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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 194319 volte)
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« Risposta #285 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:03:21 am »


Fine di un muro?
Alleanze variabili alla prova
Il «sì» al giudice costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del M5S, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un elemento di riflessione (e tensione) nella maggioranza

Di Massimo Franco

Dietro il voto del Parlamento sui giudici costituzionali si intravede, in filigrana, quello per l’elezione del presidente della Repubblica. L’ipotesi che Giorgio Napolitano possa ritenere conclusa la sua missione di qui a gennaio sta assumendo i contorni di una previsione, seppure da verificare. E pone con forza e preoccupazione il tema di quanto potrà accadere di fronte al vuoto che lascerebbe. Il «sì» di ieri al giudice costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del Movimento 5 Stelle, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un primo elemento di riflessione; e di tensione nella maggioranza. Il «no» a quello di Forza Italia è il secondo, anche perché rimanda a contrasti tutti interni al centrodestra.

La somma dei due episodi riconsegna un patto del Nazareno asimmetrico. Forse è azzardato sostenere che il coinvolgimento del movimento di Beppe Grillo nelle votazioni per la Consulta sia la prima pietra di un «secondo forno» che il premier può utilizzare per raggiungere i suoi obiettivi. Per quanto vada accolto come un segnale positivo, non cancella l’imprevedibilità di una formazione che segue le dinamiche imperscrutabili della Rete e del suo leader. Certamente, si tratta di un risultato che rafforza Renzi nella trattativa con un Silvio Berlusconi più subalterno di lui alla logica dell’accordo sulle riforme istituzionali. Il «forno» di Forza Italia appare inutilizzabile innanzi tutto per il suo proprietario. L’ esito disastroso della votazione per Stefania Bariatti alla Consulta conferma infatti che l’ex premier non è più in grado di garantire l’appoggio di tutti i suoi parlamentari. La falcidia dei candidati del centrodestra riflette e dilata la crisi della leadership berlusconiana. Al contrario, il Pd attraversa le barriere della maggioranza di governo e di quella istituzionale con una disinvoltura e una facilità da perno del sistema. Può rivendicare di avere fatto uscire il Movimento 5 Stelle dall’isolamento. E prefigura anche per il Quirinale un gioco a tutto campo che potrebbe superare lo schema di un capo dello Stato concordato tra Renzi e Berlusconi: quello che, almeno finora, appariva il più accreditato.

Quanto è accaduto ieri rimescola gli equilibri parlamentari; o comunque minaccia di sparigliarli se il centrodestra rifiutasse le mediazioni offerte o pretese da Palazzo Chigi. Una sinistra in ascesa e in via di mutazione può scegliere. Può perfino cercare di eleggere il presidente della Repubblica dopo un eventuale voto anticipato e un pieno dei consensi: sebbene sia difficile che la manovra riesca finché c’è Napolitano. Berlusconi, invece, vede i margini di manovra assottigliarsi di giorno in giorno. Si rende conto che in questo Parlamento ha ancora percentuali rispettabili e peso politico. Ma dopo le elezioni può ritrovarsi condannato alla marginalità.
Per questo è disposto ad accedere alle richieste di Renzi, e intanto cerca di limarle, arginando la pressione incalzante del premier. Teme che le urne lo puniscano e lo umilino al punto da consegnarlo mani e piedi alla strategia di Palazzo Chigi. La riforma elettorale è una delle poche polizze di assicurazione per la sua sopravvivenza politica. Si capirà presto se i fatti delle ultime ore siano tatticismi per ricontrattare il patto tra Pd e Fi su basi renziane o se marchino l’inizio di una fase nuova.

Usare più forni in contemporanea richiede grande abilità, e Renzi ne ha. Ma a volte implica il rischio di ritrovarsi con un pugno di cenere.

7 novembre 2014 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_07/alleanze-variabili-prova-2f6e26e8-664d-11e4-a5a4-2fa60354234f.shtml
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« Risposta #286 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:06:35 am »

La Nota
Il rischio dell’isolamento dopo il monito di Bruxelles

Di Massimo Franco

L a durezza del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, nei confronti del premier Matteo Renzi, sorprende e preoccupa. Stupisce perché emerge alcuni giorni dopo gli ultimi attacchi del capo del governo ai «burocrati di Bruxelles». E allarma perché si registra ad appena quarantotto ore dall’insediamento di Juncker e si rivolge al presidente del Consiglio della nazione che guida l’Europa per un semestre. Se il successore di José Manuel Barroso ha ritenuto di poter usare parole così ruvide nei confronti di Renzi, significa che riteneva di poterlo fare. Detto altrimenti: pensa o sa di avere dietro l’Europa che conta, unita nell’insofferenza contro le «critiche superficiali» di Roma.

L’altro aspetto che fa riflettere è il modo scelto dal neopresidente per contestare le tesi renziane. «Se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati il giudizio sul bilancio italiano sarebbe stato molto diverso», dice. E lascia capire che solo una sorta di «generosità» politica ha permesso di attenuare valutazioni più impietose. «A Renzi dico che non sono il capo di una banda di burocrati: sono il presidente di un’istituzione che merita rispetto, non meno legittimata dei governi». Ha tutta l’aria di un richiamo a misurare i giudizi sull’Ue; e a rendersi conto che, se non trova alleati, rischia l’isolamento.

È vero che la Commissione ha anche strigliato il premier britannico David Cameron per il suo rifiuto di pagare i contributi europei. Ma stranamente, la Francia che pure ha dichiarato esplicitamente di non voler rispettare il Patto di stabilità, non ha ricevuto lo stesso trattamento. È giusto contestare questo doppio standard vistoso; ma ci si deve anche chiedere perché venga applicato di nuovo a danno dell’Italia, come ai tempi di Silvio Berlusconi. Il semestre di presidenza è stato sempre considerato una vetrina internazionale per il Paese che guida l’Ue. A nemmeno due mesi dalla scadenza, il colpo che arriva da Bruxelles somiglia a un sasso scagliato contro le vetrate di palazzo Chigi.

