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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193760 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Febbraio 26, 2013, 04:50:33 pm »

I conti con la realtà


Ha vinto un’Italia euroscettica: almeno nei confronti della politica del rigore economico. Un terzo polo è spuntato, ma non è quello di Mario Monti: moderato, europeista, governativo. È invece quello radicale, protestatario e populista di Beppe Grillo, che ha raggiunto percentuali sorprendenti. Ma accanto al comico che è riuscito a strappare un quarto dei voti, c’è un altro vincitore. Si tratta di Silvio Berlusconi che ha scommesso sulla propria sopravvivenza. Ed è riuscito a garantirsela con una corona di liste satelliti che gli ha fatto superare il centrosinistra al Senato in termini di seggi; e sfiorare un’affermazione clamorosa alla Camera.

Per paradosso, Pier Luigi Bersani perde politicamente, pur vincendo il premio di maggioranza a Montecitorio. Era sicuro di farcela. Ma ha sottovalutato l’onda d’urto grillina e la resistenza aggressiva del berlusconismo. Adesso fare un governo sarà obbligatorio; ma dare corpo a un’alleanza duratura si profila impossibile. Il fantasma che si cercava di esorcizzare, l’instabilità, si è materializzato con una forza dirompente e inattesa. E ora è lì, a dilatare il senso di impotenza di partiti che si sono illusi di ingessare la situazione non facendo la riforma elettorale. E hanno provocato la reazione rabbiosa di un’opinione pubblica decisa a spazzare via la Seconda Repubblica. Come accade spesso, l’esito è ambiguo.

Berlusconi, che aveva portato l’Italia sull’orlo del precipizio finanziario, dimostra che la sua stagione da premier è finita; ma la sua capacità di parlare alla pancia del Paese rimane molto forte. La sinistra ribadisce l’incapacità di superare diffidenze più radicate di qualunque pronostico favorevole. E il centro di Monti rimane schiacciato non solo dal sistema elettorale, perché altrimenti non si spiegherebbe la vittoria di Grillo, ma da una rivendicazione dei sacrifici che l’elettorato ha rifiutato. Il sostegno dell’Europa al premier non ha sortito nessun effetto; anzi, forse ne ha avuto uno negativo.

È come se l’Italia avesse interiorizzato l’idea di una sospensione della democrazia; e si fosse rifiutata di analizzare i riflessi internazionali del voto. Di più: ha deciso di sfidarli, assecondando umori ostili a un’austerità valutata non per gli effetti benefici sui conti pubblici, ma per quelli negativi sulla crescita e sui posti di lavoro. Monti paga una scelta controversa, l’impopolarità e l’inesperienza. C’è solo da sperare che non si prenda una rivincita se l’Italia dovesse riemergere dalle elezioni isolata a livello europeo. Il saldo della scelta democratica compiuta nelle urne andrà calcolato nei prossimi mesi. Se non si troveranno un accordo e un’unità su alcune riforme, la prospettiva di una legislatura corta, cortissima, diventerebbe pericolosamente verosimile. Col rischio di un commissariamento ben più traumatico di quello percepito negli ultimi mesi.

Massimo Franco

26 febbraio 2013 | 9:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_26/i-conti-con-la-realta-franco_658dcc22-7fc4-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Marzo 10, 2013, 11:24:20 am »

LA CHIESA TRA MISSIONE E TRASPARENZA

Il fardello dei cardinali


Il Conclave che sta per cominciare ha già assunto contorni epocali: se non altro perché arriva sull'onda della rinuncia di Benedetto XVI al papato. Per questo le attese della Chiesa cattolica, e non solo, sono così grandi da apparire a volte sproporzionate. La distanza fra la comunità dei fedeli e il Vaticano è più vistosa del passato: al punto da prefigurare una contraddizione, se non una frattura, fra la dimensione religiosa e quella del governo della Santa Sede. Ma è soprattutto sul concetto di trasparenza che le due realtà risultano sconnesse. Dal basso, e anche dai vertici di alcuni episcopati mondiali, arrivano richieste radicali di chiarezza e di pulizia che finora sono state respinte e frustrate.

Ma il risultato è che il dossier dei tre cardinali incaricati mesi fa di indagare sulle fughe di notizie e sul malaffare dentro le Sacre Mura galleggia come una mina vagante intorno alla Cappella Sistina. Gli appelli a rivelarne il contenuto sono stati inutili; e questo impedisce di scegliere avendo a disposizione tutte le informazioni sui «papabili». Eppure, sarebbe disastroso coprire una verità a conoscenza di un pugno di persone della Curia, col rischio che ne vengano usati impropriamente spezzoni per colpire l'uno o l'altro candidato; e per influenzare l'andamento o addirittura l'esito del Conclave. Può darsi che si tratti di notizie non degne di nota, ma allora tanto vale consegnarle agli «elettori».

Se invece, come sembra, il dossier descrive una realtà ingombrante, di fatto ritenuta inconfessabile, l'esigenza di condividerlo con i cardinali risulta ancora più impellente. Più ci si avvicina alla data di inizio con gli ultimi arrivi a Roma, più filtrano voci velenose di inchieste giudiziarie, scandali «in sonno», «incompatibilità» riguardanti l'uno o l'altro candidato al soglio di Pietro. Contro il pericolo di condizionamenti e di manovre, sembra prevalere la cultura del segreto, presentata nobilmente come tutela del diritto alla riservatezza. Ma si tratta di un riflesso difensivo antico quanto pericoloso in una fase così convulsa.

La trasparenza ha un costo. L'opacità, però, potrebbe averne uno molto superiore, e alla fine devastante. Rischia di gettare ombre su tutto il Collegio cardinalizio; e di inquinare, perfino a dispetto della verità, un'elezione che dovrebbe essere soprattutto in questo momento libera, consapevole e senza ombre. Basta pensare ai contraccolpi che rivelazioni pilotate provocherebbero nel corso del Conclave; o, peggio, dopo l'elezione del nuovo pontefice. L'idea che la Chiesa cattolica emerga meno credibile di prima da questa fase definita di «purificazione», fa spavento e va respinta. Ma è un'eventualità da non escludere, se non si farà nulla per evitare che i sospetti lievitino.

In quel caso il controverso, drammatico sacrificio di Benedetto XVI risulterebbe non la risorsa estrema per provocare la riforma, anzi la palingenesi del cattolicesimo. Verrebbe ridotto a un gesto di impotenza, addirittura di disperazione, di fronte a una realtà così terrena da umiliare e schiantare anche i propositi più spirituali.

