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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193628 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:42:58 pm »

Berlusconi, ci sono due vincitori ma il ruolo di FI è meno subalterno
M5S si sfila dal dialogo prendendo atto che l’intesa del Nazareno reggerà

Di Massimo Franco

L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi in appello suggerisce due vincitori: l’ex premier e il suo interlocutore sulle riforme, Matteo Renzi. Ma il silenzio quasi totale del Pd induce a ritenere che il capo di Forza Italia abbia strappato un risultato politico superiore a quello del presidente del Consiglio: forse perché è arrivato del tutto inatteso. È chiaro che adesso il percorso delle riforme istituzionali continua con meno incognite di prima; ma anche con un Berlusconi che non è costretto ad appiattirsi su Palazzo Chigi come pluricondannato. Le richieste dei duri e puri di FI su una commissione d’inchiesta sul «complotto» del 2011 che portò il senatore a vita Mario Monti al governo sono contorno, come pure gli strali contro la Procura di Milano e le polemiche tra FI e Nuovo centrodestra.

L’impressione è che da ieri l’ipoteca berlusconiana sul governo di Renzi sia meno marginale. Anche perché, forse prendendo atto della sentenza a Milano, il Movimento 5 Stelle ha di colpo chiuso quella che per alcuni poteva diventare la sponda alternativa del premier. Beppe Grillo fa sapere che «non c’è più tempo» per altri incontri con il Pd. La riforma elettorale andrebbe votata subito, in Aula, preferenze comprese: una proposta che spezzerebbe l’asse tra Palazzo Chigi e Berlusconi. Si tratta dell’ennesima mossa tattica: l’estremo tentativo di incrinare il «patto del Nazareno», ma anche la presa d’atto che da ieri tutto spinge ancora di più Renzi al patto con FI.

Il premier «non chieda il permesso al pregiudicato», provoca Grillo. La conseguenza probabilmente sarà il peggioramento dei rapporti tra M5S e Pd. Quest’ultimo vede infatti nell’iniziativa l’archiviazione del dialogo rappresentato dal vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, che sarebbe stato smentito dallo stesso Grillo e da Gian Roberto Casaleggio. «Peccato», commenta l’europarlamentare Alessandra Moretti, benché Di Maio neghi qualsiasi attrito col suo capo, e parla di decisione «condivisa», accusando chi parla di chiusura di non aver capito.

L’aspetto singolare è che proprio mentre si consuma questo psicodramma nel M5S, il Nuovo centrodestra fa sapere con Gaetano Quagliariello che ci sono stati contatti col movimento. E «molte delle osservazioni avanzate dall’Ncd coincidono con la sua proposta». Sono manovre magari destinate ad avere qualche ripercussione nel dibattito in Parlamento dei prossimi giorni e in autunno; e forse, rappresentano un ulteriore elemento di disturbo e di rallentamento rispetto ai tempi da blitz che si era dato il presidente del Consiglio. È difficile, tuttavia, che l’opinione pubblica si appassioni a queste schermaglie: la vera trincea dell’Italia è altrove.

La preoccupazione del governo sta diventando sempre di più l’economia che continua a non dare segnali positivi. Il ribasso delle previsioni di crescita da parte di Bankitalia allo 0,2 per cento rispetto alle precedenti che all’inizio la davano allo 0,8, sono la conferma di uno stallo senza fine. La politica economica si ripropone come emergenza a un premier che finora ha scelto di concentrarsi sulla riforma del Senato, e che guarda a quella della legge elettorale. Avere dietro di sé una nazione che non cresce renderà Renzi più determinato nella trattativa con l’Ue per strappare qualche concessione; ma lo farà anche apparire più debole. E le reazioni che ha raccolto finora non sono un buon viatico. L’Italia ha quaranta giorni per dimostrare l’infondatezza dei pregiudizi europei.

19 luglio 2014 | 10:41
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_19/berlusconi-ci-sono-due-vincitori-ma-ruolo-fi-meno-subalterno-cc26ac4c-0f1f-11e4-a021-a738f627e91c.shtml
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« Risposta #271 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:48:49 am »

La Nota

Gli scambi di accuse acuiscono la tensione e l’esigenza di tregua
Grandi manovre dietro il muro contro muro tra Renzi e l’opposizione


Di Massimo Franco

Sanno tutti che il muro contro muro non potrà andare avanti per l’intero mese d’agosto; che prima o poi bisognerà spezzare il circolo vizioso delle accuse reciproche. Quando succederà, però, non è chiaro, perché in questa fase ognuno sembra preoccupato soprattutto di mostrarsi determinato a tenere il punto e umiliare l’avversario. Lo è l’opposizione, che sfrutta la montagna abnorme di 8.000 emendamenti per piegare palazzo Chigi alla trattativa. E lo è il premier Matteo Renzi, convinto che l’ostruzionismo degli avversari contro la riforma del Senato finirà per far crescere le percentuali dei consensi del Pd. Peccato che nel mezzo si stia profilando una crisi istituzionale, col governo sempre più irritato nei confronti del presidente del Senato, Pietro Grasso, eletto nelle file dei Democratici ma accusato di concedere troppo in materia di voto segreto.

I colloqui avuti ieri dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sia con Grasso sia con Nichi Vendola, leader del Sel, uno dei partiti più polemici con Renzi, hanno fotografato una situazione bloccata. Ma dimostrano anche che basterebbe la volontà politica di svelenire la situazione per ottenere votazioni non soltanto meno conflittuali ma più rapide. Se ritornasse un po’ di senso di responsabilità, si vedrebbe che di qui a un paio di giorni gli emendamenti per i quali è stato chiesto il voto segreto si ridurrebbero da 920 a meno di 100; e che il traguardo di metà agosto per il «sì» alla riforma non sarebbe remoto.

Se non è stato possibile finora, dipende dalla miscela dei regolamenti parlamentari e dello scontro tra l’esecutivo e le opposizioni, fuori ma anche dentro al Pd. Renzi continua a raffigurare M5S, Sel e dissidenti del proprio partito come sabotatori del cambiamento. E li sfida: «Potranno rallentare, potranno fare qualche scherzetto sul voto segreto e farci stare qui ad agosto. Ma qui non molla nessuno. Abbiamo la forza di milioni di italiani che dicono “non mi sei simpatico ma ti voto”. Quest’estate lavoreranno in tanti: anche i senatori...». Sono toni di chi tende a ritenere strumentali tutte le obiezioni contro la riforma. E le gira all’opinione pubblica perché ne tenga conto. Ma Vendola li considera solo «propaganda governativa». E avverte che «se il muro contro muro della ministra Maria Elena Boschi continuasse, andremmo avanti».

