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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 194364 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:11:31 pm »



Sarà difficile spiegare che il risultato delle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio non dipende solo dall'appoggio a Mario Monti. L'impopolarità delle misure prese dal governo dei tecnici è un'ottima causa esterna per velare i ritardi e gli errori dei partiti; e per evitare di guardare in faccia una geografia politica che non anticipa quella della Terza Repubblica, ma sembra la coda estrema della crisi della Seconda, gonfia di scorie e convulsioni antisistema. Altrimenti non si spiegherebbe perché, oltre al Pdl governativo, anche la Lega delle barricate contro Monti venga ridimensionata brutalmente in quello che era il «suo» Nord; e perché il Pd abbia sostanzialmente tenuto.

Colpa degli scandali della cerchia di Umberto Bossi, certamente; ma anche di un progetto esauritosi da tempo, che la vittoria a Verona del sindaco «maroniano» Flavio Tosi non compensa. È indubbio che gli umori antieuropei stiano crescendo, come in Francia e soprattutto in Grecia. I provvedimenti imposti dai mercati finanziari li hanno fatti lievitare. Se ne colgono i germi sia nell'affermazione, imprevista nelle dimensioni, del movimento «Cinque stelle» del comico Beppe Grillo; sia nell'astensione aumentata del 6 per cento. Eppure, l'antieuropeismo si confonde con l'ostilità verso la nomenklatura partitica.

La percentuale del non voto è preoccupante ma non allarmante, visto lo sfondo di macerie della politica nel quale si inserisce. E il trionfo dei «grillini» riflette una protesta trasversale che probabilmente pesca oltre i confini della sinistra. È il contenitore di un «no» che prescinde dagli schieramenti e rispecchia confusamente, a volte con parole d'ordine irresponsabili, la voglia di spazzare via un sistema incapace di riformarsi. D'altronde, in modo diverso è l'identico istinto suicida dei partiti a spiegare l'affermazione a Palermo di Leoluca Orlando, oggi portavoce dell'Idv ma oltre vent'anni fa sindaco democristiano anomalo della «primavera palermitana».

Nel ginepraio delle situazioni locali, spiccano la sconfitta di ciò che resta del centrodestra e la tentazione di scaricarla su Palazzo Chigi. Come se la rottura fra Pdl e Lega si fosse consumata solo cinque mesi fa, alla nascita del governo Monti, e non fosse cominciata invece nel maggio del 2011, dopo un turno amministrativo che dilatò tutte le crepe del governo di Silvio Berlusconi. La solitudine dei partiti del fronte moderato e la loro quasi inevitabile sconfitta è scritta nel tramonto della leadership berlusconiana; e nell'incapacità di sostituirla con qualcosa di più appetibile. Da questo punto di vista, lo stesso Terzo polo non è percepito come un'alternativa.

Da ieri, però, l'impressione è che anche Monti sia più solo. Da scudo dei partiti, rischia di diventarne il bersaglio. Ma non è detto che la classe politica si risollevi picconando il governo dei tecnici. Anzi, potrebbe distruggere il suo ultimo alibi.

Massimo Franco

8 maggio 2012 | 7:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_08/non-cercate-alibi-Franco_db8f64b0-98c7-11e1-a280-1e18500845d6.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Maggio 22, 2012, 03:56:28 pm »

L'analisi

L'ultimo avviso: Italia cambiata nel profondo

La disintegrazione del centrodestra è un dato di fatto: Pdl ha perso troppo tempo prima di voltare pagina


Ogni analisi dei risultati rischia di apparire statica e dunque infedele: soprattutto se si legge con le lenti del passato. Quanto è successo fra il 6 maggio e lunedì riflette un'Italia cambiata in profondità; ed esplicita nel dire almeno quello che non vuole più. La disintegrazione del centrodestra è ormai un dato di fatto che né le difficoltà del voto amministrativo né l'uscita di scena di Silvio Berlusconi bilanciano. Anzi, forse il Pdl ha perso troppo tempo prima di voltare definitivamente pagina.

Quanto alla Lega, le inchieste giudiziarie sono state solo la ciliegina velenosa su una crisi di identità che dura da tempo: le sue sconfitte a catena suonano come una conferma. La frattura della Seconda Repubblica di centrodestra col suo blocco sociale del Nord, prima che col suo elettorato, si è ormai consumata. Il travaso massiccio di voti nel Movimento 5 stelle del comico Beppe Grillo è l'indizio che il Carroccio non era credibile neppure come partito di protesta contro il governo di Mario Monti.

Il Pdl può anche sperare che si tratti di voti «in libera uscita», come teorizzava alla fine del secolo scorso una Dc in declino. Per il momento, sono usciti e basta. E non sarà facile calamitarli di nuovo senza un esame impietoso dei motivi della sconfitta e del ruolo che un post berlusconismo acefalo e sbandato vuole esercitare in una stagione di vacche magre e di tensioni sociali. L'impressione è che le posizioni di rendita siano finite per tutti, perché l'elettorato ha scelto un nuovo terreno di gioco.

È questo a spiegare l'ambiguità dell'Udc quando si rifiuta di decidere fra uno schieramento e l'altro. In realtà, Pier Ferdinando Casini è convinto che i due fronti del 2008 si siano sbriciolati; e dunque fa di necessità virtù, non riuscendo a riplasmarli come vorrebbe. E a sinistra, la stessa evocazione della «foto di Vasto» da parte di Antonio Di Pietro, con Pd, Idv e Sel trionfalmente uniti, va ingrandita al microscopio dei nuovi paradigmi. I grillini attingono anche nel serbatoio dipietrista e sono ai ferri corti con la sinistra. E a Parma, col loro sindaco, dovranno dimostrare di saper governare, strappati dalla sponda dell'antipolitica.

È un rifiuto delle vecchie logiche perfino il trionfo di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco già un quarto di secolo fa. La sua vittoria è figlia della rivolta contro il candidato imposto alle primarie dal vertice nazionale del Pd: un fenomeno un po' troppo frequente, al punto da confondere i contorni della leadership. Il segretario, Pier Luigi Bersani, rivendica, con qualche ragione, di essere il meno ammaccato fra i partiti tradizionali. Eppure il Pd sa di doversi affrancare da «cartelli elettorali» superati. Nelle urne sono stati smaltiti i cascami di una Seconda Repubblica in agonia. Ma questi detriti possono depositarsi e diventare le basi degli equilibri che verranno, se le forze politiche non saranno capaci di interpretare le dinamiche di un'Italia che ha mandato l'ultimo avviso prima dello sfratto.

