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« inserito:: Settembre 17, 2008, 11:50:04 pm » |
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CIAMPI le cause vecchie e nuove, le sfide da vincere
di Carlo Azeglio Ciampi
ROMA (17 settembre) - Per capire quello che sta succedendo in questi giorni, forse, dovremmo partire dalla debolezza congenita degli accordi di Bretton Woods e, come ci ricorda in un suo saggio pubblicato di recente Carlo Scognamiglio, tenere a mente che se fossero prevalse le idee di John Maynard Keynes per il mondo le cose sarebbero andate meglio. Abbandoniamo la storia e veniamo al presente. Il caso Lehman segnala una novità rilevante: l’infezione dei derivati non ha invaso solo il corpo di alcune importanti banche commerciali, ma è penetrata anche in quello fino ad oggi immune di una primaria banca di investimento.
Bisogna prendere atto che ciò dipende dalla natura stessa dei derivati: non solo ne sono stati immessi sul mercato tanti, troppi, in termini quantitativi; ma si è lasciato che alimentassero indisturbati una molteplicità di rapporti di fatto incontrollabile. E’ il combinato disposto di questi due elementi a determinare la dimensione sconfinata della crisi dei derivati e a impedire che si possano escludere, complice una speculazione sempre in agguato, altri fallimenti o corto circuiti che dir si voglia. Gli scricchiolii che emergono su Aig, il primo gruppo assicurativo del mondo, non lasciano tranquilli. Ma mi domando: si può dire davvero che il caso Lehman è scoppiato all’improvviso? Sino a un certo punto. Il Financial Stability Forum è stato istituito da tempo proprio per questo e, non caso, già due anni fa il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che lo presiede, aveva definito stratosferici i rischi impliciti nei derivati. Su questo punto, bisogna essere chiari: al di là delle responsabilità personali, emerge con chiarezza una responsabilità funzionale diretta che fa capo a entrambi gli organi di vigilanza americani, la Sec e la Federal Reserve, nell’ambito delle rispettive competenze.
In testa alla Fed c’è, però, anche un’altra responsabilità indiretta, quella che riguarda più specificamente la politica monetaria americana. Si è tenuto, per troppo tempo, il motore al massimo alimentandolo con una liquidità abbondante e a buon mercato, al di sopra delle sue capacità, fino a che il motore è scoppiato. Fuor di metafora, una politica espansiva protratta oltre misura ha drogato il mercato. Ha trasferito al mondo intero una sensazione forte e non sana di euforia. Il risultato finale è stato che, tra un punto di crisi e l’altro, è divampato l’incendio. La fine di questo incendio oggi ancora non si vede, la speranza è che - ripeto- la speculazione non continui a soffiare sugli altri punti di crisi determinando così nuovi dissesti.
C’è, però, un dato positivo che non va sottovalutato: tutto ciò avviene in un sistema di collaborazione molto forte a livello globale tra gli organi di vigilanza. Mi viene in mente un caso italiano del tutto diverso dell’inizio degli anni Ottanta: si trattava di una vicenda inquietante di delinquenza poi giudiziariamente accertata, il vecchio Banco Ambrosiano, dove il marcio era all’estero, a cominciare dalla repubblica andina, non in Italia.
Ebbene in quel caso, da governatore della Banca d’Italia, faticai non poco a venirne a capo perchè non solo non collaborava la banca centrale di quel Paese, ma anche le banche centrali dei Paesi europei. Tutte queste prestigiose istituzioni ritenevano che ci fosse un segreto bancario da tutelare. Oggi, per fortuna, non è più così. Si è fatta «Basilea 2» proprio per uscire dalle colpevoli ambiguità del passato e la crisi globale attuale può essere affrontata con gli strumenti, gli uomini e il peso delle raccomandazioni di un organo globale importante qual è il Financial Stability Forum. Sono state indicate le vie per una vigilanza effettiva e una maggiore disciplina: più capitale e meno debito; più trasparenza e più regole. Ora è, dunque, più facile uscire positivamente dalla crisi, dobbiamo essere capaci di farlo, perchè c’è una strada già tracciata, bisogna solo percorrerla.
