald Spogli ("la relazione tra Stati Uniti e Italia è eccellente, una cooperazione formidabile su molti fronti") prima di aggiungere: "Sfortunatamente gli sforzi di Berlusconi per aggiustare in proprio le relazioni tra Occidente e Russia minano la sua credibilità e sono un vero disturbo per i nostri rapporti".

Spogli è l'uomo di Bush a Roma per ben quattro anni. Viene dall'alta finanza (è co-fondatore di una società di private equity), solido conservatore, al suo insediamento nel 2005 parte con un opinione favorevole su Berlusconi. Al punto da appoggiare presso la Casa Bianca l'insistente richiesta del premier italiano che vuole un supporto da Washington in vista delle elezioni del 2006 (poi vinte da Romano Prodi). In un dispaccio "secret" del 26 ottobre 2005 dal titolo lusinghiero ("Il più forte alleato dell'Europa continentale") l'ambasciatore Usa riferisce che Berlusconi vuole essere ricevuto da Bush e poi fare un discorso al Congresso americano "per aumentare le sue chance di essere rieletto". A Washington, spiega Spogli, Berlusconi vuole andare ad accreditarsi come più filo-americano di Prodi "in una fase in cui il premier è sotto di otto punti nei sondaggi e con il suo governo l'economia ristagna".

Il tono è irriconoscibile nel dispaccio che lo stesso Spogli invia due anni e dieci mesi dopo. È il 12 agosto 2008, l'ambasciatore prepara la visita in Italia del vicepresidente Dick Cheney. Un altro superconservatore, pregiudizialmente favorevole a un leader di destra come Berlusconi (nel frattempo tornato al governo). Spogli ora sente di dover mettere in guardia Cheney. Anzitutto sull'Iran dove "l'aderenza dell'Italia alle sanzioni Onu è complicata dagli interessi commerciali". Ma soprattutto c'è nel dialogo tra Washington e Roma il macigno-Putin. "Se in passato l'esistenza di un forte partito comunista in Italia ha dato alla Russia un livello d'influenza mai visto in altri paesi dell'Europa occidentale - scrive l'ambasciatore al vicepresidente - di recente il motore della relazione è il rapporto personale tra Berlusconi e Putin, basato su rispettivi interessi commerciali e la preferenza che Berlusconi ha per i leader dal polso duro". Sul dossier del gas: "Le azioni dell'Eni - avverte Spogli - stanno rafforzando la presa della Russia sugli approvvigionamenti energetici di tutta l'Europa occidentale".

La situazione si distende nei dispacci successivi, grazie all'invio di carabinieri italiani in Afghanistan, e alle uscite filo-israeliane del ministro degli Esteri Franco Frattini, registrate dall'ambasciata Usa con toni compiaciuti.
Poi la diffidenza riesplode, in maniera ancora più acuta. La ragione è sempre Putin. Stavolta i sospetti diventano gravi. E fanno la comparsa le "gole profonde" nell'entourage di Berlusconi. E' il 15 novembre 2008, quando dall'ambasciata di Via Veneto parte un rapporto allarmato. Tre giorni prima il premier italiano ha dato spettacolo a una conferenza stampa in Turchia. "Ha accusato gli Stati Uniti di avere provocato la Russia con il riconoscimento del Kosovo, lo scudo anti-missili, l'invito a Ucraina e Georgia ad avvicinarsi alla Nato".

Il rapporto al Dipartimento di Stato indica che siamo "al culmine di un'escalation di commenti incendiari e dannosi a favore della Russia da quando Berlusconi è tornato al governo". L'ambasciata descrive Gianni Letta e Frattini "sgomenti davanti all'ultima raffica di berlusconismi (sic)". I fedelissimi del premier confidano alla diplomazia americana: "Non ci ascolta, sulla Russia fa da solo". Il dispaccio segreto raccoglie per la prima volta questo elemento nuovo: "Molti suoi collaboratori sospettano che Berlusconi e i suoi accoliti abbiano rapporti di guadagno personale con l'interlocutore russo".

Le ragioni della profonda sfiducia americana vengono ricapitolate in una lunga relazione a firma Spogli. E' il rapporto più approfondito di tutti, un bilancio finale prima che l'ambasciatore repubblicano lasci la sede di Roma. Data: 26 gennaio 2009. Le imprevedibili uscite di Berlusconi vengono spiegate col fatto che il premier italiano "desidera essere visto come un attore importante nella politica estera europea". L'ambasciatore torna a insistere sul tema della "torbida connection Berlusconi-Putin" e le fonti su "profitti personali". Appare Valentino Valentini come agente nell'ombra, che a Mosca cura gli interessi personali del premier. Spogli avverte il nuovo presidente degli Stati Uniti, Obama, che Berlusconi vorrebbe addirittura "educare il giovane ed inesperto leader americano" sui rapporti con la Russia. Che Obama stia in guardia, scrive l'ambasciatore: "Berlusconi cercherà di promuovere gli interessi della Russia". Qui spunta quella definizione feroce: "E' il portavoce di Putin. Il suo desiderio dominante è rimanere nelle grazie del russo".

Nell'interregno tra i due ambasciatori americani, la sede di Via Veneto è guidata da Elizabeth Dibble, la più alta diplomatica di carriera (oggi promossa a Washington come capo di tutta la sezione europea al Dipartimento di Stato). È quella che Berlusconi definirà "funzionaria di terzo grado" dopo il ciclone-WikiLeaks. La Dibble viene sollecitata direttamente da Hillary Clinton, che il 9 giugno 2009 sull'asse preferenziale con Putin le manda a chiedere: "Cambierebbero le cose se Berlusconi non fosse più il premier?".

E' la Dibble a preparare l'arrivo di Obama in Italia per il G8 dell'Aquila. L'ambasciatrice vicaria mette in guardia il suo presidente: Berlusconi è "inetto, vanitoso, incapace come leader europeo moderno". Avere a che fare con lui, ammonisce l'alta diplomatica, "richiede molta prudenza". Nessuno a Via Veneto né tantomeno a Washington ha dato importanza alla celebre gaffe di Berlusconi su Obama "abbronzato". I problemi sono più seri. Gli americani sospettano che dietro la sistematica azione filo-russa del presidente del Consiglio ci siano motivazioni extra-politiche. Di un alleato storico come l'Italia, preoccupa questa gigantesca zona d'ombra su ciò che guida la nostra politica estera.

E' datato il 27 ottobre 2009 il primo rapporto importante a firma del nuovo ambasciatore, il democratico David Thorne. Bostoniano, legato alla tradizione liberal kennedyana, cognato di John Kerry che presiede la commissione Esteri del Senato. Thorne dipinge una fase che ha tutti i sintomi del disfacimento. Il titolo del suo rapporto segreto al Dipartimento di Stato è esplicito: "Gli scandali pesano sulla salute fisica e sulla forza politica di Berlusconi". E' ancora Gianni Letta, stavolta insieme a Giampiero Cantoni, a descrivere a Thorne un premier "fiaccato dai party notturni, senza energie, con esami medici disastrosi". (L'ambasciatore lo vedrà poi assopirsi durante un loro incontro). E' preoccupato di dover restituire 750 milioni per la sentenza sul Lodo Mondadori. E' assillato dal costo del divorzio da Veronica Lario. Lo preoccupa la sentenza del processo per mafia a Dell'Utri.

Thorne descrive "la paranoia dei complotti, l'idea che contro di lui stiano congiurando Confindustria, servizi segreti, Vaticano, Stati Uniti". Racconta l'offesa del vertice cancellato col re di Giordania perché Berlusconi "è andato a un party privato nella dacia di Putin, a festeggiare il suo compleanno, forse per sfuggire alla curiosità dei paparazzi attorno ai suoi party italiani". E' un quadro da Basso Impero, che Thorne completa però con un'avvertenza a Washington: non bisogna mai sottovalutare la capacità di sopravvivenza politica di Berlusconi. All'inizio di quest'anno (28 gennaio 2010) è la Clinton a tornare alla carica, stavolta premendo sulle due ambasciate Usa di Roma e Mosca: su Berlusconi e Putin chiede più indagini, vuole sapere "quali investimenti personali hanno, che possono guidare le loro scelte politiche".