Massimo Franco

22 maggio 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_22/ultimo-avviso-elezioni-Franco_31b887ce-a3cf-11e1-80d8-8b8b2210c662.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Giugno 08, 2012, 05:44:01 pm »

IL SENSO DI IRRESPONSABILITÀ

I ribaltonisti di memoria corta

In un'Italia con la memoria corta, selettiva e un po' furbesca, il ricordo del baratro finanziario sul quale il Paese era affacciato nel novembre dello scorso anno si è già sbiadito. E le difficoltà e i limiti che il governo tecnico di Mario Monti sta incontrando e mostrando tendono a diventare una sorta di schermo dietro il quale nascondere il passato recente. Ci si dimentica che la maggioranza anomala formatasi allora non è la causa ma la conseguenza del fallimento della coalizione di centrodestra; e che la decisione di dare vita ad un esperimento difficile, richiestoci dall'Europa come polizza di assicurazione a nostro favore, fu sofferta e insieme inevitabile.

I partiti la accettarono, e la sostennero con senso di responsabilità, perché nessuno era in grado di offrire un'alternativa di stabilità; e perché il voto anticipato avrebbe probabilmente inferto un colpo definitivo alla credibilità italiana sia rispetto agli alleati europei che ai mercati finanziari. Il fatto che le sorti della moneta unica siano incerte come mai è accaduto in questi anni non capovolge né smentisce il punto di partenza. E tende a presentare come pericolose scorciatoie le tentazioni di elezioni a ottobre, spuntate in spezzoni del Pdl e del Pd e non smentite finora con sufficiente convinzione dai rispettivi leader.

Non scorciatoie verso la stabilità, ma verso una nuova stagione di incertezza. L'aspetto più inquietante è che affiorano mentre ci si avvicina alla riunione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno prossimi: quella che dovrà definire il futuro dell'euro, e nel nostro piccolo anche il ruolo che l'Italia di Monti è riuscita faticosamente a recuperare presso le altre cancellerie occidentali e la Casa Bianca. Approdare all'appuntamento avendo alle spalle una maggioranza che neppure finge più di voler sostenere il presidente del Consiglio fino al 2013, sarebbe un'autorete.

Ma in gioco non c'è soltanto una questione di immagine e di proiezione internazionale. Viene da chiedersi quale tipo di Parlamento emergerebbe da una consultazione ravvicinata e traumatica. È difficile non vedere che si arriverebbe alle urne per la rinuncia soprattutto dei partiti maggiori ad assumersi fino in fondo la responsabilità di alcune riforme definite ineludibili proprio da loro. Non solo. Una delle ragioni per le quali si asseconderebbe la deriva elettorale, si dice sotto voce, è quella di impedire che si gonfi la bolla dei partiti estremisti. La miopia di un argomento del genere, tuttavia, è evidente.

Certificare un'interruzione della legislatura in una fase cruciale della vita economica e istituzionale aggiungerebbe fallimento a fallimento. E travolgerebbe l'argine che comunque Monti ha eretto intorno ai conti pubblici italiani. Il pesante declassamento di ieri della Spagna è un monito: il governo di Madrid è stato appena legittimato da un voto popolare. Attenzione, dunque, a non trasformare il vuoto politico di oggi in una voragine, che chiunque potrebbe sfruttare nel modo più imprevedibile. Nessuno può pensare di sottrarsi a un compito duro che richiede pazienza, umiltà e produce impopolarità. Vale per Monti, per i suoi ministri; e ancora di più per i partiti che lo sostengono.

Massimo Franco

8 giugno 2012 | 8:10
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_08/i-ribaltonisti-di-memoria-corta_ce40782c-b126-11e1-880f-b0211fcf6760.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Luglio 05, 2012, 11:51:58 am »

UNA STRANISSIMA MAGGIORANZA

Il biglietto per Bruxelles

C’è una strana inversione di ruoli fra l’Europa e l’Italia nei confronti di Mario Monti. La prima sembra investire sulle capacità di mediazione e di stimolo che il presidente del Consiglio ha dimostrato finora; e che i capi delle altre nazioni gli riconoscono. La maggioranza che lo sostiene a Roma non smette invece di appoggiarlo in Parlamento e insieme di indebolirlo con distinguo politici sempre più stupefacenti. Il biglietto per il Consiglio europeo a Bruxelles che comincia domani riceve così una vidimazione ambigua: da parte soprattutto di Silvio Berlusconi.

Dire che tre quarti degli elettori del Pdl sono ostili a Monti non è il miglior viatico al capo del governo mentre affronta una delle mediazioni più drammatiche della storia dell’Unione Europea. Lo stesso ex premier ammette che una caduta dell’esecutivo viene considerata catastrofica dalle istituzioni di Bruxelles; eppure non sembra intenzionato a far molto per scongiurarne il logoramento. Dopo l’incontro di ieri a Palazzo Chigi denuncia l’«indeterminatezza più assoluta » delle proposte italiane. Ma la critica non riesce a cancellare i problemi di Berlusconi e del suo partito: al punto che la sospensione del giudizio sembra figlia del calcolo di usare la polemica antigovernativa per comporre le fratture interne.

Ascoltare Monti nell’aula della Camera faceva un certo effetto, ieri pomeriggio. Colpiva la sua insistenza sul «tandem Parlamento- governo» chiamato a pedalare in sincronia per togliere alibi a quanti in Europa usano l’incertezza politica per ridurre l’influenza dell’Italia. L’impressione è che Monti pedali senza sosta: si prepara persino a fermarsi a Bruxelles fino a domenica per concordare con gli alleati lemisure più urgenti a difesa dell’euro; e per impedire che lunedì, alla riapertura dei mercati finanziari, la moneta unica possa ricevere nuovi attacchi. Ma altri si limitano a guardare, lasciando che a sfiancarsi sia solo lui.

È un atteggiamento da spettatori più scettici che interessati: come se il destino del governo dei tecnici e il loro non fossero coincidenti. Di più: come se accompagnare quasi a distanza di sicurezza Monti al vertice di domani e dopodomani fosse un modo per tenersi le mani più libere. L’assenza di una mozione unitaria sull’Europa è un piccolo capolavoro di autolesionismo. Eppure, questo surplace non prepara uno scatto verso la rivincita dei partiti. Promette invece di anticipare una volata che porta al traguardo del nulla. E contribuisce ad alimentare anche strumentalmente le domande che assediano l’Italia, e che nei mass-media e nelle cancellerie occidentali ruotano intorno all’incognita del dopo-Monti.