Massimo Franco

8 marzo 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_08/il-fardello-dei-cardinali-massimo-franco_31331d06-87b2-11e2-ab53-591d55218f48.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Marzo 14, 2013, 06:07:24 pm »

Chi sperava in un compromesso gattopardesco sorpreso dall'identità globale

L'idea di un pontefice italiano bloccata dalle divisioni tra cardinali

Si è passati all'analisi dei veri rapporti di forza, basati sul numero dei fedeli e non su quello dei porporati nella Sistina


Si avvertiva una miscela di speranza e di inquietudine, nella prospettiva di tornare ad avere un papa italiano. Simbolicamente, sarebbe stata una rivincita importante. Avrebbe significato smentire una vulgata secondo la quale i conflitti interni, Vatileaks , la guerra intorno allo Ior e l'alleanza di fatto con il centrodestra berlusconiano avevano scalfito la credibilità dell'episcopato e del Vaticano «romano»: anche a livello internazionale. Dopo trentacinque anni, sul soglio di Pietro sarebbe arrivato di nuovo un esponente di quella filiera storica di pontefici che hanno dominato i Conclavi, accreditando una «scuola» fatta di raffinatezza culturale, conoscenza più che subalternità alla Curia, e grande capacità di governo della Chiesa. Eppure, era chiaro dall'inizio che non esisteva un «partito italiano» capace di imporsi in Conclave ai cardinali del resto del mondo.

Lo sfondo era cambiato più di quanto forse chiunque avesse percepito. E il nome di Jorge Bergoglio, argentino, papa Francesco, uscito sulla scia della fumata bianca di ieri sera, è figlio non di un cambio di maggioranze rispetto al 2005, ma di una fase completamente nuova che spazza via vecchi paradigmi e vecchie divisioni tra «conservatori» e «progressisti». E conferma quanto fosse vero che la pattuglia italiana, forte numericamente, non poteva imporsi perché divisa e appesantita dall'immagine controversa offerta negli anni del papato di Benedetto XVI. La sua identità è risultata troppo «nazionale», troppo «vaticana» per affrontare una Chiesa cattolica decisa a cambiare radicalmente i termini della sfida.

Il risultato è che quanti coltivavano la speranza di un compromesso gattopardesco non sono riemersi tanto sconfitti, quanto superati dall'affermazione stupefacente di un'identità globale, espressa da una maggioranza che con aggettivo riduttivo si potrebbe definire «riformista». Forse non poteva essere diversamente, dopo la rinuncia di Joseph Ratzinger: a meno che non si volesse banalizzare il suo gesto controverso e drammatico, e correre il rischio di una decadenza della quale già si intravedevano i primi segni. D'altronde, trentacinque anni di papi stranieri, da quel 1978 che vide l'elezione di Karol Wojtyla, hanno abituato quasi due generazioni di ecclesiastici e di opinione pubblica italiani a considerare naturale il fatto che la Santa Sede sia guidata da uno «straniero». Vescovi e cardinali sono cresciuti all'ombra di un pontefice polacco e poi di quello tedesco, accentuando l'immagine di un episcopato insieme fedele al Papa e autonomo, custode quasi geloso delle proprie prerogative nazionali. L'obiezione di fondo che gli avversari di un pontefice italiano avevano avanzato, riguardava il profilo internazionale del Vaticano.

Non volevano che la percezione fosse di nuovo quella di una Chiesa italocentrica ed eurocentrica, nella quale le componenti curiali ed europee sono rappresentate in modo esagerato rispetto al resto del mondo dove il cattolicesimo cresce e non avvizzisce. Probabilmente è una, anche se non la sola ragione che ha spinto il Conclave a guardare altrove, «quasi alla fine del mondo», nelle parole di Francesco: un'eccentricità geografica che in realtà marginalizza quanti nell'episcopato italiano si erano illusi che il loro numero significasse anche peso specifico negli equilibri del cattolicesimo mondiale. La legittimazione cardinalizia ha dovuto cedere il passo ad un'analisi dei veri rapporti di forza, basati sul numero dei fedeli, sulle sfide da affrontare, sulle rughe ed i limiti da analizzare senza reticenze.
E comunque, di nuovo è affiorata l'ombra della divisione del «partito italiano». Sono spuntate resistenze nella Curia, ma anche in settori della Cei, nei confronti di un Angelo Scola che appariva «il più papabile» ma per paradosso spaventava chi non voleva una personalità forte e capace di incidere in profondità sulle incrostazioni curiali. Per giorni si è parlato di settori italiani del Collegio cardinalizio perplessi su di lui. E la rapidità con la quale si è arrivati alla scelta di Bergoglio conferma che i voti su cui poteva contare Scola sono risultati da subito insufficienti. Rimane da vedere se l'arcivescovo di Milano diventerà «primo ministro» vaticano, visto che Tarcisio Bertone è dato fisiologicamente in uscita. Ma forse, le sorprese maggiori potranno venire dal modo in cui Francesco ridefinirà i rapporti con la Conferenza episcopale italiana; e da come affronterà la riforma inevitabile della Curia e più in generale del «governo» vaticano.

Sullo sfondo si stagliano le divisioni che hanno attraversato le associazioni cattoliche italiane; il collateralismo fra le gerarchie e il potere politico; gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno investito ecclesiastici e politici ostentatamente cattolici: frammenti che hanno contribuito ad accreditare una contiguità sospetta, osservata dagli episcopati stranieri con fastidio e imbarazzo. L'insistenza soprattutto dei cardinali nordamericani per avere notizie più dettagliate su Vatileaks è indicativa.

Quanto al governo vaticano, circola già l'ipotesi che si arrivi ad una sorta di «consiglio della tiara»: un gruppo ristretto di «saggi» chiamati a proteggere il Papa ed evitare che l'«Appartamento» diventi l'imbuto intasato di mille dossier. Su questo sfondo, l'«italianità» si presenta ormai come una nazionalità qualsiasi; anzi, sacrificata forse oltre le responsabilità collettive dalla vicinanza al cuore del potere vaticano: una prossimità che ha finito per danneggiarla e non favorirla, accomunando e confondendo le responsabilità. Certo, per un episcopato che contava quasi un quarto dei cardinali elettori il risveglio è brusco. D'altronde, la rinuncia di Benedetto XVI aveva sbriciolato ogni residua rendita di posizione. E indicato un «nuovo inizio» incarnato dal sudamericano Bergoglio. Ma non da europei e soprattutto italiani, schiacciati dal fardello di una lunga crisi.

