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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193891 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Giugno 12, 2010, 11:15:09 am »

LA NOTA

Tramonta la sponda tra finiani e sinistra.

Ma l’esito resta incerto


Per il momento, l’unico risultato politico dopo il «sì» alla legge sulle intercettazioni sembra il tramonto del gioco di sponda tra il centrosinistra e Gianfranco Fini. Anzi, il modo in cui alcuni esponenti del Pd danno l’altolà al presidente della Camera fa capire che la grande sintonia del recente passato può diventare presto grande freddo. La maggioranza vuole che l’assemblea di Montecitorio discuta alla fine di giugno il provvedimento approvato tre giorni fa al Senato: servirebbe a renderlo definitivo entro il mese successivo. Ma l’opposizione chiede a Fini di rispettare il regolamento, discutendo la legge a settembre; e comunque di non compiere forzature. Sei la terza carica dello Stato e non il capo della minoranza del Pdl, gli ricorda il capogruppo del Pd, Dario Franceschini.

E pensare che da quando il 22 aprile scorso Fini aveva attaccato Silvio Berlusconi al vertice del Pdl, il centrosinistra aveva sempre difeso le sue esternazioni, anche le meno istituzionali. Le definiva fisiologiche per un leader politico. In realtà, a renderle accettabili era la polemica finiana contro il Cavaliere; e la speranza che diventassero un grimaldello per destabilizzare il governo. La speranza, però, si sta rivelando illusoria. Fini è rientrato nei ranghi, sebbene allineamento non significhi automaticamente sostenere la blindatura del provvedimento alla Camera; e l’opposizione gli spedisce messaggi dai quali trasuda la delusione. Ma il risultato involontario è di sottolineare il ricompattamento del governo, almeno sulle intercettazioni; e di mostrare un centrosinistra diviso. La rincorsa fra Pd e Idv a chi è più duro contro quella che viene definita «legge bavaglio» ripropone una competizione nella minoranza. E presto lo scontro rischia di toccare i rapporti con il Quirinale. L’atteggiamento di Antonio Di Pietro nei confronti del capo dello Stato è critico ai limiti dell’insulto. E Giorgio Napolitano nasconde sempre meno il proprio fastidio per gli attacchi dell’Idv. Se a giugno la legge sulle intercettazioni arriverà alla Camera in un clima bellico, è possibile che qualche scheggia lambisca il Quirinale. «Daremo battaglia», anticipa il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani.

Di Pietro minaccia un’altra occupazione dell’Aula parlamentare. Sia l’opposizione, Udc compresa, sia i finiani frustrati dal voto al Senato contano sul presidente della Repubblica per fermare il testo; o almeno per costringere il governo a modificarlo. Ma Berlusconi vuole rendere definitiva la legge al più presto. Per quanto pasticciata e considerata pericolosa da magistrati, editori e giornalisti, il governo punta ad un «sì» definitivo entro luglio. Confida nel via libera, seppure tormentato, del presidente della Camera. E sa che Napolitano non si lascerà trascinare nelle polemiche da chi, nell’opposizione, è pregiudizialmente ostile al governo. La partita, però, rimane aperta, anche perché incrocia la manovra finanziaria. L’aderenza alla Costituzione rappresenta l’unica bussola delle decisioni presidenziali. Ma è una bussola che Napolitano guarderà solo alla fine, senza farsi condizionare né usare da nessuno: né dal governo né dai suoi avversari.

Massimo Franco

12 giugno 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_giugno_12/nota_23a98db4-75e0-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Giugno 26, 2010, 06:20:12 pm »

Il commento

Il cartellino rosso del Quirinale


L’altolà di Giorgio Napolitano ufficializza l’esistenza di un «caso Aldo Brancher». E sanziona la strategia di usare la nomina a ministro solo per chiedere il legittimo impedimento e non presentarsi al processo nel quale è imputato. Per il capo dello Stato, la promozione di Brancher ha assunto contorni diversi da quelli previsti e promessi. La nota uscita ieri dal Quirinale va considerata soprattutto come una presa di distanza dall’uso strumentale di una legge già di per sé controversa; e sfruttata in questi giorni in modo a dir poco disinvolto. A provocarla sono state le affermazioni a ruota libera del neoministro, a lungo uomo- cerniera fra Pdl e Lega; ma anche la volontà di fermare una deriva.

Umberto Bossi da a Napolitano conferma l’asse fra Carroccio e Quirinale. E induce Brancher ad arretrare dicendosi pronto a presentarsi dal giudice entro luglio. Silvio Berlusconi, in Canada per il G8, deve maneggiare un’altra spina istituzionale proprio mentre cerca di forzare i tempi sulle intercettazioni. Da ieri, Brancher si trova nella condizione scomoda di chi è delegittimato dal capo dello Stato davanti al quale ha giurato pochi giorni fa; e che non vuole avallare un legittimo impedimento a suo avviso infondato. «Non c’è nessun nuovo ministero da organizzare », spiega lapidario il Quirinale riferendosi alle giustificazioni di Brancher. «È stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio».

Non è detto che la presa di posizione porti alle dimissioni, richieste all’unisono dall’opposizione: gli avvocati difensori del ministro accolgono la precisazione di Napolitano quasi fosse un dettaglio fra tanti. Dicono infatti che «sarà valutata in sede giudiziaria come ogni altro elemento». È un minimalismo che cerca di azzerare il rilievo politico che l’iniziativa presidenziale promette di avere: i contraccolpi che sta provocando sono già vistosi. Le parole del capo dello Stato suonano infatti come un sostegno oggettivo ai magistrati che dovranno valutare se il legittimo impedimento è tale; e come un avvertimento al governo a non abusare di una misura che ha già sollevato dubbi di costituzionalità.

