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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193856 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:31:54 pm »

In un vicolo cieco

Il rischio, adesso, non è tanto quello della resa dei conti finale fra Silvio Berlusconi e la Procura di Milano. Piuttosto, e forse è peggio, sulla scia dell'inchiesta giudiziaria che riguarda la vita intima del presidente del Consiglio può instaurarsi un equilibrio di fatto fondato sulla paralisi: niente decisioni vere del governo e niente passi avanti delle indagini. Una terra di nessuno politica e giudiziaria, riempita da episodi squallidi e da veleni destinati a raggiungere un solo risultato: la riduzione a livello internazionale dell'Italia a caricatura di un Paese occidentale.

La difesa a oltranza che di Berlusconi fanno gli alleati era prevedibile. E sia la successione temporale con la quale è stato indagato, a ridosso della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, sia l'uso a tappeto delle intercettazioni sollevano qualche perplessità. Su questo giornale se ne è fatto già portavoce Piero Ostellino, difendendo un diritto alla privacy poco garantito. Eppure, non si può né tacere lo stupore, quasi lo sgomento evocato da Pierluigi Battista di fronte a vicende che finiscono per sfregiare la figura del capo del governo al di là di meriti e demeriti; né accettare l'idea che la questione si riduca a un torneo polemico fra Palazzo Chigi e la magistratura.

La diga politica che il centrodestra ha eretto a difesa del proprio leader appare per il momento granitica, indistruttibile. La stessa Lega ha tacitato i timori berlusconiani di uno scarto improvviso. Eppure, per evitare che questa barriera di solidarietà appaia il bunker nel quale si asserraglia un potere autoreferenziale, forse non basta evocare un complotto. Se Berlusconi ha come interlocutore l'Italia prima ancora di chi lo accusa di reati infamanti, chiarire le cose davanti ai magistrati potrebbe sembrare un cedimento ma in realtà sarebbe un gesto di forza. È forse il modo più semplice e insieme spiazzante per uscire da un accerchiamento da valutare in prospettiva.

Chi suggerisce al presidente del Consiglio semplicemente di resistere e rifiutare il processo asseconda il suo istinto. E tuttavia finisce per fare un favore soprattutto agli avversari. Si sente dire che dopo l'ennesima «aggressione» a Berlusconi l'ipotesi di elezioni anticipate si allontana ulteriormente. È certo che il capo del governo non ha nessun interesse a interrompere la legislatura: oggi più di ieri. Da questo punto di vista, l'inchiesta giudiziaria milanese che ipotizza concussione e sfruttamento della prostituzione minorile sarebbe un paradossale fattore di stabilità. Tuttavia c'è da chiedersi per quanto tempo e a che prezzo.

Al di là dell'impasto di sostegni e ricatti che avvolge Palazzo Chigi, alla fine non vanno escluse elezioni non volute, ma subite; e destinate a riproporre una situazione quasi immutata: esposta non solo alle aggressioni speculative ma al ridicolo.

Massimo Franco

18 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_18/franco-editoriale-vicolo-cieco_6681fe78-22c9-11e0-b943-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:11:03 pm »

la Tentazione della Lega

Sarebbe ingiusto considerarlo un pretesto e dubitare delle sue buone intenzioni. Ma non si può non vedere che la proposta avanzata ieri su questo giornale dal presidente del Consiglio viene interpretata come un gesto strumentale e di debolezza. I sarcasmi con i quali l'opposizione ha accolto la svolta di Silvio Berlusconi dicono come minimo che la ritengono tardiva e dunque irricevibile.

Ma forse i motivi che hanno spinto il capo del governo a tendere la mano agli avversari non stanno tanto nell’esigenza di coinvolgere la sinistra, quanto di guidare e tenere la propria maggioranza. Si tratta di una condizione di fragilità che dipende da due fattori. Il primo è il riflesso negativo dell’inchiesta della Procura milanese sulla vita privata di Berlusconi. Se il premier dovesse cadere per questioni giudiziarie e non perché la minoranza offre un’alternativa convincente, saremmo di fronte ad una regressione e non ad un passo avanti; ma quelle vicende pesano eccome, ed assumono contorni politici. Il secondo fattore di incertezza è costituito da una Lega che sfoggia una lealtà da alleato sempre più esigente. In modo cauto ma costante, il partito di Umberto Bossi continua ad adombrare elezioni con un altro candidato per Palazzo Chigi. Su questo sfondo, l’iniziativa di Berlusconi appare meno estemporanea.

Risponde alla logica di spostare il terreno dello scontro dalle frequentazioni imbarazzanti, e al limite del codice penale, alla politica economica; di non subire l’agenda altrui, tentando invece di dettarla; e di recuperare protagonismo, se non leadership, nei confronti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, da tempo vero e, secondo i critici, unico regista della strategia finanziaria del governo. È un comportamento che conferma la volontà di contrastare fino a quando sarà possibile una deriva elettorale in grado di fare proseliti insospettati. Il ribaltamento delle posizioni sul voto anticipato può apparire curioso, ma si spiega con la percezione diversa che si ha dei rapporti di forza.

Per questo, un’opposizione di centrosinistra che fino alla prima metà di gennaio era pronta a tutto pur di non scivolare verso le urne, adesso le evoca. Ed un Polo della Nazione incline ad aiutare di volta in volta il governo in Parlamento, ora non chiude la porta all’ipotesi di un «cartello antiberlusconiano » ed eterogeneo in nome dell’esigenza di far dimettere il presidente del Consiglio. Il fatto che una vecchia proposta liquidata come impraticabile adesso assuma verosimiglianza dipende dal contesto in cui si inserisce. È quello di un governo e di un premier che elencano come un bollettino di vittoria le fiducie ottenute negli ultimi mesi.

Ma in parallelo sanno di essere condannati alla precarietà.

Di qui a giovedì saranno di nuovo in bilico: sia per le votazioni sulla riforma federalista, dall’esito delle quali il partito di Bossi fa dipendere la continuazione della legislatura; sia per l’evoluzione delle inchieste di Milano, che pure la maggioranza vuole rinviare con un voto parlamentare alla Procura, ritenuta «incompetente ». Si capirà allora se stiamo assistendo all’ennesimo tentativo di spallata, frustrato dai numeri; oppure se ci si avvicina al punto finale. La sensazione è che né resistere tanto per resistere, asserragliati a Palazzo Chigi, né rompere solo per abbattere Berlusconi servirebbe a ridare una bussola al Paese. Probabilmente, non basta neppure arruolare altri singoli deputati per garantirsi una qualsiasi sopravvivenza. Purtroppo, però, è quanto sta accadendo.