E si aggiunge alle previsioni economiche diffuse ieri dalla Commissione. C’è una sfasatura di oltre mezzo punto di Pil tra quanto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan vede da qui al 2017, e le proiezioni di Bruxelles. Il berlusconiano Renato Brunetta ne deduce che «l’Ue non crede a Renzi e Padoan». Lo stesso Movimento 5 Stelle, che pure non ha mai smesso di attaccare l’Europa e la moneta unica, approfitta delle parole di Juncker per puntare il dito strumentalmente sul premier. È un’offensiva che non aiuta gli sforzi di palazzo Chigi, stupito dalle critiche di Bruxelles.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, si limita a ribadire: «Confidiamo che le nostre previsioni siano adeguate. Non ho nulla da aggiungere se non quello che è scritto nella Legge di stabilità». Renzi ribadisce: «In Italia ce la stiamo giocando, la partita non è vinta né persa ma stiamo segnando dei gol. Non vado con il cappello in mano a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare. L’ho detto a Barroso e Juncker». Se non è una sfida, le somiglia. Il problema è se l’Italia abbia la forza per sostenerla senza diventare il capro espiatorio di errori commessi anche dall’Europa. E dai suoi burocrati.

5 novembre 2014 | 12:41
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_05/rischio-dell-isolamento-il-monito-bruxelles-127be12e-64e0-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
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« Risposta #287 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:37:58 pm »

La Nota
L’accordo sopravvive nel segno del premier

Di Massimo Franco

Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate.

Sembra la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso di disertare la riunione della Direzione in polemica col segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della Camera «alta».

Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea, che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il 5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice: la presidente Anna Finocchiaro.

Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati minori. E rafforza il premier.

Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione rimane in bilico.

Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto, sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader del centrodestra.

La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018», concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può solo inseguire. In affanno.
13 novembre 2014 | 07:17
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_13/accordo-sopravvive-segno-premier-5c62498c-6afc-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml
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« Risposta #288 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:52:50 pm »

Il dopo vertice sottolinea il primato del governo
Rapporti di forza L’Ncd cerca di difendere le proprie posizioni e FI rivendica il Patto del Nazareno: anche perché Berlusconi e Renzi hanno parlato del Quirinale

Di Massimo Franco

Gli alleati cercano di frenare, di ritagliarsi spazi di trattativa, di smentire la realtà di un Pd padrone politico del governo e dei provvedimenti. La vicenda della riforma del mercato del lavoro, il Jobs Ac t, conferma invece quanto Matteo Renzi sia in grado di imporre la sua agenda, con i suoi tempi. Il Nuovo centrodestra può protestare e magari ottenere una riunione informale a palazzo Chigi per tentare di correggere le modifiche del premier, come è accaduto ieri. La strada, tuttavia, è segnata. «Il 1° gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro. È un grandissimo passo in avanti», ha annunciato ieri Renzi da Bucarest proprio mentre era in corso l’incontro con l’Ncd.

Quanto sta emergendo nella mediazione sul Jobs act «è quello che è stato deciso nella direzione del Pd», ha aggiunto il presidente del Consiglio. «Bene così, andiamo avanti». E pensare che nelle stesse ore l’alleato Maurizio Sacconi sosteneva che per l’approvazione non bastava il «sì» del partito maggiore. «Serve un vertice di maggioranza, altrimenti rompiamo», ha minacciato Nunzia De Girolamo. «Non serve», è stata la replica serafica del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Si tratta di una dinamica che crea continue tensioni, eppure sembra inevitabile.

Il rapporto di forza tra Pd e Ncd è troppo sbilanciato a favore del primo per consentire grandi spazi di manovra e di ricatto alle formazioni minori. Il compromesso trovato sulla legge elettorale, abbassando al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento, è stato una vittoria per il partitino di Angelino Alfano; e forse ha offerto anche una via d’uscita a quanti stanno meditando se lasciare in prospettiva Forza Italia. Di certo non facilita la ricomposizione del centrodestra: per questo Berlusconi lo ha criticato e parla di «pericolo di frammentazione». Ma conviene in primo luogo a Renzi. E l’accelerazione sul mercato del lavoro ristabilisce in qualche modo le vere priorità di palazzo Chigi. Per questo viene scavalcata la Legge di stabilità, tra le proteste di chi vede una forzatura. E sullo sfondo si profila l’ennesimo voto di fiducia per bruciare i tempi ed evitare una discussione che riaprirebbe polemiche e dissenso nel Pd.

La minoranza anti-Renzi fa sapere che non voterà «una delega in bianco». La Cgil, che dice di non partecipare ai giochi nel Pd ma rappresenta l’opposizione principale al premier, con Susanna Camusso definisce «non utile» il ricorso alla fiducia. Eppure, l’impressione è che il governo stia riuscendo a farle apparire comunque battaglie di retroguardia; e che si muova a tutto campo. Anche sul Quirinale, visto che l’altra sera, con Berlusconi, Renzi ha potuto discutere del «metodo» per arrivare al successore di Giorgio Napolitano. Sempre che il capo dello Stato confermi l’intenzione di dimettersi a gennaio.

14 novembre 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/vertice-sottolinea-primato-governo-09d11534-6bc6-11e4-ab58-281778515f3d.shtml
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« Risposta #289 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:27:42 pm »

La Nota
La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
Ma si consolida il patto tra Renzi e Nuovo centrodestra su Jobs act e nuova legge elettorale.
L’irritazione di Forza Italia

Di Massimo Franco

Il contrasto tra Palazzo Chigi e Nuovo centrodestra si è già ricomposto. In nome del Jobs act e dell’accordo, confermato da Matteo Renzi, sulla legge elettorale. Ma rimane aperto il fronte con la minoranza del Pd. E si allarga lo scontro con il sindacato, perché dopo la Cgil anche la Uil annuncia lo sciopero generale; e forse, a ruota la Cisl. È il segno della difficoltà che ha il governo a tenere insieme spinte contrastanti; e la conferma che i maggiori grattacapi provengono da una sinistra che non perdona al premier una linea ritenuta troppo moderata. Gli otto emendamenti alla legge di Stabilità annunciati ieri dagli avversari di Renzi nel suo stesso partito rispondono al tentativo di metterlo in difficoltà su questo fronte. L’accusa è di avere ceduto all’Ncd sulla riforma del mercato del lavoro. In realtà, il compromesso raggiunto ieri tiene conto delle osservazioni che erano venute dal Pd. E vorrà pur dire qualcosa se Forza Italia è costretta ad annunciare una «contromanovra», attribuendo un aumento delle tasse alle misure del governo. È un modo per rintuzzare la critica di eccessiva accondiscendenza alla strategia di Renzi. E insieme, sia il riconoscimento implicito che la politica economica è indigesta all’elettorato di Silvio Berlusconi; sia che l’intesa tra Renzi e Alfano che abbassa al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento per i partitini, destabilizza FI.

