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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 166112 volte)
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« Risposta #315 inserito:: Luglio 09, 2015, 06:44:58 pm »

La Nota
Sulle riforme un atto di realismo che fotografa le difficoltà
Un Renzi deciso a giocarsi tutto a settembre.
Ma le incognite sono unità del Pd, soccorso di Forza Italia e crisi europea

Di Massimo Franco

Più che una sconfitta, è un gesto di realismo: la presa d’atto che sulla riforma del Senato il governo non poteva compiere forzature senza aggravare le sue difficoltà. Il rinvio di fatto a settembre dell’approvazione della nuova legge può diventare così il primo passo compiuto da Matteo Renzi per ricostruire i rapporti con la minoranza del Pd; e per rendere meno lacerante quella che per alcuni giorni ha rischiato di essere un’altra sfida acrobatica agli avversari e ai numeri parlamentari. Tra l’altro, imporre il testo già approvato alla Camera ai 25 Democratici firmatari della lettera che chiede un Senato elettivo, probabilmente avrebbe provocato le dimissioni di Anna Finocchiaro.

Perdere l’appoggio del presidente della Commissione affari costituzionali in una fase nella quale occorrono competenza giuridica e mediazione, sarebbe stato un inciampo. Sarebbero aumentati i veleni nei rapporti parlamentari: peraltro senza avere nessuna garanzia dell’approvazione della riforma entro il 7 agosto. Ci si chiede perché alla fine Renzi e soprattutto il suo ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, abbiano accettato di rimandare la vittoria e di concedere qualcosa.
Quanto sta accadendo è la conseguenza del voto regionale di maggio e dei ballottaggi che hanno ridimensionato il Pd renziano; delle tensioni tra Palazzo Chigi e l’elettorato in tema di riforma della scuola; di una crisi europea che espone l’Italia e il premier e non gli permette di tenere aperti troppi fronti; e dei rapporti di forza in Senato, tali da risentire di qualunque scontro a sinistra. Non significa, tuttavia, che il premier sia disposto ad accettare tutto.

Si tende a escludere fin d’ora l’elezione diretta dei senatori, come chiede la minoranza. L’ipotesi più probabile rimane un «listino» eletto a parte nei consigli regionali, e inserito in qualche modo nella Costituzione. Altrimenti, il Senato potrebbe di nuovo chiedere di dare la fiducia al governo, come adesso. Ma si ammette che la partita non sarà facile comunque. Il rinvio è un inizio di distensione. Rimane da capire se Renzi riuscirà davvero a recuperare lo «schema Mattarella», e cioè l’unità del partito che ha portato all’elezione del capo dello Stato; oppure se opterà per percorsi meno lineari.

L’appoggio delle truppe di complemento dei senatori di FI vicini a Denis Verdini o degli ex M5S è in incubazione; e la maggioranza non esclude di usarli in extremis. Ma spunta anche la disponibilità dei berlusconiani a votare col Pd un Italicum modificato, che può diventare una trappola. L’unica certezza è che il capo del governo vuole celebrare nel 2106 un referendum «per capire se le riforme piacciono ai cittadini». Eppure, per paradosso il 2016 è lontano. Le convulsioni di una Grecia sull’orlo del collasso, e un’Ue che esclude l’Italia dagli incontri strategici, come è successo anche ieri, possono diventare fattori di logoramento.

8 luglio 2015 | 08:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_08/sulle-riforme-atto-realismo-che-fotografa-difficolta-67a08a0a-252f-11e5-85c7-ee55c78b3bf9.shtml
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« Risposta #316 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:33:10 pm »

Il Senato, i voti, le urne
Una partita rischiosa
Il governo è preoccupato di non avere i numeri.
Può cambiare il testo per ricompattare gli spezzoni del Pd, tornando all’elezione diretta.
O può trovare un accordo con frammenti di Forza Italia, rischiando però la scissione

Di Massimo Franco

Si capisce solo una cosa: che il governo comincia ad essere seriamente preoccupato di avere i numeri al Senato. Le proposte di mediazione che stanno fiorendo sul modo di eleggere i parlamentari della cosiddetta Camera Alta sono il riflesso di questa paura. Tra un mese o giù di lì, ci si potrebbe trovare davanti ad uno spartiacque drammatico, per il Pd e il suo presidente del Consiglio: o cambiare la riforma con un accordo che rimetta insieme gli spezzoni del partito maggiore, confermando l’elezione diretta dei senatori; o approvare una soluzione di compromesso coinvolgendo frammenti di Forza Italia. Ma in questo secondo caso, Matteo Renzi saprebbe di non potere più escludere l’eventualità di una scissione.

La sensazione, infatti, è che i suoi avversari interni non siano pronti ad accettare le ipotesi circolate nelle ultime ore: un segno che la scarsa disponibilità a trattare di Palazzo Chigi è simmetrica a quella della minoranza del Pd nei suoi confronti, e cioè vicina allo zero. D’altronde, la possibilità di un listino collegato alle elezioni per i Consigli regionali è ritenuto un mezzo pasticcio perfino da alcuni dei proponenti. Tra l’altro, ci sono problemi di adeguamento ad alcuni statuti locali. Soprattutto, la logica degli oppositori è di impedire che Renzi controlli la formazione delle liste parlamentari. E, nel caso del Senato, a loro avviso il problema si riproporrebbe, oltre a svuotare politicamente l’assemblea di Palazzo Madama.

A prescindere dall’esito, si tratta di un conflitto scaricato da mesi sul Paese; e ormai così incanaglito da far temere uno scontro anche istituzionale: un’eventualità di cui il Pd porterebbe per intero la responsabilità. Appelli anche autorevoli come quello dell’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a non stravolgere la riforma, non sembrano avere modificato le cose, né probabilmente potevano. Per paradosso, le posizioni si sono perfino irrigidite. L’articolo 2, quello sul modo di eleggere i senatori, che il premier non vuole sia modificato, in realtà contiene un comma destinato ad essere rivotato: il presidente del Senato, Pietro Grasso, l’ha già ribadito.

E Sergio Mattarella ha fatto sapere di ritenere il Parlamento sovrano. Significa che il capo dello Stato prenderà atto di quanto sarà deliberato dalle Camere, rimanendo rigorosamente ancorato al proprio ruolo di arbitro. Il sentiero strettissimo attraverso il quale Renzi dovrà passare è dunque un’aula dai rapporti di forza incerti. Se va allo scontro senza trovare un accordo, può saltare tutto: una bocciatura dell’articolo 2 farebbe franare l’intera impalcatura. Se riesce ad arruolare parlamentari all’esterno della sua maggioranza politica, il «sì» avvicinerebbe però anche l’orizzonte di una frattura del Pd.

Insomma, il dilemma del presidente del Consiglio è cambiare la riforma del Senato cedendo; oppure trovare i voti in qualche modo, segnando la fine anche formale dell’unità del Pd e la nascita di una nuova coalizione parlamentare: magari come embrione di un futuro «partito della Nazione» con cromosomi moderati. Rimane da capire se e quanto Silvio Berlusconi o almeno una parte di Fi sarebbero disposti ad aiutare il governo; e a quali condizioni. Forse chiederebbero una contropartita sull’Italicum: nel senso che il sistema elettorale verrebbe cambiato accettando il premio alla coalizione e non più al partito con più voti, presumibilmente il Pd.

È possibile che Renzi si riveli più disponibile a rivedere qualcosa su questo punto rispetto al Senato: anche perché teme che in caso di ballottaggio con il Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche, si possa formare un partito trasversale delle opposizioni, unite contro di lui. La sua aura di vincente è un po’ appannata; quella del realista regge ancora. Si capirà presto se il premier riuscirà a smentire quanti ritengono che abbia solo una marcia, e confidano su questo per logorarlo o perfino farlo cadere; o se sarà in grado di spiazzare i nemici.

Negli ultimi cento giorni, l’habitat del governo si è fatto più ostile, complici i risultati delle regionali e gli scandali in alcune giunte. Il problema è di prenderne atto. Il Senato non è un «Vietnam» popolato solo dai «vietcong» delle minoranze. La tensione creatasi in Parlamento è figlia di errori diffusi e grossolani. La scommessa è non permettere che una rotta di collisione alla quale nessuno sembra voler rinunciare, convinto che alla fine lo farà l’avversario, porti a sbattere il Paese precipitandolo dentro le urne.

10 agosto 2015 (modifica il 10 agosto 2015 | 08:51)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_10/senato-voti-urne-partita-rischiosa-19d4f8c2-3f2b-11e5-9e04-ae44b08d59fb.shtml
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« Risposta #317 inserito:: Agosto 26, 2015, 11:42:23 am »

Il peso del passato
Ambizioni e difficile realtà

Di Massimo Franco

Liquidare «il ventennio» passato come un rosario di occasioni perdute dall’Italia significa stilare un verbale del declino difficilmente contestabile: anche se si dimentica l’ingresso del nostro Paese nel sistema della moneta unica, e le speranze che l’euro creò. Il problema è che nel bilancio fatto ieri da Matteo Renzi al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini, e poi a Pesaro con l’annuncio dell’abolizione di Imu e Tasi nel 2016, risuona anche un’eco del passato. L’impressione è che il presente venga esaltato in modo eccessivo. L’idea di uno spartiacque virtuoso, rivoluzionario, appartiene ad una narrativa magari comprensibile ma controversa. È vero che per il presidente del Consiglio si trattava di tornare sulla scena dopo settimane difficili; di riaffermare un protagonismo marcato in vista di scadenze istituzionali cruciali come la riforma del Senato, e di una legge di Stabilità insidiata dalla crisi finanziaria cinese.

Proprio il contorno di incertezza, però, tende a schiacciare l’esecutivo sulle esperienze deprecate dalle quali si vuole distanziare.