Nel dopo-WikiLeaks è la diplomazia americana sulla difensiva. La Clinton è impegnata nel defatigante "apology tour", la tournée mondiale per chiedere scusa a tutti. Ma per nessun altro capo di governo di una democrazia occidentale, partner della Nato, i messaggi segreti della diplomazia americana hanno un carattere così esplosivo. Per Nicolas Sarkozy o Angela Merkel, sia pure oggetti di ritratti personali graffianti, non c'è ombra di quel sospetto gigantesco che incombe su tutta la politica estera italiana: di essere stata catturata nel rapporto ambiguo e inquietante fra una coppia di leader molto speciali.

(05 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/05/news/wikileaks_la_verit_americana-9850389/?ref=HREC1-1
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 08, 2010, 05:29:56 pm »

L'ANALISI

Il Lingotto a stelle e strisce Diktat dei mercati a Marchionne

Per Fiat massima flessibilità e contratti italiani fuori linea.

Servono nuovi fondi e un piano credibile agli occhi del sindacato-azionista di Chrysler.

Perché il destino dell'azienda italiana ormai è in gran parte una storia americana

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Fiat Auto esce da Confindustria e abbandona il contratto dei metalmeccanici. Sono i simboli di un'èra che si chiude. Un pezzo di storia dell'industria manifatturiera italiana giunge a una svolta. Ma ormai non è una vicenda tutta italiana, né tantomeno una partita solo sindacale. E' significativo che uno dei prossimi atti si svolga a New York: in settimana ne parleranno qui Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne. L'ambientazione geografica è un po' casuale (si tiene qui la riunione annua del Consiglio per le relazioni Italia-Usa), tuttavia serve a sottolineare quanto il futuro di Mirafiori, Pomigliano e altri stabilimenti si giochi proprio negli Stati Uniti. In una sfida dove gli attori principali diventano l'Amministrazione Obama, Wall Street, e ancor più il sindacato metalmeccanico United Auto Workers (Uaw). Quella flessibilità che l'amministratore delegato di Chrysler-Fiat chiede ai suoi operai italiani, da lui la pretendono i mercati finanziari. Paradossalmente nella parte dell'azionista esigente c'è proprio il sindacato americano, che non può ratificare "favoritismi" o rigidità particolari nella parte italiana dell'azienda.

Le scelte di Marchionne, da cui dipenderà la sopravvivenza di questo gruppo, sono comprensibili solo in questo scenario. Visto dagli Stati Uniti, e con un'attenzione alle tendenze globali del mercato dell'auto. Perché la stessa industria americana è tutt'altro che certa di poter uscire dal tunnel conservando delle dimensioni significative. In un mercato mondiale che tra il 2008 e il 2009 ha visto "scomparire" ben dieci milioni di autovetture vendute, dove la Cina ha bruciato i tempi ed è balzata di prepotenza al primo posto tra i produttori, dove un'auto europea su quattro ormai è prodotta nei paesi dell'Est (perfino i cinesi sono andati a investire in Serbia), la velocità del cambiamento dà le vertigini. Un sistema paese che non può adottare il modello cinese o indiano (perché non ha quella competitività sui costi), non riesce a inseguire il modello tedesco, dove alti salari e forte sindacalizzazione sono consentite da una straordinaria leadership tecnologica. Accadono così vicende come quella che sta agitando in queste ore la svedese Volvo: ceduta dalla Ford ai cinesi della Geely, si vede spalancare la possibilità di vendere 300.000 auto in più in Cina, ma a condizione di costruire là i prossimi tre stabilimenti.

L'Amministrazione Obama per salvare pezzi importanti di industria manifatturiera ha seguito fin qui una strategia bipolare. Da una parte tenta di "fare la Germania", per esempio investendo sull'auto elettrica con General Motors (Volt) e Tesla. Dall'altra tenta di "fare un po' anche la Cina", con i sindacati costretti ad accettare per i nuovi assunti a Detroit un salario dimezzato (14 dollari l'ora), portandoli cioè allo stesso livello della manodopera non sindacalizzata degli Stati del Sud (Alabama, Mississippi) dove ci sono molte fabbriche giapponesi e tedesche. La via bipolare è complicata, siamo a metà del guado, lo stesso Obama è tutt'altro che sicuro di farcela.

Chrysler-Fiat è un pezzetto di questa strategia del sistema-America. Ne subisce tutti i vincoli. Non solo perché Marchionne è un canadese-americano per cultura e formazione, ma perché precisi accordi guidano le sue prossime mosse. Fiat Auto al momento ha il 20% della Chrysler. Nel 2011 potrà ottenere "gratis" un ulteriore 15%, poi avrà l'opzione di salire fino al 51%. Il "gratis" è molto relativo, però. Occorre prima che Chrysler rimborsi interamente i debiti contratti con i governi americano e canadese all'epoca della bancarotta. Quindi servono nuovi capitali. Uno studio diffuso a Wall Street dalla Barclays indica il possibile tracciato. Marchionne negozia con le banche nuovi finanziamenti che gli consentano di ridurre gli oneri del debito (alcuni dei vecchi prestiti avevano tassi fino al 20%). Vende l'Alfa Romeo, o più probabilmente quota in Borsa la Ferrari. Qui un'ipotesi interessante è il collocamento alla Borsa di Hong Kong, la piazza finanziaria più importante per l'accesso ai capitali cinesi. Quotarsi a Hong Kong può consentire un prezzo "di favore" perché vista dall'Estremo Oriente la Ferrari verrebbe valutata più come un'impresa del settore lusso che non come una casa automobilistica. E' uno squarcio interessante su quel che resta una possibile vocazione manifatturiera italiana: nell'altissima qualità.

In ogni caso, alla fine Fiat Auto raccoglierebbe i fondi necessari a diventare l'azionista di maggioranza della Chrysler. E' quello che desidera. Il noto "teorema Marchionne" era nato prima ancora della recessione, a maggior ragione lui lo sostiene adesso: in questo mondo una casa automobilistica non sopravvive sotto i sei milioni di unità prodotte all'anno. L'America gli è necessaria. Anche Obama non vede l'ora che Marchionne diventi l'azionista di controllo, vuole vendere la sua quota e ripetere così l'operazione Gm: quel collocamento in Borsa è andato bene e il governo ha potuto dimostrare al contribuente americano che il salvataggio si è concluso senza costi, addirittura con un profitto.

Per reperire i nuovi finanziamenti, Marchionne deve convincere i mercati che la sua strategia è sostenibile. Ivi compresa per la parte italiana. E' qui che lo scorporo dei vari stabilimenti, la loro trasformazione in tante Newco (nuove società) "vergini", l'uscita dalla Confindustria e quindi la non applicazione del contratto nazionale metalmeccanici, diventano mosse obbligate. In questo caso i diktat dei mercati finanziari hanno una dimensione sorprendente, se vista dall'Italia. Il maggiore vincolo su Marchionne non è qualche gigante cattivo della speculazione. No, il peso massimo qui è proprio il sindacato Uaw. Che continua a detenere ad oggi il 68% delle azioni ordinarie Chrysler. E non vede l'ora di venderle, sperando anche lui di ripetere l'ottima uscita dalla Gm: in quel caso la confederazione Uaw ha incassato una plusvalenza di 2,9 miliardi di dollari.

Il sindacato dei metalmeccanici americani ha accettato di fare sacrifici pesantissimi per salvare Chrysler. Oltre ai salari dimezzati per i nuovi assunti, anche pensioni e assistenza sanitaria hanno subìto tagli dolorosi. Ha perfino sottoscritto l'impegno vincolante a non fare una sola ora di sciopero fino al 2014. Questo sindacato-azionista considera impresentabile per i suoi iscritti un progetto strategico che conceda ai metalmeccanici italiani garanzie e rigidità abbandonate qui negli Usa. La via delle Newco, l'addio al contratto nazionale, sono strappi traumatici alla luce della cultura sindacale italiana, della storia del nostro movimento operaio, della nostra tradizione politica. Ma ormai la Fiat Auto è in gran parte una storia americana, le cui regole si decidono qui.