Gli organi di vigilanza devono dimostrare (e hanno i numeri per farlo) di potere affrontare e vincere le nuove sfide. Guai se si insinua sui mercati la sensazione che tutto si possa ripetere. Non è così, non può essere così. Il sistema creditizio e finanziario europeo e quello italiano, in particolare, si sono rivelati all’altezza della situazione perché c’è una Banca centrale europea che funziona e, in Italia, perché quel sistema si è saputo consolidarlo con riforme profonde.
Detto questo, però, c’è un discorso che attiene all’economia reale e all’Europa che non può essere sottaciuto. La crescita ha bisogno della leva finanziaria, ma al primo posto ci sono il reddito, gli investimenti, l’occupazione. L’Europa deve uscire in fretta dall’impasse determinato dall’incidente irlandese, deve recuperare in fretta lo spirito del trattato di Roma e dare sostanza all’accordo di Lisbona. Dobbiamo fare un governo vero dell’Europa. I singoli Paesi devono essere onorati di dare i loro uomini migliori a questo governo. Abbiamo bisogno di uomini con idee, anche audaci, ma soprattutto con la volontà e la capacità di fare. La sfida di questo secolo è il rapporto Nord-Sud, la sfida Est-Ovest appartiene al secolo scorso ed è già stata vinta. La migliore risposta alla crisi globale è un’Europa che sappia affrontare e vincere la doppia partita del Mediterraneo e dell’Africa. Per riprendere ad investire davvero, a creare ricchezza e lavoro, bisogna che il governo dell’Europa sia affidato al meglio della classe politica e amministrativa di tutti i Paesi europei. Basta viaggi andata e ritorno a Bruxelles per fare il solito tram tram, la routine, il minimo necessario. Ci vuole ben altro. Mi viene in mente il conoscere per deliberare di Einaudi. Per uscire dalla crisi globale di oggi l’Europa ha ancora bisogno di conoscere, ma soprattutto di attuare. Anzi, di fare.
da ilmessaggero.it
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« Ultima modifica: Dicembre 24, 2014, 11:57:36 am da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:52:08 pm » |
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ECONOMIA IL COMMENTO
Capitalismo di Stato
di FEDERICO RAMPINI
Le drammatiche convulsioni dei mercati segnano la fine di un'epoca, e la fine del capitalismo americano come lo avevamo conosciuto. La nazionalizzazione della più grande compagnia assicurativa mondiale, l'American International Group rilevato dalla banca centrale Usa con un'iniezione salvavita di 85 miliardi di dollari, è stata un gesto estremo. Non ha precedenti in un secolo di vita della Federal Reserve. A malincuore l'autorità monetaria ha dovuto allargare a dismisura il proprio campo d'intervento, sobbarcandosi addirittura il controllo diretto di un gigante assicurativo, al termine di dieci giorni che hanno sconvolto le regole del gioco e ridisegnato la geografia dell'economia di mercato. Alle prese con una crisi storica, l'America diventa suo malgrado la patria di un nuovo capitalismo pubblico, dettato da uno stato di necessità. E' l'epilogo drammatico di un decennio di eccessi della finanza.
Se doveva arginare il panico delle Borse, la nazionalizzazione dell'Aig sembra un fiasco: ieri l'onda di paura non si è placata. Ma attenzione, non si può sapere che cosa sarebbe accaduto in assenza di questo inaudito salvataggio statale. Aig ha 116.000 dipendenti, quasi cinque volte quelli della banca d'affari Lehman lasciata fallire appena 48 ore prima. Aig emette polizze vita e gestisce fondi pensione per decine di milioni di famiglie; l'impatto sociale di una sua bancarotta poteva aprire una falla inquietante nel sistema del Welfare privatistico. Infine e soprattutto, l'Aig si era sciaguratamente "diversificata" in nuovi mestieri finanziari, come l'emissione di complessi contratti di assicurazione contro il rischio-fallimento (Credit Default Swaps). Nati come strumenti di copertura del rischio, questi titoli "esoterici" sono diventati un immenso business speculativo con diramazioni nel mondo intero. Nell'impossibilità di onorare i suoi debiti, Aig si trovava quindi al centro di una ragnatela di rapporti finanziari con tutte le assicurazioni, banche e istituzioni finanziarie del pianeta, che rischiava di trascinare con sé nel disastro. Ancora più della dimensione sociale, è questo rischio sistemico che ha fatto vacillare la fermezza di Ben Bernanke.