Verso dove, però? L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, indica come soluzione «dialogo e regolamenti, se si cammina su queste due gambe si verrà fuori». Fino a ieri sera, però, prevaleva l’allarme. Grasso è uscito dal colloquio con Napolitano ribadendo le difficoltà di un ostruzionismo esasperato. E il presidente della Repubblica ha additato «il grave danno che recherebbe al prestigio e alla credibilità del Parlamento il prodursi di una paralisi decisionale su un processo di riforma essenziale». Insomma, il tentativo è quello di uscire da un conflitto finora senza sbocco. Sullo sfondo, come una minaccia che però segnerebbe l’ennesimo fallimento della politica, rimangono le elezioni anticipate. Renzi le evoca se non ci sono le riforme. Ma «sono cose che si dicono per dire...», minimizza Bersani. Forse, dietro gli strepiti c’è una tregua in incubazione.

24 luglio 2014 | 09:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_24/gli-scambi-accuse-acuiscono-tensione-l-esigenza-tregua-032ebc58-12ee-11e4-a7ff-409dc1c2ba25.shtml
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« Risposta #272 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:53:07 am »

SENATO: DUBBI REALI E PAURE INFONDATE
La democrazia non è a rischio
Senato, dubbi reali e paure infondate

Di MASSIMO FRANCO

Si può anche sostenere che ieri è cominciata la settimana decisiva per le riforme. Ma sarebbe la decima volta che si dice negli ultimi tre mesi, o giù di lì. Chissà, magari potrebbe diventare tale se il governo usasse meglio l’arte della mediazione. La prima giornata di votazioni al Senato semina qualche dubbio in proposito. L’atteggiamento verso le minoranze si è rivelato rigido: così rigido da favorire le critiche di sempre dentro il Pd e gli attacchi più strumentali e chiassosi delle opposizioni, fino all’ostruzionismo. Per una maggioranza che ne vuole uscire viva, e non solo vittoriosa, si tratta di prendere atto dei tempi parlamentari; e di non esasperare un percorso che prevede un esito storico e che dunque va facilitato, non intralciato.

L’immagine del «masso sui binari», con la quale il premier Matteo Renzi ha additato i sabotatori della riforma, è efficace. Rende l’idea del treno in corsa, proiettato a forte velocità verso un traguardo e fermato proditoriamente. Il problema è che di «massi», nel senso di emendamenti, ce ne sono poco meno di ottomila. E se la tentazione di Palazzo Chigi è di identificare come ostacoli anche le critiche ragionevoli, l’ingombro rischia di gonfiarsi, e i sassolini di trasformarsi in macigni. Nella certezza della sconfitta, e sapendo che il governo ha fretta, gli avversari possono soltanto sperare di rallentarne la corsa.

Tacciare chiunque resista alla riforma come un nostalgico della Prima Repubblica serve a metterlo di fronte alle proprie responsabilità, ma anche ad aizzarlo. Eppure, il testo iniziale oggi appare meno indigesto agli occhi di una larga maggioranza dei senatori grazie alle limature e al dialogo imbastiti nelle scorse settimane. Anche per questo è diventato difficile assecondare la tesi di un autoritarismo strisciante, cara agli avversari del premier. In agguato non ci sono dittature di coalizione, semmai squilibri istituzionali e pasticci. Il problema non può essere identificato nell’elezione indiretta dei senatori, legittima nel momento in cui si vuole superare il bicameralismo.

Forse, ci si può chiedere se consiglieri regionali e sindaci siano l’espressione più genuina del «nuovo corso». Le spese incontrollate e gli inquisiti che alcuni enti locali regalano all’Italia dicono che l’inadeguatezza della classe politica comincia proprio da lì. Ma lasciamo scivolare sullo sfondo il dubbio che il Senato possa diventare un concentrato dei difetti delle Regioni. L’obiettivo dichiarato della riforma è quello di modernizzare il Parlamento; evitare le sovrapposizioni; e lasciare governare l’Esecutivo senza perdite di tempo. L’altro, più popolare, è di ridurre i costi della politica diminuendo il numero dei senatori a cento.

Da queste premesse meritorie dovrebbe cominciare a prendere forma la nuova istituzione entro l’8 agosto. Ma l’unico modo per riuscirci è di limitare drasticamente la discussione degli emendamenti. Il governo si aspetta che Palazzo Madama risolva il problema. L’ingorgo, tuttavia, è politico.
E senza dialogo, per il «sì» occorrerà più tempo: molto più tempo. Invece di essere il laboratorio-principe della strategia della velocità renziana, il Senato ne mostrerebbe i limiti. Per piegare i passatisti, al presidente del Consiglio non basta avere ragione: occorre che gliela diano gli altri. Anche se Renzi ritiene di averla già avuta il 25 maggio: non dai senatori ma dagli elettori.

22 luglio 2014 | 07:51
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_22/democrazia-non-rischio-8764bb36-1162-11e4-affb-3320a03d21e8.shtml
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« Risposta #273 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:56:55 am »

La Nota
Un gioco al rialzo che rende incerto l’esito delle riforme
Napolitano offre una sponda al governo, ma con parole allarmate

Di Massimo Franco

Il problema non è più tanto l’ostruzionismo, ma chi la spunterà tra Matteo Renzi e i suoi avversari; e se per caso perderà il Paese. Dal modo in cui il presidente del Consiglio reagisce, si indovina la voglia di continuare sulla strada del muro contro muro; e di presentare quanti allungano i tempi della discussione sulla riforma del Senato come difensori dello status quo e del proprio scranno. La decisione di imporre da lunedì sedute dalle nove del mattino a mezzanotte per smaltire circa ottomila emendamenti e arrivare all’approvazione prima della pausa estiva, conferma il gioco al rialzo. E lascia intravedere uno scontro strisciante con il presidente del Senato, Pietro Grasso, accusato larvatamente di non sostenere abbastanza le ragioni del governo.

Ma, a meno di un accordo improvviso o della capitolazione di uno dei contendenti, la possibilità di avere il primo «sì» entro l’8 agosto è comunque remota. Anche contingentando gli interventi, sarà difficile rispettare quel termine. La tensione sale, e la fretta del governo viene percepita dagli oppositori come un tentativo di compiere forzature ai confini della Costituzione. Le parole con le quali ieri mattina Giorgio Napolitano ha appoggiato lo sforzo di Palazzo Chigi riflettono il momento di difficoltà del governo; e appaiono come una spinta a trovare una mediazione.

Chiedendo alle opposizioni di cambiare linguaggio e atteggiamento in Parlamento, il capo dello Stato evoca il pericolo che «si miri a un nuovo nulla di fatto». Napolitano sembra temere non solo un allungamento dei tempi, ma addirittura «il naufragio delle riforme». C’è solo da chiedersi se l’offensiva di Renzi piegherà gli avversari o no. L’impressione è che il premier voglia procedere avendo come interlocutori non tanto le opposizioni, sia nel Pd, sia nel M5S e nel Sel, quanto l’opinione pubblica; e che voglia sfruttare la propria popolarità per contrapporre il governo a quello che viene definito il «partito dei frenatori».