Col risultato che, per colpa di tutti e di nessuno, le elezioni anticipate rischiano di diventare di colpo non solo un esito comunque inevitabile, ma il male minore.

Massimo Franco

01 febbraio 2011
da - corriere.it/politica
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« Risposta #137 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:05:34 pm »




La trincea del centrodestra regge, almeno per adesso. Silvio Berlusconi ha strappato alle opposizioni un altro deputato emerso dal limbo. Eppure, sembra tuttora accerchiata da quanti sono convinti che sia un momento di pericolosa fragilità per il premier. Questa sensazione è stata cancellata solo parzialmente dal voto col quale ieri sera la Camera ha rispedito alla Procura di Milano gli atti dell’inchiesta sulla vita privata del premier, ritenendola incompetente con 315 sì (316 se avesse votato anche Berlusconi), 298 no e un astenuto; e dalla riproposizione immediata del decreto sul federalismo non approvato in precedenza in commissione.
Strategia della sopravvivenza e precarietà continuano dunque a convivere. Il risultato è la sfasatura fra un governo che si puntella numericamente e gli avversari che lo danno per moribondo: la fotografia di una legislatura condannata a rimanere in bilico. Ormai è chiaro che le opposizioni contano sugli sviluppi delle indagini giudiziarie per dare la spallata finale a Palazzo Chigi. E confidano che prima o poi un Umberto Bossi stranamente oscillante fra minacce e remissività possa abbandonare Berlusconi. L’esempio del voto sul federalismo è lampante. È stato affossato in commissione, perché lasciarlo passare avrebbe significato fornire ossigeno al premier.
Il messaggio del centrosinistra e del Polo della Nazione alla Lega è chiaro: lascia Berlusconi e sarà tutto più facile. È l’unico punto sul quale forze diverse, su alcuni temi perfino agli antipodi, sembrano d’accordo: con questo presidente del Consiglio, qualunque argomento caro al Carroccio avrà vita dura fino al boicottaggio. Eppure, la cautela di Bossi anche dopo il responso frustrante di ieri mattina fa capire che i calcoli sul dopo-Berlusconi danno per scontate troppe cose. Per il Carroccio la battuta d’arresto è evidente. Si materializza l’incubo di una riforma federalista a maggioranza, esposta a rappresaglie avversarie. E la base leghista è in rivolta.
in rivolta. Ma Bossi aveva intuito la difficoltà dal mattino presto, dopo avere incontrato un Gianfranco Fini sempre più uomo di partito e sempre meno presidente della Camera. E continua a scegliere l’asse con un premier in affanno a quello con un’opposizione agguerrita e insieme patologicamente debole e confusa. Sarà anche vero che ormai il centrodestra sta sublimando le tecniche di sopravvivenza; che Berlusconi imita con talento il «tirare a campare» di andreottiana memoria. Il problema è che non si vede ancora l’alternativa alla crisi strisciante non solo di un governo ma di una fase politica.
Quando spunterà, la transizione sarà rapida. Ma non si vede ancora, al punto che il centrodestra scommette su elezioni sempre più remote. È una previsione alimentata dai numeri del ventre molle e opaco del Parlamento, non dalla politica; e accompagnata dal sospetto che le scommesse ufficiali possano nasconderne altre, clandestine e opposte.

Massimo Franco

04 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_04
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« Risposta #138 inserito:: Febbraio 17, 2011, 12:21:09 pm »

LA NOTA

Il premier in trincea conta di sfruttare i conflitti degli avversari

Apparente sintonia tra il Cavaliere e la Lega sul no alle elezioni


La sensazione è che dopo essere sceso in trincea, Silvio Berlusconi pensi perfino di poterla rendere meno inospitale. Merito delle doti di incassatore senza remore né imbarazzi; e demerito di avversari che di fronte alle sue difficoltà si mostrano senza volerlo almeno altrettanto deboli. Le convulsioni di Futuro e libertà, il partito di Gianfranco Fini che doveva sgretolare il centrodestra e invece al Senato si sta liquefacendo, sono emblematiche. Ma lo è, in parte, anche il toto-candidato un po' estemporaneo scattato nel centrosinistra in vista di un voto anticipato altamente in bilico. È la conferma di alleanze ancora in embrione; e di un rischio di logoramento simmetrico a quello berlusconiano. Anche per questo la Lega continua a sostenere il presidente del Consiglio. Ma bisognerà vedere come reagirà quando si apriranno i processi per concussione e prostituzione minorile.
Per ora, di fatto il Carroccio ha lasciato cadere le offerte del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, sulla riforma federalista. Il capogruppo leghista alla Camera, Marco Reguzzoni, è sulla lunghezza d'onda del governo; e tende ad escludere che ci saranno elezioni anticipate. «Se il governo ha i numeri si va avanti. Altrimenti, cade da solo», spiega un Umberto Bossi lapalissiano e vagamente rassegnato. Sa che per ora Berlusconi non getterà la spugna; e che andare alle urne sarebbe il male minore ma anche un azzardo.
L'unica cosa chiara è che di qui al processo del 6 aprile a Milano, l'Italia passerà sotto le forche caudine del discredito internazionale; e in caso di condanna di Berlusconi la situazione diventerebbe insostenibile. La Lega non può defilarsi mentre la manovra del premier sta dando frutti: precari, opachi, ma decisivi per rimanere a palazzo Chigi. Quando ieri, nella conferenza stampa accanto al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, il capo del governo ha detto che presto conterà su 325 voti a Montecitorio, probabilmente non esagerava. Il presidente della Camera guida un partitino parlamentare già diviso sull'atteggiamento da tenere verso il centrodestra.
Si dà per probabile che alcuni scontenti del Fli vengano risucchiati nelle file della maggioranza: un'area che testimonia come un'operazione nata sull'onda dell'antiberlusconismo sia avviata adesso su un binario morto. La prudenza di Pier Ferdinando Casini, leader del Polo della nazione del quale fanno parte sia Fini che l'Api di Francesco Rutelli, sottolinea i magri risultati del recente congresso del Fli a Milano. Le difficoltà della destra rendono ancora più vistoso il primato di Casini. Ma rischiano di mettere in crisi il progetto di un'alleanza che si incunea e cresce fra l'asse Pdl-Lega e le sinistre. Già si malignava sul carattere transitorio di un «Terzo polo» nato per reagire alla sconfitta parlamentare del 14 dicembre.
Casini vuole evitare che le malignità si avverino. Per questo, non si può escludere del tutto una manovra di sganciamento reciproco. Il premier sostiene che le elezioni si allontanano per alimentare e sfruttare i contrasti altrui. Dire, come ha fatto ieri, che il suo governo arriverà al 2013, alla fine della legislatura, è un modo per respingere richieste di dimissioni sempre più pressanti da parte dell'opposizione. Vuole ostentare una sicurezza che probabilmente non è così granitica; e che presto sarà messa a dura prova da uno scontro che potrebbe portare ad un voto anticipato per disperazione.