Prevale una sensazione di confusione, dovuta alla complessità delle materie da maneggiare; alle molte riforme in cantiere; e alla rapidità con la quale si vuole arrivare a un risultato. La voglia delle opposizioni di rallentare il percorso del Jobs act, tuttavia, è pari alla determinazione di approvarlo secondo la tabella prestabilita: dunque entro il 26 novembre. «Quando la cortina fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che il Jobs act non toglie diritti ma solo alibi: ai sindacati, alle imprese, ai politici», elenca Renzi. E respinge l’accusa di alzare la tassazione. Per questo, alla fine potrebbe mettere la fiducia. Le opposizioni fanno capire che sono in arrivo modifiche destinate, se accolte, a ritardare il voto.

Si tratta di un fronte del «no» che tende a saldarsi con il sindacato, Cgil in testa; e raffigura il premier come un tecnocrate impegnato solo a ricevere il «placet» dell’Unione Europea. Ma il lasciapassare di Bruxelles alla legge di Stabilità conta, non è un fatto secondario. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì, e una punta di nervosismo si avverte. Confermare l’impegno sulle riforme, però, aiuta. E permette al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di affermare che si aspetta un riconoscimento «dello sforzo anche qualitativo» compiuto dall’Italia. «Sono stufo di sentirmi dire...» che «chiediamo soldi all’Ue». E questo mentre Beppe Grillo scommette sul collasso dell’Italia e offre come antidoto un’impossibile uscita dall’euro.

19 novembre 2014 | 10:15
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_19/sfida-sociale-sottolinea-pressione-palazzo-chigi-236b47c0-6fbe-11e4-921c-2aaad98d1bf7.shtml
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« Risposta #290 inserito:: Dicembre 03, 2014, 03:24:52 pm »

La Nota

Una mossa che cerca di puntellare il governo
Il rischio Il timore che le voci sulle dimissioni di Napolitano terremotino la maggioranza e diventino un pretesto per ulteriori rinvii in Parlamento

Di Massimo Franco

Continuavano a girare voci secondo le quali il 16 dicembre, durante il saluto alle alte cariche dello Stato, Giorgio Napolitano avrebbe potuto annunciare che si dimetterà. Il comunicato diffuso ieri sera dal Quirinale lo smentisce, richiamandosi al semestre di presidenza italiana dell’Europa. Significa che prima di fine anno non succederà nulla. Ma ormai l’attesa per le sue decisioni sovrasta e condiziona i lavori parlamentari. E viene perfino usata come alibi per rinviare le scadenze che il governo ritiene tuttora di dover rispettare.

La volontà di Silvio Berlusconi di rimandare il «sì» di Forza Italia alla riforma elettorale a dopo la partita per il Quirinale si comprende meglio su questo sfondo. Tra l’altro, gli consente di non accettare un compromesso che ritiene poco favorevole. Sostenendo che tutti sono già con l’occhio rivolto alle urne di primavera, lascia capire di essere pronto ad avallare la fine anticipata della legislatura senza cambiare sistema elettorale. «Tutte le volte che si usa questo argomento si vuole buttare la palla in tribuna», obietta il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini.

Probabilmente è così. Ma sull’atteggiamento del centrodestra influisce anche il sospetto, mai del tutto rimosso, che il premier voglia accelerare su questa riforma per poi andare a votare. A sentire Guerini, le condizioni per siglare un’intesa prima di Natale rimangono in piedi. Il testo esaminato dalla commissione Affari costituzionali cammina «sotto la regia di Anna Finocchiaro», ricorda. Il vice di Matteo Renzi rammenta anche che la riforma era un impegno preso da tutte le forze politiche dopo le elezioni del 2013. E infatti il presidente del Consiglio chiede al Pd di accelerare, e non di rallentare.

La proposta di Berlusconi di scegliere prima il capo dello Stato «va restituita al mittente; e la legge elettorale calendarizzata il prima possibile». Si delinea dunque una guerra sui tempi del Parlamento tra i contraenti del patto del Nazareno: a conferma che, seppure nella confusione, gli interessi cominciano a divergere. L’attacco sferrato ieri dal premier contro Beppe Grillo dimostra la volontà di utilizzare la crisi del M5S. «È una questione istituzionale da non buttare via», spiega a una Direzione del Pd nella quale ha dovuto usare anche toni difensivi. La novità della «stanchezza» di Grillo e del suo passo indietro può consentire un confronto tra Pd e dissidenti del M5S per il Quirinale. È la consacrazione di una variabile che fa passare in secondo piano ogni altro tema, per quanto importante: la vera ipoteca che potrebbe frustrare la volontà di trasmettere alle Camere il senso di urgenza delle riforme, condiviso con diffidenza.

2 dicembre 2014 | 07:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_02/mossa-che-cerca-puntellare-governo-f4421676-79eb-11e4-81be-7152760d3cf5.shtml
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« Risposta #291 inserito:: Dicembre 14, 2014, 05:22:30 pm »

La Nota
La strettoia del premier tra partito e elezioni

Di Massimo Franco

Proiettare l’ombra dell’ennesima resa dei conti sull’assemblea del Pd di domani comporta qualche rischio. Il primo è che, dopo un presunto chiarimento tra Matteo Renzi e la minoranza del partito, le cose continuino più o meno come prima: col premier che stravince fuori dal Parlamento, e colleziona invece piccoli sabotaggi e sconfitte alle Camere. Il secondo è di trasmettere al Paese l’immagine di una forza politica tuttora incapace di trovare un baricentro, pur avendo un leader vincente e dominando il governo. Sono contraddizioni destinate a pesare sia sul futuro della legislatura, sia sull’elezione del prossimo capo dello Stato.
E forniscono all’opposizione ottimi argomenti per imputare al Pd un conflitto patologico tra «lui», Renzi, e «loro», gli avversari interni; e per sostenere che se l’Italia sta andando male, dipende dalla tendenza a scaricare sulle istituzioni il duello a sinistra. Una lettura in parte di comodo. La coincidenza con lo sciopero generale di ieri organizzato da Cgil e Uil ha reso più vistosa la spaccatura tra i «due Pd»; e la difficoltà a rimetterli nello stesso alveo. «Scendano pure in piazza ma io ho troppo da cambiare per fermarmi», fa sapere il premier, che considera la protesta legittima ma la vede soprattutto come un tentativo di imbrigliarlo.