«Mentre “loro” fanno ostruzionismo per provare a bloccare il cambiamento, noi ci occupiamo di posti di lavoro», ha scritto ieri Renzi. Alludeva agli accordi di sviluppo per 1,4 miliardi di euro, firmati ieri: «Un messaggio concreto di investimento sul futuro del Paese»; e un modo per scansare la critica di fare poco per l’economia. Il suo punto debole rimane quello. E i suoi alleati-avversari di Forza Italia, docili sulle riforme istituzionali, non smettono invece di punzecchiarlo su questo fronte. L’invito ad «abbassare le penne» che arriva dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, è un segnale.

Renzi, è la sua tesi, «cerca di alzare la voce per coprire il fallimento del suo governo sul piano economico e la palese inesperienza di qualche ministro». Ma «il piglio sbrigativo non va bene». Renato Brunetta, capogruppo di FI alla Camera, insiste: «Ogni giorno si aggiunge una riga alla lista delle voci che portano alla manovra d’autunno». Insomma, i malumori verso il premier sono trasversali. Non significa che prevarranno, ma possono intralciare seriamente le riforme. Il Sel ora chiede di incontrare Napolitano, che ieri sera ha ricevuto anche Renzi. Forse significa che qualcosa si muove: il Sel ha presentato migliaia di emendamenti. Chiedere una mediazione al Quirinale, tuttavia, conferma quanto sia aspro lo scontro

23 luglio 2014 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_23/gioco-rialzo-che-rende-incerto-l-esito-riforme-a43481d6-1227-11e4-a6a9-5bc06a2e2d1a.shtml
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« Risposta #274 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:45:20 pm »

La Nota
Il premier va avanti tra scetticismo e «fuoco amico»
Arrivano attacchi da fronti diversi a cominciare dai democratici

Di Massimo Franco

Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.

Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.

«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco: -0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.

La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.

Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.

3 settembre 2014 | 12:51
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_03/premier-va-avanti-scetticismo-fuoco-amico-b0442f70-332a-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml
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« Risposta #275 inserito:: Settembre 17, 2014, 04:59:45 pm »

La tentazione intermittente
Di Massim Franco

Sarebbe ingiusto sostenere che ieri in Parlamento Matteo Renzi abbia aperto la campagna elettorale. Si tratterebbe di un processo alle intenzioni che il presidente del Consiglio non merita, nel momento in cui rilancia le riforme e ribadisce l’obiettivo del 2018 come traguardo minimo del governo. Rimane tuttavia il problema di quello che farà qualora non riuscisse ad agguantare alcuni degli obiettivi indicati; e di quale sarà l’effetto di una serie di richiami indirizzati all’Europa, alla magistratura, e più in generale a chiunque esprima scetticismo sul successo delle sue ricette. L’orgoglio e la determinazione sono fuori di dubbio.

Ma lo è anche l’insofferenza verso quanti fanno notare una certa sconnessione tra la sua narrativa ottimistica e la situazione economica in via di peggioramento. Renzi predica la velocità. Se non riesce a realizzarla, però, tende a sottovalutare i propri errori di valutazione dei rapporti di forza. E lascia capire che in quel caso la rapidità andrebbe ottenuta rivolgendosi in anticipo al corpo elettorale. È possibile che sia soltanto un espediente per piegare resistenze in aumento e non in diminuzione col passare dei mesi. L’effetto, comunque, non può rassicurare. È significativo che dopo i suoi discorsi a Camera e Senato, il premier si sia dovuto affannare a negare di avere evocato elezioni anticipate.

Bisognerebbe chiedersi come mai abbia trasmesso questa impressione a una parte del Parlamento. Evidentemente, la sua insistenza su una riforma elettorale da fare al più presto insinua il sospetto che voglia capitalizzare i consensi delle Europee del 25 maggio. Né è sufficiente a esorcizzare una simile prospettiva la sua precisazione che gli converrebbe andare alle urne ma non lo farà perché pensa all’interesse nazionale. Se le riforme ritenute dirimenti per il rilancio dell’Italia non marciano, chiedere la legittimazione popolare che tuttora non ha, per Renzi diventerebbe quasi un dovere: a patto di avere un sistema elettorale in grado di garantirgli l’eventuale vittoria e la possibilità di gestirla da Palazzo Chigi.

Nasce da qui un interrogativo di fondo sulla sua vera strategia per i prossimi mesi. La sensazione è che le elezioni politiche siano non un obiettivo ma certo una tentazione intermittente, che spiega l’oscillazione tra dialogo e sfida frontale con gli interlocutori. A suo vantaggio, Renzi ha la consapevolezza di trovarsi di fronte partiti e nomenklature seriamente impauriti dalla prospettiva di essere spazzati via dal voto; e dunque pronti, teoricamente, ad assecondare i suoi ultimatum. Lo svantaggio è che, proprio per questo, non gli sarà facile ottenere il «placet » per una riforma elettorale che verrebbe vista come un’arma letale nelle sue mani.

Additare un programma di «mille giorni» e puntellarlo con un rosario di altolà può essere la strada maestra per ottenere risultati rapidi, oppure per moltiplicare le barriere e perdere tempo prezioso. La Commissione europea, ormai è chiaro, non è disposta ad abbassare la soglia della diffidenza verso il governo italiano, anzi. E tende a vedere negli impegni renziani una scatola piena di contenuti in gran parte virtuali. Aggiungere a tutto questo la variabile di una fine anticipata della legislatura, seppure solo come uno spauracchio, rischia non di rafforzare ma di indebolire la percezione del Paese all’estero, proiettando un’ombra di precarietà più dannosa di qualsiasi riforma mancata.

17 settembre 2014 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_17/tentazione-intermittente-dbab8a42-3e28-11e4-af68-1b0c172fb9a5.shtml
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« Risposta #276 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:35:33 pm »

La Nota
L’ex premier garante di equilibri più precari

Di Massimo Franco

È vero che al momento del voto i «no» alla relazione di Silvio Berlusconi sono stati solo due su cinquanta. L’irritazione dell’ex premier nei confronti dei dissidenti, tuttavia, rivela un malessere più diffuso di quanto dicano i numeri dell’Ufficio di presidenza di FI. L’invito ruvido a lasciare il partito, rivolto a Raffaele Fitto che criticava una linea politica «incomprensibile» perché troppo accomodante nei confronti del governo di Matteo Renzi, segnala un nervosismo latente. La sensazione è che l’asse Berlusconi-premier, garantito da Denis Verdini, stia creando resistenze crescenti. Per questo emerge il tentativo di correggere l’immagine di FI; di assicurare un indurimento contro palazzo Chigi soprattutto sulla politica economica.

Il paradosso col quale Berlusconi si trova per la prima volta a fare i conti, è un partito «governativo» al vertice; ma all’opposizione tra i militanti e una buona fetta di elettorato. Altrimenti non si spiegherebbe il motivo per il quale Fitto viene accusato di «far perdere il 3-4 per cento dei voti» con le sue critiche. Se si trattasse soltanto del «figlio di un vecchio democristiano», come lo ha bollato in modo offensivo Berlusconi, non ci sarebbe di che preoccuparsi. Ma FI sente che non è così. L’abbraccio con Renzi, e di Renzi, sta logorando il centrodestra molto più che il Pd.