Massimo Franco

17 febbraio 2011
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« Risposta #139 inserito:: Febbraio 22, 2011, 04:09:18 pm »

La Nota



Possibili intese con l'opposizione per gestire la crisi

La decisione di riunire solo stasera un vertice a palazzo Chigi per analizzare i contraccolpi della crisi nel Maghreb risponde all'esigenza di contare su scenari meno frammentari e incerti. E di valutare la possibilità di una gestione della crisi libica insieme all'opposizione.
La ribellione popolare in Libia pone all'Italia problemi più seri di quelli provenienti da Egitto e Tunisia. Coinvolge insieme la politica estera e quella energetica del governo. Ma soprattutto, evoca l'incubo di un esodo incontrollato attraverso il Mediterraneo.

La Libia era l'argine costruito a caro prezzo dal maggio del 2009 per frenare i barconi dei disperati. Adesso quella diga si sta rompendo. Si teme la pressione spaventosa sulle infrastrutture, dai centri di accoglienza agli ospedali, incapaci di assorbire un'onda d'urto in aumento. Per questo si spera nella possibilità di convincere altri Paesi europei ad accogliere almeno parte dei disperati africani: in primo luogo Francia e Germania. Ma convincerli sarà difficile. E le polemiche del centrosinistra mostrano il calcolo di sfruttare questa crisi.

Silvio Berlusconi, con i ministri degli Esteri, Franco Frattini, e dell'Interno, Roberto Maroni, stasera dovranno analizzare una situazione in preoccupante evoluzione. Le opposizioni sembrano decise ad imputare al premier gli otto incontri in tre anni col dittatore libico Gheddafi; e la prudenza iniziale ed eccessiva di palazzo Chigi dopo la repressione violenta dei manifestanti. Tendono invece a dimenticare le intese stipulate in passato con la Libia dai governi di centrosinistra: accordi peraltro essenziali per garantirsi forniture energetiche e controllo dell'immigrazione clandestina.

Finora arrivavano disperati dalle regioni a Sud del Sahara. Ora sulle spiagge del Mediterraneo si riversano egiziani, tunisini e libici. E sullo sfondo cresce l'incognita di un'involuzione islamica e fondamentalista sulle macerie del regime di Tripoli, che non può neppure contare su un esercito-istituzione come l'Egitto. È un vuoto di potere che «fa allentare i meccanismi di sicurezza ed i controlli», ha ammesso il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano. E ripropone la solitudine dell'Italia in Europa. Con durezza e realismo lo riconosce l'ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi.

Prodi ammette che quanto sta avvenendo «è qualcosa di assolutamente inatteso»; e gli attribuisce dimensioni geopolitiche devastanti per l'Italia, perché «tutti i Paesi che hanno rapporti stretti con noi sono in un incendio». Il problema è che le fiamme divampano mentre l'Ue è priva di una strategia mediterranea, perché il suo asse si è spostato da tempo a Nord. La nota diffusa ieri sera da Berlusconi corregge le cautele iniziali e parla di «violenza inaccettabile». Il premier chiede all'Europa di impedire una guerra civile; e di tutelare «l'integrità e stabilità» della Libia. Ma pochi ritengono che ci si riuscirà.

Massimo Franco

22 febbraio 2011
da - corriere.it/politica
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« Risposta #140 inserito:: Marzo 02, 2011, 12:35:18 pm »


Una mossa, tre bersagli

Il centrodestra lo considera poco più di un atto dovuto, per difendere le prerogative del Parlamento da quella che definisce l’«interpretazione scorretta» della Procura di Milano. E non è sicuro nemmeno che vada a buon fine, a conferma che si tratta di un’iniziativa squisitamente politica. Ma, per quanto ventilata nelle scorse settimane, la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato sul processo a Silvio Berlusconi per il «caso Ruby» è dirompente in sé. Inaugura o, forse è meglio dire, conferma una strategia gravida di incognite.

Soprattutto, mette nel conto un «effetto domino» che scaricherebbe su altre istituzioni il cortocircuito fra politica e giustizia. Mentalmente, nella lettera inviata ieri a Gianfranco Fini, la maggioranza ha tracciato confini che includono tre bersagli. L’obiettivo immediato è proprio il presidente della Camera. Non a caso i capigruppo di Pdl, Lega e Ir (i cosiddetti «responsabili» che surrogano i finiani dopo la rottura) gli chiedono di sfruttare questa occasione per dimostrare la sua obiettività: richiesta insieme legittima e provocatoria, visti i pessimi rapporti tra Fini e gli ex alleati.

Poi c’è la Procura di Milano, accusata di ignorare la volontà del Parlamento per il quale Silvio Berlusconi deve essere giudicato dal Tribunale dei ministri. E su uno sfondo neppure troppo lontano si staglia la Corte costituzionale. A valutare la legittimità del conflitto di attribuzioni sarebbe infatti la Consulta: uno dei bersagli fissi del premier. Tanto più che, anche di recente e con improvvida ufficiosità, la Corte ha sconsigliato l’opzione del conflitto di attribuzioni; e suggerito invece al capo del governo di chiedere quello di giurisdizione sul quale è chiamata a pronunciarsi la Corte di cassazione.

Ma significherebbe difendersi «nel» processo e non «dal» processo: una possibilità che o Berlusconi o i suoi avvocati o entrambi sembra continuino a non contemplare. Il risultato è un giudizio tagliente del presidente della Corte costituzionale, Ugo De Siervo, contro il premier, pur senza citarlo: un altro presagio di rissa. La prospettiva deprimente è dunque di galleggiare ancora a lungo fra veleni e immobilismo. Se la strada maestra rimane il conflitto fra presidente del Consiglio e magistrati chiamati a processarlo, è prevedibile che la prima vittima sarà la riforma della giustizia.