Il suo mantra continua ad essere: o riforme o declino. E «vista l’insistenza nel dire che devono essere gli organi del Pd a decidere, vedremo come la pensano i mille delegati», avverte alludendo all’assemblea del Pd. È una promessa di scontro. D’altronde, l’atteggiamento della minoranza è di chi considera i richiami alla disciplina di partito come minacce e violazioni dell’autonomia dei parlamentari. E Renzi non fa molto per nascondere l’insofferenza verso distinguo che a volte appaiono strumentali. Il problema è che si confondono tutti nel conflitto.
L’accumulo delle tensioni conferma quanto si dice da tempo: e cioè che la tenuta del premier è destinata a essere messa alla prova; e che avvicinandosi ai voti sulla riforma elettorale e per il Quirinale, le divergenze aumenteranno con la tentazione di scartare verso le urne. La crisi economica richiederebbe grande senso di responsabilità e coesione nazionale. I segnali che arrivano dalla Commissione Ue non lasciano presagire niente di buono. Il presidente Jean-Claude Juncker dice a Francia e Italia: «Non ho denaro fresco». Significa che margini per aiuti non ce ne sono.

Per paradosso, però, questo sfondo non basta a spingere i partiti al dialogo: tra loro e al proprio interno. L’idea di un ritorno alle urne, oltre che avventurosa, conferma una cultura della scorciatoia dura a morire. E consente a Beppe Grillo di sognare un 2015 di disastri politici e finanziari. «Arriverà la troika» costituita da Bce, Fmi e Commissione Ue a commissariare l’Italia?, si chiede Grillo. E si risponde: «Forse entro la primavera. Di certo basta un soffio per far cadere il governo». Se Mario Draghi non farà intervenire la sua Bce, aggiunge Grillo, «il 2015 sarà ricordato come l’anno dell’uscita dall’euro o del default »: il collasso. Che Grillo ci pensi, non deve sorprendere. Che qualcuno lo aiuti per insipienza o irresponsabilità, è inquietante.

13 dicembre 2014 | 16:40
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_13/strettoia-premier-partito-elezioni-f5287f9c-8299-11e4-a0e7-0a3afe152a95.shtml
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« Risposta #292 inserito:: Gennaio 07, 2015, 12:02:52 pm »

La Nota
Un pasticcio che può avere ripercussioni sul Quirinale

Di Massimo Franco
Purtroppo, l’opacità delle dinamiche che hanno portato al decreto fiscale cosiddetto «salva Berlusconi» rimane intatta. E favorisce la fioritura di indiscrezioni avvelenate e strumentalizzazioni. Il suo ritiro temporaneo, «fino all’elezione del capo dello Stato», ha detto Matteo Renzi, allunga un’ombra pesante non solo su Palazzo Chigi. Le opposizioni alimentano il sospetto che sia stato tentato uno scambio inconfessabile, e per il momento non riuscito, tra voti berlusconiani per il Quirinale e codicilli a favore dell’ex Cavaliere. Il problema è che finora né il premier, né FI sono riusciti a contrastare in modo convincente questa vulgata. Il pasticcio rischia di avere riflessi negativi sull’elezione del capo dello Stato.

L’ipotesi che Renzi e Berlusconi fossero al corrente di quanto stava avvenendo rimane da verificare. L’intesa ritrovata negli ultimi giorni tra i due contraenti del patto del Nazareno di un anno fa, viene fatta risalire dagli avversari dell’asse Pd-FI proprio a quella misura. Il premier ha cercato di troncare le polemiche attribuendosi la responsabilità del provvedimento. La scelta è coraggiosa ma ha prodotto un risultato controverso, perché è rimasta coperta l’identità dei redattori materiali della norma; ed è stato impossibile ricostruirne la genesi.

Il risultato politico immediato va al di là di una misura che, se approvata, permetterebbe anche di «perdonare» l’evasione fiscale per la quale è stato condannato Berlusconi. L’effetto dell’incidente, ad appena nove giorni dalle dimissioni annunciate di Giorgio Napolitano, è di rianimare l’ala antiberlusconiana della sinistra, che va ben oltre l’opposizione interna a Renzi; e di mettere nell’occhio del ciclone i ministri e i funzionari di Palazzo Chigi che avrebbero assecondato un’operazione maldestra. Il sospetto è che quanto sta venendo fuori possa avere tra gli obiettivi anche quello di tagliare fuori dalla corsa per il Quirinale il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

Nel testo del suo decreto arrivato a Palazzo Chigi non c’era traccia della soglia del 3% di evasione fiscale al di sotto della quale un reato non è punibile. Il mistero è come sia comparsa in Consiglio dei ministri; e come mai nessuno, almeno in apparenza, abbia notato il cambiamento. Se si pensa che nelle ultime settimane il presidente del Consiglio ha fatto di tutto per attenuare le tensioni, l’inciampo è grave. Non colpisce tanto l’offensiva di Beppe Grillo per accreditare la tesi di un Berlusconi «ventriloquo di Renzi». Fa riflettere il silenzio di una filiera del Pd e di FI, da sempre ostile al patto del Nazareno.

È un silenzio interpretabile in modi diversi. Per comprenderne il significato, basterà aspettare la seduta del Senato in programma giovedì per discutere la riforma elettorale. Potrebbe essere una prima indicazione, quasi una prova generale di quanto potrà accadere tra qualche settimana, quando cominceranno gli scrutini per il Quirinale. FI chiede a Renzi di difendere il provvedimento, teso secondo i berlusconiani a proteggere «gli imprenditori onesti», e a non cedere alle pressioni di chi vorrebbe far saltare il patto del Nazareno. Può darsi che una spiegazione di quanto sta accadendo sia proprio questa. Ma difendere quell’accordo, da ieri forse sarà meno facile.

6 gennaio 2015 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_06/pasticcio-che-puo-avere-ripercussioni-quirinale-df69be06-9571-11e4-9391-39bd267bd3d5.shtml
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« Risposta #293 inserito:: Gennaio 15, 2015, 11:56:03 am »

La Nota
Quirinale, le cautele di Renzi (ricordando le divisioni del partito)
Il dopo Napolitano e le mosse del premier

Di Massimo Franco

Bisogna credere a Giorgio Napolitano quando dice di essere contento di tornare a casa. Le sue dimissioni, previste per oggi, arrivano dopo un settennato più circa due anni di secondo mandato, imposto dall’emergenza e dalla richiesta pressante di rimanere al Quirinale; e finito con una parte dei 738 «grandi elettori» dell’aprile 2013, passati negli ultimi mesi dalle lodi sperticate a critiche altrettanto squilibrate: a conferma di quanto è cambiato il contesto italiano. Eclatante è il caso di FI e di Silvio Berlusconi, che pure fu il primo artefice della rielezione quando il cannibalismo tra candidati del Pd portò il Parlamento riunito ad un’impotenza preoccupante. La cautela con la quale il premier di oggi, Matteo Renzi, affronta le votazioni che cominciano il 29 gennaio è giustificata da quel precedente.