E mette a dura prova il «patto del Nazareno» sul quale si fonda la collaborazione sulle riforme istituzionali; e forse un accordo sull’elezione del futuro capo dello Stato. Le ironie nelle file berlusconiane su Verdini mediatore sono sintomi di un’agenda che una parte di FI subisce senza comprenderla. Di più: ne intuisce contorni che sembrano danneggiare le prospettive elettorali. È questa la causa del cortocircuito che l’Ufficio di presidenza ha svelato. Berlusconi oggi è il garante di uno status quo del centrodestra, avvertito come un possibile suicidio. E viene percepito come un leader dimezzato convinto di «tornare in campo» nel 2015, dopo la fine della condanna, mentre però la situazione si evolve rapidamente.

Il timore dell’ala antigovernativa, più estesa dei due «no» di Fitto e Capezzone, è che FI si ritrovi schiacciata dall’alleanza istituzionale con Renzi; e finisca per essere cannibalizzata da un Pd che non nasconde la strategia di sfondare nell’elettorato moderato. È significativo che Berlusconi sia costretto a negare qualunque «soccorso» parlamentare a Renzi sul jobs act . Sembrava infatti che sulla riforma del mercato del lavoro FI potesse supplire ad eventuali defezioni della minoranza del Pd in Senato. Non solo: l’ex premier si è anche scusato con Fitto sulla tradizione democristiana della sua famiglia. «Non volevo mancare di rispetto».

Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano si gode la rissa, vedendo in quanto accade una conferma delle proprie scelte. E ricorda la rottura del 2 ottobre dello scorso anno col Pdl. Eppure, la parabola del Ncd finora non indica un’alternativa forte a FI, ma un altro indizio della crisi di una maggioranza elettorale e di un blocco sociale. È un declino del quale Renzi finora ha beneficiato, ma che in Parlamento potrebbe di colpo danneggiarlo.


Con la Borsa di Milano sotto del 3,9 per cento e le tensioni con Bce e Germania, il governo italiano appare in affanno. Seccato per i rilievi della cancelliera tedesca Angela Merkel, da Londra ieri Renzi ha difeso la «ribellione» della Francia ai parametri europei. L’Italia rispetterà il tetto del 3% tra deficit e Pil, ma rispetta e chiede rispetto per i Paesi che lo superano». Parole orgogliose, che difficilmente cambieranno la sostanza delle cose.

3 ottobre 2014 | 07:17
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_03/ex-premier-garante-equilibri-piu-precari-347996d8-4abc-11e4-9829-df2f785edc20.shtml
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« Risposta #277 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:41:52 pm »

I patti che non reggono
Conseguenze di troppi voti ribelli

Di Massimo Franco

Pensare che il richiamo alla disciplina di partito possa riportare all’ordine le Camere è pura velleità. Lo stallo dispettoso e l’impossibilità di saldare una qualunque coalizione parlamentare sono figli della macerazione delle forze politiche. Dunque sono l’effetto e non la causa della delegittimazione che l’intero sistema sta subendo. Si può anche ripetere l’intemerata contro i franchi tiratori che impediscono l’elezione dei giudici della Corte costituzionale, o frenano sulle riforme. Ma non basta a spiegare un fenomeno nuovo, degenerativo, del quale quanto accade è solo lo specchio.

L’impressione è che in questa fase termini come maggioranza e opposizione siano altamente volatili; e che intese e veti si presentino con una trasversalità così radicale e atomizzata da rendere impossibile qualunque sintesi. Ecco perché il Patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi funziona a quattr’occhi, ma poi incontra resistenze ostinate. Negli ultimi mesi sembra avere cambiato natura. Da accordo «alto», volto a riplasmare le istituzioni, sta rivelando le fattezze di un’intesa di potere che pezzi di entrambi i partiti, Pd e FI, rifiutano; e un alleato come il Ncd teme come una minacciosa tenaglia.

D’altronde, il partito del premier continua a racchiuderne due: uno dentro e l’altro fuori dal Parlamento. Renzi parla agli elettori e al Paese, e insegue un’agenda che sancisce una mutazione dei tradizionali tabù della sinistra. Il problema è che «la ditta», come la chiama l’ex segretario Pier Luigi Bersani, almeno in una parte di deputati e senatori ubbidisce ad altre logiche. Esprime una nomenklatura selezionata dal predecessore, a volte troppo giovane e inesperta, svincolata da qualunque ubbidienza ai vertici; e appartenente ad una cultura distante e sicura di essere spazzata via con le elezioni. Renzi ha la forza e la volontà per farlo, col suo 40,8 per cento delle Europee di maggio.

Per il partito di Berlusconi il problema è opposto. Ha paura di essere strangolato dall’asse col Pd renziano. E così, sebbene Palazzo Chigi stia tentando alcune delle riforme invocate per anni dal centrodestra, Forza Italia recalcitra perché i consensi calano nelle urne e nei sondaggi. Colpisce la soddisfazione con la quale ieri è stata salutata la dichiarazione che FI è all’opposizione: evidentemente non era scontato. Sono malesseri simmetrici che si scaricano su un Parlamento vittima di due «ditte» dalle insegne un po’ datate e scolorite.

A sinistra c’è un leader gonfio di energia ma vissuto come un marziano da alcuni degli eletti; dall’altra un capo ammaccato, incapace di garantire il futuro e la sopravvivenza dei suoi parlamentari. Oltre alle inadeguatezze del sistema, pesano dunque quelle di forze costrette ad una transizione traumatica; e restie ad accettare una qualunque regia. Questo vale soprattutto per il centrodestra, che continua a lasciare un vuoto non solo politico ma sociale. Non viene riconosciuta più nemmeno la supplenza del Quirinale, i cui richiami accorati sono lasciati cadere nel vuoto.

C’è solo da chiedersi come si ricomporrà la consapevolezza dei rischi di collasso del sistema, quando si porrà il problema di eleggere in Parlamento il successore di Giorgio Napolitano. Lo spettacolo di queste settimane è il presagio di un happening che sulla presidenza della Repubblica può dare esiti pericolosamente casuali.

4 ottobre 2014 | 07:54
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_04/conseguenze-troppi-voti-ribelli-2557882a-4b86-11e4-afde-3f9ae166220d.shtml
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« Risposta #278 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:11:43 pm »

Un’Europa plaudente forse anche troppo
Nel coro quasi unanime di lodi e auguri a Renzi si coglie l’incoraggiamento e insieme l’inquietudine degli alleati, dopo il richiamo alla realtà del Fondo monetario: senza riforme condivise rischiamo un rapido declino

Di Massimo Franco

Da tempo Matteo Renzi non collezionava tanti complimenti dall’Europa. Il sospetto è che quelli ricevuti ieri siano troppi per apparire tutti sinceri.