È condivisibile l’analisi sull’eccesso di ideologia che tuttora permea il sistema. E l’espressione «provincialismo della paura» rende bene il modo in cui alcune forze politiche fomentano la xenofobia e il timore dei cambiamenti. Rimane però il sospetto che il governo descriva in maniera efficace i problemi, ma fatichi a risolverli. Per quanto sia difficile contestare la tesi del premier secondo la quale «veti e controveti» hanno bloccato il Paese, c’è da chiedersi se oggi la situazione sia così diversa. Sul Senato è lo stesso Pd di cui Renzi è segretario a seminare resistenze e incognite destinate a pesare sul merito della riforma e perfino sulla tenuta della maggioranza. Né convince del tutto la contrapposizione tra i «cattivi» che vogliono ancora l’elezione diretta dei senatori e i «buoni» che puntano a svuotarlo attraverso la riforma.

L’idea di affidare la modernità del Senato a un listino scelto dai Consigli regionali, grumi di una spesa pubblica irresponsabile e spesso di un malgoverno ai limiti dei codici, come ammette la stessa Consulta, è per lo meno opinabile. Quanto all’agenda delle priorità economiche, per il momento non è sempre decifrabile. Non solo. Quando il premier parla di abolizione delle tasse sulla casa e più in generale di abbassamento del carico fiscale, viene subito da pensare come saranno compensati.

I margini di manovra che l’Europa dovrebbe concedere all’Italia rimangono aleatori. La tentazione di sfondare il tetto del patto di Stabilità è evidente. Riflette uno scetticismo di fondo sulle politiche rigoriste dell’Ue, che anche ieri Renzi non ha nascosto; e che, va detto, trova più di una giustificazione. La prospettiva di uno strappo appare, tuttavia, altamente rischiosa. Tradisce la preoccupazione di chi si è dato obiettivi molto ambiziosi, e capisce quanto siano sfuggenti.

Il pericolo vero, per Palazzo Chigi e per l’Italia, è un limbo nel quale si sarebbe costretti a galleggiare perché il ritorno indietro comporterebbe solo una regressione; ma il futuro per ora si configura segnato da incertezze assai poco rassicuranti. Nell’abbozzo di una politica post ideologica che Renzi offre, si indovina lo sforzo di superare questo stallo; di individuare il nucleo di un nuovo modello. Riaffiora l’embrione di una formazione che non parli solo alla sinistra, e anzi si guardi da una certa sinistra passatista.

Si tratta di una sfida che comporterà rotture e traumi, dei quali già si intravedono i prodromi. Rimane da capire se il Renzi di oggi abbia la stessa forza, la stessa aura di vincente e le stesse alleanze di un anno fa: non solo per sostenerla ma per vincerla.

26 agosto 2015 (modifica il 26 agosto 2015 | 07:28)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_26/ambizioni-difficile-realta-16a39bee-4bb1-11e5-b0ec-4048f87abc66.shtml

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« Risposta #318 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:40:38 pm »

Il Papa nelle Americhe, i segreti di un viaggio
Dai discorsi fatti riscrivere alla rinuncia a entrare negli Stati Uniti dal Messico per non farsi trascinare nella campagna presidenziale

Di Massimo Franco

Quando il Papa ha letto i discorsi che gli erano stati preparati per la visita negli Stati Uniti, ha avuto una reazione di perplessità e poi quasi di disappunto. Tanto che alla fine ha deciso di rimandarli indietro: riteneva che non riflettessero abbastanza fedelmente né il suo pensiero, né il suo stile. Soprattutto, sembra che li abbia considerati troppo generici e poco strutturati. Per questo, ha affidato la soluzione del problema a persone di sua fiducia che ne conoscono lessico e traiettoria mentale. I discorsi sono stati riscritti praticamente da cima a fondo, e approvati. L’aspetto intrigante è che gli spunti per la stesura dei testi erano arrivati dai vescovi d’oltre Atlantico; e a rielaborarli era stata la Segreteria di Stato: elementi che hanno confermato le differenze culturali e di sensibilità tra Jorge Mario Bergoglio e alcuni dei suoi «grandi elettori» statunitensi.

A questo episodio vanno aggiunte le telefonate di protesta arrivate in Vaticano dall’America quando è stata discussa la lista degli invitati alla Casa Bianca per mercoledì prossimo, alla cena in onore del Papa. Ecclesiastici ma anche esponenti del cattolicesimo più solidamente conservatore hanno chiesto se la Santa Sede avesse espresso le sue rimostranze; o se il Pontefice avesse addirittura meditato di non partecipare a quell’incontro. La risposta diplomatica del Vaticano è stata che il Papa era un invitato, e non poteva decidere lui chi far partecipare: tanto più quando si tratta di quindicimila persone. Ma a parte le risposte diplomatiche, il problema che si è posto è stato quello di analizzare le ragioni di una scelta risuonata a Roma come minimo alla stregua di una gaffe. Al peggio, come uno sgarbo o addirittura una provocazione.

Nei riguardi di chi, però, e per quale ragione? Nella cerchia papale è stato ricordato che Obama ha sempre difeso le minoranze e i temi controversi sulle quali hanno costruito le loro battaglie: dai matrimoni omosessuali all’aborto. È stato ricordato l’entusiasmo col quale il presidente degli Stati Uniti salutò a luglio la decisione a maggioranza della Corte suprema di legittimare le nozze gay: un tema sul quale Francesco non ha parlato finora solo per non alimentare polemiche. Ma è difficile pensare che quando il segretario di Stato, il cardinale Piero Parolin, tuonò contro il risultato del referendum irlandese su questo tema, nel maggio scorso, il Papa non fosse d’accordo. La seconda riflessione si è concentrata sul fatto che l’inquilino della Casa Bianca non ha mai avuto un’appartenenza né una visione religiosa definite.

Alla fine, però, è affiorata anche una spiegazione più «politica». La sfida della Casa Bianca, se di sfida si tratta, non è tanto a Francesco ma ad un episcopato americano da sempre in conflitto con le Amministrazioni e il Partito democratico Usa ; e proprio sui cosiddetti «valori non negoziabili». Avere il Papa ad una cena dove sono presenti alcune delle realtà di fatto contro le quali combattono da anni vescovi considerati «guerrieri culturali» sarebbe un tentativo di spiazzarli, e inserire un cuneo potenziale tra Roma e la Conferenza episcopale statunitense. Ma la manovra è tutta da dimostrare: anche perché appare altamente improbabile che potrebbe riuscire, vista la lealtà e la devozione dei vescovi al papato. È vero solo che alcuni di loro vorrebbero parole più nette a difesa della famiglia e sulle questioni etiche dirimenti.

In Francesco, però, c’è la doppia preoccupazione di non schiacciare la Chiesa cattolica sulle posizioni «repubblicane»: aggettivo che oggi, negli Usa, significa un radicalismo anti-immigrazione e anti-Obama ben riflesso dalla rozzezza delle parole d’ordine del miliardario e candidato Donald Trump. Più in generale, Bergoglio non vuole deflettere da una strategia «inclusiva» e «positiva». Si tratta di un’opzione che comporta uno spostamento e un ammorbidimento degli accenti su questi temi: anche perché l’approccio aggressivo del passato non ha portato grandi passi in avanti. Il timore di essere tacciato di antiamericanismo e infilato a forza nella campagna presidenziale è anche quello che ha scoraggiato una tappa di Francesco a Ciudad Juárez, al confine tra Messico e Usa.

La città è il simbolo di una realtà transfrontaliera ed è uno dei punti di passaggio e di sfruttamento dell’emigrazione dall’America Latina. E il governo messicano era tra quelli che si erano candidati ad ospitare il Pontefice, desideroso di arrivare negli Usa dal «Sud», in omaggio alla sua origine argentina. Alla fine, però, l’ipotesi è stata scartata perché troppo «impegnativa» in vista del viaggio a Washington, Filadelfia e New York. Dopo avere escluso altre tappe, Francesco ha optato per Cuba, sorprendendo tuttavia la Casa Bianca e la stessa Segreteria di Stato vaticana. La volontà di abbinare due nazioni così agli antipodi è un omaggio all’America Latina e un modo per ricordare agli Usa quanto sia importante la ripresa del dialogo e la fine delle tensioni tra il regime comunista dei Castro e il Nord America.

E questo nonostante la Santa Sede ammetta che il suo ruolo di mediazione è stato molto simbolico ma poco operativo. «Ci hanno chiesto di firmare una loro bozza di accordo alla nostra presenza. Ma per circa sei mesi hanno trattato da soli, in Canada», si spiega in Vaticano. Sui tempi della transizione verso la democrazia, le previsioni divergono profondamente. Alcuni dei consiglieri di Francesco ritengono che senza la fine della «generazione della rivoluzione» castrista, la situazione cambierà poco. Oltre tutto, Raúl Castro sarebbe un moderato rispetto al nocciolo duro del Partito comunista, che celebrerà il congresso nella primavera del 2016. «In più, Cuba è un’isola, tagliata fuori da tutto per oltre mezzo secolo», si osserva. «Non è la Polonia, o la Cecoslovacchia o la Germania dell’Est, che avevano contatti col mondo esterno. Lì un cambiamento può arrivare solo se nasce dall’interno».

L’idea statunitense dell’«inevitabilità della democrazia» è suggestiva, e probabilmente esatta. Ma poco prevedibile nella sua tempistica. Il regime ha bisogno degli Usa dopo la deriva fallimentare del Venezuela che mandava soldi e petrolio in cambio di medici e infermieri cubani. Per paradosso, tuttavia, continua a dover usare anche l’embargo statunitense per coprire i propri fallimenti economici e politici. Probabilmente, per capire come andrà a finire bisognerebbe sapere meglio che cosa si sono detti gli emissari statunitensi e di Cuba nella loro lunga trattativa segreta. Sempre che la realtà della nomenklatura comunista caraibica sia disposta a conformarsi a quel percorso verso la democrazia.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 08:26)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_20/papa-americhe-segreti-un-viaggio-fcdf6a8e-5f5c-11e5-9125-903a7d481807.shtml
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« Risposta #319 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:54:21 pm »

La visita negli Stati Uniti
Il discorso del Papa al Congresso Usa e il senso di quegli applausi per un protagonista «politico»
Tono inclusivo, ma franco, il Pontefice è riuscito ha dato all’evento un carattere non formale.
Ha parlato di migranti e pena di morte, ma anche di famiglie e difesa della vita

Di Massimo Franco

Ha parlato da americano, più che da latinoamericano. Da «figlio di questo grande continente», proprio come gli statunitensi. Anche se Francesco sapeva di rivolgersi ad un Congresso Usa che riflette una storia, una cultura e, almeno nel passato, una religione diversa da quella dell’America australe: cattolica questa, protestante l’altra. Ma additando una radice geografica comune ha potuto esprimersi in modo inclusivo, avvolgente: garbato e insieme severo. Ha potuto chiedere un impegno comune per riequilibrare i cambiamenti climatici. Ha potuto parlare di «fondamentalismi» adombrando una verità non manichea e scomoda, alle orecchie occidentali: e cioè che certi estremismi non sono solo islamici, e che si può sbagliare tracciando linee troppo semplicistiche tra «buoni» e «cattivi».