Massimo Franco

14 marzo 2013 | 10:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/14-mar-pontefice-divisione-cardinali_41ac0cdc-8c7c-11e2-ab2c-711cc67f5f67.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Marzo 15, 2013, 06:25:49 pm »

VATICANO

Papa, per il dopo Bertone avanza lo straniero

I timori della Curia in attesa delle prime nomine e delle scelte di Francesco sulla successione alla Segreteria di Stato


Chi era lì, accanto al Papa appena eletto, racconta che alcuni esponenti della Curia romana avevano facce di cera. Più che paura, mostravano smarrimento: la perdita della bussola da parte di un mondo che si sente di colpo superato, scavalcato. Destinato a cambiare o a finire.
La vera notizia è che nessuno, almeno in apparenza, è in grado di prevedere che cosa abbia in testa Francesco sul prossimo segretario di Stato vaticano; sulla riorganizzazione della Curia; sul futuro dello Ior, la controversa «banca del Papa». E la prospettiva che voglia prendersi qualche settimana di tempo prima di decidere non viene percepita come un segno di esitazione, o della volontà di temporeggiare.
Tutti sentono che alla fine, e fra non molto, le decisioni arriveranno, e apriranno in modo indiscutibile una pagina nuova.

Si guarda molto al momento in cui Tarcisio Bertone lascerà la Segreteria di Stato, perché la figura del suo successore indicherà le intenzioni di Francesco. Eppure, per quanto certo il cambio della guardia non offre certezze, ma solo presagi di rottura con il passato. L'ipotesi che un pontefice argentino non possa che nominare come suo «primo ministro» un italiano in nome di una sorta di compensazione per la mancata elezione in Conclave, è tutta da verificare. L'unico elemento sul quale qualcuno azzarda previsioni, è che il «primo ministro» venga scelto fra le file dei diplomatici vaticani, trascurati nell'era di Benedetto XVI. L'esigenza di ricostruire un'agenda internazionale che negli ultimi anni è apparsa sfilacciata e piena di smagliature, è sentita in modo acuto. Per il resto, Jorge Bergoglio in realtà è un italoargentino e dunque in teoria «copre» la casella di due nazionalità. Ma soprattutto, la sua candidatura è maturata e lievitata in silenzio e seguendo dinamiche nuove, negli episcopati americani del Nord, del Centro e del Sud.

La sensazione è che il nome aleggiasse da tempo, senza che i cardinali europei se ne rendessero conto fino in fondo, se non al mattino di mercoledì, a giochi quasi chiusi; e mentre il numeroso «partito italiano» accarezzava ambizioni e perpetuava conflitti destinati a spiazzarlo. Filtra un episodio indicativo. Domenica scorsa, quando mancavano due giorni all'apertura del Conclave, Bergoglio aveva incrociato in piazza Navona, a Roma, Thomas Rosica, canadese, presidente della televisione «Salt and Light», «Sale e Luce». Il sacerdote gli aveva chiesto se fosse nervoso. «Un po'», aveva replicato l'allora arcivescovo di Buenos Aires. «Pregate per me, perché non so che cosa i miei fratelli cardinali mi stiano preparando». Sembra di capire che già allora una porzione potente e compatta del Conclave «guardava a Ovest», come ha sintetizzato ieri il quotidiano finanziario The Wall Street Journal , con orgoglio americano prima che statunitense: lo stesso che il giorno prima aveva imputato al cardinale italiano Angelo Scola legami stretti con la politica.

Il problema è che adesso Francesco sta cominciando a guardare a Roma, e i piccoli gesti che compie sono potenzialmente così di rottura da far pensare a cambiamenti più radicali di quelli avvenuti nel 1978 con l'elezione di Giovanni Paolo II. «È la fine del papa re e della corte vaticana», scolpisce un conoscitore profondo dei riti e delle logiche della Roma pontificia. Si registra una certa concordia nel ritenere che il suo mandato sia quello di fare pulizia nella Curia, e di evitare che si ripetano le tensioni che hanno sfigurato l'episcopato italiano.
Una delle tante leggende che cominciano già a fiorire, racconta che quando subito dopo l'elezione il cerimoniale gli ha porto la mantellina rossa bordata di ermellino, il pontefice avrebbe risposto: «Monsignore, questa la metta lei. È finito il Carnevale». Vero o no, l'istinto di sopravvivenza della Curia ha captato subito che il Vaticano potrebbe essere all'inizio di un rinnovamento radicale, una «rivoluzione della frugalità e dell'esempio».

Probabilmente era un cerimoniale che Benedetto XVI subiva più che volere; ma che ha finito per apparire la cifra controversa di una Chiesa messa a confronto con una crisi non solo della fede e delle vocazioni, ma dell'economia mondiale. C'è chi reagisce alla novità con un conformismo ai confini del servilismo, sostenendo di avere sempre pensato a Bergoglio come vero candidato; e annuendo alle rotture del passato dicendo che «era ora». E chi, più cautamente, cerca di decifrare le intenzioni di questo gesuita argentino chiamato a ridisegnare la mentalità, prima che le strutture del governo vaticano. «Bergoglio non è solo un papa che sta con i poveri, ma un papa povero, che da tempo ha compiuto questa scelta». Chi lo fa presente, però, invita a non sottovalutarlo: la biografia di Francesco è quella di un uomo determinato. E se anche le nomine verranno dopo, «fra qualche settimana», si spiega, è solo perché vuole scegliere qualcuno che impedisca alla Curia di imbrigliarlo.
Il nuovo Papa è chiamato ad archiviare un Vaticano. E lo farà.

Massimo Franco

15 marzo 2013 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/15-marzo-per-la-successione-a-bertone-franco_d607f5e2-8d3c-11e2-b59a-581964267a93.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Marzo 18, 2013, 04:41:18 pm »

POLITICA e stabilità

Verso una deriva estremista

Si finge di ignorare che il bipolarismo è reso tale solo da meccanismi elettorali perversi

I nomi sono nuovi e rispettabili. È difficile, tuttavia, sfuggire ad un leggero senso di vertigine per lo sbilanciamento a sinistra che i vertici del Parlamento certificano. Il «sistema delle spoglie» all'italiana consegna una fotografia degli equilibri di potere che sembra scattata sette anni fa, ai tempi dell'Unione. E non promette una stabilizzazione delle istituzioni, ma una fragilità che accentua il timore di una legislatura già incanalata sul binario morto. Si deve concedere che la responsabilità non possa attribuirsi al solo Pd. L'esito è anche figlio di un risultato elettorale ambiguo e destabilizzante in sé.