Palazzo Chigi coglie le implicazioni della mossa. Ufficialmente tace. Ma le dichiarazioni di alcuni esponenti berlusconiani tradiscono l’irritazione nei confronti di Napolitano. Il presidente della Repubblica è accusato di essersi mosso in modo irrituale; o, peggio, di adottare uno stile presidenzialista che tenta di commissariare il governo. Non sono ancora avvisaglie di un conflitto, perché Berlusconi fino a ieri sera non si è pronunciato; e perché in questa fase non ha nessuna voglia né interesse ad alimentare la polemica col capo dello Stato: tantomeno di litigare con la Lega. Nel centrodestra, però, la vicenda può essere sfruttata da chi in questa fase contesta il premier.

Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha già espresso le sue perplessità sul ricorso al legittimo impedimento. Il commento di Bossi su un Brancher «poco furbo» è uno smarcamento netto. Il nervosismo e l’imbarazzo del Carroccio non nascono soltanto dalla scelta iniziale di affidargli il «ministero del federalismo»: definizione che ha fatto infuriare Bossi e costretto Berlusconi a cambiarlo in fretta. Per i lumbard non è facile avallare una nomina sfruttata immediatamente per evitare il tribunale. La richiesta dell’Idv a Bossi di firmare col centrosinistra una mozione di sfiducia è il tentativo di inserire un cuneo più profondo in un centrodestra disorientato. Probabilmente la manovra non riuscirà. Ma il «caso Brancher» lastrica il futuro della maggioranza di ulteriori incognite.

Massimo Franco

26 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_26/franco-cartellino-rosso-quirinale_bb0a2e00-80eb-11df-9a47-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Luglio 02, 2010, 09:40:33 pm »

Il cortocircuito


Il cortocircuito istituzionale sta prendendo pericolosamente corpo. Le parole perfino inusuali nella loro durezza dette ieri da Giorgio Napolitano sulla legge contro le intercettazioni non sono soltanto una bocciatura dell’accelerazione del governo, ed un invito a cambiare il provvedimento per evitare che il Quirinale lo respinga. Si avverte anche l’allarme per la confusione che trasuda dalle mosse della maggioranza. Quando il capo dello Stato si lamenta di non essere stato ascoltato neppure sulla manovra economica, dà sfogo ad una sensazione diffusa: sebbene il centrodestra gli risponda che temporalmente il suo consiglio è stato seguito.

Una tensione così evidente si spiega con la volontà di scongiurare un pericolo: che il centrodestra finisca per scaricare sul Paese i suoi contrasti interni. È nel recinto della coalizione berlusconiana che le cose non funzionano. Invece di essere luogo di mediazione e di decisione, confortato dai numeri parlamentari, la maggioranza sembra diventata un moltiplicatore di conflitti. Il «controcanto » rivendicato anche ieri da Gianfranco Fini, le oscillazioni di Umberto Bossi, le tensioni nello stesso Pdl sui tagli alle Regioni sottolineano una sfasatura crescente. Il centrodestra può pure minimizzare. Ma la mancanza vistosa di una strategia e la proliferazione di correnti allo stato embrionale certifica l’affanno della leadership berlusconiana: rispettata ed eternizzata nella forma, messa in mora nei fatti. Dietro lo schermo della lealtà nei confronti del presidente del Consiglio, si indovinano prove e ambizioni più o meno sotterranee di scenari alternativi. Non importa che i calcoli sul dopo-Berlusconi si siano già rivelati inesatti in passato: la debolezza di palazzo Chigi li alimenta oggettivamente.

Né va sottovalutato lo scricchiolio, subito esorcizzato, che si registra nel monolite della Lega. Quando perfino nel Carroccio vincente e sornione si invoca la collegialità in polemica con Umberto Bossi, bisogna chiedersi che cosa sta succedendo. Il sospetto è che il governo abbia sottovalutato l’impatto della legge sulle intercettazioni non solo nel Paese ma al proprio interno; le resistenze alle riduzioni di spesa chieste dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti; e un’istintiva diffidenza per la nebulosità del federalismo e dei suoi costi. È questa situazione sfrangiata a spingere Napolitano a parlare; e a mettere il governo di fronte ai rischi che corre inseguendo scorciatoie parlamentari molto simili a forzature. Al punto che il presidente del Senato, Renato Schifani, assicura che la legge sarà votata dopo l’estate. Il rifiuto del capo dello Stato di indicare modifiche al provvedimento restituisce la responsabilità della scelta a palazzo Chigi. E la richiesta di correzioni «adeguate» e la riserva di «una valutazione finale nell’ambito delle nostre prerogative» riflettono la determinazione di Napolitano a non avallare, di più, ad opporsi a pasticci ritenuti pericolosi.

Massimo Franco

02 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_02/cortocircuito_franco_3372600a-8598-11df-adfd-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Luglio 04, 2010, 06:34:11 pm »

Lotte intestine


Il «ci penso io» sorridente e rassicurante di appena qualche ora fa adesso trasmette allarme e ansia. La sensazione è che il ritorno in Italia dagli incontri internazionali abbiamostrato a Silvio Berlusconi una situazione più grave del previsto. Più che essere in ebollizione, il suo centrodestra rischia di evaporare per i contrasti che lo stanno lacerando; e ai quali il presidente del Consiglio non sembra in grado di porre rimedio: non almeno come in passato.