Il pontefice argentino è riuscito ad accennare criticamente perfino al modo in cui si combatte il terrorismo. Col suo inglese letto con qualche fatica ma studiato con cura, è riuscito a dire tutto quello che voleva, dando all’appuntamento storico col Congresso degli Stati uniti un carattere non formale. Ma riscuotendo applausi e comunque rispetto.

Non ha taciuto sugli istinti che portano a rifiutare gli immigrati proprio in una nazione costruita e resa grande dall’immigrazione. Né, seppure coi suoi toni non aggressivi, ha tralasciato un accenno alle famiglie e ai matrimoni come «relazioni fondamentali» che rischiano di essere «messe in discussione»; al tema della vita «da proteggere e difendere in ogni momento», con un chiaro riferimento ad aborto ed eutanasia. In un Paese segnato dal terrorismo e dalle guerre, immerso per anni in un panorama di conflitti crescenti, Francesco ha ricordato ad un’America fondata sulla democrazia che nemmeno in nome della lotta all’eversione bisogna deflettere da quei principi.

A questo sembrava alludere quando ha fatto presente «l’equilibrio delicato» da mantenere contro «l’estremismo religioso»; e quando ha avvertito che «imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate».

Gli applausi e l’ovazione finale di un Congresso a schiacciante maggioranza repubblicana non vanno letti come approvazione di tutto il suo discorso. Ci sono state, e ci saranno critiche contro Francesco per le sue parole contro il commercio delle armi, o nella sua esortazione a non aggravare i cambiamenti climatici o negli attacchi al capitalismo finanziario che alimenta la povertà. Ma in quei battimani si è colto il riconoscimento di un momento storico. Ed è emersa la consapevolezza di avere di fronte un nuovo attore geopolitico col quale anche gli Stati Uniti dovranno fare i conti: in America latina ma anche in Ucraina e in Siria. Un segno di rispetto, prima e più che di consenso.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:49)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_25/papa-francesco-parla-congresso-usa-applausi-massimo-franco-ff5d3858-634f-11e5-9954-7c169e7f3b05.shtml
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« Risposta #320 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:56:07 pm »

IL RETROSCENA - I GIORNI DEL CONCLAVE

La sciatica profetica di Bergoglio Il Papa che l’Impero non voleva
Un estratto di «Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto», il libro di Massimo Franco in edicola da venerdì 25 settembre con Il Corriere della Sera

Di Massimo Franco

Mentre si apriva il Conclave del 2013, riaffiorò un rumore di fondo dal passato: «Washington non vuole un Papa sudamericano». Thomas Reese, californiano, nel 2005 direttore del settimanale dei gesuiti Usa, «America», l’aveva detto nei giorni che avevano preceduto l’elezione di Benedetto XVI. Ma ora quella diffidenza verso un pontefice potenzialmente anticapitalista, quasi «no global» e «terzomondista», e con una presunta vena antiyankee, riemergeva: anche se alla Casa Bianca c’era il democratico Obama, non più il repubblicano Bush. I leader degli Stati Uniti non potevano sapere che appena due anni dopo l’ascesa di Joseph Ratzinger, la candidatura di Jorge Mario Bergoglio, spuntata e accantonata appunto nel 2005, stava prendendo forma casualmente attraverso una singolare profezia. Era successo nell’autunno del 2007. Il professor Valter Santilli, fisiatra dell’università La Sapienza di Roma, un’autorità nel campo della riabilitazione, fu chiamato a visitare un cardinale argentino sofferente di lombo-sciatalgia: proprio Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, a Roma per un Sinodo in Vaticano.

«Durante la visita, che mise in luce i tratti di cordialità e simpatia, nonché di semplicità del cardinale, mi venne in mente non so come», ricorda Santilli, «di esprimermi nella seguente maniera: “Eminenza, lo sa che la sciatica è una malattia profetica?”. “Perché?” rispose il cardinale. E io: “Perché nel Libro della Genesi dell’Antico Testamento al capitolo 32, dove si racconta l’episodio della lotta di Giacobbe con l’Angelo, quest’ultimo lo toccò sul nervo sciatico e sull’articolazione dell’anca”. E Bergoglio: “E allora?”. “Eminenza”, replicai, “in quella notte dopo la sciatica il Signore cambiò il nome a Giacobbe in Israele. Vedrà, dopo la sua sciatica il Signore cambierà il nome anche a Lei», scolpì col suo marcato accento romanesco e un sorriso malandrino. Bergoglio lo guardò perplesso, abbozzando un sorriso ma senza aggiungere nulla. Poi si misero a parlare di un convegno su «Scienza, Arte e Spiritualità» che il fisiatra avrebbe voluto organizzare alla Sapienza. Bergoglio gli propose subito di farlo alla Universidad Catolica Argentina di Buenos Aires. E così fu, nel settembre del 2008.

Il cardinale continuò a farsi curare da Santilli tra la fine del 2007 e l’inizio dell’anno successivo. Poi si persero di vista. Fino al 31 maggio del 2013. Quel giorno, ricorda il fisiatra con la voce ancora emozionata, «squilla il mio cellulare e l’interlocutore così si presenta: “Pronto è il professor Santilli?”. “Sì, chi è?” “Una volta il mio nome era Jorge Mario Bergoglio, poi il Signore mi ha cambiato il nome, ora mi chiamano papa Francesco…”». Si sono visti ancora, dopo. Hanno anche un amico in comune: un ragazzino romano, Leonardo Scarano, che regala al Papa disegni e incoraggiamenti, e considera Santilli «un grande». Condividono anche la conoscenza di Alessandro Spiezia, l’ottico romano con negozio in via del Babuino dove Francesco è apparso a sorpresa il 4 settembre del 2015 per farsi cambiare la montatura degli occhiali. Miracoli dello Spirito Santo e della sciatica profetica, che in realtà di tanto in tanto continua a perseguitare il pontefice: anche perché Francesco è ingrassato di quasi quattordici chili in due anni e mezzo di «dieta» di Casa Santa Marta (solo negli ultimi mesi è riuscito a calare un po’).

Non c’era, tuttavia, solo quello strano episodio come indizio del suo futuro papale. In una delle ultime visite pastorali a una parrocchia di Buenos Aires, Bergoglio era stato avvicinato da una signora che gli aveva detto: «Eminenza, lei adesso va a Roma per il Conclave. Si porti dietro un cane. E gli faccia assaggiare tutto quello che le danno da mangiare prima di toccare lei la comida, il cibo». In più, il 25 febbraio uscì sull’agenzia del Consiglio episcopale latinoamericano, Noticelam, l’articolo di una giornalista argentina, Virginia Bonard, che raccontava il finale di un’intervista a Guzmán Carriquiry, allora segretario della Pontificia commissione per l’America Latina. «Mentre entravano nella sua stanza le telecamere di Rome Reports», scriveva la giornalista, «Carriquiry mi disse senza un’ombra di dubbio: “Non si dimentichi, Virginia: il prossimo Papa sarà Bergoglio”». Non solo. Se qualcuno fosse capitato in piazza Navona, a Roma, la domenica prima dell’inizio del Conclave, avrebbe colto un altro piccolo segno del destino.

Quel 10 marzo 2013, il sacerdote canadese Thomas Rosica si imbatté in un Bergoglio meditabondo, che passeggiava in quella bomboniera rinascimentale, da solo, tra i turisti. In quei giorni abitava lì vicino, in un pensionato di via della Scrofa: ci andava sempre quando si trovava nella capitale. I due si conoscevano: Rosica è il presidente di Salt and Light, la più importante emittente cattolica canadese, e durante il Conclave avrebbe «coperto» tutti i media di lingua inglese per la sala stampa vaticana. Cominciarono a camminare insieme, chiacchierando. Il sacerdote notò una punta di nervosismo e di preoccupazione nel modo di fare dell’arcivescovo di Buenos Aires. Gli chiese che cosa avesse, come mai fosse così teso. La risposta fu: «Perché non so che cosa mi stanno preparando i miei fratelli in Conclave». Col senno di poi, viene da pensare che il futuro Papa sentisse di essere un candidato al soglio di Pietro. Di certo, faceva balenare l’idea di grandi manovre in atto intorno al suo nome.

Quell’olor de Conclave, odore di Conclave, che gli amici argentini dicevano che avesse avvertito alcuni mesi prima, nella sua megalopoli di Buenos Aires, ora lo investiva da vicino, promettendo un cambio epocale dentro il Vaticano; e un nuovo paradigma nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti. […] Oscuramente, le sue origini ponevano una sfida anche sul piano geopolitico. Gli Usa passavano da un Papa tedesco e filo-americano a ventiquattro carati, a un pontefice che, non riconoscendo il proprio impero, implicitamente tendeva a non riconoscerne nessuno; che non condivideva i confini ormai anacronistici della Guerra fredda, né la divisione tra Est e Ovest che aveva dominato per mezzo secolo i rapporti tra Occidente e Unione Sovietica. Un esponente del Sud del mondo, di un «estremo Occidente» che in realtà era altro: una sorta di «Occidente alternativo» a quello conosciuto, «sudista», australe, e poco tenero con quel «Nord» tutto capitalismo, competizione e culto della ricchezza. […] Erano queste le novità con le quali Washington, che si percepiva come l’ultimo e forse unico impero occidentale sopravvissuto, doveva fare i conti.