Ma si sperava che venisse «letto» in maniera diversa. E invece, brillano la contraddizione esistenziale di un Movimento 5 Stelle incapace di assumersi con trasparenza un ruolo in positivo; un Pdl risucchiato in una deriva giudiziaria, cavalcata nella speranza che un Silvio Berlusconi nel ruolo di vittima porti voti; e un centrismo montiano in affanno a ritrovare bussola e sponde internazionali. Comunque la si guardi, la situazione appare sconfortante. Neppure un mese dopo un voto annunciato come decisivo, l'Italia è di nuovo immersa in una campagna elettorale. Anzi, in fondo non è mai uscita dall'altra. Ma il guaio non dipende solo dal fatto che il Senato sia senza una maggioranza.

Il problema è la deriva estremista delle posizioni. È il rifiuto dei partiti di cercare un qualunque compromesso. È il peso dell'impotenza del sistema politico scaricato sul Paese, senza alcuna riforma. Si finge di ignorare che il bipolarismo è reso tale solo da meccanismi elettorali perversi; e che promette frutti avvelenati in vista della scelta del prossimo presidente della Repubblica, a metà aprile. Per come si stanno mettendo le cose, rischia di prevalere un'autosufficienza della sinistra declinata nel modo più conflittuale e corrosivo per la legittimità delle istituzioni: col risultato di regalare argomenti alla propaganda berlusconiana. Insomma, la politica è tornata, e offre uno spettacolo mediocre.

Forse perché in realtà non se n'era mai andata, nonostante il governo dei tecnici. Certo, se si pensa che il Pd prometteva di comportarsi come se avesse il 49 per cento anche ottenendo il 51, c'è da trasalire. Con il 29,5 insieme con il Sel di Nichi Vendola, si comporta come se avesse una percentuale doppia. Quanto alle alleanze, il discrimine dell'europeismo è stato messo in ombra per inseguire il fantasma di un'intesa con un Beppe Grillo che persegue, per tacere il resto, un referendum per fare uscire l'Italia dall'euro: una linea irresponsabile, prima che impraticabile. Insomma, dopo il 24 e 25 febbraio si è persa un'occasione per offrire l'immagine di un Paese avviato alla stabilità e credibile in Europa.

Ma ora sarebbe bene non creare le premesse per perderne un'altra. Usare il «premio» fornito da una legge elettorale più che discutibile per annettersi una ad una le cariche istituzionali scadute o in scadenza potrebbe rivelarsi non solo miope ma pericoloso. Il «partito italiano» in Conclave era numeroso e in apparenza potente, e ha perso perché era debole nella Chiesa cattolica. Forse, quell'esempio può essere un motivo di riflessione per il «partito della sinistra italiana» alla vigilia di appuntamenti laici ai quali si presenta gonfia di parlamentari ma non di voti.

Massimo Franco

18 marzo 2013 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_18/una-deriva-estremista-massimo-franco_9382bdbc-8f8d-11e2-a149-c4a425fe1e94.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:28:25 pm »

LA NOTA

Il segretario del Pd verso un incarico tra molte incognite

Oggi arriverà la decisione del Quirinale dopo il nuovo no di Grillo

I l «no», peraltro scontato, di Beppe Grillo, restituisce a Giorgio Napolitano un Parlamento senza una maggioranza certa. E rende la prospettiva di un incarico a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd nebulosa eppure probabile. Ieri la delegazione dei Democratici è andata al Quirinale riproponendo un «governo di cambiamento»; e candidando Bersani a presiederlo. Eppure, poche ore prima le delegazioni appena uscite dallo studio del capo dello Stato riferivano che Napolitano è pronto a conferire l'incarico solo in presenza di numeri certi. E il nuovo presidente del Senato, Pietro Grasso, eletto dalla sinistra, si era lasciato sfuggire di essere «pronto a tutto per fare qualcosa per il mio Paese».

Quella di Grasso è stata vista come una disponibilità a presiedere «un governo tecnico-politico»; e come un implicito benservito per Bersani.
Al punto che il presidente del Senato ha dovuto precisare con un filo di imbarazzo: «Non vorrei essere interpretato in modo distorto». La confusione nasce da uno sfondo politico e parlamentare nervoso; e dall'inesperienza e dalla volgare disinvoltura con la quale alcuni gruppi sono andati da Napolitano. Il capo dei senatori M5S, Vito Crimi, è arrivato a dire che Grillo ha «tenuto abbastanza sveglio» il capo dello Stato.

Crimi poi si è scusato col Quirinale, dando la colpa, come fanno di solito i politici colti in fallo, ai giornalisti. Sono sprazzi che confermano una strategia tesa a bocciare qualunque ipotesi di accordo; e a tentare lo scardinamento del sistema. La richiesta grillina di Palazzo Chigi o, in subordine, della presidenza di commissioni come il Copasir (servizi segreti) o la Vigilanza sulla Rai, sembra avanzata per ricevere un no e gridare al regime. Lo stesso Bersani ha preso atto di avere davanti un interlocutore inaffidabile.
Si tratti di taglio di costi della politica o di posti in Parlamento, i grillini vogliono marcare la diversità con l'occhio alle urne.
Eppure, il Pd continua a rifiutare l'ipotesi di un accordo con il Pdl. Una maggioranza che veda insieme il partito di Bersani e quello di Silvio Berlusconi «non verrebbe votata dal 70 per cento almeno dei deputati del Pd», si spiega. Un «no» ad un governo di tregua nazionale, al quale lavora Napolitano, rischia tuttavia di isolarlo e di tirargli addosso l'accusa di portare l'Italia in un vicolo cieco. Già adesso gli avversari scaricano sul Pd una rigidità che, se confermata, provocherebbe un'interruzione rapida della legislatura.

Bersani, tuttavia, sa di non potere forzare la mano al capo dello Stato. Si fa scudo del «no» di Grillo a governi politici e tecnici, per perorare la propria causa. Se anche arriverà, però, si tratterà di «un» incarico tutto da costruire: al massimo «di avvio della legislatura».
A sorpresa ieri, dopo l'udienza da Napolitano, Bersani si è rivolto a «tutte le forze presenti in Parlamento», attenuando la pregiudiziale contro il Pdl e mandando segnali alla Lega con l'idea di una «Camera delle autonomie». Ma i conti non tornano.

Stefano Fassina, responsabile economico, minimizza: se al Senato non ci sono i numeri, «non sarebbe una novità: successe già nel '94 con Berlusconi». Ma quel governo durò appena sette mesi.