A caldo, verrebbe da dire che la corsa per approvare la riforma del lavoro almeno al Senato ha raggiunto il traguardo sperato: è stata il suo biglietto da visita alla conferenza sull’occupazione a Milano. Lo sfondo di un Parlamento nel quale il Movimento 5 Stelle sbraitava e la sinistra del Partito democratico mugugnava ma chinava la testa votando la fiducia al governo, ha permesso al premier perfino l’ennesima bacchettata al «partito del rigore» dell’Unione Europea. Ma uno sguardo più freddo consente di cogliere, nel coro quasi unanime di lodi e auguri a Renzi, l’incoraggiamento e insieme l’inquietudine degli alleati.

A un premier che contesta una Commissione Ue incline a «fare le pulci ai governi nazionali, uccidendo la speranza della politica», nessuno risponde con durezza. Anzi, la cancelliera tedesca Angela Merkel gli dà atto di avere compiuto passi importanti. Aggiunge solo che confida nella volontà di Francia e Italia di rispettare i patti sottoscritti. E Renzi annuisce, seppure ribadendo il proprio scetticismo. L’Italia lo farà, dice, perché si rende conto di avere un problema di credibilità più acuto di altre nazioni. E apertamente nessuno mostra di essere abbarbicato alla frontiera tra rigore e flessibilità: si pongono tutti il problema della crescita e della disoccupazione, soprattutto giovanile.

Ma Palazzo Chigi sa quali sono gli umori e gli scenari della crisi. Proprio ieri è arrivata una nuova gelata dal Fondo monetario internazionale. È una sorta di bocciatura preventiva per i prossimi anni: un crudo richiamo alla realtà. «Con le condizioni attuali, l’Italia non è un Paese al quale si possa assicurare un futuro radioso o quantomeno sereno». Questo dice il direttore esecutivo del Fmi, Andrea Montanino. «La crescita potenziale crolla per gli anni futuri: siamo inchiodati allo 0,5%». L’analisi fotografa il presente e dunque non tiene conto degli sforzi che Palazzo Chigi sta facendo. Le resistenze che Renzi incontra, i metodi ruvidi e l’ambiguità di alcuni provvedimenti non sono tuttavia il migliore viatico per un successo duraturo.

Come si prevedeva, il Jobs act è stato in bilico fino a tarda notte, anche se le previsioni erano che sarebbe stato approvato, nonostante i malumori per la richiesta di fiducia da parte del governo; e a dispetto di quelle che Renzi ha bollato come «sceneggiate dell’opposizione». «Dobbiamo correre» ha intimato il ministro delle Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi. E Renzi le ha dato man forte nella conferenza stampa a chiusura del vertice di Milano. «Dobbiamo chiudere entro le prossime ore». Ma il livido nei rapporti a sinistra rimane, confermando una coabitazione forzata tra maggioranza e minoranza del Pd; e un conflitto crescente con la Cgil. Questo non significa scissione, però, perché gli avversari di Renzi sanno che ne uscirebbero schiacciati.

La resa dei conti quotidiana col proprio partito vede un segretario-premier comunque vincente. Una lettera critica di ventisette senatori del Pd e i tentativi di fare slittare a oggi la votazione a Palazzo Madama non hanno fermato il provvedimento. E l’Europa, almeno a Milano, è apparsa meno ostile davanti alle richieste di Renzi, intenzionato a rispettare il tetto del 3 per cento nonostante le molte «contraddizioni» che sostiene di vedere. Dunque, si sta aprendo una nuova fase? Può darsi. Il problema è che l’Italia continua ad andare male. I progetti del presidente del Consiglio scompigliano il Paese, cercano di scuoterlo e di iniettargli fiducia; eppure non riescono a cambiare previsioni economiche da brivido.

Segno che qualcosa non va, in Europa ma soprattutto qui. Renzi si sta rendendo conto che non basta piegare gli avversari in Parlamento per invertire la rotta. Dovrà convincerli che, senza riforme condivise in Italia e riconosciute all’estero, il rischio è di declinare perfino correndo.

9 ottobre 2014 | 09:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_09/europa-plaudente-forse-anche-troppo-94356114-4f81-11e4-8d47-25ae81880896.shtml
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« Risposta #279 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:12:55 pm »

La tentazione intermittente
Di Massimo Franco

Sarebbe ingiusto sostenere che ieri in Parlamento Matteo Renzi abbia aperto la campagna elettorale. Si tratterebbe di un processo alle intenzioni che il presidente del Consiglio non merita, nel momento in cui rilancia le riforme e ribadisce l’obiettivo del 2018 come traguardo minimo del governo. Rimane tuttavia il problema di quello che farà qualora non riuscisse ad agguantare alcuni degli obiettivi indicati; e di quale sarà l’effetto di una serie di richiami indirizzati all’Europa, alla magistratura, e più in generale a chiunque esprima scetticismo sul successo delle sue ricette. L’orgoglio e la determinazione sono fuori di dubbio.
Ma lo è anche l’insofferenza verso quanti fanno notare una certa sconnessione tra la sua narrativa ottimistica e la situazione economica in via di peggioramento. Renzi predica la velocità. Se non riesce a realizzarla, però, tende a sottovalutare i propri errori di valutazione dei rapporti di forza. E lascia capire che in quel caso la rapidità andrebbe ottenuta rivolgendosi in anticipo al corpo elettorale. È possibile che sia soltanto un espediente per piegare resistenze in aumento e non in diminuzione col passare dei mesi. L’effetto, comunque, non può rassicurare. È significativo che dopo i suoi discorsi a Camera e Senato, il premier si sia dovuto affannare a negare di avere evocato elezioni anticipate.

Bisognerebbe chiedersi come mai abbia trasmesso questa impressione a una parte del Parlamento. Evidentemente, la sua insistenza su una riforma elettorale da fare al più presto insinua il sospetto che voglia capitalizzare i consensi delle Europee del 25 maggio. Né è sufficiente a esorcizzare una simile prospettiva la sua precisazione che gli converrebbe andare alle urne ma non lo farà perché pensa all’interesse nazionale. Se le riforme ritenute dirimenti per il rilancio dell’Italia non marciano, chiedere la legittimazione popolare che tuttora non ha, per Renzi diventerebbe quasi un dovere: a patto di avere un sistema elettorale in grado di garantirgli l’eventuale vittoria e la possibilità di gestirla da Palazzo Chigi.

Nasce da qui un interrogativo di fondo sulla sua vera strategia per i prossimi mesi. La sensazione è che le elezioni politiche siano non un obiettivo ma certo una tentazione intermittente, che spiega l’oscillazione tra dialogo e sfida frontale con gli interlocutori. A suo vantaggio, Renzi ha la consapevolezza di trovarsi di fronte partiti e nomenklature seriamente impauriti dalla prospettiva di essere spazzati via dal voto; e dunque pronti, teoricamente, ad assecondare i suoi ultimatum. Lo svantaggio è che, proprio per questo, non gli sarà facile ottenere il «placet » per una riforma elettorale che verrebbe vista come un’arma letale nelle sue mani.

Additare un programma di «mille giorni» e puntellarlo con un rosario di altolà può essere la strada maestra per ottenere risultati rapidi, oppure per moltiplicare le barriere e perdere tempo prezioso. La Commissione europea, ormai è chiaro, non è disposta ad abbassare la soglia della diffidenza verso il governo italiano, anzi. E tende a vedere negli impegni renziani una scatola piena di contenuti in gran parte virtuali.