25 settembre 2015 (modifica il 25 settembre 2015 | 12:50)
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« Risposta #321 inserito:: Ottobre 14, 2015, 02:44:19 pm »

IL RETROSCENA

Ricreare il clima di Vatileaks Il piano dei nemici del Papa
Viste da Santa Marta, le manovre di questi giorni fanno pensare a un’operazione progettata da tempo per delegittimare due anni di papato.
L’obiettivo è quello di trasmettere l’impressione che, Bergoglio o Ratzinger, non cambia nulla

di Massimo Franco

Il piano degli avversari sta assumendo contorni più nitidi. E inquietanti. Prima la confessione liberatoria e provocatoria del teologo omosessuale polacco Krzysztof Charamsaa ridosso del Sinodo. Adesso, mentre è in pieno svolgimento, la lettera spuria di una decina di cardinali conservatori. E presto, chissà, un altro attacco obliquo nei confronti di papa Francesco. «Non sta arrivando un nuovo Vatileaks, ma qualcuno vuole dare quest’impressione per destabilizzare un pontificato che tenta di fare pulizia». Le parole di uno degli ecclesiastici più vicini a Jorge Mario Bergoglio sono preoccupate, perfino allarmate.

Quanto sta accadendo può essere definito una provocazione, o un difetto di governo, o l’esasperazione di minoranze della Chiesa cattolica che si sentono fuori gioco e prossime alla marginalità. Da Casa Santa Marta, però, dove abita Francesco, l’analisi delle manovre di questi giorni è più radicale. Fa pensare ad un’operazione progettata da tempo; e tesa a delegittimare non il Sinodo ma i due anni di papato argentino; a descrivere un episcopato in preda al caos, alle liti fratricide, quasi fosse la versione curiale del Parlamento italiano; e a risospingere tutto indietro, come se nei trenta mesi passati fosse cambiato poco o nulla.

Era accaduto qualcosa del genere già nella riunione precedente, a febbraio. Anche allora la gestione «liberal» del Sinodo da parte di Bergoglio aveva provocato resistenze e reazioni, quando si era parlato di Comunione per le coppie divorziate. Era stata pubblicata una relazione che sembrava precostituire e sbilanciare l’esito di quell’assemblea. E lo stile «latinoamericano» del pontefice era stato additato come una delle cause della confusione e del disorientamento. Ma stavolta si indovina una maggiore preordinazione: non tanto di Francesco ma dei suoi avversari. L’evocazione di Vatileaks sul Corriere da parte del cardinale Gerhard Müller, «custode» della Dottrina della Fede senza forse calcolarne del tutto le implicazioni, è stata a doppio taglio.

Involontariamente, Müller non ha solo fotografato la sua irritazione e il suo stupore. L’alto prelato tedesco, uno dei firmatari di una lettera della quale però sarebbe stato cambiato a insaputa sua e di altri cardinali anche il contenuto, si dev’essere sentito usato e strumentalizzato. Come il «ministro dell’Economia» vaticano, cardinale George Pell, che ieri ha dichiarato: «Le firme sono sbagliate ma soprattutto la maggior parte del contenuto della lettera non corrisponde. Non so perché è successo né chi l’abbia fatta uscire così».

È una reazione che obbliga a pensare ad un’operazione assai poco cristiana; e che riporta in primo piano la consistenza di una «Internazionale tradizionalista» contraria al Papa per questioni dottrinali e di potere.
Ma quella parola, Vatileaks, rimanda allo scandalo emerso nella coda finale e convulsa del pontificato di Benedetto XVI. Ricorda i «leaks», le fughe di notizie dal Vaticano, affidate a quintali di documenti filtrati dall’Appartamento, la residenza di Joseph Ratzinger nel Palazzo apostolico, per mano del suo maggiordomo personale, Gabriele: un personaggio che continua ad apparire il maggior responsabile e il principale capro espiatorio di quella vicenda torbida.

Fu in seguito a quelle rivelazioni che per la prima volta dopo sette secoli un Papa si dimise. L’uscita di scena traumatica di Benedetto XVI nel febbraio del 2013; l’elezione dell’argentino Bergoglio; la sua scelta di andare a vivere a Santa Marta, un albergo piuttosto spartano nella «periferia» della Città del Vaticano, invece che tornare nell’«Appartamento maledetto» di Benedetto: sono tutte conseguenze a cascata di quella vicenda, e cesure con un passato che la Chiesa cerca di archiviare, se non di rimuovere. Dire che sta per esplodere un nuovo Vatileaks trasmette invece l’impressione che, Bergoglio o Ratzinger, non cambia nulla.

Esistono ancora i «corvi» che trafugano documenti e li danno in pasto strumentalmente all’opinione pubblica. Esistono le lotte di potere. E permangono maggioranze e minoranze in guerra. È questo il calcolo di chi getta tra i piedi del Sinodo un pretesto di tensione dopo l’altro: trasmettere con «verità» pilotate e inquinate, ma verosimili, l’idea di una realtà immutabile, soprattutto in negativo. Il rischio è accentuato dalla presa intermittente che Francesco sembra dimostrare sui gangli del potere «romano». Nonostante la moltiplicazione di commissioni e riforme, la Curia appare sulla difensiva ma tuttora decisa a resistere ad uno stile di governo considerato allo stesso tempo troppo radicale e inconcludente.

Il fatto che nella cerchia papale si parli di un Vaticano schierato contro Bergoglio, affermazione che è un ossimoro, spiega almeno in parte la confusione e le manovre. Anche perché dentro le Sacre Mura si accredita un Papa ostile al Vaticano: che sarebbe un altro paradosso. «Spero che ci troviamo davanti a una provocazione», confida un amico fidato di Francesco. «Non vorrei che fosse qualcosa di peggio. È il secondo attacco al Papa dall’inizio del Sinodo. Non ne escluderei un terzo o un quarto. Temo una manovra di destabilizzazione dall’esterno». Chi ne sarebbe il regista, e con quale obiettivo finale, non è chiaro neppure a chi la denuncia.

«L’unica cosa che posso dire è che non siamo nella situazione del 2013 prima delle dimissioni di Benedetto XVI. Qui nessuno perde la testa, anche se forse qualcuno lo spera», avverte l’interlocutore vaticano. Eppure, l’accenno a trenta mesi fa, un periodo che rivisto oggi sembra preistoria, dà i brividi. L’accostamento induce a sospettare che qualcuno voglia indurre Bergoglio a gettare la spugna, a tornare nella sua Buenos Aires da perdente o da incompreso: sconfitto dall’eternità non della Chiesa ma dei meccanismi e delle dinamiche vaticane. «Ma non succederà», assicura un esponente latinoamericano.

«Il Sinodo», aggiunge, «finirà bene, nonostante i tentativi di schiacciarlo sulle questioni più controverse. Le minoranze, quella iper conservatrice e quella iper progressista, si riveleranno tali. E la stragrande maggioranza starà con Francesco». Un risultato, però, i critici più oltranzisti lo stanno ottenendo: seminano ombre, e i successi internazionali del pontificato sono tornati in secondo piano. Si conferma la previsione di chi ritiene che, se vuole vincere davvero nel mondo, Bergoglio dovrà affrontare e superare la sfida che gli impone Roma. Oggi i suoi avversari più irriducibili non si annidano tra le folle plaudenti, ma nelle file del suo esercito ecclesiastico: perfino tra le «berrette rosse» che gli battono le mani.
Per questo lo stillicidio continuerà. Ma anche le riforme, perché Francesco non può che andare avanti.

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14 ottobre 2015 | 07:34

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_ottobre_14/ricreare-clima-vatileaks-piano-nemici-papa-9f9169c8-7234-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml

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« Risposta #322 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:00:05 pm »

La conclusione dei lavori
Sinodo, mediazione non scontata
Ma diplomatizzare troppo i contrasti avrebbe proiettato una fotografia di maniera del cattolicesimo mondiale

Di Massimo Franco

Il compromesso che chiude il Sinodo può essere valutato in modo diverso, a seconda dei punti di vista. Come tutte le mediazioni, implica elementi di ambiguità, e comunque chiaroscuri necessari per non esacerbare controversie potenzialmente laceranti. Ma si deve riconoscere a papa Francesco e alla Chiesa cattolica il coraggio di mettersi in discussione; di misurarsi con la modernità a costo di esserne segnati e perfino sfigurati.

Jorge Mario Bergoglio per primo ha accettato una sfida dalla quale poteva riemergere indebolito e non rafforzato. Le resistenze contro le sue aperture, anche caute, sono apparse proporzionali alla percezione del suo pontificato riformista, se non rivoluzionario. È possibile che un Pontefice meno estraneo alle logiche «romane» avrebbe potuto ottenere risultati più incisivi. È certo che sarebbe stato circondato da minori ostilità e riserve mentali.

Ma la sua forza e la sua determinazione sono figlie dell’identità inedita del Pontefice. Lo spettro di una frattura, perfino di un simulacro di scisma, è stato evocato strumentalmente per illustrare i pericoli di un cedimento sulla dottrina.

L’esito spazza via simili scenari. La relazione finale è stata votata dai due terzi e oltre dei 275 partecipanti al Sinodo sulla famiglia. La questione dirimente della Comunione ai divorziati è passata per un solo voto, riflettendo fedelmente opinioni assai lontane tra loro; ma confermando l’immagine di una «Chiesa viva», nelle parole di Francesco.

D’altronde, i fattori esterni che si sono scaricati sulle tre settimane di dibattito l’hanno un po’ condizionato. Ma non sono riusciti a piegarlo e distorcerlo più di tanto, perché la manovra di disturbo è stata così platealmente scoperta da indebolirne i registi, occulti o visibili. I temi più ingombranti sono rimasti gli stessi del febbraio scorso e di un anno fa. E anche gli schieramenti interni alla fine sono stati confermati. In sintesi: cosa può fare la Chiesa per dire qualcosa di nuovo non più alla famiglia ma alle famiglie create dall’epoca contemporanea.

La soluzione «caso per caso» della Comunione ai divorziati rappresenta la concessione massima offerta al fronte progressista, forte in Nord Europa e negli Usa. Ma la maggioranza ha visto confermato dallo stesso Papa l’impianto dottrinale che non voleva minimamente intaccare. Francesco ha notato che in qualche discussione le obiezioni non sono state esposte con troppa benevolenza. La misericordia dalla quale sarebbe pervasa la relazione finale sembra un obiettivo più che la realtà di oggi.