(06 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/06/news/rampini_fiat-9871546/?ref=HREC1-4
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 18, 2010, 11:04:05 am »


17
dic
2010

FEDERICO RAMPINI

Usa: sotto l’albero meno tasse per tutti!

I mal di pancia della sinistra democratica non hanno impedito il sì finale della Camera alla maximanovra fiscale “Obama-Bush”. L’etichetta scomoda si giustifica con il fatto che le legge contiene, fra l’altro, la proroga di tutti gli sgravi fiscali che George Bush diede senza distinzione di reddito, quindi beneficiando anche gli straricchi.

Come si è arrivati a questo? Inizialmente Obama si era battuto – in coerenza con la sua posizione di sempre – per escludere dalla proroga i redditi del 2,9% di contribuenti più benestanti: cioè sopra la soglia di 200.000 dollari di reddito imponibile individuale o di 250.000 dollari annui per nucleo familiare. Aveva provato a spostare la soglia anche più in alto, per colpire almeno i milionari e miliardari.

I repubblicani si sono impuntati. Con un ricatto odioso: sgravi estesi a tutti, milionari e miliardari inclusi, oppure la destra avrebbe votato contro l’estensione delle indennità di disoccupazione che in questo mese scadono per due milioni di disoccupati di lunga durata.

Alla fine Obama ha optato per quello che la sinistra democratica considera una capitolazione indecente. Ha detto sì agli sgravi di Bush, inclusa un’esenzione totale dalla tassa di successione per i patrimoni fino a 5 milioni, e sopra quella soglia la riduzione dell’aliquota dal 55% al 35% (un bel risparmio sulla tassa di successione per diverse dinastie miliardarie come i Walton della Wal-Mart, come denunciato dai progressisti su Msnbc).

Obama però porta a casa dei risultati importanti. Oltre all’estensione dei sussidi di disoccupazione, nella manovra fiscale c’è il calo immediato di due punti (dal 6 al 4%) degli oneri sociali prelevati dalla Social Security tramite ritenuta alla fonte sulle buste paga dei lavoratori dipendenti. Per un reddito da 50.000 dollari annui vale circa 1.000 dollari netti.

In totale questa legge immette nell’economia americana 900 miliardi di potere d’acquisto in un biennio. E’ un secondo “stimolo” alla crescita, perfino più potente di quello varato in piena recessione con la manovra di spesa pubblica del gennaio 2009 (che fu di circa 800 miliardi).

In quanto al realismo tattico di Obama, non fa una piega: il presidente è riuscito a strappare in extremis questo voto bipartisan finché è riunito il “vecchio” Congresso nella sessione pre-natalizia. A gennaio si insediano i nuovi deputati e senatori, usciti dalle elezioni del 2 novembre: i numeri saranno molto più favorevoli ai repubblicani, e qualsiasi compromesso negoziato a gennaio sarebbe stato probabilmente più sfavorevole.

Alla fine il vero test di questa scelta sarà se nel 2011 riparte sul serio la crescita dell’occupazione, finora mancata all’appello. I primi sondaggi sull’elettorato democratico – anche sulla Msnbc, la tv più di sinistra – indicano che la base del suo partito è meno critica verso Obama di quanto lo siano gli opinionisti liberal.

Infine si è aperta una contraddizione in seno al partito repubblicano. L’ala oltranzista del Tea Party, e non solo quella, si presenta come la paladina del rigore di bilancio. Ma con questa legge ha ratificato un robusto aumento del deficit pubblico. Come lo spiegherà alla sua base?

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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:24:44 pm »

IL CASO

La svolta di San Francisco un sindaco cinese nella Silicon Valley

Primo asiatico alla guida di una metropoli Usa, Ed Lee è il figlio di immigrati sbarcati sulla West Coast per sfuggire alla fame.

La conferma della supremazia cinese negli equilibri economici dell'area

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI


SAN FRANCISCO - Dopo la delocalizzazione delle sue fabbriche, la California si affida al "made in China" dove meno te l'aspetti: nel governo delle sue città. San Francisco e Oakland scelgono due cinesi come sindaci. La notizia ha raggiunto Ed Lee mentre era all'aeroporto di Hong Kong, pronto a imbarcarsi in volo per una breve vacanza nelle terme di Yangmingshan. È nella terra dei suoi avi che Lee ha saputo di essere entrato nella storia. Sarà il primo sindaco cinese di San Francisco. Il primo asiatico ad amministrare una delle più grandi metropoli degli Stati Uniti.

La storia di Lee, 58 anni, figlio d'immigrati che sbarcarono sulla West Coast per sfuggire alla fame, corona l'ascesa dei cinesi d'America: demografica, economica, politica. A San Francisco i primi arrivarono con la febbre dell'oro del 1848. Erano la manovalanza per costruire la grande ferrovia intercontinentale: furono loro, "fisicamente", a fare gli Stati Uniti unendo le due coste con il nuovo mezzo di trasporto. Morirono a migliaia in quell'opera titanica, il cimitero sulla spiaggia Baker Beach di fronte al Pacifico ricorda l'ecatombe. Vivevano a Chinatown come in un ghetto, un cordone sanitario circondava il quartiere per impedire il contagio di epidemie (l'ultima peste bubbonica arrivò da Hong Kong nel 1900). Furono il bersaglio della più feroce legge xenofoba, il Chinese Exclusion Act del 1882, in piena psicosi da "pericolo giallo". 160 anni dopo la rivincita è totale. A San Francisco i cinesi sono 170.000,
il 20% della popolazione. Un terzo delle imprese hi-tech create nella Silicon Valley appartengono a fondatori asiatici. È anche grazie a loro che questa città ha livelli d'istruzione, di occupazione e di reddito nettamente superiori alla media americana: oltre il 44 per cento della popolazione adulta ha una laurea, e San Francisco con soli 850.000 abitanti è l'ottava città del mondo per numero di miliardari.

Chinatown, oltre che un'attrazione mondiale per turisti, è diventata una potenza economica. La regìa della nomina di Lee ha l'impronta della signora Rose Pak, la madrina del business cinese. Presidentessa della Chinatown Chamber of Commerce, la Pak è un'eminenza grigia che tutti devono consultare prima di prendere decisioni. Rosa Pak ha festeggiato l'ascesa del suo beniamino Lee con un pranzo a base di dim sum al New Asia Restaurant, poi una serata di cocktail al Chinatown Hilton. "Gioco alla politica - ha detto gongolando - come a uno sport marziale". Sa destreggiarsi nei rapporti d'affari con la Repubblica Popolare - Chinatown è diventata negli anni sempre meno anticomunista e sempre più filo-Pechino - ma al tempo stesso conosce le regole della democrazia americana. Il suo protetto Lee è un vero liberal, che si fece le ossa in politica difendendo i diritti delle minoranze, neri inclusi.

Cinque giorni prima di San Francisco, sull'altra sponda della Baia la "gemella povera" Oakland ha aperto la strada. Lunedì ha prestato giuramento il nuovo sindaco, la cinese Jean Quan. La Quan ha una storia simile a quella di Lee: a 61 anni, discende da una famiglia immigrata 104 anni fa. Orfana di padre dall'età di cinque anni, con la madre che non ha mai imparato una parola di inglese, la Quan ha sgobbato nei turni di notte delle lavanderie cinesi per conquistarsi una borsa di studio all'università di Berkeley. Il giorno dell'inaugurazione ha reso omaggio alla memoria dei suoi antenati visitando il tempio buddista Lung Kong Tin Yee. Ora deve vedersela con un degrado sociale che nessuno dei suoi predecessori ha saputo debellare: Oakland ha il primato nazionale degli omicidi. "Voglio farne la protagonista di una rinascita epica, come quella che ha vissuto la mia famiglia", ha detto.