Il banchiere centrale che a marzo aveva dovuto allungare un "aiutino" di 30 miliardi a JP Morgan Chase per farle comprare la Bear Stearns, e che due weekend fa aveva scaricato sul contribuente americano i colossi dei mutui Fannie e Freddie (costo minimo 120 miliardi), domenica scorsa aveva finalmente opposto un secco no alle richieste di salvataggio della Lehman. Il presidente della Fed sentiva di dover scrivere la parola stop, tracciare un limite alla catena di salvataggi. Sentiva montare l'insofferenza contro l'establishment di Wall Street, la cui ingordigia e i cui errori micidiali vengono ora "abbuonati" con la socializzazione delle perdite. Ma i principii severi non hanno retto alla prova dello choc.
Bernanke ha dovuto rinnegare la sua linea del rigore di fronte all'evidenza: era semplicemente inconcepibile affrontare una bancarotta dell'Aig. E tuttavia dopo la nazionalizzazione dell'Aig la reazione dei mercati è stata quell'incubo che Bernanke sperava di evitare. Gli investitori si sono subito chiesti quale sarà il prossimo crac. Morgan Stanley, Goldman Sachs - le due ultime merchant bank sopravvissute alla carneficina - sono finite nel vortice delle speculazioni ribassiste. E se Bernanke scoprisse che anche loro sono "troppo grandi e troppo interconnesse" per lasciarle fallire? Già si affaccia al Congresso di Washington un piano d'intervento eccezionale: la creazione di un maxi-trust federale, finanziato con risorse pubbliche, che nazionalizzi una dopo l'altra tutte le banche che cadranno. L'Iri all'ennesima potenza. Solo il New Deal di Franklin Roosevelt adottò mezzi così radicali, per affrontare le conseguenze della Grande Depressione.
Si può ironizzare sul fatto che queste spregiudicate nazionalizzazioni vengono dalla patria del liberismo e da un'amministrazione repubblicana che venerava lo "Stato minimo". Oppure ci si può inchinare di fronte a una qualità che caratterizza una certa classe dirigente americana, di cui Bernanke è un perfetto esponente: il pragmatismo. Se siamo di fronte a una crisi di proporzioni storiche, come sostengono Alan Greenspan e Mario Draghi, non serve più a nulla invocare i principii. Perfino la coerenza passa in secondo piano. Quando l'aereo è in picchiata non si chiede al pilota di consultare il manuale d'istruzioni: è il momento in cui la salvezza può dipendere dai riflessi istintivi, dall'intuizione giusta, dalla capacità di navigare a vista. Bernanke e il ministro del Tesoro Henry Paulson procedono a tentoni, con una visibilità nulla sul futuro. Se ce la faranno a uscirne, le nuove regole del gioco le stanno scrivendo loro in queste ore. Altrimenti il giudizio storico sarà pesantissimo.
I "precedenti" non sono di alcun aiuto. Certo l'America fu capace di altrettanto pragmatismo quando sotto Nixon, Carter e Reagan usò denari pubblici per salvare la Lockheed, nazionalizzare temporaneamente la Chrysler, ripianare i buchi di bilancio delle casse di risparmio. Ma nessuna di quelle bancarotte aveva una caratteristica della tempesta attuale: la capacità di destabilizzare l'intera economia globale. Il provvedimento con cui il governo russo ieri ha dovuto chiudere la Borsa di Mosca (un infausto presagio che potrebbe contagiare altri mercati) è emblematico della dimensione nuova di questa crisi. E' proprio la dimensione inusitata, quella che fa sorgere un dubbio tremendo: che l'ampiezza della metastasi e la gravità della malattia superi perfino i mezzi della più potente banca centrale e della nazione più ricca del pianeta. Ieri non è sfuggito ai mercati un provvedimento eccezionale: il Tesoro di Washington ha dovuto varare in fretta e furia delle emissioni speciali di titoli per rifinanziare la stessa Federal Reserve. L'autorità monetaria americana - pur essendo per definizione il creditore di ultima istanza, dotato della facoltà di stampar moneta - deve farsi rifinanziare con un nuovo canale di debito pubblico. Dunque ecco il Tesoro che "presta" alla Fed. Ma chi presta al Tesoro? E chi finanzierà il maxi-trust - l'Iri made in Usa - se il Congresso sarà costretto a varare il piano delle nazionalizzazioni bancarie a tappeto? Certo le famiglie americane dovranno subìre un ridimensionamento del loro tenore di vita, e per generazioni ripianeranno questi debiti con le loro tasse. Intanto i Treasury Bonds (i Bot americani) li abbiamo comprati anche noi, ne sono strapieni i portafogli di tutte le istituzioni finanziarie del mondo: le assicurazioni europee e asiatiche, i fondi comuni italiani, la banca centrale di Pechino. L'effetto-contagio è appena agli inizi.