Massimo Franco

22 marzo 2013 | 7:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_22/nota_040752c8-92b8-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Marzo 23, 2013, 05:50:06 pm »

INCARICO A BERSANI

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L’espressione-chiave del discorso fatto ieri da Giorgio Napolitano è che l’incarico a Pier Luigi Bersani rappresenta «il primo passo» di un cammino. Significa che viene affidato al segretario del Pd nel segno di un minimalismo reso obbligato dal risultato delle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi: la situazione è così slabbrata e rigida fra i partiti e a livello parlamentare, che formare un governo sarebbe già in sé un miracolo. Implica soprattutto la volontà di non lasciare che la legislatura vada alla deriva, qualunque sia l’esito del tentativo del presidente del Consiglio incaricato. L’importante è cominciare; l’approdo va tutto costruito.

Il piano, da seguire in ogni sua fase, sembra in primo luogo quello di impedire elezioni anticipate in tempi ravvicinati. L’esigenza è di fare maturare gradualmente, in una prospettiva meno convulsa, quel «forte spirito di coesione nazionale» che Napolitano invoca come risorsa al momento indisponibile. Bersani ha ottenuto di mettere un piede dentro Palazzo Chigi perché l’esito elettorale gli ha dato la maggioranza assoluta alla Camera, e quella relativa al Senato. E soprattutto perché il capo dello Stato ha dovuto registrare il «no» del Pd e del Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo a qualunque ipotesi di «governo di vasta unione ovvero, come si dice in linguaggio europeo, di grande coalizione ».

Sullo sfondo, tuttavia, l’esigenza rimane. E non è da escludersi che il candidato della sinistra possa soddisfarla al momento di presentarsi alle Camere, nelle pieghe del rifiuto ufficiale a qualunque intesa col Pdl. L’intenzione è di tenere distinti i versanti della maggioranza, comunque stretta, e delle questioni istituzionali che ne richiedono una più larga. La speranza di Bersani è di ottenere di volta in volta dalle opposizioni qualche prezioso «lasciapassare» o consenso in più a Palazzo Madama. Per questo si prepara a offrire alcune proposte in grado di fornire almeno un alibi per sostenerlo: i precedenti parlamentari non mancano, se si guarda ai momenti di passaggio della Prima Repubblica.

D’altronde, è l’unica speranza di sopravvivenza che può coltivare un governo destinato a nascere, se nascerà, con inequivocabili stimmate di minoranza; e ad andare avanti soltanto grazie alla benevolenza intermittente degli avversari. Il viatico a Bersani non contempla una compagine destinata a durare per la legislatura, ma al massimo per il suo avvio. E il compito che gli è stato affidato e che ha accettato, è di fare questo «primo passo» per ridurre e non aumentare il cumulo delle macerie postelettorali. Con il patto tacito, in caso di fallimento, di permettere ad altri un «secondo passo». L’incarico, avverte il Quirinale, deve verificare «un sostegno parlamentare certo».

Insomma, occorre che esistano le condizioni per ottenere la fiducia, non necessariamente una maggioranza precostituita. Sullo sfondo ci sono il malessere acuto dell’Italia e l’obbligo di mostrare «a noi stessi, all’Europa e alla comunità internazionale » che il Paese cerca stabilità istituzionale e finanziaria, ammonisce il capo dello Stato. Sono due valori intrecciati, di più, indissolubili. Bersani sa di doverli custodire nei giorni difficili che lo aspettano; e di non poterli tradire anche nel caso in cui le sue ambizioni dovessero rivelarsi impossibili da realizzare.

Massimo Franco

23 marzo 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_23/passaggio-acrobatico-franco_58ddbf9e-9380-11e2-8b46-37cbdff83c98.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Marzo 28, 2013, 10:50:26 am »

LA NOTA

Un Bersani nervoso cerca di rimuovere le ultime incognite

E i grillini dopo l'incontro già alludono a un altro incarico. La strategia del Pdl


La sponda grillina si è confermata scivolosa, anzi ostile nei confronti di Pier Luigi Bersani. La consultazione fra il premier incaricato e i delegati del Movimento 5 stelle ha chiuso qualunque margine di dialogo. E per paradosso, la decisione di mandare in rete ogni parola pronunciata nel loro incontro ha irrigidito le posizioni. La trasparenza è diventata l'arma per evitare uno smottamento nel gruppo parlamentare di Beppe Grillo, scottato dalla «fuga» di qualche voto al Senato nell'elezione del presidente Piero Grasso. Sembrava una finzione di dialogo. Invece di parlarsi, gli interlocutori si rivolgevano ai rispettivi elettorati, già pensando ad un possibile scenario di voto anticipato. E poche ore dopo Vito Crimi, capogruppo grillino al Senato, ha liquidato il tentativo del segretario del Pd annunciando che se Giorgio Napolitano fa un altro nome, il M5S potrebbe essere più flessibile.

Bersani torna oggi al Quirinale per riferire al capo dello Stato se ritiene di poter tentare la formazione di un Esecutivo. L'impressione è che voglia provarci, pur avendo presenti le difficoltà. E infatti si fa anticipare da parole sferzanti sull'eventualità di un «governo del Presidente» che Napolitano potrebbe sentirsi costretto a proporre di fronte ai veti incrociati dei partiti. Segno che per la sinistra una qualsiasi subordinata a Bersani sarebbe vissuta come un arretramento e un passo ulteriore verso la fine anticipata della legislatura. Rispetto all'impostazione iniziale, però, la tattica del leader del Pd ha subìto una torsione vistosa.

Era partito puntando molte delle sue carte su una presunta disponibilità di Grillo e del suo gruppo: se non altro perché è proprio a quel movimento che alla fine il partito ha ceduto una percentuale dei suoi consensi. E invece, si è dovuto rassegnare ad una strategia del rifiuto che non prevede aperture di credito a nessuno; e punta invece ad un'accelerazione della crisi del sistema, tentando di spingere il Pd ad un compromesso governativo con il Pdl. Per quanto si tratti di un esito che ha sostenitori trasversali, seppure in modo contorto e pasticciato, le probabilità che si verifichi rimangono esigue. Il rischio di una marcia inesorabile verso le urne non va esclusa. I berlusconiani additano quel traguardo come inevitabile, se Bersani getta la spugna. Sono infatti convinti che i sondaggi, le divisioni nella sinistra e la crisi di identità della lista di Mario Monti, lavorino per loro.

Alcune frasi del capo leghista Roberto Maroni sono state interpretate come una cauta disponibilità a discutere. Ma il Carroccio non ha la forza di assumere una posizione indipendente e men che meno conflittuale rispetto al Pdl. Fra l'esito dell'incarico al leader del Pd e un'eventuale precipizio, comunque, c'è di mezzo la scelta del nuovo presidente della Repubblica. E sul successore di Napolitano i giochi promettono di rivelarsi più pesanti e imprevedibili di qualunque ambizione di rivincita elettorale. Il vero discrimine fra Bersani e Silvio Berlusconi è proprio la figura del prossimo capo dello Stato. Il Pdl gioca pesante nel chiedere per il Quirinale qualcuno che garantisca il Cavaliere. E subordina un eventuale appoggio proprio a una trattativa serrata e stringente su questo punto.