Lee ha altri problemi da affrontare - la cronica invasione dei senzatetto che da tutti gli Stati Uniti arrivano a San Francisco, attirati dal welfare più generoso - e ha meno tempo a disposizione. La sua nomina è pro tempore. Il consiglio comunale di San Francisco deve nominare il sostituto del sindaco uscente Gavin Newsom (eletto vicegovernatore della California), mentre l'elezione diretta del suo successore avverrà solo a novembre.

Anche tra dieci mesi, comunque, è probabile che sia sempre un cinese il primo cittadino di San Francisco. I principali candidati in lizza infatti sono altri due notabili di Chinatown: David Chiu, presidente del consiglio comunale; e Leland Yee, medico pediatra, attualmente senatore nell'assemblea legislativa della California.

Le amministrazioni locali sono alle prese con problemi drammatici: il crollo del gettito fiscale negli anni della recessione ha scavato voragini di debiti, la bancarotta incombe su diverse città. I cinesi-americani hanno dei vantaggi: il senso del business, la disciplina, e la capacità di tessere alleanze. Per la nomina di Lee la signora Rosa Pak ha mobilitato l'ex sindaco nero di San Francisco, Willie Brown, e la maggiorente degli italo - americani Michela Alioto. Con la forza del denaro e della demografia, Chinatown sta fagocitando lentamente North Beach, l'antica Little Italy dove insegne e commercianti parlano sempre più spesso il mandarino o il cantonese.

(08 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 29, 2011, 06:03:12 pm »

IL FORUM

Davos, processo all'Italia "Marginale e in declino"

Esplicito il timore che il Paese possa diventare la palla al piede dell'Eurozona: "Paralizzata da Berlusconi"

dall'inviato FEDERICO RAMPINI


 DAVOS - Gli altri leader europei vengono qui per "dare la linea" al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell'Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l'America e i paesi emergenti. All'Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell'imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit  -  statisti, grandi imprenditori, opinion leader  -  riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata "Italia, un caso speciale". La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: "Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un'influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative".

A istruire il processo, l'establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all'appello: il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario. Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: "Contate molto meno di quel che dovreste nell'economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta". Segue l'economista
Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l'unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: "Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v'impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie". Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. "Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile  -  aggiunge  -  perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto".

Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l'Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: "La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l'Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell'eurozona". Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: "Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno". Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l'autore di un rapporto sui nostri "esami d'ingresso" nella moneta unica: "Da allora  -  dice  -  il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell'economia globale rischiano di trasformarvi nell'anello debole dell'Unione europea. Se l'Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell'eurozona". Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: "I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E' questo il governo che volete?"

La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: "Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici". Anche lei però descrive un'Italia "introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici". E conferma che "il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l'India e l'Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro". Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: "Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia". Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all'estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere.


(29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata 
http://www.repubblica.it/economia/2011/01/29/news/davos_processo_all_italia_marginale_e_in_declino-11798757/?ref=HREC1-2
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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 14, 2011, 03:50:42 pm »

OCCUPAZIONE

Giardinieri, muratori, cuochi le dieci professioni del futuro

Studio Usa rivela il trend delle assunzioni fino al 2018. Con qualche sorpresa. 

Le attività emergenti richiederanno comunque un alto livello di studi e specializzazione.

In crescita tutti i mestieri legati alla cura alla persona

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - È la Top Ten delle professioni del futuro, una guida indispensabile per capire le opportunità di lavoro che si offrono alle nuove generazioni. Ahinoi, non entrano ai piani alti della classifica né il medico né l'avvocato, non ci sono l'ingegnere o l'architetto. Al primo posto troviamo cuochi e camerieri. Leader per la percentuale di aumento: le badanti. Ma anche vigilantes, camionisti, giardinieri, infermieri. Una caratteristica unifica i mestieri che "tirano": i servizi alla persona. La sfera del benessere individuale, dell'assistenza, dell'aiuto, avrà un boom con l'invecchiamento della popolazione. Inoltre sono le uniche attività per le quali è impossibile la delocalizzazione nei paesi emergenti (salvo che con il fenomeno inverso: l'importazione di immigrati). Ma sono questi i mestieri per i quali stanno studiando i nostri figli? Dipende: come status e come remunerazione rischiano di essere al di sotto delle aspettative dei giovani. Ma attenzione: per quanto possano sembrare sotto-qualificate, le professioni del futuro richiederanno comunque studi universitari.

Sono queste le conclusioni-choc di uno studio fatto in America per il periodo che arriva fino al 2018. La base di partenza è un'importante indagine del U. S. Bureau of Labor Statistics, una miniera di dati ufficiali rielaborata dal Georgetown University Center on Education and the Workplace (è pubblicata sotto il titolo "Help Wanted: Projections of Jobs and Education Requirements through 2018").

Queste proiezioni sono valide per l'America, dunque. Ma è difficile non vedervi prefigurato il futuro di tutte le società occidentali, sottoposte a trend molto simili. Gli Stati Uniti sono il laboratorio d'avanguardia che l'Europa prima o poi finisce per imitare. La ripresa economica è iniziata prima qui che sul Vecchio continente. E anche se restano 15 milioni di disoccupati da riassorbire, i segni di vitalità cominciano a moltiplicarsi sul mercato del lavoro. Da qui al 2018 l'economia americana sembra in grado di tornare a creare oltre un milione di nuovi posti di lavoro all'anno (saldo netto fra assunzioni e licenziamenti). Il problema sta tutto nella qualità. L'America ha appena riconquistato il primato tra i grandi esportatori d'Occidente, strappandolo alla Germania e tornando così al secondo posto mondiale dietro la Cina. Ma l'exploit del made in Usa è tutto affidato a settori industriali hi-tech come la chimica fine, le macchine utensili, che hanno un'avanzato livello di automazione e assorbono poca manodopera. Già oggi quei settori tecnologici che assumono i laureati nelle cosiddette facoltà "STIM" (Scienze, Tecnologie, Ingegneria, Matematica) hanno 4,8 milioni di addetti mentre i titolari di quelle lauree sono 15,7 milioni. I due terzi devono cercarsi un posto altrove.

Cresce così il fenomeno della "sovra-qualificazione". Già oggi sono laureati il 17% dei baristi, il 32% delle massaggiatrici, il 26% delle indossatrici. E il divario tra formazione universitaria e attività lavorativa non farà che ingigantirsi in futuro. Perché da oggi al 2018 l'economia assorbirà solo 300.000 ingegneri di software, contro 500.000 baristi. I settori trainanti per le assunzioni sono tutti in quella sfera di attività "ancillari", di servizio, che per tradizione non consideriamo nobili né particolarmente remunerative. Con un'operazione molto "politically correct", la definizione dei mestieri viene promossa usando parafrasi lusinghiere. L'economia americana assorbirà il 18% in più di addetti alla "paesaggistica degli spazi verdi": sono giardinieri. Ci vorranno 825.651 "assistenti domestici per la salute": sono le badanti. Come effetto collaterale della crescita delle vendite su Internet ci vorranno per le consegne a domicilio 1,8 milioni di camionisti. Due milioni e settecentomila in più saranno "rappresentanti del servizio alla clientela": è il vasto esercito del telemarketing, più tutti coloro che al telefono smistano le chiamate per reclami, guasti, richieste d'informazioni. Ma per selezionarli le imprese alzeranno sempre di più la barra: "ci vogliono 22 milioni di laureati in più entro il 2018". La spiegazione? "Per gli uffici delle risorse umane, chiedere titoli di studio superiori semplifica la selezione, eliminando automaticamente una parte dei candidati. Inoltre la laurea dà un'infarinatura di cultura generale che sarà obbligatoria anche nei lavori più umili".