Ma forse è meglio così: diplomatizzare troppo i contrasti avrebbe proiettato una fotografia di maniera del cattolicesimo mondiale. Le sfaccettature, invece, sono il riflesso coerente di quella società poliedrica individuata ed analizzata da Bergoglio da quando era arcivescovo di Buenos Aires: una bussola magari imperfetta e imprecisa, eppure inevitabile per tenere insieme cose molto diverse. L’esito del Sinodo porta a pensare che Francesco continui ad esercitare il proprio carisma con maggiore facilità fuori dalle file ecclesiastiche.

I suoi successi planetari e la sua popolarità non sembrano sufficienti a suscitare gli applausi unanimi degli episcopati. Anzi, a tratti si ha quasi l’impressione che causino malintesi e perplessità tra Papa e nomenklatura religiosa. Il problema, ormai è evidente, non riguarda solo la convivenza tra Bergoglio e la Curia. Tocca il raccordo con una parte di cardinali e vescovi nel mondo. Rimanda agli equilibri del Conclave 2013, e induce a chiedersi se esistano ancora.

Eppure, alla fine il Sinodo si è stretto intorno a Francesco: forse proprio per esorcizzare il «virus della disarmonia», come è stato chiamato. In Vaticano abita e agisce da due anni e sette mesi un Pontefice d’avanguardia, americano argentino, che si rende conto di quanto sia difficile fare avanzare le cose al ritmo che pensava. Francesco può cambiare solo con prudenza, e accetta la lentezza. Altrimenti, sa che potrebbe staccarsi dal suo esercito ecclesiastico, che si ritroverebbe esposto alla tentazione di assecondare un tacito ordine di ritirata verso un passato che da tempo, in realtà, non esiste più.

25 ottobre 2015 (modifica il 25 ottobre 2015 | 07:16)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_25/sinodo-mediazione-non-scontata-f52324aa-7ade-11e5-901f-d0ce9a6b55d1.shtml
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« Risposta #323 inserito:: Novembre 04, 2015, 06:07:46 pm »

Corvi in Vaticano
L’ombra di una nuova Vatileaks
Il duo Vallejo Balda-Chaouqui è la metafora di un cambiamento a tratti ambiguo
Erano già screditati agli occhi di Francesco

Di Massimo Franco

Sono due persone che aveva scelto papa Francesco. E dunque venivano ascritte quasi d’ufficio al nuovo corso di Jorge Mario Bergoglio. Per questo l’arresto di Lucio Angel Vallejo Balda, esponente di peso dell’Opus Dei, e di Francesca Immacolata Chaouqui, giovane donna di pubbliche relazioni per Ernst &Young, ha sorpreso quasi tutti. Dall’esterno è apparso un colpo all’immagine dello stesso Pontefice. Entrambi, infatti, il monsignore e la sua protetta, erano stati membri della Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane, istituita nel luglio del 2013. La presiedeva il maltese Joseph Zara, amministratore delegato del Market Intelligence Services Co Ltd. Ma dentro le Sacre Mura si sapeva da almeno un anno che il loro sodalizio e la loro rete di contatti erano screditati anche agli occhi di Francesco.

Già nel novembre del 2014, un esponente vaticano a conoscenza di molti segreti confidava le perplessità diffuse sul comportamento di monsignor Vallejo Balda e della giovane lobbista. «Hanno avuto accesso a documenti riservati, e c’è il rischio di una Vatileaks economica», si diceva già allora. D’altronde, per mesi avevano avuto pieno accesso a Casa Santa Marta, l’albergo dove il Papa ha scelto di risiedere. Garantivano contatti e informazioni riservate, servendosi di siti e giornali compiacenti. E cercavano di accattivarsene altri offrendosi come mediatori. Sostenevano di potere avere contatti diretti col Papa. E probabilmente, all’inizio qualcosa di vero ci doveva essere: esibivano una sicumera tipica di chi si sente introdotto nel «posto giusto».

Nell’euforia seguita alle dimissioni di Benedetto XVI e all’arrivo del primo latino-americano sul Soglio di Pietro, tutto appariva possibile. Il vento di novità velava le zone grigie, i rapporti tra vecchio e nuovo potere, il trasformismo, e la determinazione delle lobby finanziarie più influenti e segrete a concedere il minimo all’imperativo della trasparenza. Sotto questo aspetto, il duo Vallejo-Chaouqui è la metafora di un cambiamento dai contorni a tratti ambigui; e di una certa difficoltà di Francesco a conoscere esattamente gli intrecci del sottobosco vaticano e riconoscere le persone più affidabili. È una zona grigia estesa e infida, dalla quale il monsignore dell’Opus Dei, che si è affrettata a separare le proprie responsabilità da quelle di Vallejo Balda ora che si trova in una cella della Gendarmeria vaticana, è emerso solo per eccesso di protagonismo o di furbizia.

Evidentemente il modo di fare suo e della sua sodale è stato così irrituale da apparire più che una cifra del nuovo pontificato, un’ostentazione maldestra e forse anche millantata del potere. Colpì molto, sotto questo aspetto, la «festa» data dal duo sulla terrazza della Prefettura degli Affari economici, affacciata su piazza San Pietro, a fine febbraio del 2014. Si canonizzavano Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E, mentre la folla della gente comune si accalcava all’interno del colonnato del Bernini, uno spicchio del cosiddetto «mondo Vip» sorseggiava vino pregiato e mangiava, guardando quell’umanità dall’alto. Un raduno sponsorizzato, all’insaputa dell’allora «ministro dell’Economia», il cardinale Giuseppe Versaldi. Monsignor Balda distribuiva la Comunione agli ospiti tirando fuori le ostie da bicchierini di carta; unendo sacro e profano senza essere attraversato da un solo dubbio.


E la Chaouqui accoglieva gli invitati come una specie di padrona di casa. Su quel balcone c’era la marmellata politico-religiosa della Roma vecchia e nuova, del potere economico del passato e del presente: di nuovo, la metafora involontaria di una rivoluzione inevitabilmente contraddittoria. «È uno schiaffo, uno schiaffo», sembra avesse commentato Francesco quando gli diedero la notizia di quel rito mondanissimo, camuffato da occasione religiosa: rappresentava tutto ciò che aveva cercato di combattere fin dal primo giorno. Il pontefice fece convocare Vallejo Balda, e gli chiese conto di quanto era accaduto. Il seguito è arrivato a cascata. Si parla di ingresso in Vaticano interdetto alla Chaouqui da mesi, ormai. Di un Francesco addolorato ma costretto a prendere tempo, perché gli si faceva presente che i sospettati potevano far filtrare i documenti della commissione della quale erano membri.

Sullo sfondo stagnava il timore che l’eventuale espulsione della Chaouqui dalla cerchia papale potesse essere considerata solo come la vendetta di un ambiente misogino; e la convinzione che Vallejo Balda dovesse essere smascherato con prove inoppugnabili. Ma il dubbio è che la svolta sia arrivata troppo tardi. Il tentativo di fermare altre «rivelazioni» che promettono di deturpare non solo l’immagine ma l’identità della «nuova Chiesa» di Bergoglio, semina perplessità. E alla fine si torna al punto di partenza: la selezione del gruppo dirigente in Vaticano, l’opacità delle questioni economiche, e la guerra mai finita per assumerne il controllo. Per questo non ci sarebbe da meravigliarsi se alla fine l’arresto di Vallejo Balda avesse riflessi anche sulla gestione delle finanze della Santa Sede; e acuisse le ostilità tra il «ministro dell’Economia» George Pell.

All’inizio, sembra che lui e Vallejo Balda fossero tacciati di avere la «sindrome del giustiziere»: agivano in accordo per spazzare via tutto ciò che non rientrava nelle loro logiche. Poi la loro alleanza si è spezzata, probabilmente per ambizioni divergenti e, nel caso del prelato dell’Opus Dei, frustrate. Così, Vallejo Balda avrebbe cominciato a consumare le sue vendette, facendo trapelare notizie contro Pell, inviso a quasi tutto il Vaticano per i metodi sbrigativi. Le indicazioni inviate qualche giorno fa dal Papa per ricordare che in attesa della riforma della Curia valgono ancora le regole di prima, e che ad amministrarle è il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, suona come la conferma del ridimensionamento di Pell: tra l’altro, uno degli ispiratori della lettera con la quale i conservatori hanno accreditato un esito del Sinodo precostituito da Bergoglio: un’accusa intollerabile.

Ma i due accusati sono pedine di un gioco più grande e più sporco: un altro tentativo spettacolare di destabilizzare un papato, sfruttando gli errori commessi in nome del rinnovamento, per disdirlo completamente. Una manovra torbida.

3 novembre 2015 (modifica il 3 novembre 2015 | 14:43)
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« Risposta #324 inserito:: Novembre 07, 2015, 09:48:42 pm »

Sul duo Balda-Chaouqui
Balda-Chaouqui corvi in Vaticano Quell’indagine preventiva (ignorata) sul «signorotto» e la «signorina»
I canali istituzionali vaticani avevano espresso riserve fin dal 2013 sulle candidature del monsignore e della p.r.
Ma le obiezioni furono sottovalutate

Di Massimo Franco

I dubbi erano emersi fin dall’inizio: prima ancora che monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Maria Immacolata Chaouqui fossero inseriti nella Commissione istituita da Papa Francesco il 18 luglio 2013 per rivedere tutta la struttura economico-finanziaria della Santa Sede. Attraverso i canali istituzionali di sempre, il governo vaticano aveva svolto ricerche riservate per raccogliere informazioni sui candidati. E alcune avrebbero dovuto sconsigliare la cooptazione delle due persone che alla fine sono state arrestate con l’accusa di avere rubato e passato a due giornalisti documenti «sensibili». Fu contattato anche monsignor Alfred Xuereb, segretario di Francesco, delegato a riferire sull’attività sia della Commissione sullo Ior che sull’altra. Passare al setaccio le controindicazioni delle quali si era venuti a conoscenza non bastò a cambiare il corso delle cose.