Sarebbe azzardato, infatti, pensare che in una situazione così tesa possa essere accelerata e non bloccata. Ma la conflittualità patologica può frustrare e mettere in crisi l’intera «filosofia dei fatti» che il governo rivendica per legittimare la propria sopravvivenza e scansare il voto anticipato. I promotori della lettera si premurano di far sapere che non è loro intenzione coinvolgere il Quirinale. La Lega, in particolare, ostenta rispetto verso il presidente della Repubblica: perfino con qualche distinguo da Berlusconi. Eppure è difficile pensare che in una logica di scontro così accentuata esistano istituzioni protette da una bolla di intangibilità: al di là delle migliori intenzioni.

Massimo Franco

02 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #141 inserito:: Marzo 21, 2011, 11:35:07 am »

La Nota

Centrodestra spiazzato

E il Carroccio sceglie la linea neutralista

L'Italia cerca di limitare i danni di un'azione militare decisa da altri


L' Italia si prepara a partecipare ad un intervento militare in Libia che ha subìto, più che voluto. E ad allinearsi ad una decisione benedetta dall'Onu ma presa di fatto da Francia e Stati Uniti, d'accordo con la Lega araba, dopo che negli ultimi giorni si era rassegnata ad una rivincita sanguinosa di Gheddafi sugli insorti. La cautela tedesca offre alla Lega un appiglio internazionale per defilarsi e non votare con il governo. Ma è davvero un piccolo gancio, al quale il Carroccio appende un neutralismo d'ufficio e senza conseguenze: tranne quella di mostrare un centrodestra spiazzato e diviso, al contrario di Pd e Udc che si sentono schierati dalla «parte giusta» fin dall'inizio. E adesso chiedono che la risoluzione delle Nazioni unite sia tradotta rapidamente in azione.

Il tentativo del governo, adesso, è di utilizzare la nostra posizione geopolitica per assumere un ruolo almeno da coprotagonisti. Le basi italiane serviranno come appoggio per le incursioni aeree che dovrebbero aprire la strada alla creazione della no fly zone, il divieto di sorvolo sul territorio libico da parte dei piloti di Gheddafi che bombardano la popolazione civile. Anzi, i ministri della Difesa e degli Esteri, Ignazio La Russa e Franco Frattini, preannunciano un ruolo più «attivo» per l'aeronautica italiana. «Non diamo le chiavi di casa nostra ad altri», si spiega. La strategia è di limitare i danni provocati dalle oscillazioni degli ultimi giorni, legate ai nostri rapporti con Gheddafi e all'incertezza sull'esito della guerra civile; e di impedire che un attacco, per quanto sotto l'egida dell'Onu, ci esponga a rappresaglie.

Per questo si evoca lo «scudo della Nato» come ulteriore difesa: lo fa l'ex premier Massimo D'Alema, e Frattini subito sottoscrive la proposta. D'altronde è sbiadito, ma non del tutto cancellato il ricordo dei missili sparati nel 1986 da Gheddafi verso l'isola di Lampedusa, vicinissima alle coste libiche. Con il regime di Tripoli assediato dalla comunità internazionale, c'è il timore di minacce multiple e perfino più pericolose. Ci sono l'«arma» dell'immigrazione clandestina attraverso il confine d'acqua del Mediterraneo; la ritorsione contro i nostri corposi interessi energetici; e la possibilità di atti di terrorismo. Per questo, ieri sera il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, riunito al Viminale, ha alzato «il livello di attenzione» per gli attacchi che possono arrivare dal Maghreb.

Sottovoce, il governo non si nasconde che alla fine si potrebbe essere costretti a fare soprattutto il bilancio dei danni. Quello dei benefici, almeno per ora, non è prevedibile. Il centrodestra si presenta diviso, sebbene non esistano pericoli di crisi. La Lega esita vistosamente ad assecondare le decisioni dell'Onu; è additata dal centrosinistra come un alleato inaffidabile in politica estera; e così ostile ad un'azione militare che qualche giorno fa il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, aveva invitato con linguaggio discutibile gli Usa a «darsi una calmata» rispetto alle ipotesi di un intervento militare. Ma già in passato il Carroccio ha mostrato di seguire una politica estera attratta ora dalla Serbia di Milosevic, ora dalla destra xenofoba dell'austriaco Haider.

Di recente la Lega è arrivata a chiedere il ritiro da Afghanistan, Balcani e Libano, come la sinistra comunista. Con la questione libica riaffiorano gli istinti isolazionisti. Ieri, al Consiglio dei ministri straordinario il Carroccio si è astenuto, e nelle commissioni parlamentari si è assentata. Per Pd e Udc è un'occasione ghiotta per mostrarsi più in sintonia con Ue e Casa Bianca dello stesso governo Berlusconi. L'appello del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a sostenere «il Risorgimento della Libia» accentua e ufficializza la scelta di campo contro Gheddafi. D'altronde, il dittatore libico ha fatto di tutto per esasperare alleati e avversari: a cominciare da quelli, numerosi, che ha in un mondo arabo ansioso di liberarsi del Raìs.

Massimo Franco

19 marzo 2011
da - corriere.it/politica
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« Risposta #142 inserito:: Marzo 23, 2011, 11:23:10 am »

Ora scelte bipartisan


«La Nato rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriata». Il timbro di Giorgio Napolitano ufficializza la richiesta italiana di una guida collegiale delle operazioni in Libia, affidata all'Alleanza atlantica; e conferma che la Francia rischia l'isolamento per il protagonismo militare eccessivo sfoggiato nell'interpretazione della risoluzione dell'Onu. Nel suo comunicato, il presidente della Repubblica parla di «piena sintonia» con Usa, Gran Bretagna ed «altri alleati». Le parole segnalano una potenziale crepa nella coalizione occidentale. E puntellano la richiesta del premier Silvio Berlusconi.