(18 settembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 30, 2008, 10:09:56 am » |
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30/12/2008 (7:14) - DECIMO COMPLEANNO DELLA VALUTA UNICA
Ciampi: "Salvati dall'euro ma pochi lo hanno capito" "Ora l'Eurogruppo deve coordinare davvero l'economia"
"Con la lira la crisi globale ci avrebbe massacrato"
PAOLO PASSARINI ROMA
«Sì, certo, ricordo benissimo». Nella memoria di Carlo Azeglio Ciampi scattano i fotogrammi di una certa mattina di dieci anni fa. «Stavo andando all’aeroporto, ma decisi di fare una sosta alla Zecca, perchè sapevo che coniavano i primi euro. Ricordo che presi tra le dita la prima di quelle monete, con l’uomo di Leonardo sul "verso", come avevamo voluto. L’immagine più bella che si potesse mettere sull’euro».
Qualcuno scrisse che le spuntò una lacrima... «Ero certamente commosso. Avevo vissuto ogni fase della storia dell’euro, prima come governatore della Banca d’Italia, poi come ministro del Tesoro e, infine, come presidente del Consiglio. Si può dire che tutta la mia vita pubblica si è svolta nel solco dell’euro».
E, naturalmente, ricorda anche i momenti difficili. «Intanto ci furono tutte le difficoltà connesse alla decisione di dare vita all’euro. Ma poi ci furono quelle per realizzare le condizioni necessarie a far entrare la lira nonostante avessimo molti dati contro. Il più importante era il rapporto tra deficit pubblico e prodotto interno lordo, che nel ’96 aveva chiuso al 7,5%. La soglia massima accettata era il 3%. L’obiettivo per il ’97 era stato fissato al 4,5%, ma nel corso dell’anno decidemmo di puntare al 3% entro l’autunno. In realtà, poi, scendemmo addirittura al 2,7%, ma, a quel punto, l’altra grande difficoltà fu convincere l’Europa che quei risultati erano sostanziali e non frutto di artifici contabili, come scrivevano anche alcuni giornali italiani e come sembrava credere il ministro delle Finanze tedesco Theo Weigel, diventato poi un mio grandissimo amico. Fu una lotta veramente dura. Conservo incorniciato il comunicato-stampa che dette notizia dell’accettazione dell’Italia. Lo tenevo nel mio studio al Quirinale e ce l’ho oggi al Senato».
Ci furono critiche rispetto al livello di cambio accettato per la lira. «Quello era avvenuto prima, quando bisognò trattare il rientro nell’accordo di cambio dal quale eravamo usciti nel ’92. Chiesi il rientro e ci fu una riunione molto dura dell’Ecofin a Bruxelles. Puntavo a mille rispetto al marco, ma strappammo quota 990, che un articolo del Financial Times dipinse come un successo ottenuto dopo una fiera battaglia. Del resto, le banche centrali si erano già accordate per 950».
Poi l’euro ebbe corso e in Italia i prezzi esplosero. Si poteva fare meglio? «Si poteva fare di più durante la fase di change-over. Avremmo dovuto insistere perchè venisse creata la banconota da un euro. Inoltre, a partire dal 1 gennaio ’99, non vi furono abbastanza controlli. Forse sarebbe stato anche opportuno mantenere più a lungo le etichette con il doppio prezzo. Ma questi sono aspetti minori rispetto al risultato di avere creato l’euro».