Sembra che Xuereb ritenne che le preoccupazioni fossero eccessive: nel senso che la Commissione era sicura delle candidature e dunque intenzionata a procedere rapidamente. Erano passati poco più di quattro mesi dal Conclave che aveva eletto Jorge Mario Bergoglio al posto del dimissionario Benedetto XVI. Francesco si era trasferito a Casa Santa Marta da tempo. E il discredito che circondava l’allora «primo ministro» della Santa Sede, Tarcisio Bertone, era così profondo e diffuso che qualunque informazione riferibile agli ambienti ufficiali veniva accolta con sospetto e diffidenza. La linea della riforma avanzava in modo radicale e rapido. E uno dei capisaldi consisteva nel ridimensionamento del ruolo della Segreteria di Stato: una sorta di «vicepapato» negli anni di Ratzinger, per di più guidato da un Tarcisio Bertone pasticcione e chiacchierato: tanto che prima, durante e dopo il Conclave l’unico punto sul quale si registrava una sorta di unanimità dei cardinali era di impedire che il successore potesse fare danni come quelli seminati da lui.

Ma alcuni mesi dopo, in ottobre, fu nominato l’allora nunzio in Venezuela, Pietro Parolin: un diplomatico fine e esperto, «esiliato» proprio dalla cerchia bertoniana. A quel punto, tuttavia, la «Pontificia Commissione referente di studio e di indirizzo», come era stata chiamata nel documento autografo del Papa, aveva già cominciato a lavorare. E il duo Vallejo Balda-Chaouqui si muoveva con disinvoltura crescente in un Vaticano in piena effervescenza rivoluzionaria. Casa Santa Marta era una sorta di serbatoio di informazioni e visibilità da spendere e sfruttare all’esterno delle Sacre Mura. E l’accesso a notizie riservate poteva diventare un patrimonio da far valere come merce di scambio. Ma presto, quell’attivismo dei due commissari cominciò a dare nell’occhio. C’era qualcosa di esagerato, di inusuale nella girandola di contatti e di conoscenze che ostentavano. E soprattutto, si cominciò a intravedere il pericolo che le carte della Commissione potessero cadere nelle mani sbagliate. Francesco fu informato. Gli furono offerti i primi indizi. Ma cercò di evitare provvedimenti troppo duri.

Consigliò invece di arginare e neutralizzare il più possibile Vallejo Balda e la Chaouqui, proveniente dalla società di consulenza Ernst & Young. Passò qualche mese, e la giovane commissaria fu richiamata all’ordine dai vertici della Gendarmeria vaticana. E si cominciò a parlare del monsignore spagnolo e di lei con due nomi in codice: il «signorotto» e la «signorina». Quando a metà ottobre i sospetti sono diventati più corposi, e si è capito che c’erano documenti della Commissione trafugati e che era stato violato il computer di Libero Milone, dal giugno scorso revisore generale delle finanze vaticane, il cerchio si è stretto. Ma con le ultime, residue cautele. Per qualche giorno, è stata discussa l’opportunità o meno di procedere agli arresti.

L’ipotesi iniziale era di limitarsi a licenziare Vallejo Balda, per non fare troppo rumore e non riproporre le polemiche sulle celle vaticane non a misura d’uomo: una critica emersa ai tempi di Vatileaks dopo l’arresto del cameriere personale di Benedetto XVI, Paolo Gabriele. In più, qualcuno aveva fatto notare che proprio alla vigilia del Giubileo della misericordia, un provvedimento del genere poteva risultare stonato. Non bastasse, si sapeva che stavano uscendo dei libri coi documenti sottratti. Ci si è resi conto però, che i reati apparivano troppo gravi. Non si poteva non dare un segnale forte all’esterno. E soprattutto, dopo l’arresto del maggiordomo laico di Ratzinger, si temeva l’accusa di usare un doppio standard tra dipendenti non religiosi ed ecclesiastici: i primi imprigionati, gli altri mandati a casa. Il Papa è stato informato e, a malincuore, ha detto di procedere.

Così è scattata la richiesta di arresto per Vallejo Balda e Chaouqui. L’episodio dell’indagine preventiva ignorata riaffiora, adesso, come un altro presagio di pericolo. Sembra voler trasmettere indirettamente un messaggio in bottiglia: i filtri attraverso i quali selezionare chi è chiamato a collaborare con Francesco servono. E le filiere tradizionali, per quanto bistrattate e scavalcate, in fondo funzionano: nonostante la «cura Bertone». Mentre la rievocazione di quell’allarme sottovalutato tende ad accreditare che nella «corte parallela» creatasi intorno a Francesco sono visibili smagliature destinate a strapparsi; e a proiettare l’immagine distorta di un Vaticano in balìa degli eventi. Anche se il vero obiettivo delle indiscrezioni che filtrano non sembra tanto la cerchia papale, ma il cardinale australiano George Pell, «ministro dell’Economia». Oggi viene additato come emblema, e come il più naturale capro espiatorio, della confusione che regna nel governo della Chiesa.

7 novembre 2015 | 07:59
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_novembre_07/vatileaks-obiezioni-inascoltate-balda-maria-chaouqui-83cf46d4-851b-11e5-8384-eb7cd0191544.shtml
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« Risposta #325 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:11:26 pm »

VATICANO
Giubileo, la sfida di Bergoglio all’eurocentrismo della Chiesa
L’Anno Santo aperto in Africa il 29 novembre rappresenta una svolta nel cammino del rinnovamento avviato da Papa Francesco

Di Massimo Franco

Dunque il Giubileo non si apre l’8 dicembre a Roma, capitale dell’Italia cattolica europea. Francesco l’ha inaugurato domenica 29 novembre alle 17,14, ora italiana, in Africa, in una qualunque capitale del Terzo Mondo sudista. Si può pensare che sia stato un gesto con il quale il Papa ha allentato la tensione su una Roma minacciata dal terrorismo dell’Isis. Sotto questo aspetto, è una scelta di grande responsabilità. Ma non si può ignorare il simbolismo schiacciante dell’Anno della misericordia offerto alla Repubblica Centroafricana, periferia delle periferie più povere del mondo. Oggettivamente, la coincidenza non può non essere percepita anche come un segno della fine della centralità di Roma: la conferma che il cuore pulsante del cattolicesimo si è frazionato e moltiplicato.

Nell’ottica missionaria del pontefice latinoamericano non va esagerato il fatto che il governo della Chiesa debba identificarsi con Roma. Un dettaglio indicativo: nel suo discorso di chiusura in Kenya, Francesco ha citato il Vaticano solo per dire che esiste la corruzione anche lì, come nel Paese che stava visitando. È una sintesi efficace del rapporto del Papa con il «suo» Stato. Si potrebbe anche sottolineare che probabilmente non avrebbe inaugurato il Giubileo in un Paese europeo e più in generale occidentale. Certamente la visita in Africa offre argomenti a chi ritiene che la sua sia una Chiesa che cammina «a testa in giù»: guidata dalla potenza, dai numeri, dalla realtà sociale del Sud del mondo.

Per questo, sebbene indetto a Roma e celebrato con l’apertura tradizionale delle Porte sante delle basiliche romane, sarà il primo Giubileo di un pontefice eletto per archiviare l’eurocentrismo e l’italo-centrismo della Chiesa; per decentralizzarla; per romperne le incrostazioni e le tradizioni più radicate e, nell’ottica della maggioranza del Conclave del 2013, fossilizzate. Le parole, i gesti, le cerimonie andranno misurate e decifrate su questo sfondo globale. Sapendo che le folle di pellegrini alle quali Francesco parlerà saranno sì, quelle presenti; ma che a capire d’istinto il suo linguaggio sono quelle più lontane, disseminate nell’emisfero australe del mondo. Perché mai come oggi l’«impero» vaticano ha un imperatore riluttante a definirsi tale, se non rispetto all’universo ecclesiastico che gli resiste e col quale mostra a volte una determinazione e una scaltrezza gesuitiche. E mai come oggi la realtà va filtrata attraverso i riflessi del poliedro, la figura geometrica dai contorni ineguali che Francesco ha eletto a paradigma della Chiesa e della società globali da quando era arcivescovo di Buenos Aires. Senza tenere conto di queste novità sarà difficile «leggere» un Giubileo che già nella parola, misericordia, la comprensione per l’infelicità altrui, non è di immediata comprensione.

È uno sfondo che evoca un appuntamento punteggiato dalle incognite. La prima è organizzativa e dunque oggettiva. Nell’aprile scorso, Francesco ha deciso senza consultare nessuno, nemmeno le autorità italiane e cittadine sulle quali pure ricadrà gran parte del peso del pellegrinaggio, di indire l’Anno santo a partire da dicembre del 2015; dunque, a soli sette mesi dall’inizio. È vero, ha aggiunto che si sarebbe trattato di un Giubileo in qualche modo minimalista, «povero». Ma in una città degradata nelle infrastrutture, dotata di trasporti pubblici approssimativi, e per di più minata da mesi di crisi politica e di inchieste giudiziarie, l’annuncio non ha sollevato entusiasmi, al di là di quelli ufficiali. Il risultato è che Roma si presenta impreparata.

Ma la seconda incognita è diventata più incombente e inquietante, dal 13 novembre scorso. Le stragi di Parigi compiute dall’Isis, l’organizzazione eversiva sunnita che si definisce Stato islamico, allungano un’ombra di precarietà e di pericolo anche sul Giubileo; e in prima battuta su Roma. Sempre, con le grandi manifestazioni di massa, si prendono precauzioni particolari. E la capitale d’Italia solitamente ha mostrato capacità organizzative e di prevenzione invidiate da altre nazioni. Stavolta sono state prese misure ancora più efficaci, nelle intenzioni. Nessuno, tuttavia, ignora che il Giubileo comincerà tra le ombre pesanti di un’eversione con un’eco anche religiosa. I servizi di sicurezza sono in vera allerta: temono attentati in Italia. E il modo coraggioso col quale Francesco sfida il terrorismo, rifiutando auto blindate e giubbotti protettivi, lo propone come capofila di chi rifiuta di farsi spaventare e imprigionare dalla paura; e vuole continuare a comunicare i suoi messaggi senza restrizioni e condizionamenti.