Aggiungere a tutto questo la variabile di una fine anticipata della legislatura, seppure solo come uno spauracchio, rischia non di rafforzare ma di indebolire la percezione del Paese all’estero, proiettando un’ombra di precarietà più dannosa di qualsiasi riforma mancata.
17 settembre 2014 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_17/tentazione-intermittente-dbab8a42-3e28-11e4-af68-1b0c172fb9a5.shtml
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« Risposta #280 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:20:05 pm »

Rubriche - La Nota
Renzi e la strategia che sfrutta la debolezza dell’altro Pd
La vera sfida è con chi a Bruxelles chiede all’Italia più rigore, ma non è detto che all’Europa basti la riforma del Jobs act

Di Massimo Franco

Magari esagerando un po’, Matteo Renzi parla del «programma di riforme strutturali più ambizioso che l’Italia abbia mai avuto»; e «senza pari per complessità e velocità» nella stessa Europa. Tanta enfasi è comprensibile. Oggi il presidente del Consiglio si deve presentare al vertice dell’Ue sul lavoro in programma a Milano. E soltanto con l’esaltazione di quanto il suo governo ha realizzato o comunque impostato finora può sperare in un atteggiamento benevolo degli alleati continentali. La sua forzatura sui tempi di approvazione del cosiddetto Jobs act si spiega su questo sfondo.

Il premier ha imposto la fiducia al Parlamento sfidando lo scarto di un pezzo di Pd soprattutto per presentarsi all’appuntamento di oggi con un «sì» da sventolare davanti agli scettici. D’altronde, è lui stesso a dirlo con una certa dose di candore. «Il posizionamento con cui arriviamo al vertice europeo è straordinario per le riforme messe in campo». A ragione, fin da ieri mattina ha fatto sapere di non temere «agguati» in Senato dal suo partito. E infatti, la rabbia della minoranza non sembra tale da tradursi in un voto contrario. Anche perché Forza Italia annuncia che non voterà l’emendamento del governo, evitando che Renzi sia accusato di nuovo di godere dell’appoggio surrettizio di Silvio Berlusconi. In questa fase non è solo il centrodestra a sottolineare il suo ruolo di opposizione. Ha bisogno di rimarcarlo lo stesso premier per placare almeno in parte i malumori nel Pd. Semmai, si tratta di capire se l’Europa si lascerà impressionare dalle ambizioni riformiste renziane. L’atteggiamento benevolo che si coglieva prima dell’estate oggi si è trasformato in diffidenza. Il debito dell’Italia si attesterà per il 2014 al 136,7 per cento rispetto al Prodotto interno lordo; e l’anno prossimo scenderà solo al 136,4, sostiene il Fondo monetario internazionale. E da Bruxelles il vicepresidente della Commissione Ue, il finlandese Jirky Katainen, vicino alla cancelliera tedesca Angela Merkel, pronuncia un’altra ode al rigore finanziario; con tanto di bacchettata a Francia e Italia per la loro richiesta di rinviare il pareggio di bilancio e, nel caso di Parigi, per la minaccia di sfondare il limite del 3 per cento. Bisogna evitare che «i problemi di due o tre Paesi abbiano impatto su tutta l’eurozona», ha dichiarato.

Insomma, non è scontato che un Jobs act approvato solo al Senato cancelli di colpo le riserve europee, anche se può arginarle. Anche perché lo scontro con i sindacati, in particolare la Cgil, è solo rinviato dopo il breve incontro di ieri mattina. E davanti ai rappresentanti delle forze dell’ordine, Renzi è stato costretto ad accedere alla loro richiesta di sbloccare i contratti: un epilogo accettato dopo le minacce di uno sciopero irrituale.

Se poi la maggioranza dovesse mettersi a litigare anche sulle unioni omosessuali, come ha fatto ieri, si aprirebbe un altro fronte. Ma forse ci si accorgerà che ce ne sono già in abbondanza.

8 ottobre 2014 | 07:42
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_08/renzi-strategia-che-sfrutta-debolezza-dell-altro-pd-0cbe4776-4eac-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml
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« Risposta #281 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:17:48 pm »

Sinodo, malumori e ostilità tra i prelati: Francesco preoccupato
La discussione ha preso una piega non voluta da alcuni: troppa enfasi su divorzi e unioni civili.
Cresce la vulgata di un Pontefice riformatore ma osteggiato dall’interno

Di Massimo Franco

Un’imprudenza. Tale è stata considerata la pubblicazione della relazione seguita alla prima settimana di Sinodo: quella che conteneva le aperture a divorziati risposati e omosessuali. Quando ha visto i testi su Osservatore romano e Avvenire, il Papa ha espresso subito la sua preoccupazione per l’impatto che avrebbero avuto. Timore fondato. L’impressione trasmessa a vescovi e cardinali è stata che non si trattasse di un documento da studiare e discutere, ma di un’anticipazione dell’esito dell’assemblea. Il «Sinodo di carta» ha finito così per allungare un’ipoteca sul «Sinodo reale», dandone un’immagine distorta. E sono scattate le reazioni. L’idea che la riunione straordinaria voluta da Jorge Mario Bergoglio potesse concludersi con un referendum tra «innovatori» e «conservatori», e con la vittoria dei primi, si è rivelata velleitaria e fuorviante. Le resistenze affiorate in sette delle dieci commissioni (i cosiddetti «Circoli minori») contro le tesi aperturiste propugnate dal cardinale tedesco Walter Kasper, sono state un segnale esplicito. Hanno confermato quanto sia complessa e diversificata la realtà della Chiesa in materia di famiglia; e come i tentativi di piegarne gli indirizzi debbano fare i conti con episcopati refrattari a salti e a dosi di novità troppo massicce. Si è rivelata riduttiva e dunque inadeguata la stessa divisione tra «vecchio» e «nuovo». Il tentativo del cardinale Lorenzo Baldisseri, scelto da Francesco come segretario del Sinodo, di evitare che le relazioni dei «Circoli» fossero rese pubbliche, ha fatto emergere per paradosso ancora di più i malumori.

Malumori trasversali anche geograficamente. Di fronte ad un Pontefice silenzioso, come da prassi, è stato il suo «ministro dell’Economia», l’australiano George Pell, un solido conservatore, il capofila di chi ha ottenuto una scelta di «chiarezza». E dietro di lui si sono schierati apertamente il sudafricano Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban; l’americano Raymond Burke, i patriarchi siriano Gregorio III Laham e di Gerusalemme, Fouad Twal, il francese Andrè Vingt-Trois, arcivescovo di Parinìgi, l’italiano Rino Fisichella, il britannico Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster. E il relatore del Sinodo, il cardinale Péter Erdö, primate d’Ungheria. Alla fine, per sbloccare la situazione è dovuto intervenire il segretario di Stato vaticano, Piero Parolin, attento a mediare e a spiegare che le sintesi delle relazioni dei «Circoli» andavano pubblicate.