Per capire se e in che modo la Nato parteciperà all'intervento sarà necessario aspettare qualche giorno; e soprattutto, superare ostacoli politici che non riguardano solo la Francia, piccata da quelle che definisce «polemiche artificiose». I contorni dell'azione contro il regime di Gheddafi rimangono ambigui: nel senso che ognuno finora ha teso a plasmarli secondo le convenienze nazionali. Ma proprio per questo, la capacità dell'Italia di avere posto alla comunità internazionale il tema di una gestione coordinata dell'intervento militare rappresenta un passo avanti.

Come minimo, l'Occidente può evitare che la Libia diventi, è stato detto, una sorta di «Iraq dell'Europa»: un pantano strategico, prima che militare, nel quale è facile entrare ma dal quale è difficilissimo uscire. Il governo di Roma si è mosso fra esitazioni e incertezze: prima spiazzato dall'interventismo franco-inglese; poi frenato e riorientato dalle cautele della Lega; e con un fondo costante di imbarazzo per i rapporti fra Berlusconi e Gheddafi. Ma sta passando la sua proposta, dettata anche dalla percezione acuta che ruolo e interessi italiani nel Mediterraneo corrono un pericolo mortale.

A questo punto, il rischio è che si raggiunga un accordo di per sé laborioso sulla Nato, e poi manchino la convinzione e la disciplina per farlo funzionare: premessa indispensabile, quando si decide una missione che prevede bombardamenti aerei, indebolita dallo smarcamento della Germania. Per il governo di centrodestra, l'incognita riguarda la capacità di consegnare una questione così dirimente non a polemiche sterili fra maggioranza e opposizione, ma al Parlamento. Fra l'altro, ritrovare un simulacro di unità nazionale sulla politica estera significherebbe scoraggiare scarti e ripensamenti; e dare un'immagine del Paese meno sgualcita.

C'è da chiedersi se non sarebbe stato meglio affidare allo stesso Berlusconi il compito di spiegare oggi in Parlamento l'intervento in Libia. Forse, è insieme il segno di una difficoltà e di una situazione in bilico: anche per le incognite pesanti dell'immigrazione dal Maghreb. L'appello italiano alla Ue affinché ne condivida i costi può preludere a tensioni non solo interne. Ma se non sarà governato, il problema dei profughi promette di diventare un fattore di debolezza e discordia in un momento in cui l'Europa dovrebbe mostrarsi unita: anche se non lo è.

Massimo Franco

23 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #143 inserito:: Aprile 13, 2011, 11:23:42 am »

LA NOTA

Un sì a tutti i costi per «sterilizzare» i processi del premier

Il Pdl è convinto che il Quirinale non si opporrà. Ma nessuno può dirlo


Il centrodestra si prepara a consegnare a Silvio Berlusconi il primo «sì» parlamentare al cosiddetto «processo breve». La Camera dei deputati potrebbe approvarlo stasera, nonostante l'ostruzionismo tentato ieri dal Pd. Una maggioranza mobilitata allo spasimo sa che, una volta passata a Montecitorio, al Senato la legge dovrebbe avere vita meno difficile. Ma la logica è quella di un provvedimento avulso dalle esigenze di riforma della giustizia. Il Pdl risponde con una forzatura a quella che considera un'altra forzatura, attribuita alla Procura di Milano.

Per il governo si tratta di riaffermare il primato nei confronti della magistratura: con in palio la possibilità di proteggere il premier dai processi. Su questo, Pdl e Lega ostentano una compattezza che resiste a ogni pressione. Significa che la maggioranza è pronta a sfidare l'impopolarità. Il fatto che oggi si riunisca il Cdm in un intermezzo delle votazioni conferma la determinazione ad arrivare al risultato.

Un personaggio defilato come il sottosegretario Gianni Letta prevede «una settimana incandescente». E fa capire che Palazzo Chigi ha chiare le incognite dell'operazione; e che nella cerchia berlusconiana si spera di chiudere la fase più acuta con l'approvazione del Parlamento. In realtà, i passaggi successivi appaiono altrettanto incerti. Il governo è convinto che Giorgio Napolitano non avrà obiezioni nei confronti della legge. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, invece, ritiene che Berlusconi tenga «il Paese in ostaggio».

In realtà, nessuno può fare previsioni né in un senso né nell'altro. Finora l'atteggiamento presidenziale è stato guardingo.
Si può solo dare per certo che gli scambi d'accuse di queste ore sono l'opposto dell'invito del Quirinale a tenere i nervi saldi: anche nei rapporti con l'Europa. Viste le premesse, tuttavia, lo scontro era inevitabile. Rappresenta un'anteprima del panorama di macerie politiche che «il processo breve» porterà con sé; e che verranno additate con intenti opposti all'opinione pubblica.

Per il governo, l'accusa più insidiosa è quella di Antonio Di Pietro, di far saltare alcuni processi. Il Guardasigilli, Angelino Alfano, spiega che «sarebbe a rischio solo lo 0,2% dei procedimenti penali». «Se l'impatto è così modesto, perché state bloccando il Parlamento?», lo rimbecca il leader centrista, Pier Ferdinando Casini. L'ultima istantanea è quella dell'Anm che taccia di irresponsabilità il premier per gli «appelli alla piazza» contro i magistrati. Stancamente, dopo una seduta notturna col brivido del voto segreto, forse oggi si chiude il primo capitolo di una vicenda assai poco esaltante.

Massimo Franco

13 aprile 2011
da - corriere.it/politica/nota/11_aprile_13/
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« Risposta #144 inserito:: Aprile 15, 2011, 04:37:21 pm »

Processo Breve

Pagina Oscura


Compatto e pronto a una serie di forzature, il governo ha vinto la guerra parlamentare del «processo breve». E un'opposizione salda solo a parole l'ha persa malamente. Ma i riflessi sull'opinione pubblica di quanto è avvenuto andranno misurati nel tempo, e a freddo. Si fatica a ritenere che rappresentino gli umori profondi del Paese sia i deputati che hanno permesso a Silvio Berlusconi questa affermazione; sia quelli che l'hanno contrastata; sia chi protestava fuori dal Parlamento al grido di «mafiosi» e «vergogna». L'unico dato vistoso è che il presidente del Consiglio ha politicizzato il conflitto, ottenendo il risultato che voleva.

Attraverso la Camera intendeva impartire una lezione all'odiata Procura di Milano. E adesso forse riuscirà a uscire indenne da uno dei processi più insidiosi, quello Mills in cui è accusato di corruzione in atti giudiziari. Ma il provvedimento approvato ieri sera dovrà superare una serie di severe verifiche istituzionali. Proprio perché segnato da una logica quasi disperata, si lascia dietro un alone di perplessità e di veleni; e un altro cumulo di macerie nei rapporti fra centrodestra e magistratura. È indubbio, tuttavia, che gli avversari di un Berlusconi debole riemergono per l'ennesima volta più logorati di lui.