La domanda, però, è che cosa accadrebbe se il Giubileo fosse insanguinato; quali giochi recriminatori e strumentali si aprirebbero, per cercare un capro espiatorio. Le polemiche che i partiti populisti hanno già inaugurato contro un papato inclusivo e ostentatamente ecumenico sono pronte a radicalizzarsi e ad incattivirsi. In più, il terrorismo sta dando un alibi alla xenofobia che si scarica sui profughi dalla Siria, dall’Africa, da tutto l’«arco islamico» che va da Pakistan al Maghreb algerino. Per questo, la marcia misericordiosa di Francesco dovrà fare i conti con un Occidente incupito e dunque ostile alle sue parole di pace. Il paradosso di un Papa argentino che grida contro la costruzione di nuovi muri, mentre spuntano ogni giorno barriere di filo spinato e di cemento in mezza Europa, è stridente. La Roma «città aperta» alla religione e al dialogo che Francesco propone è contraddetta dalle timidezze di un episcopato disorientato; e tentato di osservare le mosse papali, più che di sostenerle. Non si può sottovalutare lo iato tra un pontefice profetico, acclamato dalle folle, e una Roma vaticana che continua a produrre scandali senza sosta; e coinvolgendo perfino alcune delle persone scelte da Bergoglio. Verrebbe voglia di dire che la misericordia, in qualche caso, andrebbe offerta soprattutto ad alcuni personaggi ospitati dentro le Sacre Mura. Il mea culpa non può che cominciare da loro.

8 dicembre 2015 (modifica il 8 dicembre 2015 | 09:25)
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Da - http://roma.corriere.it/giubileo-2015/notizie/giubileo-sfida-bergoglio-all-eurocentrismo-chiesa-6977b052-9ced-11e5-9189-eea9343a1b14.shtml
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« Risposta #326 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:06:02 pm »

La maggioranza e il caso Boschi
Le scelte necessarie

Di Massimo Franco

I toni sono stati quelli giusti. Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme istituzionali, sapeva di dover affrontare forse l’appuntamento più difficile della sua breve ma intensa carriera politica. E lo ha fatto senza nascondersi davanti all’Aula della Camera. Il «no» alla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, per quanto scontato, le dà formalmente ragione. E la spaccatura del centrodestra, con Lega e Forza Italia divise sul governo di Matteo Renzi, contribuisce ad accreditare la tesi del premier che parla di «mozione-boomerang» del Movimento 5 Stelle. Ma sarebbe ingenuo ritenere che con il voto di ieri la vicenda delle quattro banche salvate dal governo sia archiviata.

Politicamente, il caso rimane apertissimo. E il pasticcio dei soldi dei risparmiatori, bruciati da Banca Etruria dove lavorava il padre del ministro, rimane nebuloso. Su questo punto, nemmeno la Boschi ha potuto offrire le rassicurazioni che l’opinione pubblica si aspetta. È evidente che gli attacchi contro di lei contengono elementi di strumentalità.

Il modo in cui Palazzo Chigi ha reagito, tuttavia, ripropone la difficoltà di un gruppo dirigente giovane, abituato a una narrativa di successi, veri e presunti, ad affrontare l’impopolarità. Quando la realtà tende ad assimilare la nuova «nomenklatura» alla precedente, avviene una sorta di cortocircuito psicologico.

Scatta la difesa a riccio, mentre in questo caso la vicenda è intricata e scivolosa. C’è di mezzo un pensionato suicida dopo avere perso i risparmi. E si staglia un’opposizione decisa a sfruttare ogni occasione per coprire la propria inadeguatezza, scaricando sul governo anche colpe non sue. Lo scambio polemico e aspro tra Palazzo Chigi e la Commissione europea sulle responsabilità del provvedimento infittisce le domande: sembra un tentativo di scaricabarile reciproco. Lo scontro proietta una luce opaca sulle scelte di Roma e Bruxelles; e conferma la fragilità dell’Italia.

Per Renzi, la consolazione è che le opposizioni si confermano divise e impotenti. Nei confronti della Boschi, Forza Italia ha mostrato le solite crepe interne tra l’ala filo e quella anti governativa. Ma soprattutto, si è incrinato il rapporto con la Lega a pochi mesi dalle Amministrative di primavera. Matteo Salvini minaccia una rottura se a gennaio, quando sarà votata una mozione contro l’intero governo, Silvio Berlusconi non si accoderà al Carroccio. Insomma, anche ieri si è visto che la «compattezza» del centrodestra è, in realtà, posticcia.


I fili che collegano il Pd renziano e FI sopravvivono almeno in alcune sacche del berlusconismo. Il patto del Nazareno è disdetto, eppure funziona a intermittenza come un residuo che il premier può utilizzare per garantirsi la maggioranza parlamentare: al di là del soccorso di Denis Verdini. Si tratta di una garanzia numerica, però, non di una strategia vincente. Per quest’ultima, Palazzo Chigi dovrà rispondere con rapidità e nettezza sul salvataggio delle quattro banche. Altrimenti lavorerà senza volerlo per il M5S, che pure ieri ha perso la battaglia in Aula. Il voto con il Pd per eleggere i tre giudici costituzionali è un motivo di imbarazzo nel movimento.

Eppure, Grillo continua a ergersi a custode della purezza antisistema: una demagogia che rischia di essere facilitata da errori e imbarazzi del governo.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 07:32)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_19/scelte-necessarie-5e543f3c-a617-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml
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« Risposta #327 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:08:56 pm »

L’appello del Colle
Il messaggio di Mattarella: i cittadini e la sfida dei valori
Il presidente ha indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare

Di Massimo Franco

Sostenere che il presidente della Repubblica ha fatto un discorso poco politico, significherebbe ridurre la politica alla sua dimensione parlamentare e istituzionale. L’impressione è che nel suo saluto televisivo di fine anno agli italiani, Sergio Mattarella abbia piuttosto indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare.

Lavoro, tasse, corruzione, immigrazione e terrorismo sono le priorità sulle quali non solo un governo ma una nazione puntellano la propria legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica; e la propria credibilità sul piano internazionale. Il capo dello Stato le ha affrontate con la semplicità e l’equilibrio che i più gli riconoscono, rinunciando a mettersi dietro alla scrivania presidenziale che forse intimidisce anche lui; e con qualche impaccio in meno rispetto a quello che gli viene di solito attribuito.

Di riforme costituzionali ha parlato di sfuggita, e anche sul governo non si è soffermato. Eppure ha dato atto implicitamente a quanti, nelle istituzioni, hanno avuto il merito di arginare una china pericolosa, contribuendo «a tenere in piedi l’economia italiana»; e offrendo qualche timido elemento di fiducia sul futuro. Può darsi che a qualcuno sia parso un approccio «extraparlamentare». Se tale è sembrato, non lo è tuttavia nel senso polemico e antisistema che si dà a questo aggettivo.

Mattarella sente acutamente l’esigenza di ricalibrare in primo luogo i confini culturali con i quali l’Italia sarà costretta a misurarsi e sarà misurata nei prossimi anni. E sa che la stessa democrazia può ritrovare spinta solo se riesce a intercettare malumori e inquietudini espressi fuori e spesso contro la nomenklatura dei partiti e i suoi eletti. Quando parla di tasse eccessive e insieme ammonisce a pagarle per consentire che si abbassino, sfida la cultura dominante dell’evasione fiscale.

Allo stesso modo, quando addita corruttori e corrotti, e li contrappone non solo a un’opinione pubblica che esige onestà ma anche ai valori della Costituzione, accredita una saldatura virtuosa tra Stato e popolo. Non sono accostamenti né facili né scontati. Raccontare l’immigrazione, come ha fatto l’altra sera Mattarella, senza concedere nulla ad una narrativa imbottita di luoghi comuni e larvatamente razzista, significa accettare una sfida tutt’altro che popolare.

Raffigurare lo straniero che vive e lavora in Italia «in larghissima parte» rispettoso e onesto, «versando alle casse dello Stato più di quanto non ne riceva», equivale a riaffermare una verità che molti non vogliono vedere; così come, obnubilati dalla paura, si tende a non accettare l’idea che l’immigrazione «durerà a lungo». Sono semi di una cultura democratica che non tutta l’Italia è disposta a ingoiare. Eppure, l’alternativa al governo dei fenomeni migratori è quella di subirli, illudendosi di esorcizzarli con riflessi xenofobi.

Mattarella non ha velato le divergenze di opinione, né le ha diplomatizzate. Ma ha detto quale Paese cercherà di rappresentare e promuovere nei suoi sette anni al Quirinale: insistendo anche, attraverso la citazione di alcune donne-simbolo, sul ruolo crescente che naturalmente dovranno assumere. Vuole ricreare quella che, declinando laicamente la «misericordia» papale, il capo dello Stato definisce convivenza civile.

Sono un sostantivo e un aggettivo poco frequentati, ultimamente. L’impatto dell’eversione di matrice fondamentalista rappresenta un’ipoteca seria su ogni risposta ragionevole e coraggiosa. Ricordare la necessità di non farsi ricattare da chi scommette tutto sul panico aiuta a capire che cosa significa essere cittadini di un’Italia e di un’Europa insidiate e spaventate dall’incertezza.

2 gennaio 2016 (modifica il 2 gennaio 2016 | 08:19)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_02/messaggio-mattarella-cittadini-sfida-valori-bd445410-b115-11e5-b083-4e1e773a98ad.shtml
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« Risposta #328 inserito:: Gennaio 22, 2016, 08:54:08 pm »

l’Italia e l’unione europea
Le ostilità da superare
I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia «è tornata». «Il suo protagonismo impaurisce» l’Europa: non come «è accaduto spesso in passato». C’è da sperare che abbia ragione

Di Massimo Franco

I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia «è tornata». «Il suo protagonismo impaurisce» l’Europa: non come «è accaduto spesso in passato». C’è da sperare che abbia ragione. Per il momento, purtroppo, il presidente del Consiglio è circondato dal silenzio apparentemente ostile degli altri Stati europei.