(14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it/economia
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« Risposta #68 inserito:: Marzo 02, 2011, 03:32:06 pm »


1
mar
2011


Inflazione, quel piccolo sporco segreto degli economisti


Tra poche ore sul pericolo-inflazione si pronuncerà anche Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve.

Oggi infatti è attesa l’audizione al Senato del banchiere centrale americano, e col petrolio a questi livelli (più il dollaro debole) la questione dello choc sui prezzi sarà in primo piano. Fino a ieri però dalla Fed sono arrivati segnali rassicuranti: l’inflazione non fa paura, tanto che la banca centrale prevede di continuare fino ad agosto a “pompare liquidità” (cioè stampar moneta) comprando titoli di Stato, per sostenere la ripresa dell’economia americana.

Ma perché il rialzo del petrolio lascia così sereni i banchieri centrali? Gli economisti distinguono tra le voci dell’inflazione da una parte le “componenti volatili” come energia e alimenti, e dall’altra parte tutto il resto. Finché i rincari riguardano solo le “componenti volatili” non c’è da preoccuparsi, questa è la dottrina ortodossa. Che va decifrata, perché nasconde una notizia non proprio gradevole per i lavoratori dipendenti.

L’inflazione diventa tale, e quindi è un pericolo da combattere per le banche centrali, solo quando i rincari vengono recuperati da aumenti salariali. Allora gli choc sui prezzi si diffondono a tutti i costi di produzione, e la spirale rischia di sfuggire al controllo. Ma con il 9,4% dei disoccupati in America (e livelli analoghi in Europa) il potere contrattuale dei lavoratori è bassissimo. Aumenti salariali non sono in vista. Quindi l’inflazione si blocca sul nascere. Perché la paghiamo solo noi, con un potere d’acquisto decurtato, ma siamo incapaci di trasmetterla e di generalizzarla. Senza scala mobile, senza sindacati forti, senza ondate di rivendicazioni, niente spirale. Tutto tranquillo sul fronte occidentale.

Scritto martedì, 1 marzo 2011 alle 15:09
da - rampini.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #69 inserito:: Marzo 12, 2011, 10:44:44 am »


Il simbolo piegato del gigante fragile

Lo shock tsunami fa tremare le Borse

Si inclina la torre del business. "Tempesta perfetta" sull'economia globale.

Dopo le rivoluzioni del mondo arabo e il disastro giapponese aumenta la preoccupazione delle grandi potenze.

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Perfino la Torre di Tokyo non ha retto lo shock e si è piegata. La freccia di acciaio puntata verso il cielo adesso è un emblema triste della tecnologia sconfitta.

Con la Tokyo Tower si è piegata l'illusione di prevenire le catastrofi e proteggersi grazie alla ricchezza. Il mondo intero assiste sgomento alla sofferenza del paese più evoluto, più sofisticato nelle tecniche antisismiche e nella protezione civile. La Tokyo Tower, quell'antenna tv di 330 metri che manda i segnali della rete Nhk, non è solo la torre Eiffel dei giapponesi e la loro risposta all'Empire State Building. E' il simbolo di una nazione che "si piega ma non si spezza", che ha assorbito la tragedia unica nella storia umana di due olocausti nucleari. Da ieri il Giappone ha capito che non basta sapersi "piegare", la flessibilità delle nuove tecnologie di costruzione non lo ha salvato dalla tragedia. La modernità è sconfitta e molti abitanti della capitale d'istinto ieri sono fuggiti verso le piazze e i parchi antistanti il Palazzo imperiale: è l'unica zona di Tokyo dov'è proibito costruire grattacieli, e tutti gli edifici sono bassi. Per chiamare parenti e amici si sono gettati verso i vecchi telefoni a gettoni, i soli risparmiati dal grande black-out delle comunicazioni che per ore ha ammutolito i cellulari. Hanno dato l'assalto ai negozi di biciclette: il mezzo di trasporto più antico era l'unico a poterli riportare a casa, nel caos immane degli ingorghi stradali e della paralisi di treni e metro. Tutto ciò che il Giappone ha costruito di più avanzato, ieri era al collasso: come le centrali nucleari da cui dipende un terzo della sua energia elettrica. E' dovuta intervenire la US Air Force dalle basi militari americane per rifornirle d'urgenza con il "liquido refrigerante" dopo che i sistemi di raffreddamento del reattore atomico di Fukushima si erano guastati. "Emergenza nucleare", ha proclamato il governo, e un altro allarme si è aggiunto al sisma, nonostante i decenni di esercitazioni per garantire che le centrali atomiche giapponesi erano a prova di terremoto.

E' uno spettacolo a cui assiste sgomenta la superpotenza amica sull'altra sponda dell'oceano. L'America si è svegliata col terrore che lo tsunami travolgesse le Hawaii, poi la West Coast. Intere città della California sono state evacuate ma le onde gigantesche hanno fatto una vittima in mare a Crescent City, e danni in diverse zone costiere. Ma è soprattutto l'immagine del disastro giapponese seguito in diretta dagli americani col fiato sospeso, ad accentuare il senso d'impotenza. "Il Giappone ha le leggi antisismiche più rigorose del mondo - osserva il New York Times - lo stesso sisma in qualsiasi altra nazione del mondo, anche le più ricche, avrebbe già fatto decine di migliaia di morti in poche ore". Gli americani lo sanno, neppure la California ha investito tanto quanto il Giappone: nei grattacieli costruiti per "piegarsi e non spezzarsi" assorbendo l'impatto; nelle dighe costiere anti-tsunami; nei sensori digitali che collegano perfino le abitazioni individuali col più vasto sistema elettronica di allerta. Di certo avrà limitato il bilancio delle vittime, ma è pur sempre una tragedia. Quando prende la parola Barack Obama promettendo "tutti gli aiuti che il governo giapponese ci sta chiedendo", l'America sente che questa tragedia è un segno di vulnerabilità globale. E' un altro "cigno nero", uno di quegli eventi che gli statistici definiscono "a bassissima probabilità, e altissimo potenziale di danno".

Come la crisi dei mutui che precipitò il mondo nella recessione del 2008-2009. Di nuovo l'America teme che si addensi all'orizzonte una "tempesta perfetta". Il doppio shock terremoto-tsunami in Giappone è l'ultimo dei colpi all'economia globale che si sono susseguiti improvvisamente in poche settimane, oscurando un orizzonte che sembrava volgere al bello. Prima c'era stata l'onda delle rivoluzioni anti-autoritarie del mondo arabo, con il suo impatto collaterale sui prezzi petroliferi "che da solo è già una pesante tassa sulla crescita" secondo il banchiere centrale Ben Bernanke. Legato al caro-petrolio c'è il ritorno delle aspettative inflazioniste. Il più grande fondo obbligazionario mondiale, Pimco, ha venduto tutto il suo portafoglio di Buoni del Tesoro, talmente è certo che le banche centrali dovranno rialzare i tassi presto (in quel caso i vecchi Bot si deprezzano brutalmente). Poi è arrivata una sorpresa dalla Cina: le sue esportazioni sono cresciute solo del 2,4% negli ultimi dodici mesi. Si teme che la cura anti-inflazione della banca centrale cinese cominci a "mordere", ma se rallenta la locomotiva asiatica tutto il mondo ne sentirà le conseguenze. Il terzo shock simultaneo è venuto dall'agenzia di rating Moody's con il declassamento del debito sovrano della Spagna. "L'Europa torna ad essere una bomba a orologeria", è il commento di Desmond Lachman dell'American Enterprise Institute sul Washington Post.

L'ultimo shock è la calamità che mette in ginocchio il Giappone, terza economia del pianeta. Una catastrofe paradossalmente "amplificata" proprio dalla modernità e dalla ricchezza: perché il Giappone in quanto paese avanzatissimo è iper-assicurato (a differenza dell'Indonesia) e quindi i danni si ripercuotono immediatamente sui bilanci delle compagnie assicurative mondiali. Se il disastro di Kobe nel 1995 costò 100 miliardi, a 15 anni di distanza l'impatto non può che essere moltiplicato. Il "battito d'ali di farfalla dall'altra parte del pianeta che genera un uragano" non è un'immagine letteraria, è la teoria del caos che studiano i matematici. Tre, quattro farfalle in simultanea, possono piegare non solo la Torre di Tokyo ma un mondo senza paratìe né compartimenti stagni, dove il contagio delle crisi viaggia alla velocità della luce.