Aveva detto che si sarebbe occupato di tutto a partire da domani: come se i problemi non fossero così urgenti da compromettere il fine settimana. La durezza con la quale il capo del governo è dovuto intervenire anche ieri racconta invece una verità meno rosea: una storia non solo di confusione, ma di incertezza crescente della coalizione berlusconiana. Con un incubo che comincia a preoccupare: l’impopolarità. Le regioni meridionali in rivolta contro il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, sono il secondo avvertimento dopo il trasversale degli enti locali ai tagli di spesa contenuti nella manovra.

Riflessi corporativi, probabilmente; ma così potenti da spaventare la maggioranza. E la fretta e la nettezza con le quali Berlusconi smentisce una riduzione della tredicesima per le forze dell’ordine serve a tamponare affannosamente una notizia dal sapore, appunto, impopolare. Ma la conseguenza non voluta è di confermare misure economiche minacciate da «refusi » che riflettono una sgrammaticatura strategica. Le critiche a un’opposizione che, se al potere, avrebbe portato l'Italia alla «sindrome greca », sono comprensibili: come lo sono gli attacchi a magistratura e giornali che boicotterebbero la legge contro le intercettazioni.

Si tratta di messaggi in bottiglia che il presidente del Consiglio vuole fare arrivare al proprio elettorato per additare i «nemici». Eppure, risulta sempre più evidente che si assiste a un conflitto soprattutto nel centrodestra: i «nemici» in questa fase sono lì. Lo conferma l’insistenza con la quale il Pdl avverte Gianfranco Fini con ultimatum sempre più ravvicinati di non fare giochi di sponda con l’opposizione sulle intercettazioni. E lo lascia intuire la resistenza di Umberto Bossi ad assecondare strappi fra Palazzo Chigi e Quirinale.

Ma confondere la severità di Giorgio Napolitano con manovre e giochi che altri probabilmente stanno accarezzando può essere un abbaglio pericoloso. Davanti a Berlusconi si intravede un sentiero stretto. Rimane da capire se accetterà di percorrerlo con pazienza e sofferenza, o se preferirà lo scarto: sebbene si renda conto che le incognite sono aumentate perfino per lui, il futuro del centrodestra dipende più che mai dalle sue scelte.

Massimo Franco

04 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_04/lotte_intestine_massimo_franco_fa39f030-8738-11df-95fd-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Luglio 07, 2010, 05:06:40 pm »

LA NOTA

Le tensioni dentro il Pdl allungano ombre su tutto il centrodestra

Lo scontro Fini-Berlusconi è il sintomo di un progetto in affanno

In questi giorni non si sta esaurendo soltanto l’ultimo legame politico e personale fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Più passa il tempo, più appare in affanno il progetto del Popolo delle libertà, come movimento che doveva unire e contaminare le identità del centrodestra diverse dalla Lega. Dal punto di vista numerico, è vero quanto ha affermato ieri il sottosegretario a Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti: «Il dissenso all’interno del Pdl fa capo solo ad una piccola minoranza», rispetto ad un’«enorme maggioranza». Ma politicamente, il partito del premier sta subendo colpi che presto potrebbero comprometterne l’identità e suggerire nuove soluzioni. Berlusconi lo sa bene. Per questo ieri ha riunito solo i vertici degli ex di Fi. Ed ha ribadito che il Pdl è nato per «sconfiggere la vecchia logica delle correnti e della partitocrazia, da qualunque parte provengano». Ma la moltiplicazione dei gruppi è un sintomo. Conferma la sensazione che il centrodestra sia abitato da progetti e ambizioni troppo diversi per convivere ancora a lungo.

Lo scontro sulle intercettazioni; le faide siciliane dentro il centrodestra; la ribellione contro la manovra economica e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, da parte dei governatori, guidati da Roberto Formigoni; l’ipotesi, o forse la speranza che Fini possa approdare altrove: sono tutti indizi di una scommessa unitaria in bilico. Nel centrodestra ci si affronta senza il timore che l’alleanza si rompa perché l’opposizione è debole e l’alternativa non si vede; ma anche perché cresce il sospetto che il Pdl sia un contenitore temporaneo, vittorioso alle elezioni politiche del 2008 e tuttavia precario nella percezione dei suoi stessi fondatori. È come se il patto sul quale è stato fondato fosse stato rimesso in discussione, perché le cose sono andate diversamente dalle aspettative. Berlusconi sembra convinto di poter fare a meno di Fini: di «questo» Fini, come in passato ha dimostrato di poter prescindere dai centristi dell’Udc. E l’ex leader di An conferma senza volerlo la deriva accentuando ogni distanza e resistendo al tentativo di cacciata. Ormai la domanda non è più se presidente del Consiglio e della Camera prenderanno strade diverse, ma quando e come celebreranno l’addio.

L’effetto di questa bomba a tempo è di trasformare un partito pensato come il perno della stabilità in un moltiplicatore di tensioni e di spinte centrifughe. Al punto che la rivolta degli enti locali contro la cura drastica proposta da Tremonti con il sostegno delle istituzioni e degli altri governi europei assume significati ambigui. Non si capisce fino in fondo se nasca soltanto dall’impossibilità di sostenere riduzioni di spesa così rilevanti; oppure se alle difficoltà oggettive si saldi il calcolo di marcare un territorio politico limitato per proteggersi da un quadro nazionale sfilacciato. Quando Formigoni minaccia la restituzione delle deleghe al governo, ufficializza uno scontro con Palazzo Chigi e soprattutto con Tremonti che non è facile governare; e proprio dalla Lombardia che è il cuore del potere berlusconiano e leghista. La richiesta di fiducia decisa da Berlusconi sulla manovra può essere letta anche come il tentativo di neutralizzare questi calcoli dettati dagli interessi locali; e di spostare nel tempo qualunque esito traumatico di uno scontro politico e di leadership che all’elettorato deve apparire lunare nel suo autolesionismo. Ma le piccole crisi virtuali che si susseguono senza sbocco, e a distanza sempre più ravvicinata, testimoniano il baricentro perduto dal centrodestra. E la riunione di ieri con gli ex «azzurri» evoca senza volerlo anche l’esistenza di una corrente berlusconiana. È una situazione che consente a governo e Pdl di galleggiare; ma, almeno finora, non di affrontare con fiducia e determinazione il resto della legislatura.