Infatti lei continua a ritenere che l’adozione dell’euro sia stata un buon affare per l’Italia. «Certamente. Basta andare con la memoria alle varie crisi vissute negli anni ’90, pensare agli sconvolgimenti portati sui mercati dalla globalizzazione o riflettere sull’attuale crisi finanziaria internazionale per immaginare quante svalutazioni la lira avrebbe dovuto subire nel frattempo. L’Italia, poi, non ha ancora capito il vantaggio enorme che ne ha ricavato per quanto riguarda la diminuzione degli oneri sugli interessi e di conseguenza del rapporto tra debito e Pil».
Quindi, secondo lei, l’euro è stato un successo? «Un successo enorme. Basta guardare al rapporto con il dollaro e, adesso, anche con la sterlina, e constatare come l’euro si stia affermando sia sui mercati internazionali sia come moneta di riserva mondiale. Non a caso aumentano le domande di adesione».
Ma non c’è una politica economica europea... «Una grave mancanza. L’ho già definita una zoppìa. In ogni paese la politica economica è frutto di una collaborazione dialettica tra la banca centrale e il governo. Per l’euro questa dialettica non c’è ancora in modo pieno. L’eurogruppo non coordina ancora la politica economica europea quanto sarebbe necessario. Di conseguenza, anche la risposta a questa crisi non mi è sembrata abbastanza europeista».
Quindi la mancata integrazione è una minaccia per l’euro? «Bisogna andare avanti. Bisogna che un’avanguardia aperta e non esclusiva apra la strada».
Quale avanguardia? «L’avanguardia è l’eurogruppo. Vede, si confrontano due visioni, quella di un’Europa confederale quella di un’Europa federale. Adesso l’Unione è un mix delle due cose e così sarà forse sempre, ma adesso occorre che la parte federale aumenti un po’ il proprio peso».
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 25, 2009, 10:55:36 am » |
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ECONOMIA
Contratti, intervista all'ex capo dello Stato che ricorda l'accordo durato fino ad oggi
"Impensabile tenere fuori una delle parti sociali"
Ciampi: "L'intesa va firmata da tutti nel '93 non si escluse la Cgil"
di ELENA POLIDORI
ROMA - "Per me, per come ragiono io, un accordo sui contratti deve essere totale. Ed è tale solo se lo firmano tutti. Se no, che intesa è? Nella mia mentalità questa è la concertazione". Carlo Azeglio Ciampi ricorda "il miracolo del luglio 1993", la "tenacia" con cui per giorni cercò di mettere tutti intorno allo stesso tavolo-, Cgil, Cisl, Uil, Confindustria - fino alla firma di un protocollo che è durato per oltre quindici anni: "Lo volli con tutta la mia energia". Ora quel modello sta tramontando. Adesso il governo Berlusconi, tra strappi e polemiche, ha deciso di riscrivere le regole e di cambiare i punti di riferimento. E' un errore? Un balzo all'indietro? Un passo falso? "Non è che non voglio espormi, ma le trattative, per giudicarle, bisogna viverle. Da fuori non si può dire che vanno condotte così o colà. Altrimenti si rischia solo di fare una laudatio di se stessi", risponde l'ex governatore, ex premier, ex ministro del Tesoro, ex presidente della Repubblica. "Ma non c'è dubbio che il contesto è cambiato. Allora, tanto per cominciare, c'era la lira. Adesso invece, grazie al cielo, abbiamo l'euro".
Un'intesa senza la Cgil. Come la vede? "Per me sarebbe stato semplicemente impensabile. Ai miei tempi io, senza una componente della trattativa, non sarei andato avanti. Lo spirito doveva essere di una concertazione tra tutte le parti sociali, non tra alcune sì e altre no. Ma stiamo parlando del 1993: non sarebbe onesto ragionare con uno spostamento nel tempo di 15 anni. E' giusto invece dire che il metodo dovrebbe essere lo stesso, nel tempo. I contenuti invece sono cambiati: 15 anni fa il punto fondamentale era la stabilità, adesso sono la produttività e la crescita. Tanto più in una situazione di crisi come quella che abbiamo di fronte".