Se questo è lo sfondo, destabilizzare il governo confermerebbe lo stereotipo di un’Italia eternamente precaria, in balìa di chi non coltiva progetti di crescita ma solo di sopravvivenza sulle macerie del Paese. E cancellerebbe il poco o il tanto di buono che Monti ha prodotto in un periodo breve ma intenso. Il giudizio sui tecnici non può che essere in chiaroscuro, eppure l’alternativa è il caos. Se si rompe il «tandem» si fa male l’Italia, che alla fine sarebbe costretta a bussare alle porte del Fondo monetario internazionale; e si accelererebbe la deriva di un’Europa altrettanto in bilico. Attenti a non ritrovarsi schiacciati dal peso di una doppia, terribile responsabilità.

Massimo Franco

27 giugno 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_27/franco-biglietto-per-bruxelles_f1f4bd60-c016-11e1-931f-9ffeafa6de3c.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Luglio 11, 2012, 11:17:03 pm »

La Nota

Il grazie del premier e il timore dei leader che guardano al voto

Gli alleati preoccupati per gli effetti delle nuove misure

Il grazie di Mario Monti al Parlamento per averlo appoggiato «affrontando tutti assieme anche l'impopolarità», è una sorta di sigillo sulle riduzioni di spesa decise dal governo. Le tensioni trasversali che hanno accompagnato le voci sui provvedimenti fino al Consiglio dei ministri di ieri notte, lasciano prevedere proteste soprattutto a livello locale; e forse addirittura una rottura fra Palazzo Chigi e le Regioni, allarmate soprattutto dai tagli alla sanità. Le opposizioni ritengono lo scontro inevitabile e rispolverano l'espressione «macelleria sociale»: contano sull'umore nero di molti governatori.

Ma Monti sembra sicuro di avere dalla propria parte una maggioranza anomala recalcitrante e tuttavia consapevole di non potergli negare l'appoggio. L'unico partito a darglielo con convinzione è l'Udc, convinta con Pier Ferdinando Casini di dover condividere «scelte impopolari ma utili al Paese». Pdl e Pd, soprattutto, appaiono invece in sofferenza. Sono premuti da nomenklature locali che intravedono una prospettiva di malessere e di riduzione dei servizi; e dunque, di rimbalzo, una diminuzione della loro popolarità. I numeri sulla chiusura di ospedali e uffici giudiziari sono percepiti come traumatici.

L'impostazione scelta dal governo dei tecnici, però, non lascia grandi margini. Sottolineando l'esito del Consiglio europeo della settimana scorsa a Bruxelles e del vertice con la cancelliera tedesca Angela Merkel dell'altro ieri, il premier ribadisce: «Si può essere tanto più assertivi in Europa quanto più si hanno le carte in regola in Italia». Per il presidente del Consiglio, lo scudo anti-spread messo a punto per stabilizzare lo scarto negli interessi fra titoli di Stato italiani e tedeschi, ha reso «più robusto» l'accordo nell'Ue: sebbene i mercati finanziari reagiscano in modo negativo anche dopo che la Bce ha limato i tassi di interesse, con lo spread sopra 460 punti.

L'impressione è che Monti dia per inevitabile una fase ulteriore di transizione e di aggressione speculativa; e confidi comunque in un miglioramento della situazione, perché a livello politico l'Europa si sarebbe convinta ad agire senza cedere alla tentazione di strappi ed egoismi nazionali. «Doppiato il capo del vertice Ue», Palazzo Chigi già addita i prossimi obiettivi. Chiede al Parlamento di ratificare entro la fine di luglio anche il cosiddetto Fiscal compact : quel trattato di stabilità che fissa le «regole d'oro», vincolanti nell'Ue, chiamate a far rispettare il principio dell'equilibrio di bilancio. I partiti incassano i ringraziamenti di Monti a denti stretti: si chiedono quale sarà il costo in termini elettorali.

Massimo Franco

6 luglio 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_luglio_06/nota_51e1e35e-c72b-11e1-96dc-1183a294894f.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Settembre 03, 2012, 11:58:25 am »

L'AGENDA MONTI E LE PRIMARIE PD

Il convitato un po' scomodo

La tentazione crescente del Pd sembra quella di mettere fra parentesi il governo di Mario Monti. Non per destabilizzarlo, perché anzi il partito di Pier Luigi Bersani continua a sostenerlo con lealtà e convinzione. Non ne parla troppo per proteggere le dinamiche interne in atto nel centrosinistra; e per esorcizzare la sua permanenza a Palazzo Chigi dopo il voto del prossimo anno. Forse perché esiste una contraddizione vistosa fra le alleanze in via di definizione, e l'appoggio al premier e al governo.

Le stesse primarie promettono di svolgersi come un'esercitazione ad alta quota, sospese in aria. Qualcosa che riguarda il Pd e le sue ambizioni governative; un quasi alleato assai poco europeista e antimontiano come Nichi Vendola; e un quasi ex alleato come Antonio Di Pietro, ormai attestato su un versante anti istituzionale indefinibile. Ma Monti in questo scenario non c'è. Anzi, si ha l'impressione che per il Pd non debba esserci, perché rappresenta una sfida e un ingombro.

Eppure è difficile che possa essere espunto dalla discussione sul futuro della sinistra: non basta che sia «altro» per non farci i conti. Ritenere di essere suoi alleati adesso, e in parallelo prepararsi a coalizioni con partiti agli antipodi rispetto alla politica economica di questi mesi, può rivelarsi un inganno pericoloso: verso se stessi e verso l'elettorato. Al centrosinistra, come al Pdl, non basta dire che dopo questa fase il potere sarà «restituito» alla politica, quasi i partiti avessero solo un diritto e non anche un dovere di governare bene l'Italia.

Si fatica a ridurre l'agenda Monti a un sacrificio « una tantum », rivendicato e ostentato come una medaglia da togliersi subito dopo le elezioni. Il futuro prossimo non contiene una dose massiccia di imprevedibilità sui problemi da affrontare. E il vincolo europeo promette di essere ancora più stretto, anche per l'Italia. Per quanto sgradita, la presenza di Monti continuerà a proiettarsi sulla politica italiana, Pd e prossime primarie inclusi. Fingere che non esista, nemmeno come convitato di pietra, non è vietato. Ma o si tenta di capire la portata e le conseguenze del suo governo da subito, o si sarà costretti a farlo dopo il voto.

Con una differenza: analizzare il «fattore Monti» e confrontarlo con l'identità del centrosinistra ora, significa comprendere che non è solo una parentesi ma l'indizio della trasformazione del sistema; e arrivare all'appuntamento con programmi e alleanze coerenti. Doversi rendere conto solo dopo che non se ne può prescindere, invece, equivale a perdere i prossimi mesi disegnando scenari a rischio di smentita immediata. Le premesse per un governo politico si radicano non subendo Monti come un'anomalia da smaltire frettolosamente, ma valutandolo soprattutto come opportunità per cambiare.