L’interregno sarà affidato da oggi alla supplenza del presidente del Senato, Pietro Grasso, come prevede la Costituzione. La ritrosia renziana a sbilanciarsi sulla candidatura che presenterà il Pd nasce dalla consapevolezza di una partita difficile: per l’Italia e per lui personalmente. Estimatori ma anche detrattori sanno bene che Napolitano lascia un vuoto di credibilità, in primo luogo internazionale, difficile da riempire. E il lungo elenco di nomi di esponenti democratici non testimonia solo una grande possibilità di scelta; conferma anche la frantumazione del Pd e la moltiplicazione delle ambizioni. Per questo Renzi per ora si rifugia dietro il profilo di «un arbitro di grande livello»: qualcuno che, nelle parole dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, dovrebbe essere «almeno al livello» di Franco Marini e Romano Prodi, i due candidati eccellenti bruciati dal loro stesso partito nel 2013. Il suo obiettivo è di eleggere il presidente della Repubblica alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti, e non saranno più necessari i due terzi. Significherebbe sancire al massimo livello istituzionale il patto del Nazareno con Berlusconi, e uscire presto da una sfida che altrimenti potrebbe incattivirsi e indebolire Palazzo Chigi.È la speranza del Movimento 5 Stelle, che infatti sembra deciso a giocare di rimessa.

Sostenere, come fa Beppe Grillo, che non ci sono nomi perché «li indicherà la Rete», significa non sbilanciarsi, aspettare di capire se e quanto Renzi riuscirà a tenere unite le sue truppe parlamentari; oppure se i giochi si complicheranno, permettendo al M5S di incunearsi nelle lotte interne del Pd e di FI. In quel caso, il patto del Nazareno andrebbe in frantumi. Secondo l’ex capo leghista Umberto Bossi, il premier riuscirà nell’impresa, anche perché il centrodestra è diviso e non in grado di imporre un proprio candidato, uomo o donna che sia. Ma intanto Bossi fa sapere che secondo lui Renzi «non può fare Prodi, perché gli italiani gli sparano. Si tratta di un veto non nuovo da parte del centrodestra, e vincente se si arriverà solo alla quarta votazione. Il tema della compattezza del Pd, tuttavia, rimane. Con un’allusione maliziosa alle liti a sinistra in Liguria e Campania, il leader del Nuovo centrodestra e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, avverte che il Quirinale «non si può tradurre in elezioni primarie del Pd». E lascia capire che la trattativa andrà allargata. «Attendo di capire cosa vogliono fare», avverte Bersani. E in parallelo chiede un ripensamento anche sulla riforma elettorale di Renzi: tutto si deve tenere, per eleggere il capo dello Stato. Può darsi che la sintesi ci sia già, ma non ha ancora un nome.

14 gennaio 2015 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_14/quirinale-cautele-renzi-ricordando-divisioni-partito-8e79877e-9bc0-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml
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« Risposta #294 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:21:43 am »

La Nota
Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrorismo
Mentre Napolitano sta per dimettersi aumenta la possibilità che il voto per il Quirinale sia condizionato da fattori esterni

Di Massimo Franco

I l tema non è tanto la fondatezza del pericolo del terrorismo islamico in Italia, ma l’uso politico che già se ne comincia a fare. A poche ore dalla manifestazione dei capi di Stato e di governo a Parigi seguita agli attentati del 7 gennaio, l’unanimismo si è già incrinato: a livello internazionale e da noi. Gli attentati stanno producendo un’ondata di richieste destinate a condizionare le agende dei partiti; a renderle più attente alle paure dell’opinione pubblica. E, come in Francia il Front National di Marine Le Pen, in Italia è la Lega a guidare il fronte di chi cerca di approfittare di quanto è accaduto: per motivi insieme culturali ed elettorali.

La richiesta di abolire il trattato di Schengen, che permette la libera circolazione dei cittadini europei nell’Unione, è solo il primo atto. L’altro è una manifestazione di sfiducia e diffidenza nei confronti di tutto il mondo islamico, giustificato dalla presenza di una minoranza eversiva e, secondo i servizi segreti, pronta a colpire ancora. Proprio partendo dal corteo parigino, FI denuncia un evento in cui ha colpito «l’assoluta egemonia della sinistra», sostiene il Mattinale, il bollettino del gruppo berlusconiano alla Camera. «Si sono eretti a interpreti unici dei sentimenti del popolo europeo».

Il tentativo è di accreditare una controverità rispetto a quella che descrive un’Europa compatta e solidale, e insieme decisa alla fermezza ma anche alla tolleranza. Nei quaranta governanti che hanno sfilato insieme si vede un fatto positivo; eppure si imputa loro anche «il totale rifiuto di vedere nell’Islam la fonte avvelenata delle stragi». È una deriva della quale già sono spuntati i primi indizi. A rafforzarla è un umore antieuropeo ramificato e crescente: lo stesso che ha portato ad un’affermazione delle forze populiste alle ultime elezioni europee, con Germania e Italia uniche eccezioni.

Dal 7 gennaio, il problema è come impedire che prevalga una narrativa destinata ad alimentare l’idea di una guerra di religione in atto. Le analisi che spiegano come in realtà il vero conflitto si combatta tra Al Qaeda e Isis, e contro la grande massa dei musulmani moderati, faticano a fare breccia. Anche perché più uccide europei, più l’eversione conta di fare proseliti dentro e fuori i confini dell’Ue. Ma «non si tratta di blindare i nostri Paesi: significherebbe blindare la democrazia», ha detto ieri il senatore del Pd, Sergio Zavoli. «Basterà informare, conoscere e agire».

Palazzo Chigi cerca di arginare l’allarmismo e gli attacchi delle opposizioni, che vanno dalla persistenza della crisi economica al bilancio del semestre italiano, fino agli attentati. «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen», spiega il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. «Sacrificare la libertà di circolazione sarebbe un prezzo inaccettabile da pagare al terrorismo». Si sta per dimettere Giorgio Napolitano, e il 29 ottobre si comincerà a votare per il successore. Il rischio che fattori esterni condizionino le elezioni per il Quirinale, sta oggettivamente aumentando.