(12 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri
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« Risposta #70 inserito:: Marzo 13, 2011, 05:16:53 pm »

L'ANALISI

Lo yen e il patriottismo per rialzare la testa

di FEDERICO RAMPINI


SONO tornati al lavoro subito, poche ore di shock e la ricostruzione è già cominciata: eccoli, i friulani d'Estremo Oriente. I servizi pubblici essenziali sono stati riattivati in tempi-record, salvo naturalmente che per le zone vicine all'epicentro dove le distruzioni sono immani. Anche da là però arriva un'immagine-simbolo che è positiva: fa il giro del mondo la foto del giovane soldato occhialuto in tuta mimetica che trasporta un vecchietto sorridente sulle spalle: Enea e Anchise nella prefettura di Miyagi. Un'immagine che parla di confuciano rispetto degli anziani, proietta l'idea antica di una società coesa, solidale, insieme con l'efficienza moderna delle tecnologie antisismiche che hanno limitato certamente il bilancio dei morti. Perfino la logica spietata della finanza deve inchinarsi: come primo riflesso dopo il terremoto e lo tsunami lo yen si è rafforzato su tutte le altre monete mondiali. Sembra assurdo? No, accadde lo stesso dopo il sisma di Kobe nel 1995 (seimila morti, 100 miliardi di danni), quando in pochi mesi la valuta si rafforzò addirittura del 20% sul dollaro. "Sono i capitali giapponesi che rientrano dall'estero - spiegano a Wall Street - per partecipare alla ricostruzione".

Capitalismo e patriottismo, in Giappone anche questo è possibile. Perfino la politica si riscatta, è tutto dire. Tokyo stava ancora ondeggiando paurosamente per i tremori del primo shock e già alla tv il premier Naoto Kan parlava alla nazione, in tuta blu della protezione civile. "Appello alla calma", e "unità nazionale per salvare il paese". Non sono slogan retorici. Una delle classi politiche più rissose e screditate del mondo si è ricompattata all'istante: polemiche zero, ci si rimbocca le maniche e tutti al lavoro. In quanto all'appello alla calma, era superfluo. Un'altra immagine emblematica è quella dei distributori di benzina con le file chilometriche di automobilisti per fare il pieno (le infrastrutture per gli approvvigionamenti sono colpite, e non solo nell'epicentro): anche lì regna l'ordine, la compostezza, la pazienza.

Il colpo all'economia è duro, nessuno lo sottovaluta. Oltre alle vite umane, comunque troppe, i danni si estendono ben al di là della zona più devastata. L'efficienza delle multinazionali giapponesi è legata ai metodi "just-in-time", stock ridotti al minimo essenziale, flussi tesi e velocissimi tra i produttori di componenti, le fabbriche di assemblaggio finale, la distribuzione. Se si spezzano dei nodi nelle infrastrutture di trasporto, l'ingranaggio a orologeria si ferma: e il Sol Levante resta un colosso mondiale in settori-chiave come l'automobile, l'elettronica, l'acciaio, la chimica. Una grossa raffineria petrolchimica vicino a Tokyo è andata in fiamme, la Cosmo di Chiba. Sony, Panasonic, Toshiba hanno dovuto chiudere molte fabbriche: si è fermata la produzione di apparecchi elettronici ma anche di microchip per i computer, batterie. Honda, Nissan, hanno diversi stabilimenti bloccati. Ma c'è anche chi prende questi provvedimenti per dare un contributo allo sforzo nazionale dei soccorsi. La Toyota ha sofferto danni relativamente contenuti alle sue dodici fabbriche eppure annuncia che lunedì tutte saranno chiuse: "Per consentire ai nostri dipendenti di partecipare alle operazioni di aiuti, curare familiari e amici, ricercare i dispersi".

Eppure l'impatto di questa catastrofe sull'economia, giapponese e mondiale, è ancora incerto e controverso. I mercati dell'energia hanno reagito in modo apparentemente schizofrenico: il prezzo mondiale del petrolio è andato giù, quello del gas naturale invece è aumentato. Sul mercato del petrolio, ha prevalso la previsione di una battuta d'arresto dell'economia nipponica, e poiché il Giappone resta il terzo consumatore mondiale questo dovrebbe far scendere la domanda. Ma l'allarme nucleare ha scatenato la previsione opposta sul gas naturale: un aumento dei consumi di gas per le centrali, nel caso che diversi reattori atomici restino fermi almeno temporaneamente. Domattina avremo un responso più preciso perché la Borsa di Tokyo sarà la prima del mondo a riaprire questo lunedì, grazie al fuso orario. Il sisma più potente nella storia del Sol Levante non avrà fatto perdere neppure mezza giornata lavorativa.

Perfino sulla crescita, non è detto che l'impatto finale di questa tragedia sia tutto negativo. Il Giappone era appena ricaduto nella sindrome del ristagno, con una ripresa quasi impercettibile. Colpa anche della struttura demografica con il tasso d'invecchiamento più pronunciato del mondo. Da quella semi-depressione non poteva tirarsi fuori a furia di investimenti pubblici, perché il rapporto debito-Pil è già oggi più elevato di quello italiano. Ora però la ricostruzione è un imperativo che fa passare in secondo piano i vincoli di bilancio. Gli Stati Uniti prevedono un rilancio della crescita giapponese, per effetto di una maxi manovra di lavori pubblici nelle infrastrutture. Dalle macerie di Hiroshima e Nagasaki, dall'annientamento di Tokyo nei bombardamenti americani che la trasformarono in un gigantesco rogo, i giapponesi sanno cosa vuole dire la ricostruzione.

(13 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia
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« Risposta #71 inserito:: Marzo 21, 2011, 11:29:03 am »

Federico Rampini

20
mar
2011


AT&T compra T-Mobile (non provate mai più a telefonarmi)

Ci risiamo con la corsa verso il capitalismo monopolistico privato. E ancora una volta avviene nel settore-simbolo dei misfatti della concentrazione: la telefonìa mobile Usa, ormai una delle più scassate del pianeta. Ho già raccontato altre volte che nel cuore di Manhattan, o a San Francisco, è impossibile finire una conversazione sul cellulare senza che cada la linea due o tre volte. La spiegazione? Il settore è in mano a pochi giganti, che quindi se ne fregano di noialtri utenti, tanto non abbiamo scelta. La capacità delle reti è stressata dall’arrivo di smart-phone sempre più potenti: le bollette “pesanti” degli iPhone ingrassano i profitti delle telecom, ma quelle mica li reinvestono per potenziare le reti e migliorare il servizio. Ora le cose peggioreranno. Ecco l’annuncio di un nuovo accorpamento. AT&T si pappa la T-Mobile, che apparteneva alla Deutsche Telekom, pagandola 39 miliardi. E’ una delle più grosse fusioni dalla crisi del 2008. Ma chissene importa di questi record finanziari, che ingrassano le commissioni delle banche di Wall Street (ovviamente ingaggiate come consulenti) e domani ingrasseranno profitti e superbonus dei dirigenti AT&T. Per il consumatore la realtà è la stessa, in peggio: scompare un altro concorrente, la scelta si riduce. La AT&T, di cui sono da anni un cliente esasperato, si conquista altri 46,5 milioni di abbonati. Non mi chiamate più, tanto cadrà la linea. (Ah già, ci sarebbe sempre la speranza di un no dell’antitrust… Ma è sempre più raro che le authority americane facciano seriamente il loro mestiere).

da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/03/20/?ref=HREC1-9
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« Risposta #72 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:35:12 pm »

   
USA

Se chiude per crisi la Statua della Libertà   

Il braccio di ferro tra Obama, il suo partito e la destra sul budget federale è uno psicodramma.