Se il Pd non la coglie, si espone ad altre contaminazioni; o, peggio, all'illusione di poter vivere di rendita sulle macerie del berlusconismo. La sua sarebbe una vittoria effimera, foriera di altre anomalie assai meno rassicuranti del governo dei tecnici.

Massimo Franco

3 settembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_03/convitato-scomodo-franco_d02515ee-f587-11e1-b714-22a5ae719fb5.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Settembre 04, 2012, 11:01:46 am »

L'AGENDA MONTI E LE PRIMARIE PD

Il convitato un po' scomodo

La tentazione crescente del Pd sembra quella di mettere fra parentesi il governo di Mario Monti. Non per destabilizzarlo, perché anzi il partito di Pier Luigi Bersani continua a sostenerlo con lealtà e convinzione. Non ne parla troppo per proteggere le dinamiche interne in atto nel centrosinistra; e per esorcizzare la sua permanenza a Palazzo Chigi dopo il voto del prossimo anno. Forse perché esiste una contraddizione vistosa fra le alleanze in via di definizione, e l'appoggio al premier e al governo.

Le stesse primarie promettono di svolgersi come un'esercitazione ad alta quota, sospese in aria. Qualcosa che riguarda il Pd e le sue ambizioni governative; un quasi alleato assai poco europeista e antimontiano come Nichi Vendola; e un quasi ex alleato come Antonio Di Pietro, ormai attestato su un versante anti istituzionale indefinibile. Ma Monti in questo scenario non c'è. Anzi, si ha l'impressione che per il Pd non debba esserci, perché rappresenta una sfida e un ingombro.

Eppure è difficile che possa essere espunto dalla discussione sul futuro della sinistra: non basta che sia «altro» per non farci i conti. Ritenere di essere suoi alleati adesso, e in parallelo prepararsi a coalizioni con partiti agli antipodi rispetto alla politica economica di questi mesi, può rivelarsi un inganno pericoloso: verso se stessi e verso l'elettorato. Al centrosinistra, come al Pdl, non basta dire che dopo questa fase il potere sarà «restituito» alla politica, quasi i partiti avessero solo un diritto e non anche un dovere di governare bene l'Italia.

Si fatica a ridurre l'agenda Monti a un sacrificio « una tantum », rivendicato e ostentato come una medaglia da togliersi subito dopo le elezioni. Il futuro prossimo non contiene una dose massiccia di imprevedibilità sui problemi da affrontare. E il vincolo europeo promette di essere ancora più stretto, anche per l'Italia. Per quanto sgradita, la presenza di Monti continuerà a proiettarsi sulla politica italiana, Pd e prossime primarie inclusi. Fingere che non esista, nemmeno come convitato di pietra, non è vietato. Ma o si tenta di capire la portata e le conseguenze del suo governo da subito, o si sarà costretti a farlo dopo il voto.

Con una differenza: analizzare il «fattore Monti» e confrontarlo con l'identità del centrosinistra ora, significa comprendere che non è solo una parentesi ma l'indizio della trasformazione del sistema; e arrivare all'appuntamento con programmi e alleanze coerenti. Doversi rendere conto solo dopo che non se ne può prescindere, invece, equivale a perdere i prossimi mesi disegnando scenari a rischio di smentita immediata. Le premesse per un governo politico si radicano non subendo Monti come un'anomalia da smaltire frettolosamente, ma valutandolo soprattutto come opportunità per cambiare.

Se il Pd non la coglie, si espone ad altre contaminazioni; o, peggio, all'illusione di poter vivere di rendita sulle macerie del berlusconismo. La sua sarebbe una vittoria effimera, foriera di altre anomalie assai meno rassicuranti del governo dei tecnici.

Massimo Franco

3 settembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_03/convitato-scomodo-franco_d02515ee-f587-11e1-b714-22a5ae719fb5.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Settembre 11, 2012, 08:49:59 am »

LA NOTA

Il timore che nessuno riesca a controllare le tensioni sociali

Sindacati e governo paiono in affanno di fronte alle tante micro-crisi


Può darsi che i tafferugli di ieri a Roma fra operai dell'Alcoa e polizia siano un inizio di «autunno caldo»: una fase di proteste, cortei, perfino violenze come quelle che percorsero l'Italia quarant'anni fa. Eppure non si capisce che cosa possa unificare un malessere frammentato, provocato da situazione diverse; e affrontato da un sindacato diviso e da un governo che come minimo manca di esperienza politica. La crisi economica rappresenta una realtà dura che colpisce trasversalmente. Ma nessuno sembra in grado di intercettare e incanalare la rabbia, né di darle una risposta. L'insofferenza nei confronti dell'intero sistema partitico accentua una sensazione di impotenza e di rabbia.
Il fatto che alcuni manifestanti abbiano spintonato il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, fra i più critici del governo dei tecnici di Mario Monti, conferma la difficoltà di cavalcare la situazione anche da parte della sinistra. E la scelta di affidare inizialmente la trattativa con la delegazione degli operai soltanto al sottosegretario allo sviluppo economico, Claudio De Vincenzi, si è rivelata a doppio taglio. Gli interlocutori del governo l'hanno considerata la conferma di una sottovalutazione della crisi dell'alluminio in Sardegna. E il Pd ma anche l'Idv, Rc e il Pdl, si sono schierati con gli operai: sebbene la condanna dell'episodio che ha avuto come vittima Fassina sia stata espressa con parole non proprio identiche.
Il partito di Pier Luigi Bersani rivendica la presenza del suo responsabile economico al corteo come prova dell'«attenzione e dell'impegno del Pd verso i lavoratori e l'azienda in crisi»; accusa «un provocatore estraneo alla manifestazione» di avere inveito contro il Pd. Ma soprattutto chiede maggiore incisività al ministro Corrado Passera, inducendolo a precisare la propria posizione e in qualche modo a correggerla. «Non ho mai pensato che fosse un caso impossibile», si sarebbe difeso ieri pomeriggio il ministro dello Sviluppo economico, affiancando il suo sottosegretario nella trattativa con i sindacati. «Quando mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, alla festa del Pd, non avevamo uno straccio di manifestazione di interesse da parte di altre aziende».
Al di là dell'esito della vertenza che riguarda la Sardegna, a far riflettere è un quadro di insieme difficile da tenere sotto controllo. Si teme il vuoto fra una miriade di micro-crisi che promettono di avvitarsi verso forme di contestazione esasperata; e l'assenza di organizzazioni e istituzioni in grado di governarle. Al ministero dello Sviluppo economico esistono oltre centocinquanta dossier che riguardano altrettante situazioni difficili, e non solo a livello industriale. La preoccupazione palpabile è che nell'incapacità o nell'impossibilità delle forze sindacali e dell'esecutivo di risolverle, possano degenerare fino a diventare un problema di ordine pubblico.
Le violenze di ieri nella capitale, con quattordici feriti, costituiscono un'avvisaglia di quanto potrebbe succedere. E la campagna elettorale fa il resto, aggiungendo una dose di demagogia e di strumentalità alle polemiche. Per la sinistra è facile imputare i problemi delle industrie agli anni del governo di Silvio Berlusconi: sebbene il Sel di Nichi Vendola e l'Idv di Antonio Di Pietro non si limitino a quelli, e includano nelle responsabilità anche le mancate risposte di Monti e dei suoi ministri nei dieci mesi trascorsi a Palazzo Chigi. È la conferma che non si sta aprendo un «autunno caldo» ma continua un anno difficile, destinato a proiettare le sue ombre sul 2013. Poi, probabilmente, cominceranno a vedersi i primi barlumi della ripresa: il presidente del Consiglio sembra fiducioso.