13 gennaio 2015 | 07:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/parigi-cortei-ora-rischio-l-uso-politico-terrorismo-96f9c9cc-9ae9-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml
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« Risposta #295 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:28:19 am »

Chi dopo Napolitano?
Chi dopo Napolitano? Per il Quirinale una corsa troppo affollata

Di Massimo Franco
Il cosiddetto «toto Quirinale» è sempre esistito. È un rito quasi inevitabile quando si cambia capo dello Stato. Ed ha contorni ambigui: un po’ promozione, o autopromozione, e un po’ tritacarne. Ma stavolta l’ultimo aspetto rischia di diventare preponderante. Più che ad una gara di previsioni divertente e un po’ spregiudicata, stiamo assistendo ad uno stillicidio di candidature. E non sempre risulta chiaro se nascano da aspirazioni personali a succedere a Giorgio Napolitano, o da indiscrezioni pilotate dall’alto: magari solo per misurare le reazioni, «consumare» alcuni nomi in anticipo, e insieme confondere le acque sulle vere intenzioni di chi ha il potere di decidere.

Se esiste una regia, il dubbio è che sia partita molto presto, perché all’inizio del voto a Camere riunite mancano ancora due settimane. Lanciando un candidato al giorno, uomo o donna, aumenta il rischio di bruciare nel mucchio figuranti e potenziali protagonisti. Ma aumentano anche le probabilità che la situazione sfugga di mano a chi promuove questo sondaggio logorante. Il Pd e la stessa Forza Italia, architravi del patto che dovrebbe portare all’elezione al quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti, sono tutt’altro che granitici. Lo scarto deciso ieri dai berlusconiani sulla riforma elettorale, soprattutto, è un avvertimento. Dice al premier e allo stesso leader di FI quanto siano profondi i malumori in quel partito, e dunque in bilico i voti dei suoi parlamentari in assenza di una candidatura «di garanzia». I nomi che continuano a uscire moltiplicano aspettative destinate tutte ad essere frustrate, tranne una. L’impressione è quella di un Matteo Renzi che intensifica i contatti senza però chiudere un vero accordo con nessuno. La tattica testimonia la sua abilità, ma potrebbe anche acuire le diffidenze: come se avesse lasciato balenare la sagoma del Colle davanti agli occhi di troppi pretendenti.

Il problema è chi sopravvivrà a una esposizione continua a veti e interdizioni che accentuano l’immagine di un Parlamento ingovernabile e di un presidente della Repubblica «ineleggibile». Probabilmente è una preoccupazione esagerata, che sarà smentita dalla capacità di offrire una prova di unità su una scelta di prestigio. Esprimerla può servire tuttavia ad esorcizzare la prospettiva di uno spettacolo simile a quello a cui l’Italia ha dovuto assistere meno di due anni fa; e conclusosi con la rielezione di Napolitano, quasi per disperazione. Benché le tribù interne si agitino, il Pd sa di non potersi permettere di sbagliare di nuovo. Ma viene da chiedersi se sull’altare della compattezza del maggior partito si inginocchieranno docilmente sia gli avversari, sia quanti si sono illusi, a torto o a ragione, di essere i predestinati al Quirinale. Più ce ne saranno, più il loro voto di delusi potrà incidere sull’esito finale. Per questo ci si aspetterebbe una rotta di avvicinamento al 29 gennaio più prudente e meno tesa ad accendere vanità che possono bruciare indiscriminatamente vere e false candidature. La storia insegna che le elezioni del capo dello Stato seguono quasi sempre dinamiche imprevedibili. Anticipano gli equilibri del sistema, più che fotografarli staticamente. E tendono a sottrarsi a qualunque regia: tanto più a quelle che puntano a maneggiare il caos per arrivare al capo dello Stato voluto. In un Parlamento come l’attuale, il pericolo e l’esito paradossale potrebbe essere un presidente eletto quasi per caso, se non «a dispetto».

16 gennaio 2015 | 08:54
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_16/chi-napolitano-il-quirinale-corsa-troppo-affollata-a1dc6282-9d46-11e4-b018-4c3d521e395a.shtml
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« Risposta #296 inserito:: Gennaio 19, 2015, 06:57:51 am »

La Nota

Parigi, dopo i cortei ora il rischio è l’uso politico del terrorismo
Mentre Napolitano sta per dimettersi aumenta la possibilità che il voto per il Quirinale sia condizionato da fattori esterni

Di Massimo Franco

I l tema non è tanto la fondatezza del pericolo del terrorismo islamico in Italia, ma l’uso politico che già se ne comincia a fare. A poche ore dalla manifestazione dei capi di Stato e di governo a Parigi seguita agli attentati del 7 gennaio, l’unanimismo si è già incrinato: a livello internazionale e da noi. Gli attentati stanno producendo un’ondata di richieste destinate a condizionare le agende dei partiti; a renderle più attente alle paure dell’opinione pubblica. E, come in Francia il Front National di Marine Le Pen, in Italia è la Lega a guidare il fronte di chi cerca di approfittare di quanto è accaduto: per motivi insieme culturali ed elettorali.

La richiesta di abolire il trattato di Schengen, che permette la libera circolazione dei cittadini europei nell’Unione, è solo il primo atto. L’altro è una manifestazione di sfiducia e diffidenza nei confronti di tutto il mondo islamico, giustificato dalla presenza di una minoranza eversiva e, secondo i servizi segreti, pronta a colpire ancora. Proprio partendo dal corteo parigino, FI denuncia un evento in cui ha colpito «l’assoluta egemonia della sinistra», sostiene il Mattinale, il bollettino del gruppo berlusconiano alla Camera. «Si sono eretti a interpreti unici dei sentimenti del popolo europeo».

Il tentativo è di accreditare una controverità rispetto a quella che descrive un’Europa compatta e solidale, e insieme decisa alla fermezza ma anche alla tolleranza. Nei quaranta governanti che hanno sfilato insieme si vede un fatto positivo; eppure si imputa loro anche «il totale rifiuto di vedere nell’Islam la fonte avvelenata delle stragi». È una deriva della quale già sono spuntati i primi indizi. A rafforzarla è un umore antieuropeo ramificato e crescente: lo stesso che ha portato ad un’affermazione delle forze populiste alle ultime elezioni europee, con Germania e Italia uniche eccezioni.

Dal 7 gennaio, il problema è come impedire che prevalga una narrativa destinata ad alimentare l’idea di una guerra di religione in atto. Le analisi che spiegano come in realtà il vero conflitto si combatta tra Al Qaeda e Isis, e contro la grande massa dei musulmani moderati, faticano a fare breccia. Anche perché più uccide europei, più l’eversione conta di fare proseliti dentro e fuori i confini dell’Ue. Ma «non si tratta di blindare i nostri Paesi: significherebbe blindare la democrazia», ha detto ieri il senatore del Pd, Sergio Zavoli. «Basterà informare, conoscere e agire».