Resta il fatto che adesso il sindacato è diviso. "Allora invece sul concetto di concertazione unanime, erano d'accordo anche i leader di quel tempo, Trentin, D'Antoni e Larizza. E io volevo con tutte le mie forze che intorno al tavolo ci fosse un sindacato forte e coeso. Solo così potevo poi stare tranquillo che un contratto firmato era valido, senza ripensamenti né pericolose marce indietro. Ricordo che un giorno, per sostenere la Cisl in difficoltà andai pure a un loro congressino. Volevo fargli sentire che il presidente del Consiglio gli stava vicino. Io non ho mai speculato sulle divisioni sindacali".
Trattare è complicato: quale fu l'ostacolo più forte? "Il gran lavorìo di mediazione tra sindacati da una parte e Confindustria dall'altra. Pensi che una sera, era luglio, faceva caldo, avevo passato pure la notte a palazzo Chigi. Ero stremato, ma dissi: io non getto la spugna. Da qui non si esce senza una firma globale".
Pare che lei buttò via la chiave della stanza. "In senso metaforico è così. In pratica, passai ore a convincere i sindacati a rinunciare ad un riconoscimento automatico di una eventuale perdita del potere d'acquisto. E al tempo stesso, a mediare con Confindustria che insisteva troppo con le negoziazioni a livello aziendale".
Il nuovo modello rischia di produrre la morte degli accordi nazionali. Funzionerà? "Io pensavo allora che il secondo livello, quello aziendale, andasse bene per le grandi industrie. Mentre in Italia c'erano soprattutto piccole e medie imprese per le quali contava il contratto nazionale".
Ancora oggi il tessuto industriale italiano è così. O no? "A questo rispondono le statistiche".
Il nuovo modello dice anche che l'inflazione non è più quella programmata dal governo, bensì è un dato armonizzato con i criteri europei. Inoltre i contratti nella parte economica sono triennali e non biennali come una volta. Offre garanzie, questo patto? "Ecco, qui torniamo proprio alla differenza del contesto cui accennavo prima. Oggi c'è l'euro dunque è logico che i criteri siano quelli europei".
Ma su un tema delicato come l'inflazione, non viene a mancare la mediazione politica nazionale? "L'inflazione deve corrispondere alla politica economica del governo".
Appunto. Qui invece c'entra la Ue. "Già. La differenza è che 15 anni fa c'era la liretta. Allora quell'accordo doveva servire proprio per inaugurare una "cultura della stabilità" senza la quale l'Italia non avrebbe potuto far parte dell'euro. Gli automatismi, le indicizzazioni, erano il contrario di quella cultura. La loro sparizione, con l'accordo del 1993, ci aiutò a convincere gli altri partner ad accettarci nella moneta unica. Al dunque io sposai la tesi del povero Tarantelli: i contratti non si fanno sull'inflazione maturata, bensì su quella programmata".
Concetto non facile da far digerire, stando alle cronache di quel periodo. "Una gran fatica. Ricordo che in quei giorni ci fu anche un imponente sciopero degli autotrasportatori che volevano un adeguamento delle tariffe all'inflazione. Mancava la benzina, frutta e verdura non arrivavano nei mercati. Ma io dissi: bisogna adeguare, certo, ma guardando al futuro. Questa è la cultura della stabilità che ci rende più europei. Quando firmammo, era il 24 luglio, tornai a Santa Severa tranquillo e felice. Andai pure al cinema, l'arena all'aperto, con mia moglie Franca. Finché non mi chiamarono da palazzo Chigi per dirmi delle bombe a Roma e Milano. Dovetti rientrare a mezzanotte passata. Ma questa è un'altra storia".
Scusi presidente, ma la nuova inflazione scelta offre garanzie o no? "Dà le garanzie che ci dà l'euro. Malgrado lo scetticismo delle massaie, la moneta unica è stato un fatto politico straordinario. Pensiamo a dove sarebbe l'Europa oggi, senza l'euro. E pensiamo anche a dove sarebbe l'Italia".
Sull'euro, come sa, ci sono opinioni contrastanti. "Lo so. Ma quel che ci sta dando va ben al di là delle aspettative. E' stata una intuizione fondamentale per l'Europa tutta e dunque anche per l'Italia. E non dimentichiamo cosa dovette fare Kohl per convincere i tedeschi a rinunciare al marco".