Lo scrutinio segreto chiesto nel pomeriggio dal centrosinistra nella speranza di fare affiorare una maggioranza sommersa favorevole alla crisi, è stato un boomerang imbarazzante. Ha rivelato l'esistenza di una «minoranza silenziosa» pronta a sostenere il governo nelle pieghe di un'ostilità in apparenza così aggressiva e irriducibile da ricorrere all'ostruzionismo. La vera sconfitta di chi non voleva il «processo breve» è questa: aver dovuto registrare che i cosiddetti franchi tiratori, quelli che colpiscono a tradimento, non si annidano nelle file di Pdl e Lega, ma nelle proprie.
I 316 «sì» sono stati due più di quelli ottenuti nella votazione finale; e sei più di quelli a disposizione del centrodestra. Dunque contano e, soprattutto, pesano. Dicono che l'onda lunga della sconfitta degli avversari del premier, il 14 dicembre scorso, continua a produrre effetti. Puntella ulteriormente un governo che pure è in affanno sul piano internazionale per l'emergenza dell'immigrazione; e un Berlusconi inseguito tuttora da rivelazioni imbarazzanti sulla sua vita privata. Attraverso canali oscuri ma inesorabili, si ingrossa un «partito del galleggiamento» destinato a frustrare quanti sognano velleitarie spallate.

È probabile che al Senato il percorso del provvedimento sia meno tormentato. Il governo ne sembra così convinto che dedicherà le prossime settimane a depotenziare i referendum di giugno su giustizia e nucleare. D'altronde, la strategia del conflitto permanente premia ancora una volta Berlusconi: un elemento sul quale riflettere. Ma le incognite che si allungano su alcuni processi a rischio di prescrizione non possono essere sottovalutate, né sacrificate sull'altare di una stabilità fine a se stessa. Non è stata una giornata memorabile: non, almeno, nel senso positivo del termine. Una pagina oscura, tra le tante.

Massimo Franco

14 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #145 inserito:: Maggio 07, 2011, 06:31:45 pm »

QUIRINALE E RIMPASTO DI GOVERNO

Le ragioni di un disagio crescente

Per Giorgio Napolitano quello di giovedì non è stato un semplice rimpasto ma un cambio di maggioranza: al punto che toccherà al Parlamento e al presidente del Consiglio «valutare le novità». La nota con la quale il capo dello Stato registra l'ultima prova di sopravvivenza di Silvio Berlusconi non è propriamente una carezza istituzionale. Riflette il fastidio per un modo di agire da parte del premier e dei suoi nuovi arruolati, ritenuto spregiudicato. E mostra la volontà di non avallare silenziosamente qualcosa che somiglia molto al trasformismo, sebbene in alcuni casi si tratti di un semplice «ritorno a casa» dopo la scissione finiana. La richiesta che le Camere siano informate sul travaso di alcuni parlamentari nell'area di governo può risultare giustificata e in qualche modo doverosa. Servirebbe ad ufficializzare conversioni politiche che un'opposizione esasperata e divisa ha tradotto con parole come corruzione, per citare la meno offensiva; e forse a rendere più chiari i termini di un allargamento del centrodestra, capace di aumentare i consensi anche quando appare in difficoltà. Nel richiamo puntiglioso del presidente della Repubblica si intravede dunque il tentativo di dare trasparenza ad una manovra chiara negli obiettivi ma dai contorni opachi. Non si spiega altrimenti anche la precisazione che la scelta dei sottosegretari rientra nella «esclusiva responsabilità» del capo del governo. Napolitano prende pubblicamente le distanze da qualcosa che non gli è piaciuto; e proprio nel giorno in cui chiede ai vertici della tv pubblica di trasmettere gli spot informativi sui referendum di giugno: un appuntamento che Palazzo Chigi in qualche misura teme. Eppure, è probabile che l'effetto politico delle sue parole sia meno dirompente di quanto si potesse pensare. Berlusconi si sente forte perché non esiste un'alternativa, e non vuole alzare la tensione col Quirinale.

In più, se ci sarà, la valutazione del Parlamento avverrà dopo il voto amministrativo. E per paradosso la maggioranza potrebbe perfino allargarsi ulteriormente, se riuscisse a conquistare alcune città-chiave e a dimostrare che l'elettorato punisce i finiani usciti dal Pdl. La copertura offerta a Berlusconi da Umberto Bossi non lascia margini d'equivoco. Così, rimane solo il contraccolpo istituzionale, pesante per le incomprensioni che alimenta. Il premier considera l'intervento di Napolitano un gesto di ostilità. E il mancato preavviso risveglia diffidenze mai sopite. I berlusconiani ritengono che il Quirinale avrebbe potuto essere altrettanto severo quando la componente di Gianfranco Fini lasciò il governo alla fine di novembre.

In verità Napolitano fu accusato da una parte del centrosinistra di avere «salvato» Berlusconi, imponendo il dibattito parlamentare del 14 dicembre, dal quale l'asse Pdl-Lega uscì vincente. Ma in un equilibrio così fragile fra i vertici dello Stato, il modo in cui si comunica finisce per pesare quasi quanto i contenuti. E l'assenza di preavviso di ieri ha fatto apparire l'esternazione presidenziale una critica a freddo, poco comprensibile. Osservata con un minimo di distacco, è un'altra increspatura nella lunga scia del 14 dicembre: l'ennesima scossa di assestamento per una maggioranza che da allora ha cominciato a essere diversa da quella elettorale.

In fondo non ha mai smesso di puntellarsi e modificarsi, seppure in modo confuso. Napolitano ha seguito la metamorfosi con la determinazione a mantenere la stabilità, ma anche con fastidio verso i metodi usati per preservarla. Il centrodestra, tuttavia, è questo: un grumo insieme liquido e solidissimo, cementato dall'assenza di alternative. Il Parlamento non potrà che certificare ancora una volta il suo strano impasto: da mutante che rimane uguale a se stesso.