Massimo Franco

07 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_07/la_nota_massimo_franco_d19db0be-8984-11df-9331-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Luglio 08, 2010, 11:23:09 pm »

LA NOTA

Il premier isola Fini e mette il governo al riparo da sorprese

Nota congiunta con Tremonti per dire no alle Regioni e imporre la fiducia


Passo dopo passo, la marcia di allontanamento fra il Pdl e Gianfranco Fini continua: senza che però si intraveda ancora il momento in cui si consumerà la rottura formale. «Fini non esiste più», ha liquidato la questione Silvio Berlusconi negli incontri avuti ieri con i vertici del centrodestra. Ma l’esigenza di non acuire le tensioni col Quirinale ritarda una resa dei conti. La tabella di marcia di Palazzo Chigi per le prossime settimane è obbligata e non prevede distrazioni. Il premier deve fare approvare una manovra economica cercando di attenuarne gli aspetti più impopolari. E, nonostante la legge contro le intercettazioni sia quasi certamente destinata a slittare all’autunno, insegue un «sì» entro l’inizio di agosto. In realtà, la probabilità che passi diminuisce ogni giorno di più: anche perché ormai si parla apertamente di correzioni a un testo contestatissimo.

La giornata di ieri è emblematica, da questo punto di vista. I tafferugli fra i terremotati abruzzesi e la polizia a Roma, e una rissa alla Camera dei deputati; il pellegrinaggio di fatto inutile a Palazzo Grazioli, i presidenti delle Regioni di centrodestra, infuriati con Giulio Tremonti; la nota congiunta con la quale Berlusconi e il ministro dell’Economia annunciano la fiducia sulla manovra sia alla Camera che al Senato; e infine il nuovo attacco del presidente della Camera proprio a Tremonti: sono tutti fotogrammi di una coalizione della quale il capo del governo sembra non più il padrone assoluto, ma quasi un ostaggio costretto a tamponare le spinte centrifughe. Con esiti almeno controversi.

La trattativa con le Regioni ha partorito un incontro a Palazzo Chigi che dovrebbe tenersi domani: un modo per accontentare governatori che appartengono alla maggioranza di centrodestra ma contestano le riduzioni di spesa proposte da Tremonti. Le concessioni che Berlusconi può garantire, però, appaiono quasi azzerate dal comunicato diramato ieri insieme al suo ministro. Quasi a chiarire in modo preventivo che il premier ha le mani legate, vi si legge che la manovra è «un provvedimento fondamentale per la stabilità finanziaria ». E dunque, se non intangibile comunque non si può cambiare. Tremonti lo ha ripetuto ai quattro presidenti di Regione incontrati nella residenza di Berlusconi.

«La nostra strada è obbligata», ha detto il titolare dell’Economia. «Non c’è spazio per cambiamenti», anche perché il debito nel settore sanitario accumulato in Campania, Lazio, Calabria e Molise è impressionante. Si tratta di una durezza che a Berlusconi probabilmente non piace, ma che non può non sottoscrivere. È improbabile, infatti, che all’incontro di domani il presidente del Consiglio possa aggirare i paletti conficcati da Tremonti. L’ennesimo attacco di Fini al titolare dell’Economia e alla Lega per paradosso rafforza entrambi, vista l’insofferenza verso il presidente della Camera. «Non si può vivere di sola finanza», ha detto Fini, «e men che meno può vivere di sola contabilità l’economia». Ma di fronte alla decisione di ricorrere alla fiducia in entrambi i rami del Parlamento, le critiche finiane non hanno uno sbocco.

Il silenzio del presidente della Camera di fronte alla nota congiunta di Berlusconi e di Tremonti tradisce l’irritazione; e la consapevolezza che la richiesta di fiducia fatta anche all’assemblea di Montecitorio rappresenta una sfida proprio a lui. Il governo lo mette di fronte alla contraddizione che gli ha rimproverato nelle ultime settimane: quella di essere insieme capo della minoranza interna del Pdl e terza carica istituzionale; e dunque di dover scegliere. Come minimo, l’iniziativa tende a farlo apparire isolato e irrilevante. Gli spazi in Parlamento sono azzerati, e infatti il centrosinistra protesta per lo svuotamento della discussione. Il voto di fiducia è previsto nella giornata di giovedì 15 al Senato. Poi toccherà all’aula di Montecitorio. E in quell’occasione sarà possibile misurare per intero le distanze che separano il presidente della Camera da quella che sente sempre meno come la sua maggioranza: ricambiato gelidamente dal Pdl.

Massimo Franco

08 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_08/nota_e7ffce44-8a4e-11df-966e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Luglio 13, 2010, 10:05:02 am »

Il lato mancante


È comprensibile la tentazione del centrodestra di reagire all’inchiesta che riguarda il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, facendo quadrato. Corrobora la tesi del complotto antigovernativo della magistratura. Serve a serrare i ranghi, a costo di additare i dubbiosi come sabotatori, assimilabili agli avversari. Eppure, vicende del recente passato hanno reso applicabile al centrodestra la massima che l’ex premier Giulio Andreotti aveva dedicato ai «quadrati» che la Dc costruiva per difendere i suoi uomini sotto accusa: alla fine, al quadrato mancava sempre un lato. Il lato mancante dipendeva dalla spregiudicatezza politica di chi contava sulle disgrazie altrui; ma anche dal fatto che alcuni personaggi erano indifendibili.