A rispondergli con toni quasi sprezzanti è solo la Commissione Ue di Jean-Claude Juncker. E Manfred Weber, capogruppo del Ppe e di fatto portavoce continentale della cancelliera tedesca Angela Merkel, bolla in modo discutibile Renzi come una sorta di alleato oggettivo dei populisti.

Il premier non sembra spaventato all’idea di collezionare tanta avversità. Eppure, il sospetto è che i suoi nemici europei comincino a essere un po’ troppi; e che l’irritazione fredda verso il suo governo nasconda lo scarto tra la convinzione renziana di dover far pesare le riforme approvate, e la determinazione altrui a ridimensionarne ambizioni e pretese.

Tanto che lo scontro inedito degli ultimi giorni sull’asse Roma-Bruxelles-Berlino, ma forse anche lungo altre direttrici rimaste coperte, potrebbe nascondere una decisione accarezzata silenziosamente: quella di isolare l’Italia e frustrare le sue richieste d’aiuto.

Un gesto ha sconcertato: la rapidità con la quale il «ministro degli Esteri» dell’Ue, l’italiana e renziana Federica Mogherini, ha scelto di schierarsi con Juncker rispetto a Renzi. La mossa promette di indebolire insieme lei e Palazzo Chigi, offrendo l’immagine di una nazione incapace di unità a livello internazionale perfino quando si milita nello stesso partito. Renzi ricorda di avere archiviato un passato mediocre, sebbene sappia quanto alcuni dei suoi predecessori abbiano rappresentato degnamente gli interessi dell’Italia.

Eppure, il suo scontro con Bruxelles e il gelo con la Mogherini trasmettono una fastidiosa eco della stagione finale della Seconda Repubblica. L’insistenza sul nuovo «protagonismo» italiano, come viene definito, sembra non tenere conto della debolezza del nostro Paese sul piano dei conti pubblici e dei numeri di una ripresa economica un po’ anemica. Ma soprattutto, sottovaluta un panorama continentale percorso da tensioni nazionaliste crescenti: sia per le percentuali della disoccupazione, sia per l’impatto di un’immigrazione epocale dal Medio Oriente e dall’Africa.

Inasprire una polemica con l’Europa su questo sfondo rischia non solo di armare chi imputa strumentalmente a Renzi di favorire i partiti populisti, in Italia e altrove. Promette di inserirlo in maniera arbitraria in una filiera euroscettica dalla quale invece il governo si è sempre e meritoriamente tenuto a distanza. Deflettere da una strategia moderata ed europea nel senso migliore del termine regalerebbe argomenti e pretesti alla Lega Nord e al Movimento 5 Stelle, suoi acerrimi avversari in Italia. E, all’estero, disperderebbe una piccola ma preziosa rendita di credibilità nelle istituzioni e sui mercati finanziari.

La sensazione è che, senza volerlo, o magari con un occhio ai consensi sul piano interno, Renzi stia sfiorando una trappola pericolosa: un imbuto di ritorsioni polemiche con l’Ue, destinate a minare un’impalcatura europea già traballante; ma anche a ridisegnare in peggio il ruolo e il peso italiani nel Vecchio Continente. Il problema posto da Palazzo Chigi sugli aiuti europei alla Turchia come argine contro l’assedio dei profughi, non è affatto campato in aria. Renzi ha ricordato a ragione le ambiguità di Ankara sul terrorismo del sedicente Stato Islamico.

Il fatto che il suo «no» sia stato usato per metterlo nell’angolo, però, tradisce un’insofferenza europea che non può sottovalutare. Non può, perché è destinata a scaricarsi sul governo; e ad attribuirgli responsabilità e colpe che non corrispondono alla realtà. D’altronde, quando anche ieri Juncker se la prende con gli esecutivi che criticano l’Europa invece di «guardarsi allo specchio», non parla solo a Roma: in realtà si rivolge alle ventotto nazioni che stanno perdendo il senso d’appartenenza all’Ue. Insomma, si tratta di un problema politico, non tecnico. È quello che pensa lo stesso Renzi.

Forse si spiega così la scelta «forte» e controversa di sostituire in corsa l’ambasciatore italiano all’Ue, mandando a Bruxelles il viceministro Carlo Calenda: un politico, non un diplomatico. È una mossa dirompente. Si capirà presto se riflette la reazione di un premier che vuole riprendere il controllo della situazione, o un nuovo fronte che gli porterà altri nemici.

20 gennaio 2016 (modifica il 20 gennaio 2016 | 12:21)
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_20/ostilita-superare-ue-italia-toni-alti-63b49920-bf3c-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml
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« Risposta #329 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:32:22 pm »

Retroscena il Vaticano
Il Papa e il richiamo sulle unioni civili Parole nette ma caute: Francesco non vuole un muro contro muro
Costringere l’idea della famiglia in schemi troppo integralisti contraddirebbe i suoi stessi insegnamenti

Di Massimo Franco

Non è strano che il Papa abbia invitato a non fare confusione tra «la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Semmai, è singolare la sorpresa con la quale sono state accolte le parole dette ieri da Francesco durante l’incontro con il Tribunale della Sacra Rota. A una settimana dalla manifestazione del Family Day, il suo intervento è stato considerato a favore degli organizzatori. Eppure non poteva essere che così. In Vaticano la legge che sta prendendo corpo in Parlamento e sarà discussa in Senato a partire dal 28 gennaio è vista come una forzatura. Una misura contro la quale non alzare barricate né lanciare anatemi, perché i vertici dell’episcopato hanno accettato mentalmente le unioni civili tra omosessuali.

Il contorno del provvedimento, però, soprattutto per i margini di ambiguità che lascia in materia di adozione dei bambini, è visto come frutto di un’operazione ideologica. E, per quanto la Chiesa, intesa come ecclesiastici, abbia cercato di evitare che una manifestazione di piazza potesse assumere il carattere dello scontro, alla fine ha dovuto «seguire». È come se la base cattolica avesse interpretato la riforma voluta dal governo, e definita ieri «irrinviabile» da Matteo Renzi, come una sorta di provocazione para referendaria. Ed ha risposto con una scelta di piazza che prefigura due campi contrapposti. L’avversario non è tanto quello della mobilitazione in cento piazze che organizzano per oggi Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit. La controparte è il Parlamento, dove il premier vuole far approvare un emendamento che faccia decadere subito tutti quelli contro la legge «firmata» da Monica Cirinnà.

L’adesione al Family Day di una conferenza episcopale regionale dopo l’altra racconta come le gerarchie cattoliche siano state trainate a assecondare l’iniziativa. E come il Papa abbia voluto offrire un imprimatur discreto ma convinto a una folla della quale conosce le intenzioni e le pulsioni: anche a costo di ascoltare parole d’ordine difensive, dure, e che non riflettono la sua pedagogia inclusiva e la sua idea della Chiesa. Proprio ieri, salutando in un messaggio i partecipanti alla Cinquantesima giornata mondiale della comunicazione, Francesco ha invitato a esprimersi con generosità «anche nei riguardi di chi pensa o agisce diversamente».

Si tratta di un accenno che rimanda alle parole dette in tema di famiglia verso «quanti per libera scelta o per infelici circostanze della vita vivono in uno stato oggettivo di errore». Le parole sono nette e insieme problematiche. Lasciano capire perché il Papa non voglia e non possa tenere la

Chiesa a distanza dal Family Day; e, al tempo stesso, perché preferisca che sia il laicato cattolico a guidare la manifestazione. Pesano il passato delle battaglie referendarie perdute su divorzio e aborto; il presente di una situazione politica avvelenata, nella quale Papa e vescovi rischiano seriamente di essere strumentalizzati; e una concezione della famiglia e dei valori cattolici, che il pontefice argentino forse vorrebbe meno «all’italiana».

Gli stendardi delle delegazioni di regioni come Lombardia e Veneto, che hanno annunciato la presenza al Family Day, saranno guidate da esponenti della Lega Nord: rispettivamente Roberto Maroni e Luca Zaia. La destra di Giorgia Meloni sostiene che le parole di Francesco dovrebbero essere «di monito al Parlamento». E il sindaco di Bologna Virginio Merola, del Pd, tradisce una punta di freddezza verso l’arcivescovo della città, monsignor Matteo Zuppi, scelto da Bergoglio, il quale ha detto, all’unisono col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che la legge sulle unioni civili non è una priorità. Insomma, il tentativo delle opposizioni a Renzi di usare il Family Day per attaccare Palazzo Chigi è evidente.

Altrettanto chiaro è che al Vaticano di Francesco un’operazione strumentale di questo tipo non piace. Per due motivi. Il primo è che l’attuale Papa, forse più ancora dei predecessori, non nasconde il fastidio per le ingerenze ecclesiastiche nella politica. Ritiene che una delle ragioni per le quali la Chiesa in Italia avrebbe perso credibilità è stata un’eccessiva contiguità col potere. Ma la seconda ragione, la più importante dal punto di vista culturale, è che costringere l’immagine della famiglia dentro schemi troppo integralisti contraddice gli insegnamenti e gli obiettivi del pontefice latinoamericano. Un «no» troppo gridato, da muro contro muro, a quanti il Papa definisce «in uno stato oggettivo di errore», può aprire la strada a altri rifiuti, più pericolosi.

La famiglia-fortezza prometterebbe di trasformarsi nel baluardo della difesa dei valori cristiani anche contro gli immigrati; e dunque di contribuire ad una lettura «autarchica», blindata e potenzialmente xenofoba del cattolicesimo. È questa la seconda fase che un Family Day declinato in modo integralista potrebbe aprire. Il Papa dei «ponti», il nemico giurato dei muri e delle barriere, si ritroverebbe a dover governare un mondo cattolico italiano e europeo che dalla protezione della «famiglia cristiana» scivola verso quella dell’«immigrazione cristiana» e anti islamica. E pazienza se in una deriva del genere pesano soprattutto gli errori e le forzature del governo e dei suoi avversari. Il risultato sarebbe comunque quello di una regressione.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:42)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/papa-richiamo-unioni-civili-parole-nette-ma-caute-francesco-non-vuole-muro-contro-muro-cd8f8906-c1a1-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
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