Il suo intervento ha stemperato la tensione che si era accumulata. Solo in parte, però. A questo punto, il problema non è archiviato. Anzi, sembra destinato a proiettarsi sui prossimi mesi, che precederanno il Sinodo vero e proprio. E rischia di alimentare la fronda nei confronti di un Pontefice determinato ad incidere a fondo nella mentalità e nel modo di agire della Chiesa. Il fatto che Kasper abbia presentato le sue proposte come se provenissero direttamente da Francesco ha finito per sovraesporre Bergoglio. E permette agli avversari di sostenere strumentalmente che la battuta d’arresto registratasi nel Sinodo sarebbe anche una sconfitta papale: come se la sconfessione della «linea Kasper» potesse essere ritenuta un atto di sfiducia verso Francesco, messo simbolicamente in minoranza. È una forzatura inverosimile, ma è l’interpretazione che l’episcopato ostile alle riforme del Papa tenta di accreditare. In realtà, la decisione di rendere il dibattito trasparente riflette la sua volontà e il suo approccio.




E la discussione animata, a tratti aspra, sembra la traduzione di quella volontà di scuotere la Chiesa cattolica e sottrarla all’autoreferenzialità, tipica del Pontefice argentino. Il problema è che il dibattito ha preso una piega imprevista e probabilmente non voluta. Il metodo col quale si sono susseguiti gli interventi si è rivelato difficilmente governabile. E la strategia comunicativa si è dimostrata non esente da pecche. A tratti ha prevalso una sensazione di confusione. I riflettori accesi ossessivamente sui divorziati o sulle unioni civili hanno finito per schiacciare l’attenzione solo su quei temi; e riprodotto una visione molto eurocentrica dell’universo familiare, mettendo in ombra altre questioni sentite acutamente in Africa, Asia o negli Stati Uniti.

L’irritazione per come si sono svolti i lavori non è stata solo di cardinali freddi verso Francesco come Burke. Lo stesso arcivescovo di New York, Timothy Dolan, uno dei grandi elettori di Bergoglio in Conclave, non avrebbe gradito le proposte di Kasper né il modo in cui sono state presentate. Il motivo è che da domani i prelati presenti dovranno tornare nelle loro diocesi; e spiegare ai fedeli quanto è accaduto realmente, e perché. Per un episcopato come quello statunitense, impegnato per anni ad affermare la difesa dei «valori non negoziabili», l’impostazione che è parsa prevalere prima che spuntassero i critici, crea qualche imbarazzo: un disagio che serpeggia anche tra alcuni italiani e polacchi. Il rischio è che si accentui la vulgata di un Papa riformatore e di una Chiesa resistente; e dunque di un Pontificato che non riesce a «convertire» i propri vescovi.

Il risultato sarebbe quello di far passare la tesi che in realtà nulla stia davvero cambiando; e di deludere sia chi si aspettava novità nette, sia chi difende rocciosamente la dottrina. La previsione degli uomini più vicini al Papa è che alla fine si registrerà un consenso quasi unanime nei confronti di Bergoglio; e che si capirà meglio quanto dietro le discussioni ci sia la sua regia, con la scelta di lasciare parlare tutti liberamente e avere un quadro il più possibile fedele delle correnti di pensiero e degli umori. Certo, non si può dire che si sia trattato di un Sinodo banale o scontato. Si è rivelato davvero «straordinario» al di là di ogni previsione. Ma la sensazione è che sia anche sfuggito un po’ di mano, evidenziando i problemi di governo del Vaticano e la difficoltà di Francesco a trovare sempre le persone giuste.

Il Sinodo è stato la prima «vetrina» collettiva del secondo anno di Papato: quella dove è stata esposta e misurata la profondità delle riforme di Bergoglio. Il risultato potrebbe definirsi un altro dei «poliedri» cari al Pontefice: figure geometriche diseguali, nelle quali le diversità si saldano in una unità superiore, e anzi contribuiscono a crearla. Le diversità nel Sinodo sono chiare, l’unità sta ancora prendendo forma. Francesco è un Papa che dimostra grande abilità nel cambiare i paradigmi del potere vaticano, gode di immensa popolarità; e insieme mostra qualche limite sul piano del governo. Forse perché viene da un’America latina dove «la Chiesa è in un certo senso imprecisa, costruisce se stessa nell’esperienza, non si vede solo custode della tradizione», sottolinea un gesuita. Già adesso, sotto voce, affiorano critiche per il «modello Buenos Aires» che ha portato a Roma: una miscela di religiosità popolare e insofferenza per i riti della corte pontificia.

Non solo. Il mandato ricevuto dal Conclave è quello di disarticolare le strutture vaticane che hanno contribuito di più, nell’ottica degli episcopati mondiali, a rovinare l’immagine della Chiesa.

Ma nel Sinodo è affiorata una critica più sottile, sussurrata da tempo: quella di consentire ad un’ala del cattolicesimo un’interpretazione troppo «liberale» della dottrina. È stato il timore di allargare falle dottrinali a provocare la sollevazione contro le aperture a divorziati risposati e omosessuali. Sono temi che l’Occidente concentrato sui diritti individuali sente molto; altri episcopati molto meno, presi come sono da sfide più drammatiche. Bergoglio sa di dover conciliare questi valori con l’eredità europea ed italiana. Ma ha bisogno di tempo e teme di non averne abbastanza per non lasciare le cose a metà.

18 ottobre 2014 | 07:21
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_18/sinodo-malumori-ostilita-prelati-francesco-preoccupato-f9ffef88-5683-11e4-ad9c-57a7e1c5a779.shtml
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« Risposta #282 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:24:17 pm »

La sfida ora è nella Chiesa
Una nuova fase del papato

Di Massimo Franco

Il fatto che Francesco abbia deciso di parlare a conclusione del Sinodo è stato una sorpresa. Come minimo, non era scontato. La sua scelta sembra nascere dalla consapevolezza che il silenzio avrebbe aggiunto ambiguità e drammaticità ad un’assemblea segnata da «animate discussioni», come lui stesso le ha definite. Per questo ha usato parole forti e sincere, degne di un Papa che non ha paura di esporsi e di assumere posizioni scomode.

D’altronde, era difficile limitarsi all’archiviazione banale e formale di un dibattito percorso da tensioni palpabili: soprattutto dopo le votazioni di ieri che hanno confermato l’altolà di una parte degli episcopati mondiali sui temi più delicati e controversi. Francesco sa di avere dietro di sé la maggioranza del Sinodo. Ma per un pontefice attento all’unità della Chiesa non può bastare. Le riserve non sono venute soltanto da «Roma»: da quella Curia che ne soffre il riformismo. Né possono essere bollate solo come «conservatrici».

A contrastare aperture percepite, a torto o a ragione, come sperimentazioni dottrinali, sono anche esponenti del cattolicesimo che l’hanno votato al Conclave del marzo 2013. E Francesco non può sottovalutare o ignorare queste perplessità, pur ribadendo il proprio primato. Dunque le affronta, le analizza, e offre una risposta che tende a includere e a convincere. È un esercizio di saggezza obbligato, per evitare che le resistenze crescano tra mugugni e silenzi.