E anche per accettare l'Italia. "Fu una battaglia. Ma io ero e resto convinto che senza il nostro paese si faceva solo un euro mitteleuropeo. Comunque, l'introduzione della cultura della stabilità, avviata con l'intesa di luglio, fu fondamentale".
Non c'è il rischio che s'incrini, oggi, quella cultura? "Mettiamola così: allora io speravo che quel che si faceva potesse diventare un nuovo metodo di governo per l'Italia".
(25 gennaio 2009)
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:09:01 pm » |
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L'Europa non deve cedere allo scoramento. Serve il colpo di reni di Carlo Azeglio Ciampi I Paesi europei, uno per uno, e l'Europa tutta hanno mezzi, intelligenze, forze per superare l'attuale temperie finanziaria che tanto preoccupa gli Stati, Italia in testa. Guai a farsi prendere dallo scoramento. La storia di questo continente glorioso dimostra quale sia il cammino straordinario che i suoi cittadini hanno saputo compiere attraversando tragedie immani, ma anche momenti di irripetibile sintesi politica e di eccezionale generosità culturale. Guai a dimenticare chi siamo. Anche l'Italia, anche noi, abbiamo lo spirito, la tenacia, le risorse che servono per recuperare quella fiducia che oggi appare incrinata, quella credibilità che oggi sembra scomparsa. Sta in noi; sta in noi, come europei, sta in noi come italiani ritrovare il senso dell'unificazione di un continente. articoli correlati La missione di una sola moneta per nazioni che nel Novecento erano nemiche in armi e ora si ritrovano sotto l'unico mantello dell'Euro, moneta forse "visionaria", ma proprio per questo più forte perchè fondata sulla storia di popoli antichi e sul futuro di un continente destinato, si spera il più presto possibile, a guarire l'attuale zoppìa politica. È, questo, l'unico vero male dell'Europa: la mancanza di una vera leadership unitaria, di una vera politica economica comune che, certo, nessun vertice bilaterale potrà sanare in modo serio e duraturo. Uno squilibrio destinato, prima o poi – con la persuasione della ragione politica o con la forza brutale mostrata finora dai mercati finanziari globali – ad essere superato. Anche l'Italia potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo importante in questa costruzione comune, ma sembra rinunciarvi. Colpevolmente. Sottoscrivo dunque l'iniziativa del Sole 24 Ore di pubblicare un Manifesto per risanare l'Europa: è fondamentale raggiungere un vero Governo economico unico della Ue così come sono importanti nuovi strumenti finanziari quali gli eurobond e le indicazioni per un vero mercato continentale delle banche. Quanto alla nuova missione della Bce, credo che si imponga una riflessione sulla necessità di proporre un adeguamento dei Trattati europei con una più spiccata attenzione al tema della stabilità e non più solo a quello del controllo dell'inflazione. Chi guida il Paese sa bene che occorre un colpo d'ala, un segno di discontinuità che vada anche oltre l'enunciazione di un programma affidato a una missiva destinata alle cancellerie europee e agli investitori di tutto il mondo. L'Italia è un paese straordinario e in grado di rispondere con abnegazione e spirito di sacrificio se vede obiettivi chiari, ambiziosi, condivisibili e nobili. Sta alla leadership politica definirli e realizzarli, passo passo, senza perdere di vista la coesione sociale. Ricordo bene quale fosse lo scetticismo dei tedeschi quando tentammo l'aggancio ai paesi di testa per l'ingresso dell'Italia nell'Euro. Lo spread allora era oltre 600 punti. Lo portammo a 20: con le riforme, con l'azione di contenimento della spesa, con una intensa opera di convicimento presso tutti i principali interlocutori internazionali, tedeschi in testa. Ringrazio il direttore Roberto Napoletano che nel suo articolo di fondo pubblicato ieri ha ricordato lo «sta in noi» che ho pronunciato molte volte come invito e sprone agli italiani perchè, nelle più diverse circostanze, liberassero le molteplici energie proprie del nostro popolo. È un tempo difficile, è un tempo per riforme ai limiti della temerarietà. Chi può lo faccia, chi sa di non potere, ne tragga le conseguenze. Clicca per Condividere Il Sole 24 ORE - Notizie (6 di 39 articoli) ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-02/leuropa-deve-cedere-scoramento-082444.shtml?uuid=AaxN5zHE
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