Non è ancora chiaro a quale categoria appartenga Verdini: se di vittima delle congiure e del cinismo altrui, o di artefice della propria disgrazia giudiziaria. L’effetto che le sue vicende stanno producendo sul centrodestra, tuttavia, comincia ad assumere contorni chiari. Silvio Berlusconi è portato quasi d’istinto a difendere ad oltranza esponenti discussi, e magari imputati, ritenendolo il primo dovere di un leader politico: a costo di pagare un prezzo sempre più alto. Si è visto con i casi del ministro Scajola, del neoministro Brancher, del sottosegretario Cosentino; e adesso del coordinatore del partito, risucchiato nell’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti per l’energia eolica in Sardegna accanto, fra gli altri, proprio a Cosentino. Si può magari ironizzare sul sottobosco di logge e lobby segrete che incorniciano questo nuovo spaccato della nomenklatura: sono un tocco aggiuntivo che rischia di sviare l’attenzione.

L’effetto dei primi risultati delle indagini è però quello di schiacciare e velare anche quanto di buono, poco o tanto che sia, il governo cerca di fare. Vengono messi in ombra alcuni successi indubbi del Viminale nella lotta alla criminalità, una manovra economica ambiziosa e contestata e il tentativo tormentato di riforma dell’Università. E si finisce per concentrare l’attenzione un po’ disgustata dell’opinione pubblica soltanto sul binomio politica-malaffare. Può darsi che ci sia chi vuole esagerare questi intrecci inquietanti; trarne conseguenze definitive e liquidatorie, e ricavarne vantaggi. Ma il modo in cui Palazzo Chigi e la maggioranza difendono se stessi e coprono anche gli angoli bui dove invece sarebbe bene fare entrare qualche lama di luce non sembra di buon auspicio. È rischioso lanciare ipotesi improbabili di unità nazionale mentre il Pdl vive in trincea.

Lo scarto fra presente e futuro accentua solo l’affanno in cui vive oggi la coalizione berlusconiana, prigioniera in un cul de sac politico-giudiziario. Si sta rivelando illusorio riuscire a tenere dentro tutto, rami secchi e marci compresi: al punto che c’è da chiedersi se Berlusconi possa andare avanti senza reciderli, condannandosi all’immobilismo e ad un’agenda dettata dall’esterno. L’impressione è che «la strategia del quadrato» non basti più. Manca sempre una sponda: oggi Fini; domani, magari, Bossi. E alla fine, il lato mancante potrebbe essere un elettorato che appena due anni fa ha consegnato il Paese al centrodestra.

Massimo Franco

13 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_13/Il_lato_mancante_massimo_franco_f1eda39a-8e3b-11df-864f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Luglio 15, 2010, 12:31:51 pm »

Passaggi obbligati

Bisogna dare atto a Silvio Berlusconi di avere compiuto la scelta giusta facendo dimettere il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino: sebbene lasci perplessi la sua permanenza nel Pdl come coordinatore della Campania. Il presidente del Consiglio sapeva di non potere indugiare. Rischiava di ritrovarsi con una maggioranza in bilico, incalzata da Gianfranco Fini e dal centrosinistra. Ed ha preso una decisione obbligata e saggia, anche se tardiva. Evidentemente, il premier ha tempi di reazione dettati da una vistosa dose di diffidenza verso la magistratura. Una parziale spiegazione è che forse deve tener conto di rapporti di forza interni nei quali l’impasto di politica e zone oscure è più vischioso di qualunque buona intenzione di pulizia. Eppure, la moltiplicazione dei casi singoli non può non colpire. Il fatto che il centrodestra continui a perdere pezzi sull’onda di vicende estranee alla sua volontà ed alla politica segnala una stortura di fondo. È come se nella penombra del grande albero berlusconiano si fossero annidati segmenti di società che usano il governo come guscio dentro il quale ingrassare i loro comitati d’affari. Si tratta di un problema che sarebbe ingeneroso considerare un’esclusiva del Pdl. Ma, anche per il modo in cui reagisce, la coalizione berlusconiana tende ad apparire più coinvolta di altri. La difesa a oltranza dei suoi esponenti chiamati in causa nelle inchieste la sovrespone fino a schiacciarla su una questione morale che ha delegittimato la Prima Repubblica; e che alla lunga non può non logorare l’attuale, sebbene abbia sempre rivendicato una diversità virtuosa dal passato. Il fatto che proprio il dimissionario Cosentino additi il pericolo di un ritorno allo «spirito di Tangentopoli » è il tentativo maldestro di eludere le proprie responsabilità; e di evocare un finale drammatico non scontato. Sarà un caso, ma ieri sono stati i ministri Umberto Bossi e Roberto Maroni i primi ad avvertire che la posizione del sottosegretario era indifendibile, anticipando l’esito del colloquio con Berlusconi. Nella Lega cresce la consapevolezza che vicende come quelle che riguardano Cosentino e il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, per il quale le dimissioni sembrano rinviate, azzerano qualunque successo del governo. Macchiano il profilo della maggioranza ed oscurano operazioni come quella contro la ’ndrangheta a Milano. Soprattutto, rischiano di trasmettere un’immagine di impunità che può ricreare le condizioni per «processi di piazza» ambigui. È un’involuzione da evitare, leggendo con freddezza quanto accade; rendendosi conto che in una fase di crisi così acuta si richiede un supplemento di serietà e di chiarezza; e accettando l’idea che i comportamenti illegali nella vita politica vanno riconosciuti e sanzionati prima che diventino casi giudiziari. La notizia che Berlusconi vuole dedicare il mese di agosto a riorganizzare il Pdl è la controprova indiretta di una situazione sfuggita di mano. Senza una reazione a questa deriva, il governo è destinato a galleggiare fra gli avvisi di garanzia, con l’acqua sempre più alla gola.