E il movimento anti-stato del Tea Party denuncia la "Washington ladrona" 

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


WASHINGTON - Volevate passare Pasqua qui in America? Ripensateci, potreste trovare chiusa la Statua della Libertà. Niente gita neanche da Manhattan a Ellis Island per visitare il celebre museo dell'immigrazione. Accesso vietato all'isola (ex-penitenziario) di Alcatraz nella Baia di San Francisco.

Off-limits i monumenti nazionali di Washington, compresi i musei dello Smithsonian. Niente parchi nazionali. Poveretti i turisti asiatici: ogni anno a decine di migliaia si sobbarcano 12 ore di volo sul Pacifico per assistere alla Festa della fioritura dei ciliegi a Washington; anche quella salterà, perché è organizzata dal National Park Service. Ma forse per molti non-europei sarà impossibile arrivare in America, se le ambasciate Usa devono chiudere gli uffici visti. Sono queste alcune delle misure che possono scattare fin da sabato all'alba, se in queste ore di febbrile negoziato non si sarà trovato un accordo sui tagli al bilancio statale.

Il braccio di ferro tra Barack Obama, il suo partito democratico, e la destra repubblicana sul budget federale non è solo un grande scontro politico con implicazioni economiche importanti. E' anche uno psicodramma nazionale che improvvisamente rivela all'America quanto la sua vita quotidiana dipende dai servizi pubblici. Hai voglia a denunciare "Washington ladrona", come fa il movimento anti-Stato del Tea Party. Ma poi che succede se si ferma la raccolta della spazzatura, se il fisco smette di pagare i crediti d'imposta, e perfino i militari che soccorrono
i terremotati in Giappone restano senza paga? Se passa la scadenza per l'approvazione del budget senza un compromesso in extremis, e quindi scatta l'impossibilità legale di erogare certe spese, di colpo l'America intera sarà messa di fronte a un'emergenza che va oltre la sfera della politica e dell'economia, investe la qualità della vita, tante piccole abitudini quotidiane che fanno l'identità di una nazione.

Fino a ieri si è scherzato sugli 800.000 dipendenti federali che verrebbero lasciati a casa senza stipendio. O tutti gli altri, che pur continuando a lavorare si vedrebbero "spegnere" i loro Blackberry con tutte le email: perché gli smart-phone di servizio non rientrano nella categoria delle "spese essenziali" protette da fondi di riserva nel bilancio. I burocrati non godono di una bella immagine, soprattutto nella destra anti-Stato del Tea Party c'è chi gongola all'idea di castigare il pubblico impiego. Salvo scoprire, nella lunga lista dei servizi federali che sono a rischio di sospensione, che qualcosa tocca ciascuno di noi.

Il servizio meteo si è attrezzato per garantire gli allarmi in caso di uragano; dovrà fare a meno delle previsioni del tempo "a cinque giorni" seguite da milioni di telespettatori. La Social Security promette che continuerà a pagare 53 milioni di pensioni mensili, però non potrà smaltire le pratiche per i neo-pensionati, neppure per invalidità. L'Istituto della Sanità dovrà sospendere i test per l'approvazione di nuovi medicinali e apparecchiature biomediche. La Federal Housing Administration smetterà di erogare garanzie sui mutui-casa. Il trattamento peggiore è destinato proprio a Washington. In virtù del suo statuto speciale, la capitale è trattata come un'agenzia federale. Quindi anche quelli che in altre metropoli sono dei servizi locali, pagati coi bilanci dei Comuni, a Washington si fermerebbero: la raccolta dei rifiuti, le biblioteche municipali, l'ufficio della motorizzazione civile (rilascio delle patenti), perfino la University of the District of Columbia.

Unica consolazione: la paralisi nelle multe per la sosta vietata, un piccolo regalo per compensare gli automobilisti. A funzionare regolarmente saranno, per legge, tutti i servizi di emergenza e per la tutela dell'ordine pubblico, ma certi tribunali lavoreranno a scartamento ridotto. I disagi, se scatta la chiusura dei servizi federali non-essenziali, si diffonderanno nel mondo intero. Il segretario alla Difesa Robert Gates, in visita a Bagdad, è stato costretto ad ammetterlo rispondendo alla domanda di un soldato: anche le paghe dei militari rischiano sospensioni o almeno ritardi di diverse settimane. Alla fine il segno politico di questa vicenda può cambiare. La rivincita della destra, che ha conquistato la maggioranza alla Camera nel novembre scorso, è alimentata dalla visione ideale di uno "Stato minimo". Vai a sapere come reagirà la maggioranza degli americani, quando lo Stato si renderà introvabile.

(08 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri/2011/04/08/news/
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« Risposta #73 inserito:: Aprile 09, 2011, 12:21:53 pm »

IL CASO

Gli Stati Uniti evitano la paralisi accordo in extremis sul budget

Obama riesce a mediare fra Democratici e Repubblicani in Congresso e supera l'incubo del blocco dei servizi pubblici anche se i tagli alla spesa pubblica sono di 38,5 miliardi.

"Solo così aiutiamo l'America a creare nuovi posti di lavoro"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK  -  Il grande mediatore ce l'ha fatta ancora una volta. Erano ormai passate le 23 (le 5 del mattino in Italia) quando Barack Obama è apparso in tv dalla Casa Bianca, davanti a una finestra dove si vede sullo sfondo il Washington Monument, e ha annunciato: "Domattina quel monumento sarà aperto ai visitatori, e tutti i servizi dello Stato continueranno a funzionare".
A meno un'ora dalla mezzanotte fatale in cui il Tesoro avrebbe dovuto sospendere i finanziamenti per molte agenzie federali e lasciare a casa senza stipendio 800.000 dipendenti pubblici, la paralisi è stata scongiurata in extremis. Resteranno aperte la Statua della Libertà, l'isola-museo di Alcatraz, i parchi nazionali di Yellowstone e Yosemite. Continueranno a funzionare la raccolta dei rifiuti a Washington, l'emissione dei visti nelle ambasciate Usa. I soldati in Iraq e in Afghanistan riceveranno regolarmente lo stipendio.

"Dopo settimane di lunghi e difficili negoziati sul bilancio pubblico  -  ha detto il presidente  -  i due partiti hanno trovato l'intesa per tagliare le spese e investire nel futuro". Di colpo il clima politico è cambiato: fino a quell'ora la giornata di venerdì aveva avuto un segno ben diverso, con democratici e repubblicani impegnati a lanciarsi accuse velenose, ciascuno intento a scaricare con virulenza sull'avversario la responsabilità della chiusura dei servizi pubblici. Anche stavolta è stato decisivo il ruolo di Obama: proprio come a fine dicembre, quando
il presidente era riuscito a costruire il consenso bipartisan su una legge fiscale con ampi sgravi d'imposte su tutti i contribuenti. Nei due casi Obama si è ritagliato un ruolo quasi super partes, vestendo i panni del mediatore. Stavolta il risultato della mediazione sono 38,5 miliardi di dollari di tagli immediati alla spesa pubblica, che consentono di arrivare fino a giovedì, quando è fissata una votazione finale al Congresso (la Camera a maggioranza repubblicana e il Senato a maggioranza democratica). In tutto, rispetto alla prima versione del bilancio che Obama aveva appoggiato l'anno scorso, i tagli accettati dai democratici arrivano a 78 miliardi.