Massimo Franco

11 settembre 2012 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_11/la-nota-massimo-franco_46307678-fbcf-11e1-8357-ee5f88952ff6.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Settembre 21, 2012, 05:47:49 pm »

LA NOTA

Il Pdl si assolve Ma la crisi è in agguato

Polverini resiste, ma l'inchiesta la tiene in bilico

L' istinto del bunker rimane in agguato. L'idea di risolvere lo scandalo alla regione Lazio facendo dimettere il capogruppo e lasciando le cose come stanno, per il Pdl è un brutto presagio. Significa che davvero, allora, il collasso della giunta di Renata Polverini può segnare la prossima campagna elettorale del partito a livello nazionale; e dunque si cerca di sterilizzarla. Dopo una riunione di vertice con Silvio Berlusconi, ieri il coordinatore Ignazio La Russa ha proclamato che «il caso è chiuso». Parole come minimo imprudenti, perché pensare di «fare quadrato» mentre l'inchiesta della magistratura è all'inizio e i nervi sono a fior di pelle, sa di azzardo.

Eppure, l'atteggiamento prevalente sembra questo. Mettere ai margini la nomenklatura indifendibile, e decidere unilateralmente che è quanto basta per andare avanti; per rivendicare coraggio e senso di responsabilità; e perfino per chiederne agli altri partiti. Il vicepresidente del gruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, è fra i pochi a invocare «trasparenza, perché i cittadini devono essere tutelati e rassicurati»; e ad affermare che in questo caso «l'intervento della magistratura è doveroso». La situazione dentro il Pdl lascia prevedere non solo che il caso non è chiuso, ma che stanno per aprirsene altri: sul piano politico, prima che giudiziario.

Il «no» del capogruppo del Veneto alla riunione con il segretario, Angelino Alfano, a Roma, è il segno di una protesta strisciante che nasce dall'istinto di sopravvivenza. Lo stesso vale per la richiesta di affrontare la «questione morale», per quanto l'espressione sia abusata, arrivata da alcuni sindaci del centrodestra. È come se una parte del movimento berlusconiano si rifiutasse di essere assimilata alle comparse dello scandalo laziale. Si coglie una rivendicazione della propria diversità davanti all'elettorato, prima che di fronte al Cavaliere. Insomma, le premesse sono quelle non di una docile ubbidienza ma a nuovi scampoli di una faida interna violenta.

Il fatto che l'ex capogruppo del Pdl, Franco Fiorito, abbia accusato davanti ai magistrati Renata Polverini di sapere come venivano ripartiti i fondi ai partiti, la tiene in bilico; anche se ufficialmente Fiorito nega di averlo detto. La governatrice, che aveva minacciato di dimettersi, è stata fermata da Berlusconi per evitare un «effetto domino». Eppure, l'epilogo è tutt'altro che scongiurato. Gli avversari, in testa il Pd di Pier Luigi Bersani, invocano un suo passo indietro, forse sperando che non lo faccia. Il centrosinistra avrebbe la campagna elettorale già pronta, con l'intera giunta di centrodestra come bersaglio.

Ma c'è una variabile, rappresentata dall'Udc. Nel Lazio è al governo con la Polverini, mentre Berlusconi e Pier Ferdinando Casini sono in guerra da tempo. Lo scandalo, però, sta accelerando lo sganciamento dei centristi, secondo i quali «la Polverini non può andare avanti così», nelle parole del segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa. Gli sviluppi rimangono imprevedibili. Alfano avverte: «Ci aspettiamo che anche gli altri partiti si comportino come il Pdl, il "così fan tutti" non giustifica nessuno». Ma per il momento, a dover convincere che sta facendo sul serio è soprattutto il suo.

Massimo Franco

21 settembre 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_21/nota_17b02396-03b0-11e2-a116-9748af084362.shtml#
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« Risposta #189 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:39:47 pm »

LA NOTA

Il rito miope dell'autoassoluzione

L' autoassoluzione della giunta regionale del Lazio è così perentoria da apparire sfacciata, quasi impudica. L'assenza di dimissioni di Renata Polverini, e la sua rivendicazione di avere «bonificato» la situazione facendo saltare un paio di teste, è peggio di una presa in giro: dimostra una miopia ai limiti dell'irresponsabilità.

Si tratta di una cecità politica che coinvolge quanti a livello nazionale pensano di poter comprimere una montagna di soldi e fango destinati a tracimare. La Guardia di Finanza che entra nella sede della Regione Campania e indaga sulle spese dell'Idv di Antonio Di Pietro a Bologna, allarga l'obiettivo e addita gli enti locali come una vera idrovora del denaro pubblico. D'altronde, lo scandalo segue la scia delle inchieste della magistratura che hanno toccato Lombardia e Sicilia, abbracciando simbolicamente l'intero territorio nazionale.

Si delinea dunque proprio quell'«effetto domino» politico-giudiziario che i partiti temono a pochi mesi dalle elezioni. Il fatto che di fronte ad accuse gravi di sperperi la reazione sia quella di farsi schermo con la legge, costituisce un'aggravante. Si tratta, di fatto, di norme di autofinanziamento che le nomenklature si sono ritagliate su misura, e che gridano vendetta in una fase di crisi economica acuta. Rappresentano la degenerazione caricaturale del potere legislativo, e minacciano di colpire a morte qualunque idea di autonomia locale. Sono destinate a portare non soltanto al disgusto nei confronti della politica, ma ad una riduzione drastica e a furor di popolo dei fondi per regioni e comuni.