Massimo Franco

15 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_15/franco-passaggi-obbligati_94a6a37e-8fcd-11df-b54a-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Luglio 27, 2010, 09:37:08 am »

LA NOTA

Una banca vale più degli elettori?

Non è facile capire la logica che ha spinto Denis Verdini a dimettersi da presidente della Banca del Credito Cooperativo Fiorentino, e a non lasciare la carica di coordinatore del Pdl. È come se si sentisse più responsabile nei confronti degli azionisti che degli elettori; o comunque ritenesse i primi più severi e temibili dei secondi. Ma la sua scelta non può non lasciare interdetti. Se ritiene che la magistratura lo abbia indagato ingiustamente, è comprensibile la resistenza alle richieste dell’opposizione e della minoranza di Fini.

Nel momento però in cui getta la spugna come banchiere, non si comprende perché ritenga di poterla tenere in mano da dirigente politico. Si tratta di un cortocircuito fra sfera pubblica e privata che finisce per privilegiare la seconda; e per offrire agli elettori del centrodestra un’immagine sghemba di un loro rappresentante. Non si tratta di accreditare un suo coinvolgimento nei fatti dei quali viene sospettato; né di assecondare sentenze preventive; né, ancora, di sottovalutare gli aspetti strumentali degli attacchi di cui è destinatario: sono anche pezzi della faida nel Pdl in atto da mesi. Ma nello stesso tempo è difficile liquidare la questione sostenendo semplicemente di credere a Verdini, alle sue assicurazioni di non avere commesso nulla di illegale.

Questa tesi, esposta ieri ad esempio dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa per puntellare il «no» alle dimissioni dall’incarico nel Pdl, è un segno di amicizia e di solidarietà fra coordinatori. Eppure rischia di apparire anche la dimostrazione di un’incomprensione, e di una involontaria mancanza di rispetto per l’elettorato: soprattutto dopo la decisione di Verdini di lasciare la banca per motivi di opportunità. A questo punto, la stessa preoccupazione dovrebbe suggerire un passo indietro dal vertice del partito.

Certo non è facile, in un momento in cui la rissa fra berlusconiani e finiani ha imboccato un tornante pericoloso e probabilmente senza ritorno. L’esigenza di tenere unite le forze nel conflitto dentro il Pdl fa apparire anche la scelta più ragionevole come un gesto di debolezza, di cedimento alle ragioni nemiche. Il risultato è un irrigidimento, quasi un arroccamento su posizioni che a prima vista sono obbligate; ma alla lunga potrebbero rivelarsi imprudenti.

Anche perché in politica le contraddizioni hanno un prezzo. E più a lungo vengono eluse, più si prendono una rivincita rapidissima nelle sue conseguenze. Un elettore non chiede o suggerisce, come un consiglio di amministrazione, di uscire di scena in attesa magari di tempi migliori. È più indifeso, e forse disposto a dare credito alla persona ed allo schieramento che ha votato e contribuito a portare in Parlamento. Proprio per questo merita una considerazione se non superiore, uguale a quella verso una banca.

Massimo Franco

27 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_27/nota_cdbac348-9941-11df-882f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Luglio 28, 2010, 11:04:25 am »

LA NOTA

Prima la manovra poi l'addio a Fini

Il divorzio è questione di giorni anche se gli effetti sono imprevedibili

Le cronache giudiziarie tendono ad intrecciarsi con le convulsioni politiche del centrodestra. E la reazione del Pdl fa capire che Silvio Berlusconi cercherà fino all’ultimo di non perdere altri pezzi; ma è intenzionato a ratificare dopo oltre sedici anni di alleanza la rottura con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il capo del governo non vuole le dimissioni né del coordinatore Denis Verdini, né del sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, indagato ieri per appartenenza ad associazioni segrete, né del coordinatore della Campania, Nicola Cosentino. La priorità è l’approvazione della manovra economica, per la quale occorre una coalizione parlamentare blindata. Dopo il «sì» a quella che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, chiama «una finanziaria comune dell’Europa», il rischio di una deriva «alla greca» sarà parzialmente scongiurato.

E da quel momento, lo scenario cambierà. Berlusconi prenderà di petto i rapporti fra la maggioranza e quella che definisce «giustizia politica»: probabilmente con un discorso al Parlamento. E quasi in parallelo cercherà di liquidare la questione di Fini. La rottura potrebbe essere sancita entro qualche giorno. Psicologicamente, ma sembra anche politicamente, Berlusconi ha deciso. Anzi, la novità è che mentre fino ad un paio di settimane fa tentava di trovare motivi per una ricucitura, adesso non la cerca più. L’urgenza improvvisa con la quale la minoranza invoca un incontro tra fondatore e cofondatore del Pdl nasce dalla percezione di un pericolo imminente. L’alternanza fra parole rissose e appelli in extremis segnala un epilogo difficilmente evitabile; e dalle conseguenze imprevedibili per lo stesso governo: anche perché i finiani non vogliono abbandonare il Pdl e daranno battaglia per rimanerci.
È evidente, d’altronde, che l’uscita di scena della minoranza indebolisce numericamente la maggioranza. I dati sui gruppi parlamentari che Palazzo Chigi ha esaminato, offrirebbero margini di sicurezza ambigui, se non esigui. Ma i vertici del Pdl appaiono convinti che sia preferibile un esercito meno numeroso e più responsabile e compatto, rispetto ad uno stillicidio quotidiano di polemiche e di distinguo, quando non di attacchi devastanti. Non solo. Ormai Berlusconi e lo stesso Umberto Bossi, capo della Lega Nord, ritengono la situazione irrecuperabile; e dunque sono d’accordo ad agire prima che le inchieste giudiziarie e le frustrazioni nel Pdl rimpolpino la pattuglia finiana. Ormai non si parla più di «se» ma di «come» si consumerà lo strappo.