La sinistra è riuscita a evitare le misure più indigeste che i repubblicani avevano tentato di introdurre nella legge di bilancio, cioè i tagli ai servizi sanitari per le donne meno abbienti (voluti dagli antiabortisti), e il ridimensionamento dei poteri dell'agenzia per l'ambiente. Tuttavia la sinistra mastica amaro: ha la sensazione che Obama in nome del pragmatismo faccia troppe concessioni al partito repubblicano. Se a dicembre il presidente aveva ceduto sugli sgravi fiscali ai ricchi (gli stessi dell'Amministrazione Bush, prorogati), con l'accordo di ieri è tutto il dibattito sulla spesa pubblica che continua a spostarsi sul terreno prediletto dei repubblicani: niente aumenti di tasse, ridimensionamento drastico del Welfare. Per la destra questo è solo un assaggio. Il suo progetto strategico è quello presentato la settimana scorsa: 6.000 miliardi di tagli in dieci anni, con la privatizzazione del Medicare (l'assistenza sanitaria agli over-65) e un pesante ridimensionamento della Social Security (pensioni). E' lo smantellamento di conquiste sociali che risalgono al New Deal di Franklin Roosevelt, il piano di lungo termine della destra. Lo Stato minimo, è quel che vogliono i militanti della sua ala più radicale, il tea Party.

Nel suo discorso di ieri sera Obama si è "impadronito" dei temi dell'avversario. Ha parlato con approvazione del "più grande taglio di spesa nella storia del paese". Pur riconoscendo che sono stati fatti sacrifici sgradevoli  -  "saranno rinviati progetti d'investimento in infrastrutture, una scelta che non avrei fatto in circostanze migliori"  -  ha sottolineato però che "vivere all'altezza dei nostri mezzi è l'unico modo per proteggere gli investimenti che aiuteranno l'America nella competizione per creare nuovi posti di lavoro". Obama guarda ormai alla campagna per le presidenziali del 2012. E' partito alla riconquista dei consensi che aveva perduto nel primo biennio  -  gli elettori moderati, la fascia fluttuante degli indipendenti di centro. Per questo gli è indispensabile far proprio il tema del risanamento dei conti pubblici, perché l'escalation del deficit (1.400 miliardi, quasi il 10% del Pil) è diventata una preoccupazione dominante in quella parte dell'opinione pubblica. E per quanto sia sgradevole alla sinistra, a Obama conviene anche vestire i panni dell'arbitro, che si pone al di sopra degli scontri tra le fazioni al Congresso: è in quel ruolo che la maggioranza degli elettori ama vedere il presidente.

(09 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri/2011/04/09/news/
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« Risposta #74 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:48:57 am »

   
ANALISI

Se la crisi economica perde il suo regista e in Europa torna l'incubo del crac greco

Le ripercussioni dell'arresto di Strauss-Kahn. Cancellato il vertice con la Merkel. Schauble: "Non si ferma la ricerca di una soluzione".

Più difficile il negoziato tra Germania, Ue e Bce

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - UN IMMENSO vuoto si apre al vertice del Fondo monetario internazionale. Proprio in un momento cruciale per il salvataggio della Grecia e la stabilità dell'eurozona. Viene distrutto dallo scandalo un personaggio-chiave per le operazioni di "pronto intervento" sulle crisi di Stati sovrani che minacciano l'economia globale. Il ruolo del Fmi è stato ingigantito grazie a Dominique Strauss-Kahn detto Dsk.

E ora il Fmi deve affrontare un'emergenza interna mai vista. L'esito finale potrebbe essere l'arrivo di un cinese o un brasiliano. A sancire l'egemonia delle nuove potenze emergenti, la fine del "diritto europeo" a nominare il capo del Fmi. Sarebbe un prezzo altissimo pagato dall'intera Unione europea per la caduta ingloriosa di uno dei suoi leader più promettenti.

Lo shock è poderoso: cancellato ieri il vertice tra Dsk e Angela Merkel che doveva sciogliere dissensi pericolosi sulla crisi greca; convocato d'urgenza il board del Fondo a Washington; sancita la direzione ad interim del numero due americano John Lipsky. Oggi la delegazione del Fondo si presenta decapitata del suo ex-leader, alla riunione dell'Eurogruppo che deve decidere terapie urgenti sulla Grecia, oltre a dare il primo via libera per Mario Draghi alla Bce. In Germania è dovuto intervenire il ministro dell'Economia Wolfgang Schaeuble per rassicurare i mercati prima della riapertura: "La soluzione del problema greco non si ferma, l'arresto di Strauss-Kahn non peserà sui negoziati". E' presto per dirlo. La gravità della perdita, per l'economia globale, affiora dietro le reazioni più estreme dalla Francia. In piena paranoia da teoria del complotto, la dirigente socialista Michéle Sabban, non ha dubbi: "Hanno voluto colpire il Fmi alla vigilia del possibile crac greco e del G20, è una trama internazionale". E giù a collegarla con "l'affaire ungherese", la relazione extraconiugale tra Dsk e l'economista del Fondo Piroska Nagy. Una ungherese, guarda caso, proprio in un'epoca in cui erano i paesi dell'Europa centro-orientale i più colpiti dalla speculazione che annusava o pianificava bancarotte di Stato.

La ricerca di occulti registi dà semplicemente la misura di quale personaggio straordinario fosse divenuto Dsk, nella sua vita professionale, s'intende. Nel 2007 eredita la guida di un Fmi che sembra in via d'estinzione. Nella prima metà di quell'anno, quando i mercati ancora ignorano la catastrofica bolla dei mutui subprime, la Turchia rimborsa "l'ultimo prestito" erogato dal Fondo che così rimane disoccupato. Tutto va troppo bene. Nessun paese ha più bisogno di aiuti. Poi in pochi mesi arriva l'Apocalisse, il mondo precipita in una crisi finanziaria senza precedenti dalla Grande Depressione. Dsk diventa quasi un uomo della Provvidenza. Guida con energia il Fmi alla riscoperta di una vocazione interventista. Si precipita a tamponare una crisi dopo l'altra: Pakistan, Ucraina, Islanda. E' indispensabile per spegnere incendi alla periferia dell'Ue, superando le gelosie di Bruxelles e di alcuni Stati membri. Irlanda, Portogallo, Grecia, diventano le tappe del pendolarismo di Dsk. Impone una svolta al pensiero unico neoliberista: vuole controlli sui movimenti dei capitali, nuove regole per il sistema bancario. Denuncia le diseguaglianze sociali. Sceglie un cinese come numero due. Potenza della grande crisi: perfino l'America ringrazia che ci sia un socialista francese al vertice del Fondo, con una visione delle riforme necessarie per curare gli eccessi del mercatismo. A maggior ragione devono benedirlo gli europei. Per 18 mesi i rapporti personali che lui ha da lunga data con Sarkozy, Trichet e Papandreou, la credibilità che si conquista con la Merkel e Obama, sono armi preziose per sanare le tensioni sulle terapie da adottare contro la disgregazione dell'eurozona. Non fosse per la sciagurata vicenda del Sofitel di Manhattan, oggi tutti aspettavano Dsk a Bruxelles come un mediatore tra Germania, Bce, Commissione europea. Per preparare altri 60 miliardi di aiuti alla Grecia e scongiurare una ristrutturazione del suo debito pubblico (pudico eufemismo che indica una bancarotta concordata coi creditori). I mercati sono di nuovo in allarme: dopo la Grecia si teme il Portogallo, ancora l'Irlanda, e poi, e poi...

E' un copione già visto, per un anno e mezzo è stato evitato il peggio. Si è guadagnato tempo, anche se Dsk avvertiva il pericolo più grave: le terapie d'urto chieste ai governi dei Pigs li spingono verso la recessione, con la Grecia già avviata a perdere quattro punti di Pil. Non si riducono i debiti pubblici sulle macerie di una calamità sociale. Dsk lavorava per una soluzione socialmente sostenibile. Un vero "micro-manager", lo definivano con ammirazione gli americani, per indicare la dedizione con cui si applicava a studiare ogni dettaglio dei dossier di crisi. "Micro-manager" esemplare di tutto, fuorché di se stesso. Ricordo, all'ultima intervista che mi ha dato un mese fa, la foto di sua moglie sulla scrivania. E l'incertezza sincera sulla candidatura all'Eliseo: come capo del Fmi forse aveva già più potere di un presidente. Ora quell'imbarazzo della scelta non lo assilla più. E il Fmi naviga verso un approdo molto diverso.

(16 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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