Ma il Pd non sembra in grado, né vuole offrire assicurazioni di questo tipo. Il settennato presidenziale conta molto di più di palazzo Chigi, per le implicazioni strategiche che ha. Il risultato è che all'incognita sulla via d'uscita dalla crisi del governo si aggiunge quella sul capo dello Stato. Con la prospettiva palpabile di un conflitto istituzionale. Quando il segretario del Pdl, Angelino Alfano, chiede a Bersani di rovesciare la sua impostazione, dà voce a un Berlusconi convinto di essere più forte politicamente; e pronto a passare ad una fase successiva ancora tutta da decifrare e inventare. «La vicenda è chiusa e l'ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato», accusa Alfano. «Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell'interesse del Paese». Sa di aut aut , e tenta di rimandare all'avversario la responsabilità di una rottura. A meno che Napolitano non riesca a indicare un'alternativa all'impotenza dei partiti.

Massimo Franco

28 marzo 2013 | 7:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_28/nota_eba600e6-976f-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Marzo 29, 2013, 12:00:32 pm »

LA NOTA

I democratici nervosi e il partito delle urne

Visibile la differenza di opinioni tra il segretario del Pd e Napolitano


L’esito del tentativo di Pier Luigi Bersani fotografa la difficoltà per chiunque di trovare una maggioranza in Parlamento: sebbene, per paradosso, sia più complicato per altri che per il segretario del Pd, forte di una corposa rappresentanza almeno alla Camera. Ma in teoria potrebbe rivelare anche un aspetto positivo, perché permette una lettura più fredda del risultato elettorale del 24 e 25 febbraio scorsi. Pone tutti i partiti di fronte ai loro limiti non solo numerici ma politici.

E riconsegna al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il compito immane di trovare una soluzione. La sua decisione di accertare «personalmente» come stanno le cose lascia aperta ogni possibilità, perché Bersani non ha rinunciato.

La nota del Quirinale fa trasparire una differenza di opinioni con un presidente del Consiglio incaricato che rivendica il «no» a «preclusioni» e «condizioni» incontrate nei suoi incontri. Non si può escludere a priori la possibilità che nelle prossime ore possa prendere forma un «governo del Presidente», ma non è scontato. E comunque avverrebbe su uno sfondo fragile. È difficile, infatti, che un Pd uscito ridimensionato nelle proprie ambizioni di guida del Paese abbia verso una coalizione diversa un atteggiamento amichevole: a prescindere dagli errori tattici che Bersani può avere commesso con le insistite aperture al Movimento 5 Stelle.

È uno sforzo al quale i seguaci del comico Beppe Grillo hanno risposto con rifiuti ai limiti dell’insulto. E adesso lo stallo è ufficiale. L’incontro di ieri pomeriggio fra il presidente della Repubblica e Bersani è stato preceduto da parole dure di Sinistra e libertà, alleata del Pd, contro l’eventualità di una sorta di nuovo governo tecnico o istituzionale; di fatto, contro qualunque intesa, diretta o indiretta, con il partito di Silvio Berlusconi; e il destinatario è sembrato Napolitano. Ma la sensazione è che siano state ribadite dal premier incaricato, non disposto a cedere per ottenere un mandato pieno.

Tanto nervosismo porta a pensare che dopo il 15 aprile possano aumentare le spinte per eleggere un presidente della Repubblica «di sinistra», rinunciando a trattare con il Pdl. Ma se questo fosse l’epilogo, il cosiddetto ingorgo istituzionale rischierebbe di degenerare in conflitto. L’intreccio e la sovrapposizione anche temporale fra crisi di governo e successione al Quirinale sono un fatto. Dal modo in cui verranno affrontati e risolti dipenderà il destino di una legislatura nata debole per i risultati destabilizzanti delle elezioni di fine febbraio.

Aspetto più importante, però, è che l’impossibilità di trovare uno sbocco ripropone le incognite sulla capacità dell’Italia di affrontare una crisi economica e una diffidenza internazionale destinate a crescere. Per questo, alcuni partiti potrebbero arrivare alla conclusione che sia meglio ritornare alle urne subito, nella speranza o nell’illusione che l’elettorato compia scelte diverse. Sarebbe tuttavia un azzardo, che si cerca di scongiurare. Oltre tutto, toccherebbe al nuovo presidente della Repubblica sciogliere le Camere. E ci si troverebbe nella singolare condizione di un capo dello Stato appena proclamato, costretto a sciogliere il Parlamento che lo ha espresso.

Massimo Franco

29 marzo 2013 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_marzo_29/la-nota-di-franco-i-democratici-e-il-partito-delle-urne_9fb4e7bc-9849-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Aprile 16, 2013, 02:55:02 pm »

L'ELEZIONE DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Una nebbia tossica

Si era parlato di «metodo», ma le dinamiche per la scelta del nuovo capo dello Stato sono tornate misteriose

di  MASSIMO FRANCO


A quarantotto ore dall'inizio delle votazioni, le dinamiche per eleggere il nuovo capo dello Stato sono tornate misteriose, immerse in una nebbia tossica. Qualche giorno fa si era parlato di «metodo»: parola fredda ma preziosa per tentare di cucire interessi diversi e contrastanti, consegnando un simulacro di unità nelle mani del nuovo presidente della Repubblica. Ma nel lessico usato ultimamente dai partiti, di questo termine si è persa qualunque traccia.

Può darsi che riemerga per magia nelle prossime ore per un soprassalto di senso di responsabilità. Eppure, non si può tacere il timore di una coazione a ripetere vecchi errori.

Invece di essere il momento della cesura rispetto a veti incrociati che non producono governi ma risse e immobilismo, il Quirinale rischia di trasformarsi nel sommo parafulmine della crisi del sistema. Pessima prospettiva. La spaccatura dell'Italia non si sbloccherebbe. Anzi, sarebbe perpetuata e aggravata, e proprio nella sua istituzione più delicata e strategica. Ieri Pier Luigi Bersani si è incontrato di nuovo con il premier dimissionario, Mario Monti. Un colloquio analogo fra i due aprì la strada al tentativo di trovare un precedente per il dialogo fra Pd e Pdl.