Si tratta dell’unica risposta possibile di fronte a un mondo religioso che ha vissuto e vive con entusiasmo, ma anche con qualche timore e un filo di disorientamento, le innovazioni di Jorge Mario Bergoglio. Per questo l’impressione è che ieri si sia concluso «un» papato: quello spettacolare, mediatico, acclamato dalle folle. E sia cominciata una fase nuova, che archivia se non gli equilibri, gli umori del Conclave. E apre un pontificato meno scintillante e più drammatico, sofferto: autentico.

Adesso il dialogo non è più solo con le piazze plaudenti ma con una Chiesa pronta a seguire il Papa e insieme decisa a chiedergli certezze e «governo». Francesco ne prende atto e addita «un cammino», lo chiama così, che implica il riconoscimento di differenze profonde. Sa che deve ricomporle, perché la sua idea del poliedro disuguale e reso compatto proprio dalle diversità non può solidificarsi senza avere dietro una Chiesa convinta: la sola in grado di accettare e amalgamare una complessità altrimenti a rischio di frammentazione.

19 ottobre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_19/nuova-fase-papato-5c12efc0-5758-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml
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« Risposta #283 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:11:47 pm »

Un Quirinale deciso a calmare gli animi
Il semestre europeo e la mancata nomina del nuovo ministro degli Esteri può creare equivoci nel semestre italiano

Di Massimo Franco

C’è da chiedersi come mai la nomina del nuovo ministro degli Esteri non sia stata preparata per tempo, sapendo che Federica Mogherini avrebbe lasciato il suo posto a fine ottobre; e che dal 1° novembre scatterà l’incompatibilità col suo nuovo incarico europeo. Sembra che l’udienza concessa ieri dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano a Matteo Renzi non abbia ancora risolto la questione: al punto che ieri sera, tra le varie voci che circolavano, si è parlato perfino dell’eventualità che il premier assumesse l’ interim della Farnesina fino a quando maturerà la scelta.

In realtà, è probabile che la decisione venga presa nelle prossime ore. Ma rimane la sensazione di una vicenda diventata più complicata di quanto ci si sarebbe aspettati. Anche perché la sostituzione del ministro degli Esteri segue il successo, come minimo di immagine, che Renzi ha ottenuto imponendo la Mogherini al vertice della politica estera europea. E si registra nel bel mezzo del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Il ritardo può essere attribuito a più di una ragione. Il problema è che viene sottolineato da uno sfondo di tensioni su altri livelli.

I lividi lasciati dalle ore concitate vissute dal governo dopo le cariche della polizia contro gli operai dell’Ast (Acciai Speciali Terni) dell’altro ieri a Roma non sono stati ancora smaltiti del tutto. Lo scontro con la Cgil che le ha precedute e seguite viene diplomatizzato a fatica. Affiora il nervosismo sulla tenuta sociale del Paese, che attraversa lo stesso esecutivo, la maggioranza e il Pd. Non si può ignorare il messaggio inviato ieri dal presidente della Repubblica al congresso dei radicali italiani. Con lo stile che lo caratterizza, Napolitano si è rivolto «a ciascuno degli attori, individuali e collettivi, della vita politica e istituzionale».

Ed ha spiegato come ad ognuno «competa una assunzione di responsabilità per contribuire ad una maggiore coesione nazionale». Sono parole mirate a richiamare ognuno al senso di responsabilità; e a non assumere atteggiamenti e pronunciare parole che alimentano le polemiche e i conflitti. Lo stesso Angelino Alfano, ministro dell’Interno, nel suo intervento al Senato per spiegare le cariche della polizia, ha invitato a «non cavalcare il disagio occupazionale».

Sono segnali destinati anche a Palazzo Chigi, perché alla lunga si rischia di perdere il controllo della situazione e destabilizzare un governo senza alternative; e cementato dall’asse tra Renzi e Silvio Berlusconi. «Si procede senza intoppi», assicura l’ex premier ai vertici di FI. E a testimonianza che il patto del Nazareno sulle riforme è vivo e vegeto, aggiunge che il suo rapporto con Denis Verdini, garante dell’alleanza con Renzi, «è fortissimo». L’unica ombra potrebbe inspessirsi sulla riforma elettorale. Eppure, Pd e FI sembrano più d’accordo di quanto appaia: sempre che non spuntino tentazioni di voto anticipato.

31 ottobre 2014 | 07:35
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_31/quirinale-deciso-calmare-animi-544f50c6-60c7-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml
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« Risposta #284 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:28:14 pm »

Che cosa insegna quel verbale
La testimonianza di Napolitano

Di Massimo Franco

Leggerlo è utile: ma forse, più come ricostruzione di una stagione politica che ai fini della verità giudiziaria. Il verbale della testimonianza resa al Quirinale dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ai magistrati della Corte di Assise di Palermo, trasmette un’impressione strana. Alla fine, magari si capisce perché sia stata chiesta. Non è chiaro, però, se aggiunga molto a quanto già si sapeva. Esalta piuttosto l’insistenza di alcune domande considerate inutili dagli stessi giudici: soprattutto quelle dell’avvocato del mafioso Totò Riina; e la lucidità e insieme la discrezione delle repliche.

Per questo l’episodio rischia di essere ingombrante non tanto per la presidenza della Repubblica, ma per chi ha insistito per interrogare Napolitano sulla presunta trattativa Stato-mafia. E, sebbene sia sempre preferibile la trasparenza totale, il pericolo di ritrovarsi con spezzoni di frasi è stato sovrastato dalla preoccupazione di scrivere un’altra pagina di giustizia-spettacolo. Scelta controversa, ma spiegabile con la volontà di evitare una sorta di processo in streaming sul fondale degli arazzi del Quirinale.

I magistrati si dicono comunque soddisfatti, perché è stata legittimata al massimo livello la tesi di una fase, quella a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, in cui la mafia ha tentato di colpire lo Stato italiano con una serie di attentati sanguinosi. Ma la cosa si era già capita, e da tempo: sono fatti che sembravano già ampiamente sviscerati nei processi. Il dubbio che fosse davvero opportuno sentire anche Napolitano, dunque, rimane.

Vedere le prime due pagine del verbale interamente occupate dai nomi di magistrati e avvocati presenti, dà l’idea di qualcosa di eccezionale, anomalo e pletorico. Nonostante tutti gli aspetti che giustificano e legittimano l’iniziativa della Corte palermitana, ristagna un alone di non detto sui rapporti tra istituzioni. Va scacciato come un’illazione gratuita il sospetto che qualcuno abbia tentato una forzatura nella speranza di mettere il presidente della Repubblica sulla difensiva. Visto l’esito del confronto, tra l’altro, sarebbe stata un’operazione maldestra e dagli effetti opposti.

1 novembre 2014 | 08:30
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_01/che-cosa-insegna-quel-verbale-cf26445c-6190-11e4-8446-549e7515ac85.shtml
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