Il rischio è che le vittime innocenti del malcostume diffuso, anche se si spera non generalizzato, siano settori come la sanità, l'istruzione, i servizi. Quando si pensa che in passato sindaci e governatori erano considerati il serbatoio naturale al quale attingere la classe politica nazionale, vengono i brividi. Oltre a bruciare denaro dei contribuenti, va in fumo qualunque speranza di ricambio. Il «potere municipale» si sta manifestando con le caratteristiche di una partitocrazia minore ma più famelica e più arrogante dell'altra. Forse perché la selezione è avvenuta al ribasso; o perché ha goduto di riflettori addomesticati e indulgenti, all'ombra di una altisonante retorica federalista.

L'idea di fingere punizioni esemplari per dare un contentino all'opinione pubblica senza cambiare comportamenti e meccanismi di finanziamento, è illusoria. I calcoli elettorali dei partiti, più preoccupati di non perdere clientele e voti che di dare segnali veri di rinnovamento, somigliano a sacchetti di sabbia affastellati in fretta e furia per fermare uno tsunami. In realtà, il collasso del modello regionale è il cascame inevitabile della crisi della Seconda Repubblica. E l'implosione di alcune forze politiche è il segno che il collante della spesa pubblica non regge più neppure a livello locale. Anzi, se ha retto tanto a lungo è stato solo grazie ad una complicità trasversale.

Il 2012 promette di essere la tomba di un modo di governare come lo sono state le inchieste giudiziarie di una ventina d'anni fa. E il vuoto di potere che si intravede provoca vertigini ancora più preoccupanti. Mette paura non tanto il rifiuto di vederlo, ma l'incapacità di farlo per mancanza di consapevolezza. Un'Italia che per anni è stata «mitridatizzata» assorbendo dosi di velenoso malgoverno, adesso è costretta a guardare in faccia politici locali che sono lo specchio di questa lunga impunità. Ma forse la nomenklatura è convinta che si possa continuare all'infinito, perché «così fan tutti». La novità è che, moralità o moralismi a parte, si tratta di un andazzo troppo costoso. Il parassitismo e l'inefficienza hanno un prezzo che pochi, ormai, si possono permettere di sostenere. Dover ricorrere di nuovo alla «supplenza» dei tecnici o delle procure è la certificazione dell'ennesima involuzione.

Massimo Franco

22 settembre 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_settembre_22/nota_0cabcab2-047e-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Ottobre 12, 2012, 10:25:07 pm »

LA NOTA

Il governo è ansioso di riuscire a offrire un'agenda popolare

I confini politici e finanziari delle regioni si vanno restringendo. Lo Stato si riprende un ruolo di regista nella distribuzione delle risorse, che gli sprechi e gli scandali emersi negli ultimi mesi negli enti locali fanno apparire inevitabile. Il taglio delle tasse per i redditi più bassi fa pensare che il governo di Mario Monti voglia bilanciare l'immagine di un esecutivo accusato di aumentare solo il carico fiscale: nonostante l'aumento dell'Iva di un punto dalla primavera del 2013. Traspare la preoccupazione di non perdere il consenso dell'opinione pubblica, sebbene il premier non abbia obiettivi elettorali.

Non ci può essere l'«agenda popolare» invocata per il futuro dal Pd. Ma senza dirlo, il presidente del Consiglio cerca di venire incontro a quanti insistono perché contraddica l'impressione di una manovra che, come accusa la Cgil, è «depressiva» per l'economia e i consumi; e colpisce i ceti più poveri. Eppure, anche gli ultimi provvedimenti avranno un costo sociale elevato. L'allarme permanente dei governatori, che il loro presidente Vasco Errani ha convocato anche per oggi, segnala il timore di uno smantellamento progressivo delle funzioni e dei margini di manovra delle amministrazioni periferiche.

Al punto che qualcuno si chiede provocatoriamente se non sia meglio abolire le regioni. La legge di stabilità approvata l'altra notte conferma soltanto che «governare sarà difficile», spiega il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «C'è un intreccio micidiale tra austerità, recessione e distacco dei cittadini». E annuncia di temere licenziamenti e disservizi per scuola e sanità. Bersani prevede oltre 6000 insegnanti messi fuori dal mondo del lavoro. Il ministro della Sanità, Renato Balduzzi, assicura che non verranno intaccati i servizi sanitari anche di fronte a un preventivo di 600 milioni di euro in meno. Ma l'inquietudine che si respira fa pensare l'opposto. L'insofferenza dei partiti, che ritengono di dare voce ad uno scontento generalizzato, è vistosa e trasversale: benché appaia tardiva e un po' strumentale. Va dalla Cgil di Susanna Camusso al Pdl, scontenti per motivi diversi per la riduzione dell'Irpef e l'aumento dell'Iva. È soprattutto la Conferenza delle Regioni, tuttavia, a sentirsi accerchiata. Errani addita «manovre» che comprometterebbero la possibilità di «erogare servizi» nelle scuole e negli ospedali. I leghisti evocano il federalismo come antidoto al ritorno dello Stato centrale. Ma la loro sembra una battaglia difensiva, di fronte a un panorama di malgoverno, di soldi buttati al vento, e di nomenklature che in alcuni casi mescolano inefficienza e comportamenti da codice penale. Le notizie che arrivano dalla Lombardia, con l'ombra della 'ndrangheta calabrese sull'elezione di alcuni consiglieri e la Lega pronta a togliere il sostegno al governatore Roberto Formigoni, preannunciano altra «pubblicità negativa» per i governi locali.

Massimo Franco

11 ottobre 2012 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/nota/12_ottobre_11/franco_4d76ed08-1368-11e2-ad6a-6254024087b3.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Ottobre 14, 2012, 03:57:50 pm »

IL QUIRINALE E IL DOPOVOTO

Gli errori da non ripetere

Le parole di Giorgio Napolitano sulla riforma elettorale sono un plauso alla fine dello status quo: quello stallo che da mesi frustra e ridicolizza l’impegno solenne a riscrivere almeno alcune regole. Ma contengono anche un monito a non usare l’urgenza del cambiamento come alibi per coprire operazioni larvatamente nostalgiche. La preoccupazione che traspare dalla lettera che ieri il capo dello Stato ha scritto al presidente del Senato, Renato Schifani, è di evitare un ritorno dei partiti alle alleanze forzate del passato. Napolitano allude non al passato remoto della Prima Repubblica, ma a quello recente della Seconda. È uno sfondo di macerie politiche, oltre che economiche, da non riproporre.