Pochi giorni dopo si videro Bersani e Silvio Berlusconi, impegnandosi a un nuovo faccia a faccia prima dell'inizio delle votazioni a Camere riunite. Non è chiaro se rispetteranno l'impegno reciproco, per siglare un'intesa sul presidente della Repubblica in grado di smontare una fioritura sconcertante di candidature improbabili quanto accreditate come «popolari»; e per chiarire almeno in parte quali saranno le maggioranze che eleggeranno il successore di Giorgio Napolitano. Ma la prospettiva di avere un Quirinale di parte, di qualunque parte, non può entusiasmare: in generale, e in particolare in questa situazione.

Le elezioni di fine febbraio hanno dato risultati tali da riconsegnare un Parlamento spezzato in tre tronconi; e con numeri che riflettono solo parzialmente la realtà del Paese. Esasperare questa parzialità potrebbe avere riflessi imprevedibili sulla tenuta non solo istituzionale ma sociale. Il «gioco del Quirinale», come viene chiamato a volte, in realtà è cosa estremamente seria. Nel passato, per arrivare all'elezione di un capo dello Stato si sono attraversati passaggi drammatici, perfino tragici. Quando si parla di candidature equilibrate, condivise, tali da garantire all'Italia rispetto e credibilità sul piano internazionale, si elencano i contorni essenziali di un'identità.

Personaggi improvvisati e privi di esperienza possono essere suggestivi ma rivelarsi pericolosamente inadeguati: tanto più sulla distanza di un settennato. Per questo, sebbene faccia storcere il naso a chi accarezza prove di forza, se non forzature, pensando a improponibili regolamenti di conti e vendette, la parola «metodo» va rivalutata. E va offerta, formalmente o di fatto, agli interlocutori più responsabili come una bussola che permetta di ritrovare la strada della ragionevolezza politica: almeno nel tratto brevissimo che porta al Quirinale, dal quale però dipende il destino dell'Italia.

16 aprile 2013 | 7:24

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_16/nebbia-tossica-editoriale-franco_260b847e-a655-11e2-bce2-5ecd696f115c.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Aprile 18, 2013, 06:27:07 pm »

IL QUIRINALE

A parti rovesciate

Marini è uomo sperimentato e rispettato, ma la condivisione potrebbe diventare un limite in prospettiva


Se davvero si tratta di un'elezione giocata sui veti incrociati, non deve sorprendere che possa diventare capo dello Stato chi riuscirà a collezionarne di meno. D'altronde, mettere d'accordo nelle condizioni attuali Pd, Pdl, montiani, senza perdere per strada altri spezzoni del Parlamento, appare più difficile che far quadrare un cerchio. L'ipotesi che a compiere il miracolo sia Franco Marini, ex presidente del Senato ed ex segretario del Partito popolare dopo una lunga militanza da leader della Cisl, è plausibile. Plausibile, ma non sicura. Le tensioni che si avvertono soprattutto nel Pd, del quale pure Marini è un dirigente, non vanno sottovalutate: tanto più mentre il Pdl sembra sostenerlo in modo granitico.

È un rovesciamento delle parti che aumenta le incognite. Marini sarebbe l'elemento di equilibrio e l'estrema trincea di un sistema che si sente minacciato; e che dalle elezioni di febbraio ha incassato con fastidio crescente le provocazioni, le minacce e i rifiuti sprezzanti dell'ex comico Beppe Grillo, teorico dello scardinamento delle istituzioni dopo il grande successo ottenuto nelle urne. Il fatto che il candidato al Quirinale non sia entrato in Parlamento è un altro paradosso: finisce per apparire la conseguenza di una legge elettorale che dà frutti amari, quasi surreali; e che proprio la classe politica non ha voluto cambiare.

La scelta di un uomo sperimentato e rispettato, capace di conciliare l'inconciliabile, non cancellerebbe queste ambiguità.
D'altronde, la situazione economica e sociale non consente uno scontro infinito ed esige un governo in tempi rapidi. Al fondo, si coglie l'istinto di sopravvivenza di partiti corrosi da potenti forze centrifughe e sfibrati da una lunga e sterile contrapposizione; e determinati a trovare una soluzione di compromesso, con lo sguardo concentrato sull'Italia più che sull'Europa. Anche sotto questo aspetto, la scelta di Marini suonerebbe come la rivendicazione orgogliosa di un'autonomia declinata in sottile polemica con le istituzioni continentali e col governo dei tecnici di Mario Monti. Si avverte una certa ansia di chiudere quel capitolo, e forse di archiviarlo.

Ma le elezioni di febbraio non hanno restituito legittimità alla politica: semmai gliene hanno tolta ancora. E l'idea di usare il Quirinale per blindare lo status quo potrebbe rivelarsi un'illusione. Certo, se le dinamiche che si sono messe in moto porteranno realmente a un candidato il più possibile condiviso, sarebbe un passo avanti. E se aiuteranno a creare una qualche maggioranza parlamentare, quella sfuggita a Pier Luigi Bersani per i veti di Grillo e l'ostinazione a non riconoscere una vittoria a metà, sarebbe un altro progresso. L'unica perplessità è di sistema. Il sospetto da dissipare è che la presidenza della Repubblica possa diventare la camera di compensazione delle rese dei conti nei partiti.

In questo caso, la condivisione diventerebbe non un bene prezioso, ma un limite, destinato a emergere molto presto e a pesare molto a lungo.

Massimo Franco

18 aprile 2013 | 9:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_18/parti-rovesciate_63a8522a-a7e1-11e2-96ed-0ed8c4083cbe.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:49:35 am »

Ritorno alla Realtà

L'immagine che immortala la nascita del governo di Enrico Letta non è quella solitaria del presidente del Consiglio mentre annuncia i suoi ministri.
 
È l'altra di pochi attimi dopo, nella quale il premier stringe la mano con entrambe le sue a Giorgio Napolitano, apparso a sorpresa quasi per offrirgli un supplemento di legittimazione. Il capo dello Stato ha definito Letta «l'artefice» di una coalizione così inedita da cancellare vent'anni di Seconda Repubblica di «nemici». E ha chiesto di non cercare strani aggettivi per un governo semplicemente «politico», benché manchino tutti i protagonisti del passato.