Il conflitto ha implicazioni pesanti anche sul piano istituzionale. Come presidente della Camera, Fini è la terza carica dello Stato. Il fatto di essere diventato leader della minoranza del Pdl ha un po’ modificato il suo profilo. Nel momento in cui l’addio con Berlusconi ed il suo partito fosse ufficializzato e sanzionato, la situazione diventerebbe paradossale. Non a caso negli ultimi giorni alcuni ex di An hanno invitato Fini ad abbandonare il vertice di Montecitorio e ad entrare nel governo: una provocazione, perché offriva implicitamente la resa in alternativa allo scontro finale. E in un momento in cui i richiami finiani alla legalità sono stati bollati come «dipietristi».

Fa riflettere la possibilità che la separazione possa avvenire nel momento in cui è virulenta la contrapposizione tra governo e magistratura. Si profila una rottura sullo sfondo delle inchieste sulla cosiddetta P3, col presidente della Camera che martella sulla «questione morale» e insiste sull’ «opportunità» delle dimissioni di tutti gli indagati; insomma, cavalca tutti i temi considerati inaccettabili da Berlusconi. È una situazione che può aprire scenari oggi impensabili: perfino quello di una convergenza di fatto fra l’attuale minoranza del Pdl e quei settori dell’opinione pubblica e dell’opposizione che vengono definiti «giustizialisti». Bisogna prepararsi ad una separazione cattiva, fitta di trappole. E sovrastata dall’incognita del comportamento della Lega, oggi in totale sintonia con Berlusconi ma percorsa da tensioni interne inedite.

Massimo Franco

28 luglio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_luglio_28/nota_75dee018-9a0a-11df-8339-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Settembre 06, 2010, 06:06:51 pm »

Divorziati in casa


Non si capisce se Gianfranco Fini abbia offerto a Silvio Berlusconi un patto di legislatura, o aperto la campagna elettorale. L’impressione è che abbia fatto le due cose insieme. La scelta di rimanere nel centrodestra è netta; e anche la disponibilità a dare a Berlusconi uno scudo contro qualche tentazione di scorciatoia giudiziaria. Ma detta le proprie condizioni come «terzo alleato» accanto al partito del presidente del Consiglio e alla Lega di Umberto Bossi. Per questo le incognite sul futuro del governo e della legislatura rimangono intatte.

Bisogna capire se la maggioranza riuscirà a sopportare una metamorfosi così traumatica, o si spezzerà ai primi appuntamenti parlamentari. Formalmente, Palazzo Chigi non può etichettare il discorso di ieri a Mirabello come una rottura. Non c’è neppure la nascita ufficiale del partito di Futuro e libertà. Pesano però la dichiarazione di morte del Pdl, che a detta di Fini «non c’è più»; un giudizio demolitorio e velenoso sul berlusconismo; e un cenno alla riforma elettorale che fa pensare a governi diversi dall’attuale. In altri tempi sarebbe bastato per la scomunica. Ma la cronaca recente dimostra che la fase «padronale» del Pdl è finita.

Anzi, se Fini ieri ha potuto ribadire i suoi attacchi al Cavaliere, deve almeno in parte ringraziare la campagna di cui è stato oggetto e che tendeva a riaffermare forzatamente il primato del Cavaliere. Operazione impossibile, di fronte a una destra finiana che sembra ormai avere interiorizzato l’antiberlusconismo. Gli applausi più potenti sono arrivati nei passaggi nei quali Fini ha attaccato il premier. Il partito in incubazione di Futuro e Libertà si considera portatore di valori e metodi alternativi a quelli del Pdl, definito ripetutamente «una Forza Italia allargata».

Non esce dal centrodestra soprattutto per incalzarlo, modificarne la strategia, e alla fine sostituirne la leadership. Il riconoscimento del primato berlusconiano è d’ufficio. Fini polemizza e insieme lancia segnali al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e a una Lega evocata con toni agrodolci. Il Pdl è trattato invece come una realtà dalla quale la terza carica dello Stato vuole emanciparsi al più presto: forse perché gli ricorda troppo l’errore politico che sente di avere commesso consegnando An a Berlusconi; e le frustrazioni accumulate negli ultimi due anni.

Probabilmente Fini si rende conto che archiviando la forza che ha contribuito a fondare, e rivestendo i panni del leader di parte, piccona anche il proprio ruolo di presidente della Camera. Ma nelle convulsioni della maggioranza le anomalie tendono a diventare normalità. Per questo l’ipotesi che il governo possa andare avanti rimane una possibilità: sebbene l’offerta del patto di legislatura, per come è stata confezionata, rischi di rivelarsi non l’occasione per una ricucitura vera ma l’ultima spallata tattica a una coalizione che non ritrova il baricentro.

Massimo Franco

06 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_06/franco_d55df28e-b974-11df-90df-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Settembre 19, 2010, 06:22:15 pm »

LA NOTA

Il miraggio (svanito) della tregua

C’è da chiedersi se la tregua fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sia finita, o se in realtà non fosse mai cominciata.