Riassemblare sotto nuove etichette coalizioni arlecchinesche costruite solo per vincere le elezioni rendendo patologica l’instabilità, significherebbe perseverare in errori che sono già costati molto, troppo, all’Italia. Si tratta di un assillo che non poggia tanto su quanto è stato fatto finora. Tenta di guardare un po’ oltre, al 2013; e di scongiurare una deriva che, di fallimento in fallimento, potrebbe risuscitare sodalizi cementati dall’istinto di sopravvivenza. Se ne colgono tracce, per quanto labili, sia a destra che a sinistra. Forse perché il presente costringe a rimettersi in gioco, e quasi nessuno è pronto a farlo. Non, comunque, nella misura necessaria per coinvolgere un’opinione pubblica che ha mentalmente già voltato pagina.

Il messaggio di Napolitano è dunque, formalmente, al Parlamento. Ma parla ai partiti che dovrebbero concordare la legge elettorale; e che si sono divisi sulla prima mediazione, senza tuttavia precludersi margini di dialogo nelle Aule del Parlamento. Sono questi margini che il presidente della Repubblica spera si allarghino, permettendo l’approvazione di una riforma nella quale possa riconoscersi una maggioranza «anomala» e trasversale simile a quella costruita attorno al governo di Mario Monti. Il «sì» corale che il Quirinale ha ricevuto non deve ingannare, però. Non significa automaticamente che un epilogo positivo è a portata di mano. Per il momento, si tratta più semplicemente della volontà delle forze politiche di rivendicare la loro buona disposizione, attribuendo resistenze, veti e calcoli inconfessabili agli avversari.

L’incognita è se e quanto delle proprie convenienze elettorali ogni partito sia disposto a sacrificare sull’altare di un’intesa che non riproponga vecchi schemi: si parli di preferenze, collegi, premi di maggioranza, soglie di sbarramento. Certo, l’ipotesi di tornare alle preferenze in una fase in cui riaffiorano gli scandali su un clientelismo che sconfina nei voti comprati e venduti dalla criminalità, è un forte argomento contrario. Fornisce solide obiezioni a quanti le considerano la fonte primaria di una degenerazione caricaturale della democrazia. Ma demonizzare questo aspetto senza garantire una selezione rigorosa dei candidati non basterebbe. Tanto meno servirebbe azzuffarsi per giustificare l’impossibilità di cambiare. Sebbene sia lontana appena un anno, anche la Seconda Repubblica è passato remoto.

Massimo Franco

13 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_13/franco-errori-da-non-ripetere_eed208d2-14f7-11e2-adc6-ff8054e34060.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Ottobre 26, 2012, 04:18:53 pm »

IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE

Tutte le carte da rimescolare


Il vuoto lasciato dalla tortuosa uscita di scena di Silvio Berlusconi induce a chiedersi dove andrà il suo elettorato. È una domanda strategica, perché l'alleanza modellata dal e sul Cavaliere ha rappresentato il baricentro del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. A livello governativo, si può dire che lo spazio è stato occupato da Mario Monti, icona di un'«altra Italia» più credibile sul piano internazionale rispetto a quella degli ultimi esecutivi. Ma nelle urne il presidente del Consiglio sarà presente solo come punto di riferimento simbolico: un «non candidato» al quale ci si può richiamare, ma che non si può votare.

La sua comparsa ha accelerato la scomposizione dei vecchi schieramenti. E il tentativo di aggregazione fra quanti si definiscono «montiani» e vogliono offrire una scelta alternativa a quelle tradizionali, segna una novità e un passo avanti: se non altro perché mette da parte ambizioni e velleità personali. Il documento che pubblichiamo oggi supera la nebulosa del convegno di cattolici dello scorso anno a Todi. E, nel suo trasversalismo, punta a ridurre la frammentazione e a rilanciare un'agenda europea che altrimenti apparirebbe annacquata, se non disdetta. È un fronte che prima mostrava generali e colonnelli inclini al protagonismo. Ora, invece, cerca di diventare l'interlocutore di un elettorato in fuga dal centrodestra e, in parte, dalla sinistra.

Di quest'area sarebbe perno naturale Pier Ferdinando Casini, il più «montiano» fra quelli che appoggiano il premier. Ma un Pdl schierato con Palazzo Chigi, seppure per necessità, insidia e insieme incrocia l'Udc: anche per il plauso col quale il Vaticano si è affrettato a salutare il passo indietro di Berlusconi. E il Pd di Pier Luigi Bersani, slittando verso un'alleanza con le sinistre, di fatto sta archiviando Monti, a costo di regalarlo agli avversari. La stessa idea di ereditare una fetta del consenso del centrodestra per forza di inerzia è tutta da verificare. È rivelatore lo smottamento di Pdl e Lega alle ultime Amministrative: un calo che non ha portato voti al cosiddetto «Terzo polo», se non in misura trascurabile.

Significa che i due elettorati non sono vasi comunicanti. Una parte consistente dei frutti raccolti in passato dal Cavaliere e dal Carroccio di Umberto Bossi è rotolata nella nebulosa del Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo: un «parcheggio» che espande i suoi confini, insieme al disorientamento e alla delusione di elettori che optano per la protesta perché non vedono un'alternativa di governo all'orizzonte. È possibile che per arginare questa deriva i partiti alla fine decidano di tenersi la brutta legge elettorale di adesso. Ma il risultato sarebbe quello di perpetuare con una forzatura alleanze ormai finite, prolungando e complicando una fase di transizione.

Non ricandidandosi, Berlusconi ha voluto togliere l'ultimo alibi agli avversari, e presentarsi come un benemerito disinteressato al potere. In realtà, ha soltanto preso atto che la sua stagione è finita. Comunque sia, la mossa offre a tutti l'obbligo di ridefinirsi. Da questo momento, velare le proprie responsabilità dietro quelle altrui sarà più difficile. Un elettorato stanco e diffidente è meno disposto ad accettare mediocri scaricabarile di fine legislatura.