È vero, è politico, con Angelino Alfano vicepremier. Ma lo sfondo evoca qualcosa di più. Segna il primo esplicito tentativo di pacificazione dell'Italia dopo la parentesi dell'esecutivo dei tecnici di Mario Monti, alla guida di una maggioranza definita allora «anomala». Adesso, quella maggioranza assume contorni «normali» che fanno storcere il naso a sacche di un elettorato trasversale di destra e di sinistra. Ma proprio per questo suggerisce una svolta. È la conferma che non si poteva tornare indietro; e la conseguenza obbligata di elezioni senza vincitori né vinti, almeno dal punto di vista dei numeri: gli unici che contino in democrazia, mentre si gonfia un'onda populista minacciosa.
L'equilibrio fra presenza maschile e femminile è evidente e positivo. Accanto però a esigenze altrettanto vistose di compromesso che lasciano trasparire qualche incognita sulla tenuta parlamentare. Esagerare il ricambio generazionale sarebbe riduttivo: declasserebbe un accorto bilanciamento di esperienze e sminuirebbe la scelta di rassicurare la comunità internazionale sul piano politico e finanziario. Emma Bonino alla Farnesina riflette un identikit atlantista sovrastato dalle sue storiche battaglie radicali, ma granitico. E Fabrizio Saccomanni all'Economia ribadisce il ruolo di garanzia di Bankitalia agli occhi della Bce, e non solo.

Si può anche dire che ha vinto ai punti Silvio Berlusconi; e che il Pd appare sottorappresentato nei ministeri. Ma gridarlo significherebbe sbilanciare strumentalmente l'equilibrio raggiunto. Quanto sta accadendo grazie alla determinazione di Napolitano, alla tenacia del premier e al senso di responsabilità, o magari solo alla rassegnazione dei partiti, è un ritorno della politica alla realtà: tutti hanno rinunciato a qualcosa. E dal modo in cui Letta e gli alleati riusciranno a governare e a durare, si capirà se segna anche il ritorno della politica in quanto tale. C'è poco tempo per dimostrarlo. E l'attesa dell'opinione pubblica è enorme e, a questo punto, giustamente impaziente.

MASSIMO FRANCO

28 aprile 2013 | 9:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_28/ritorno-realta_31a2c22c-afbd-11e2-9916-33bf7b5011d8.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:09:50 pm »

La testimonianza

Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani

Nella stanza di Andreotti crocifisso e ricordi


Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un'epoca della storia d'Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c'erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni.

Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l'altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.

Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell'ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.

Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane.

Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.

E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l'ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti anni prima. Chiesero all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere.

Massimo Franco

7 maggio 2013 | 14:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_07/andreotti-rosario-letto-morte-Franco_6965f778-b6d5-11e2-8651-352f50bc2572.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Maggio 11, 2013, 11:00:04 am »

LA NOTA

L'esito dell'offensiva legittima Palazzo Chigi


L'invettiva di Beppe Grillo contro Enrico Letta è una boccata d'ossigeno e un diversivo insperato: per il presidente del Consiglio e per la sua maggioranza trasversale e fragile tra Pd, Pdl e Scelta civica. Essere additato come il nuovo bersaglio dal padre-padrone del Movimento 5 Stelle legittima quasi di rimbalzo l'ex vicesegretario del partito democratico come punto di raccordo della coalizione. E dirotta all'esterno e non più all'interno dell'esecutivo tensioni che negli ultimi giorni sono cresciute sull'Imu, la giustizia, e per la vigilia del congresso del Pd.

Se Grillo attacca il premier, c'è da ritenere che abbia un'oscura paura che riesca a combinare qualcosa. Ieri ha cercato di provocarlo dicendo che «Letta per venti anni ha fatto il nipote di suo zio», alludendo a Gianni, braccio destro da sempre di Silvio Berlusconi. «Veramente, da 46», è stata la replica ironica di Enrico, che ha citato la propria età. Ma soprattutto, Letta ha puntato il dito contro i problemi che Grillo incontra per convincere i suoi eletti a ridursi la diaria. Forse, la vera ragione degli insulti dipende dalle difficoltà grilline sul tema degli stipendi dei parlamentari.

Già durante le consultazioni, l'allora presidente incaricato aveva messo in difficoltà i capigruppo del M5S a Camera e Senato, mostrandone le contraddizioni e chiedendo loro di non isolarsi. Stavolta, la questione è più delicata. «Io toglierò lo stipendio ai miei ministri. Vedo che Grillo invece fatica a non far prendere la diaria intera ai suoi parlamentari che si ribellano contro di lui», lo incalza Letta. Che il tema esista non c'è dubbio; e che preoccupi i vertici del movimento l'ha confessato lo stesso leader. «Una differenza di poche migliaia di euro trattenute potrebbe sembrare un peccato veniale, ma non lo è. Nessuno ci fa sconti. Il Paese ci osserva».

«Houston abbiamo un problema! Di "cresta", va ammesso», ha avvertito Grillo con parole colorite e allarmate sul suo blog, dopo avere annullato una conferenza stampa a Roma. E ha ripetuto che chi tiene tutti i soldi dovrebbe trarne le conseguenze. Il solo fatto che sia costretto a minacciare espulsioni testimonia un affanno. La cosa peggiore, tuttavia, è che le beghe economiche fra Grillo e i suoi parlamentari hanno finito per accreditare di nuovo un Movimento 5 Stelle disunito e non solo eterogeneo; e per mettere in ombra i suoi attacchi al governo. È stata rispolverata la tesi del golpe: «Ci hanno messo in un angolo, questo è un colpo di Stato». Ma perfino Stefano Rodotà, il suo candidato al Quirinale, ha preso le distanze da questa tesi. Grillo poi ha definito Berlusconi «una salma. In un Paese normale sarebbe già in galera». Per paradosso, sono spallate che potrebbero puntellare palazzo Chigi: nonostante i malumori di alcuni settori del Pd che guardano tuttora al M5S. «Il governo Letta è fragilissimo, ma come diceva Salvemini, è una scommessa da confermare ogni giorno», lo benedice il ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello. E Grillo, senza rendersene conto, forse lo sta aiutando.

Massimo Franco

11 maggio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #224 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:31:21 pm »

Le Scorciatoie da evitare


Si può anche fare l'elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui vota solo il 48,6 per cento dell'elettorato. E dunque, è giusto affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un'Italia più «americana» perché si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta, significa sottovalutare la frattura che si è consumata.

Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un'era è finita. In realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l'asse fra Pdl e Lega: a Roma il Carroccio non c'è, eppure il centrosinistra trionfa nell'oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l'idea che se Silvio Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse l'ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al primo turno, l'incognita è il non voto.

Collegarlo all'assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta: l'astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna risposta, anzi. L'unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a carico del Cavaliere.

Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito sull'«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze estese al Sel e a volte con una strizzata d'occhio ai grillini, dice che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare l'impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.

Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare all'incasso elettorale non diminuiscono. Ma c'è voglia di stabilità, e di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di allontanarlo; e di far perdere all'Italia tempo prezioso.

Massimo Franco

11 giugno 2013 | 9:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_11/scorciatoie-da-evitare-franco_9a0c5b8a-d258-11e2-8fb9-9a7def6018a2.shtml
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