Massimo Franco

07 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #146 inserito:: Maggio 17, 2011, 04:57:39 pm »

Lo schiaffo

L’«asse del Nord» mostra una sofferenza e una precarietà inaspettate: almeno, se con il termine si intende l’alleanza protagonista di una campagna incline all’estremismo, che si è manifestata nel voto amministrativo di ieri e l’altro ieri. Il ballottaggio a Milano umilia non tanto il sindaco uscente, Letizia Moratti, ma Silvio Berlusconi, che chiedeva un referendum su se stesso e sul governo e riceve uno schiaffo personale e politico; e in parallelo ridimensiona le ambizioni di sfondamento della Lega. Il silenzio di Umberto Bossi è più rumoroso di qualunque commento. Trasmette l’immagine di un Carroccio che fatica a saltare il recinto delle città medie e piccole; ed è costretto a farsi molte domande sul futuro.

Ma l’effetto va oltre il capoluogo lombardo, che pure è destinato a diventare l’epicentro delle tensioni nel centrodestra. Un’opposizione rinfrancata dai risultati che si delineavano ieri notte già sogna la rottura fra Pdl e lumbard, una crisi di governo e l’archiviazione in tempi rapidi del berlusconismo. La situazione, in realtà, rimane aperta. Fra due settimane, i ballottaggi potrebbero restituire la vittoria alla maggioranza, che ieri a Milano e Napoli l’ha mancata anche per eccesso di sicurezza e di aggressività. E la silhouette delle opposizioni si tinge di un rosso forte, radicale, col «Polo dei moderati» allo stato embrionale.

Insomma, il responso di ieri è netto nell’indicazione degli sconfitti; non altrettanto univoco nel presentare un’alternativa di governo: a meno che, in prospettiva, si ritenga davvero che l’Italia possa essere guidata da una sinistra dominata dagli eredi di Rifondazione comunista, dall’Idv e dai «grillini», oggi in grado di imporre candidati al Pd. In attesa dei risultati definitivi, per il partito di Pier Luigi Bersani le uniche eccezioni, importanti, sono Torino e Bologna. Per il resto, la soddisfazione e il sollievo degli avversari sono un rimbalzo della battuta d’arresto berlusconiana.

Anche nella sconfitta, il presidente del Consiglio disegna il territorio circostante e lo condiziona: nel proprio campo e in quello avverso. Ma con un rovesciamento della percezione del suo ruolo che fa prevedere un periodo di instabilità e di altre rese dei conti nel centrodestra. In fondo, se ne può intravedere un assaggio nei voti mancati alla Moratti: consensi che sarebbe ingeneroso attribuire solo ai suoi errori. Le frasi fatte filtrare dal «cerchio magico» di Bossi, secondo le quali con Berlusconi la Lega perde, sono un indizio. Trasformano il tocco berlusconiano, che ancora nel 2010 faceva vincere la quasi sconosciuta Renata Polverini nel Lazio, in un handicap da «re Mida alla rovescia».

Probabilmente era forzata la visione precedente, ed è eccessiva l’attuale. Ieri è cominciato il ridimensionamento di un leader che dopo essersi presentato ed essere stato considerato da militanti e alleati come un demiurgo ora rischia di diventarne il capro espiatorio.

Massimo Franco

17 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #147 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:55:11 am »

La Nota

La delusione leghista ipoteca il governo ma non prevede strappi

Muro di silenzio tra Bossi e il premier però i ballottaggi obbligano al dialogo


I l silenzio del vertice leghista fa paura al Pdl. Viene interpretato come un presagio di tempesta fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. E i toni accesi dei militanti che si sfogano su Radio Padania fanno registrare un fenomeno inedito nel Carroccio, o comunque tenuto finora sotto controllo: un'antiberlusconismo strisciante in salsa lumbard. Emerge dopo la battuta d'arresto delle amministrative; e c'è da chiedersi se sarebbe affiorato anche in caso di vittoria a Milano e negli altri comuni nei quali il partito è passato da un'attesa quasi trionfale alla frustrazione più vistosa. Gli uomini del premier non se lo nascondono: più del risultato negativo preoccupa l'atteggiamento della Lega, decisa a marcare le distanze dal Pdl e insieme costretta a sostenere Letizia Moratti nel ballottaggio fra due domeniche.

Finora, il partito di Bossi era convinto che la propria diversità lo avrebbe protetto da sorprese; ed evitato un'identificazione a volte vantaggiosa, ultimamente a doppio taglio con il presidente del Consiglio. Il doppio binario di partito di lotta e di governo sembrava funzionare. In fondo, le regionali dello scorso anno avevano consegnato alla Lega le presidenze di Veneto e Piemonte: al punto da far sognare uno sfondamento nelle grandi città, magari a spese del Pdl. Il saldo, invece, l'altro ieri è stato negativo, e il risveglio brusco. La decisione del quotidiano La Padania di definire «anomalia» il responso milanese dilata la sorpresa e la delusione. Né basta prendersela con Letizia Moratti e Berlusconi.

L'impegno intermittente, e solo alla fine deciso, del Carroccio a sostegno del sindaco uscente ha penalizzato l'intero centrodestra. L'aggressività e le sbavature berlusconiane, alimentate da una cerchia di collaboratori decisi a colpire chiunque fosse sospettato di scarsa lealtà, hanno evocato un bunker; e reso ulteriormente scettico Bossi. Ma non sono riuscite a sottrarre la Lega ad un giudizio globalmente negativo sul governo. Per ora, la nomenklatura leghista si limita a respingere quelle che il ministro Roberto Calderoli definisce «le sirene dell'ultima ora» in agguato a sinistra; e dunque a non rimettere in discussione l'«asse del Nord». Ma a lesionarlo sono stati gli elettori.

Rimane da capire se si tratti di uno scarto «una tantum»: una sorta di punizione mirata per il modo in cui è stata condotta la campagna elettorale, e magari disapprovare gli scandali privati del premier; o se segnali uno smottamento nel blocco sociale del centrodestra. Il fatto che Berlusconi abbia deciso di defilarsi in vista dei ballottaggi è un riconoscimento implicito degli errori commessi. Significa rinunciare alla pervasività con la quale ha politicizzato il voto amministrativo; e, cosa non da poco, confessare anche a se stesso che «metterci la faccia» non è più, in sé, una garanzia di vittoria. Ma la fine della posizione di rendita vale altrettanto per Bossi.