Massimo Franco

26 ottobre 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_26/tutte-le-carte-da-rimescolare-franco_74b3a26a-1f2c-11e2-8e43-dbb0054e521d.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:13:31 pm »

LA NOTA

Ma il centrodestra fatica ad emanciparsi dall’era del Cavaliere

Un Pdl in trincea costretto a rallentare le aperture all’area moderata


Il contraccolpo immediato potrebbe scaricarsi sulle elezioni siciliane di domani, nelle quali adesso il Pdl rischia ancora di più di quanto già temesse. La tegola della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale ieri a Milano colpisce un partito che sta faticosamente archiviando il suo leader; e tentando di reagire all’ondata di scandali che colpiscono i dirigenti locali dalla Lombardia al Lazio. Nel medio termine, invece, le conseguenze vanno decifrate con maggiore cautela. La perentorietà con la quale i berlusconiani più oltranzisti invocano il terzo ripensamento del loro capo, respingendolo a candidarsi a Palazzo Chigi contro le «toghe rosse», non va sottovalutata. È difficile che la mossa abbia un seguito. Non solo perché incombe il processo sui rapporti del Cavaliere con la minorenne marocchina Ruby, ma perché i sondaggi consegnano percentuali sconfortanti. Berlusconi ieri ha dichiarato che la sentenza «conferma l’accanimento giudiziario e l’uso della giustizia a fini di lotta politica. Non si può andare avanti così». Ed ha ripetuto che era certo di essere assolto. D’altronde, lo aveva detto nei giorni scorsi al procuratore Ilda Boccassini, andandole a stringere la mano in aula. Ma sullo sfondo della condanna, quel gesto assume un significato diverso. Il sospetto è che Berlusconi temesse il verdetto e abbia giocato d’anticipo. La stessa decisione di togliersi dalla competizione per il premierato alla vigilia della sentenza suscita commenti maligni: tanto che è lui stesso a negare qualunque «connessione » fra i due fatti. Al Pdl non resta che proteggere il suo ex premier. Gli è impossibile scindere il proprio destino da quello del fondatore. Ma questo complica il percorso di un partito che sta cercando una transizione indolore, una nuova identità e nuove alleanze in vista del voto; e invece si ritrova intrappolato in uno schema che porta in un vecchio vicolo cieco. Sia che la condanna freni l’approdo al postberlusconismo, sia che lo acceleri, mette comunque in tensione il perimetro del centrodestra. Costringe il vertice del Pdl a spiegare quanto l’ipoteca di Berlusconi pesi ancora sul presente. Lo schiaccia in una trincea dalla quale diventa un’impresa rivolgere appelli all’unità dei moderati, si tratti dell’Udc o del movimento che punta ad una Terza Repubblica. La solidarietà a Berlusconi è inevitabile. Si rivela anche la controprova, però, di quanto sarà lenta e tortuosa l’emancipazione dalla sua leadership. Il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, invita a prendere atto che il bipolarismo è finito e il Pdl andrebbe sciolto. L’effetto di quanto sta avvenendo, tuttavia, può avere il risultato di irrigidire e congelare la situazione, non di renderla più fluida. E dunque gonfia di incognite lo stesso progetto centrista che scommette sulla liquidazione rapida del berlusconismo e su una fuga degli elettori del centrodestra per intercettarne il maggior numero possibile. È come se la condanna e lo scontro fra Pdl e magistratura facessero rimbalzare a forza lo scenario italiano nel passato: con la stampa internazionale felice di ritrovare la saga di un’Italia identificata col Cavaliere e i suoi scandali. Anche se la saga è finita da tempo, e nemmeno la condanna potrà resuscitarla.

Massimo Franco

27 ottobre 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_ottobre_27/nota_23e10e18-1ff9-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:37:40 pm »

IL DOCUMENTO CATTOLICO, LA MOSSA DEL CAVALIERE

Tutte le carte da rimescolare


Il vuoto lasciato dalla tortuosa uscita di scena di Silvio Berlusconi induce a chiedersi dove andrà il suo elettorato. È una domanda strategica, perché l'alleanza modellata dal e sul Cavaliere ha rappresentato il baricentro del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. A livello governativo, si può dire che lo spazio è stato occupato da Mario Monti, icona di un'«altra Italia» più credibile sul piano internazionale rispetto a quella degli ultimi esecutivi. Ma nelle urne il presidente del Consiglio sarà presente solo come punto di riferimento simbolico: un «non candidato» al quale ci si può richiamare, ma che non si può votare.

La sua comparsa ha accelerato la scomposizione dei vecchi schieramenti. E il tentativo di aggregazione fra quanti si definiscono «montiani» e vogliono offrire una scelta alternativa a quelle tradizionali, segna una novità e un passo avanti: se non altro perché mette da parte ambizioni e velleità personali. Il documento che pubblichiamo oggi supera la nebulosa del convegno di cattolici dello scorso anno a Todi. E, nel suo trasversalismo, punta a ridurre la frammentazione e a rilanciare un'agenda europea che altrimenti apparirebbe annacquata, se non disdetta. È un fronte che prima mostrava generali e colonnelli inclini al protagonismo. Ora, invece, cerca di diventare l'interlocutore di un elettorato in fuga dal centrodestra e, in parte, dalla sinistra.

Di quest'area sarebbe perno naturale Pier Ferdinando Casini, il più «montiano» fra quelli che appoggiano il premier. Ma un Pdl schierato con Palazzo Chigi, seppure per necessità, insidia e insieme incrocia l'Udc: anche per il plauso col quale il Vaticano si è affrettato a salutare il passo indietro di Berlusconi. E il Pd di Pier Luigi Bersani, slittando verso un'alleanza con le sinistre, di fatto sta archiviando Monti, a costo di regalarlo agli avversari. La stessa idea di ereditare una fetta del consenso del centrodestra per forza di inerzia è tutta da verificare. È rivelatore lo smottamento di Pdl e Lega alle ultime Amministrative: un calo che non ha portato voti al cosiddetto «Terzo polo», se non in misura trascurabile.

Significa che i due elettorati non sono vasi comunicanti. Una parte consistente dei frutti raccolti in passato dal Cavaliere e dal Carroccio di Umberto Bossi è rotolata nella nebulosa del Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo: un «parcheggio» che espande i suoi confini, insieme al disorientamento e alla delusione di elettori che optano per la protesta perché non vedono un'alternativa di governo all'orizzonte. È possibile che per arginare questa deriva i partiti alla fine decidano di tenersi la brutta legge elettorale di adesso. Ma il risultato sarebbe quello di perpetuare con una forzatura alleanze ormai finite, prolungando e complicando una fase di transizione.

Non ricandidandosi, Berlusconi ha voluto togliere l'ultimo alibi agli avversari, e presentarsi come un benemerito disinteressato al potere. In realtà, ha soltanto preso atto che la sua stagione è finita. Comunque sia, la mossa offre a tutti l'obbligo di ridefinirsi. Da questo momento, velare le proprie responsabilità dietro quelle altrui sarà più difficile. Un elettorato stanco e diffidente è meno disposto ad accettare mediocri scaricabarile di fine legislatura.

Massimo Franco

26 ottobre 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_26/tutte-le-carte-da-rimescolare-franco_74b3a26a-1f2c-11e2-8e43-dbb0054e521d.shtml
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