Palazzo Chigi cerca di arginare l’allarmismo e gli attacchi delle opposizioni, che vanno dalla persistenza della crisi economica al bilancio del semestre italiano, fino agli attentati. «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen», spiega il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. « Sacrificare la libertà di circolazione sarebbe un prezzo inaccettabile da pagare al terrorismo». Si sta per dimettere Giorgio Napolitano, e il 29 ottobre si comincerà a votare per il successore. Il rischio che fattori esterni condizionino le elezioni per il Quirinale, sta oggettivamente aumentando.

13 gennaio 2015 | 07:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/parigi-cortei-ora-rischio-l-uso-politico-terrorismo-96f9c9cc-9ae9-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml
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« Risposta #297 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:18:55 am »

La Nota POLITICA
Renzi e il Quirinale, prima sfida è arrivare al 29 gennaio col Pd unito
Lo scenario: l’ostruzionismo strisciante sulle riforme di FI, Lega e Grillo si può saldare con i malumori della minoranza sul patto del Nazareno

Di Massimo Franco

L’ applauso che ieri Matteo Renzi ha sollecitato alla direzione del Pd per un «minorenne» per il Quirinale, Nico Stumpo, è significativo. «Almeno tu non hai cinquant’anni», lo ha benedetto scherzosamente. È evidente che il segretario-premier sente la pressione della filiera dei candidati interni. E per quanto sostenga che il loro numero «non è un problema», si rende conto di doverne scontentare la quasi totalità. Anche per questo ribadisce che la questione del capo dello Stato sarà discussa col partito e gli alleati di governo. E annuncia che la designazione avverrà solo ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite, il 29 gennaio. Dire che se si ripeterà la situazione del 2013, quando non si riuscì ad eleggere un nuovo capo dello Stato, il Pd sarà additato come colpevole, è un appello-monito all’unità. E tradisce il timore che prevalga la voglia di sabotare la strategia renziana. Non a caso, l’intervento che il presidente del Consiglio ha fatto ieri è stato rivolto all’interno. Per definire il Pd «forza tranquilla»; per rivendicare soluzioni che dovrebbero avere tacitato la minoranza, soprattutto sulla legge elettorale; insomma, per far capire che riterrebbe incomprensibile una fronda sull’Italicum, «difficilmente migliorabile», nel Pd.

È sempre più evidente che la priorità di Renzi nei prossimi giorni sarà di garantirsi la compattezza del proprio partito. Senza quella, risulterà più difficile piegare le resistenze di una Forza Italia in ebollizione; ed eleggere il presidente della Repubblica che vuole. E infatti, alcuni dei nomi emersi nelle ultime ore in mezzo a molti altri segnalano questo: l’intenzione di rassicurare gli avversari interni. Sono alcuni esponenti storici del Pd quelli da convincere: molto più dei Civati, dei Cuperlo e dei Fassina. Il «via libera» all’accordo con Fi non può non passare per il «placet» di quanti, dentro e fuori dal Parlamento, possono influire sui gruppi parlamentari. D’altronde, prima ancora della presidenza della Repubblica, nei prossimi dieci giorni sarà necessaria una marcia a tappe forzate per approvare legge elettorale e riforma del Senato. L’ostruzionismo strisciante minacciato da Fi, dalla Lega e dal M5S di Beppe Grillo può saldarsi con i malumori della minoranza del Pd. «Sarebbe allucinante bloccare il percorso di riforme per l’elezione del capo dello Stato. Abbiamo scelto il metodo del dialogo e sono convinto che il Pd non fallirà», ammonisce il premier. Ma occorreranno sedute notturne e una presenza senza distrazioni.

L’incastro risulta complicato dall’ombra persistente del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. È riemersa anche ieri in alcuni interventi in direzione. Il pasticcio del decreto fiscale presentato e ritirato dal governo perché depenalizzerebbe uno dei reati per i quali è stato condannato il capo di FI, aleggia. Renzi ha ribadito la volontà di correggerlo solo dopo il 20 febbraio. Questo ripropone le domande sul perché voglia aspettare tanto. Gli oppositori del Movimento 5 Stelle continuano ad accusarlo di voler scambiare i voti berlusconiani sul capo dello Stato con una sorta di «grazia» surrettizia concessa da palazzo Chigi. Ma l’ombra del nulla di fatto della primavera del 2013, per Renzi, è più imbarazzante, per il Pd. Evocandola, Renzi confida di far passare in secondo piano il resto.

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17 gennaio 2015 | 09:23

Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_17/renzi-quirinale-prima-sfida-arrivare-29-gennaio-col-pd-unito-cd1253be-9e11-11e4-a48d-993a7d0f9d0e.shtml
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« Risposta #298 inserito:: Febbraio 06, 2015, 05:53:47 pm »

IL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Mattarella, discorso d’insediamento Tanti applausi, tutti sinceri?

Di Massimo Franco

Pensare che da domani l’Italia si adeguerà allo stile e ai valori indicati da Sergio Mattarella nel suo discorso di investitura davanti al Parlamento sarebbe ingenuo, se non velleitario. Sarebbe ancora più miope, però, sottovalutare il cambio di fase che l’arrivo del nuovo capo dello Stato segna non solo nel mondo della politica ma anche nel rapporto tra istituzioni e società italiana. Ieri mattina, il successore di Giorgio Napolitano ha indicato una serie di obiettivi non subordinati ai tempi stretti, all’urgenza di decisioni affidate spesso alla velocità, ai blitz spiazzanti: tanto abili quanto, a volte, pagati con strappi e lacerazioni.

Quelli spettano ad altri, e riflettono il passo e le caratteristiche di poteri che hanno logiche e obiettivi diversi da perseguire. Mattarella ragiona sulla distanza di sette anni. E probabilmente sa bene che i frutti della sua semina, se riuscirà, arriveranno soltanto sul periodo medio e lungo. Nell’immediato, si intuisce da parte della classe politica una sorta di istintiva continuità nei comportamenti, nel linguaggio, nello stile: quasi l’elezione fosse una parentesi virtuosa e felice, aperta e chiusa senza pensare troppo al suo significato. Forse anche per questo sembrano diventati tutti, a parole, «mattarelliani». L a rivendicazione di imparzialità del presidente della Repubblica non è un’affermazione di rito. Impressionano gli applausi arrivati da gran parte dei parlamentari del Movimento 5 Stelle e dalle file di Forza Italia, oltre che dal Pd. Dicono che in quell’ex giudice costituzionale planato sul Parlamento come uno sconosciuto, per molti quasi un marziano, gran parte degli avversari vedono un interlocutore. Di più: un sincero rammendatore non tanto della politica ma di un’Italia divisa e logorata, che negli ultimi anni si è come rassegnata a tirare fuori il peggio da ciascuno; e che adesso si ritrova stanca di conflitti artificiosi, e ansiosa di ricominciare.