La tesi secondo la quale se a Milano la maggioranza perde è colpa solo di Berlusconi avrebbe potuto funzionare in caso di «anomalia». La sostanziale omogeneità dell'arretramento del centrodestra restituisce invece un'immagine meno di comodo di quanto è successo. E soprattutto, rende più difficile una lettura dei risultati solo con la chiave interpretativa del declino della leadership del premier. La voce che circolava ieri dal fortino di via Bellerio, sede della Lega, accreditava un Bossi deciso a tenere Berlusconi sulle spine; e a rivendicare i ministeri al Nord per placare la base. Ma se così fosse, significherebbe che la Lega rimane nell'orbita dell'attuale governo più di quanto voglia apparire.

Massimo Franco

18 maggio 2011
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« Risposta #148 inserito:: Giugno 13, 2011, 10:49:21 pm »

Segnali dal Paese

Per capire se sarà raggiunto il quorum bisognerà aspettare qualche ora. Ma per la prima volta dopo sedici anni, l'istituto referendario ha dato un segnale di vitalità non scontato. Disubbidendo a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi che suggerivano l'astensione, un numero rilevante, sebbene non ancora decisivo, di italiane e di italiani è andato alle urne. A sentire il capo della Lega, che ieri continuava a parlare di inutilità del voto, il premier non saprebbe più comunicare.
La sintonia fra il capo del governo e il suo elettorato non è più quella di una volta: le Amministrative insegnano. Ma la lezione vale altrettanto per il Carroccio, vista l'affluenza alta al Nord. Alcuni ministri confessano che non sanno se andranno ai seggi, aperti anche oggi: i referendum, dicono, hanno assunto contorni troppo antigovernativi. La loro titubanza, però, è un presagio di ulteriore delegittimazione per la maggioranza.

Seguendo il ragionamento, la vittoria dei quesiti referendari sarebbe un altro «no» a chi governa, dopo anni di democrazia diretta usata male e naufragata nel non voto. Così, quorum sfiorato o raggiunto, c'è da chiedersi se già il risultato di ieri avrà qualche effetto. La tentazione di far finta di niente rimane la più prepotente; ma forse anche la più illusoria, perché una spinta alla partecipazione sembra venuta proprio dagli inviti a disertare le urne.

Lo smarcamento di Bossi da Berlusconi vuole placare una Lega passata in poche settimane dall'illusione del trionfo alla sconfitta. Mattone dopo mattone, il Carroccio sta costruendo un muro di distinguo che vanno dalla missione in Libia all'immigrazione e alla riforma fiscale. È una parete al riparo della quale cerca di recuperare una diversità appannata dall'alleanza con il berlusconismo, col quale tuttavia pare destinato a convivere ancora un po'.

La barriera sancisce una crepa nell'«asse del Nord» perfino nei confronti del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. E annuncia un leghismo più rivendicativo di quanto sia mai stato negli ultimi tre anni. Eppure il referendum comunica un messaggio allarmante per l'intero centrodestra. Se quanto stanno rivelando le urne è la perdita di contatto con il Paese, il problema riguarda tutta l'alleanza. La bocciatura di alcune leggi del governo, che il quorum sancirebbe, assumerebbe un valore anche simbolico.

Ma forse l'aspetto più eclatante sarebbe di sistema: quello della crisi di una Seconda Repubblica forgiata all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso anche per via referendaria; e vissuta per un quindicennio con una democrazia parlamentare legittimata, messa in mora adesso da referendum che sembrano essersi assunti un ruolo di supplenza: per quanto segnati dall'emotività e usati in modo strumentale.

Massimo Franco

13 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #149 inserito:: Luglio 13, 2011, 04:14:19 pm »

Una fiaccola nel buio

Aleggia un sospetto sgradevole: se non ci fosse stato il monito lanciato lunedì dal cancelliere tedesco Angela Merkel, forse nemmeno il richiamo di Giorgio Napolitano all'unità avrebbe prodotto gli effetti virtuosi registrati ieri. E non perché le motivazioni del presidente della Repubblica non fossero sacrosante. Più banalmente, sembra proprio che l'Italia politica non riesca a scuotersi senza un vincolo esterno da rispettare, un'emergenza estrema da affrontare. Ora la possibilità che la manovra economica sia approvata sabato è concreta. Ma la notizia, oltre che piacere, fa anche un po' rabbia.

L'opposizione ieri ha compiuto un gesto di responsabilità e di rispetto per il Quirinale, accettando le misure del governo senza votarle. E Silvio Berlusconi ha finalmente diramato una nota sugli attacchi speculativi di questi giorni: anche se la sua esortazione a essere «uniti, coesi nell'interesse comune» è oscurata da un'insistenza un po' d'ufficio sul governo «stabile e forte». Ma viene da chiedersi perché sia stato necessario guardare in faccia il baratro finanziario prima di agire in modo adeguato. In poche ore, lunedì sono stati bruciati quasi venti miliardi di euro.

Il risultato è stato quello di mostrare un governo incapace di «leggere» la sfida aggressiva dei mercati e le sue distorsioni destabilizzanti; e una classe politica costretta, per assenza di strategia, a subire l'iniziativa altrui. La mossa della Merkel si è rivelata una sorta di commissariamento politico da parte del principale Paese dell'euro: un richiamo a quel «vincolo esterno» che obbliga l'Italia alla serietà, e in certi casi le permette di salvarsi da se stessa.

Come minimo, è servita a dissolvere le polemiche lunari fra il centrodestra e il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Pesa, tuttavia, l'immagine di una maggioranza che nel momento più delicato è apparsa silente, quasi assente. Ha marcato l'impotenza di un Pdl che ha continuato a lungo a dipingere una situazione più rosea di quanto fosse; di una Lega che, archiviando tre anni di moderazione, è tentata di nuovo da una velleitaria autarchia padana, in politica estera come in economia; e di un'opposizione incapace, almeno fino a ieri, di analizzare i problemi prescindendo da Berlusconi.

Eppure, gli attacchi di questi giorni confermano l'impossibilità di galleggiare divisi e senza bussola: tanto più per un governo numericamente possente, ma politicamente gracile. L'errore peggiore che potrebbe commettere il centrodestra sarebbe quello di incassare la disponibilità delle opposizioni e poi ricominciare come prima. La manovra alla quale l'Europa e i suoi nemici ci costringono, richiede una comunione di forze per un periodo prolungato: è uno spartiacque, non una parentesi.

Massimo Franco

13 luglio 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
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