L’elezione di Mattarella chiude due ferite. Quella del Pd che meno di due anni fa aveva bruciato la candidatura di Romano Prodi, e prima di Franco Marini; e in parallelo quella delle dimissioni anticipate di Napolitano, uscito di scena anche perché non sentiva più intorno a sé l’appoggio che gli era stato garantito al momento della conferma. Va detto: se c’é Mattarella è perché c’é stato Napolitano, non a caso citato e ringraziato. Il concetto di imparzialità contiene un secondo sottinteso, del quale presto si vedranno gli effetti: il Quirinale si ergerà a garante anche di quanti negli ultimi anni non si sono riconosciuti nelle istituzioni, sentendosi esclusi.

La scommessa di Sergio Mattarella è questa: rassicurare e ricucire socialmente l’Italia, riavvicinare le generazioni, le aree del Paese, le diverse culture, e offrire un impasto solido di memoria storica e di valori condivisi, ancorati ad una visione rigorosa della legalità: quelli che la Seconda Repubblica non è riuscita a cementare. Il suo stile sobrio, la semplicità, l’assenza di gestualità ne fanno una sorta di presidente «radiofonico», più che televisivo. Non un brillante arringatore di folle, ma un uomo riflessivo, lievemente autoironico, che tende a mangiarsi le parole eppure le sa scegliere con parsimoniosa precisione. Non sa comunicare, si dice. Ottimo: di grandi comunicatori l’Italia ne ha anche troppi.

4 febbraio 2015 | 08:35
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_04/mattarella-discorso-d-insediamento-tanti-applausi-tutti-sinceri-eb9b4504-ac38-11e4-88df-4d6b5785fffa.shtml
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« Risposta #299 inserito:: Febbraio 06, 2015, 05:54:42 pm »

La corsa al colle
Quirinale, un percorso ragionevole

Di Massimo Franco

L’ appello di Matteo Renzi al centrodestra perché voti Sergio Mattarella dovrebbe permettere a Silvio Berlusconi ed Angelino Alfano di uscire dalla trappola nella quale si sono infilati; e al premier, di mascherare un po’ la sindrome dell’asso pigliatutto. Il tentativo è di trasformare la loro sconfitta e la loro frustrazione in un nuovo asse istituzionale sublimato dall’esigenza di votare insieme il presidente della Repubblica e continuare le riforme. Non è detto che la ricucitura riesca in pieno. Quasi certamente Mattarella questa mattina diventerà capo dello Stato al quarto scrutinio col voto del Pd, di almeno una parte del Nuovo centrodestra e di altre formazioni minori. Ma Forza Italia opterà per le schede bianche.

Dire, come ha fatto il premier, che la scelta non è un affare di partito ma un’offerta a tutto il Parlamento, è apparso un gesto di ragionevolezza politica: una mossa minima e indispensabile per evitare un irrigidimento del Ncd, tuttora in tensione, che avrebbe potuto portare presto perfino ad una crisi di governo. Arginando la voglia di stravincere, Renzi alla fine ha capito che era meglio ricoprire il ruolo di chi convince gli interlocutori, senza umiliarli. D’altronde, più sottolineava la candidatura come una propria vittoria, più rischiava di risvegliare gli istinti peggiori del Parlamento e dello stesso Pd. Forse, però, il merito maggiore del suo appello di ieri sera è quello di proteggere una personalità rispettata come Mattarella, al quale non si farebbe giustizia schiacciandolo nei limiti angusti di uno schieramento o, peggio, di un partito o di un leader. A questo punto, occorre davvero una forte dose di irresponsabilità per non partecipare alla sua elezione. Il pericolo sembra parzialmente sventato, col passare delle ore. Le ipotesi più strampalate e miopi, tipo l’abbandono dell’Aula al momento del quarto scrutinio di stamattina alle 9.30, sono rientrate. E la durezza di Berlusconi si spiega soprattutto con le tensioni che montano all’interno del suo partito.

Sarà lì, dentro il recinto del centrodestra, che il Quirinale di Mattarella provocherà i cambiamenti più immediati e profondi. Già li sta provocando: se non ci saranno sorprese, oggi la maggioranza di governo si ritroverà intorno al nuovo presidente della Repubblica. Ma con qualche livido. La ricomposizione FI-Ncd, annunciata come strategica, riemerge con contorni ambigui. Lo stesso rapporto tra Pd e Alfano, però, si è incrinato. E il patto del Nazareno Renzi-Berlusconi, mitizzato dal secondo come una sorta di vademecum per la legislatura, le istituzioni e chissà che altro, ridimensionato brutalmente: ridotto a strumento utilizzato con spregiudicatezza dal premier per raggiungere i suoi obiettivi, e subìto dal Cavaliere.

La domanda è quali effetti tutte queste increspature potrebbero avere sulle riforme. Sarebbe un peccato se provocassero una battuta d’arresto, o comunque un rallentamento: quasi finora fossero state promosse non in quanto indispensabili all’Italia, bensì per accreditare o rilegittimare una leadership. Con la sua esperienza anche di giudice della Consulta e le doti di equilibrio che gli si riconoscono, Mattarella si propone come un garante e un regista costituzionale. Il problema è che i partiti lo aiutino, come non hanno fatto invece con Giorgio Napolitano pur avendoglielo assicurato ripetutamente.

Se l’elezione di oggi andrà secondo le previsioni, ridarà credibilità alla politica. Non a scatola chiusa né a lungo, però, senza la consapevolezza che il Paese è spaventato e diviso; e aspetta di essere rassicurato, non strattonato. Sotto questo aspetto, anche lo stile di Renzi può diventare alla lunga non un pregio ma un limite. La sua abilità viene accresciuta dal modo in cui ha gestito la partita del Quirinale. In parallelo, però, si consolidano anche la diffidenza e l’irritazione degli interlocutori nei suoi confronti. Avere come capo dello Stato una persona come Mattarella, di cui si sottolineano non le doti di comunicatore ma l’affidabilità, la discrezione e la competenza, potrebbe rivelarsi presto una risorsa assai preziosa. Utile e insieme scomoda per tutti.

31 gennaio 2015 | 09:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_31/quirinale-percorso-ragionevole-ecac4ea8-a912-11e4-96d4-6a68544c2eeb.shtml
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