Il sospetto che i toni più bassi fossero soltanto un miraggio al quale entrambi fingevano di credere non è mai scomparso. L’attacco del presidente del Consiglio a quella che definisce «l’operazione dissennata di fine luglio » ribadisce un conflitto insanabile. Sembra un passo indietro rispetto all’atteggiamento degli ultimi giorni; e un gesto di sfida alla minoranza finiana in vista del voto parlamentare del 28 settembre prossimo.

Ma forse è solo l’evoluzione di un premier che si sente rinfrancato almeno da «una» Sicilia: quella dei parlamentari dell’Udc tentati di saltare nelle file della maggioranza, e delle truppe della Destra di Francesco Storace in attesa di posti nel governo. Non sono solo sintomi di piccoli trasformismi italici. Quanto accade, per paradosso, sottolinea la debolezza complessiva del centrodestra: o almeno del Pdl emerso dalle elezioni trionfali del 2008. La scissione che sempre in Sicilia ha deciso uno dei sottosegretari a Palazzo Chigi, Gianfranco Micciché, per far nascere un fantomatico «partito del Sud», accentua la sensazione di un berlusconismo che fatica a tenere unito un blocco sociale nazionale.

La competizione con la quale deve fare i conti al Nord e nel Mezzogiorno rende ogni passo più faticoso e arrischiato. La fronda di Fini, e poi la sua espulsione, hanno solo accelerato e aggravato questa deriva. È giusto aggiungere che, nell’affanno generale del sistema, probabilmente il centrodestra rimane meno mal messo dei propri avversari. Ma il punto ormai non è più questo. L’aspetto preoccupante non riguarda tanto il presidente della Camera: riguarda l’Europa. Con parole sincere fino alla brutalità, ieri Berlusconi ha raccontato che al recente vertice di Bruxelles gli altri capi di governo lo guardavano «con un punto interrogativo»: come se fosse sul punto di dimettersi.

L’Italia, ha ammesso, non è più vista come «il Paese solido» che secondo il premier era fino alla rottura di Fini. La ricostruzione è molto autoindulgente, e sorvola sugli eccessi polemici che anche il Pdl aveva riconosciuto di aver commesso nei confronti della corrente finiana. Serve però a scaricare sui nemici interni l’immagine negativa dell’Italia a livello continentale; e a rincuorare una platea non solo siciliana che considera il presidente della Camera un traditore e una banderuola; e che si abbevera ai misteri dell’appartamento di Montecarlo abitato dal cognato di Fini, pregustando la vendetta. Il Berlusconi di ieri è il capo di un governo che di fatto archivia gli equilibri del centrodestra di questi due anni e mezzo. E si prepara a resistere a Palazzo Chigi con il suo Pdl, la Lega e i nuovi compagni di strada.

Vuole riuscirci per i prossimi tre anni, continua a ripetere, blindato dai consensi che conta di raccogliere in Parlamento a fine mese. Ma non è da escludersi che sia pronto ad affrontare una campagna elettorale nella quale la sua «legione straniera», se si materializzerà, servirà a certificare la tesi di un universo moderato calamitato naturalmente nella sua orbita; e pronto a seguire Berlusconi contro la «dissennatezza» di alcuni alleati. Dicono che Fini la consideri una provocazione alla quale non è il caso di rispondere. Ma l’aut-aut drammatizza il voto parlamentare di fine settembre; e rende la tregua un miraggio al quale d’ora in poi neppure lui potrà fingere di credere.

Massimo Franco

19 settembre 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Settembre 23, 2010, 05:49:00 pm »

IL VOTO SU Cosentino

Tra sollievo e veleni

Il risultato è sufficientemente ambiguo da permettere ad ognuno di cantare vittoria; o almeno di negare la sconfitta. Il governo può affermare di avere una maggioranza solida, confortata dall’appoggio di qualche «franco tiratore» all’ombra del voto segreto. La minoranza finiana vela le divergenze della sua pattuglia parlamentare sostenendo che Silvio Berlusconi dipende dal sostegno di Futuro e libertà, visto che ha avuto 308 voti e non i 316 della cosiddetta «soglia di sopravvivenza »: sebbene non sia proprio così. E la Lega osserva che non è cambiato nulla; che tutto si deciderà a fine mese, con il discorso del premier in Parlamento. Eppure, ieri potrebbe essere stato compiuto un altro piccolo passo verso elezioni anticipate che quasi nessuno vuole; ma che rischiano di capitare per la sfida sul filo del rasoio e dell’irresponsabilità in atto nel centrodestra. La votazione sull’uso delle intercettazioni a carico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino ha dilatato le distanze fra il Pdl e gli uomini del presidente della Camera. E le notizie avvelenate che filtrano sull’appartamento di Montecarlo abitato dal cognato di Gianfranco Fini sembrano aver ostruito l’unico canale di dialogo fra il vertice di Montecitorio e Palazzo Chigi: lo «scudo giudiziario» per il premier. In realtà, lasciano perplessi l’idea che Fini reagisca a quello che considera «un dossieraggio» bloccando le trattative con Berlusconi; e la decisione di dare la fiducia al governo, precisando che però la collaborazione è impossibile. Il paradosso è che sia lui, sia il presidente del Consiglio temono un’interruzione della legislatura. Sanno che significherebbe una crescita esponenziale della Lega; e, per quanto riguarda Fini, un percorso al buio oltre i confini di questo centrodestra, con prospettive a dir poco precarie. Eppure, senza volerlo, entrambi sembrano sovrastati da una incontenibile voglia di resa dei conti. Giurare fedeltà al governo mentre volano coltellate produce un suono in falsetto: come se fosse un obiettivo che dissimula intenzioni opposte.

La gelida constatazione affidata al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, secondo il quale dopo la votazione di ieri le cose stanno come prima, non è nuova ma non va sottovalutata. Conferma una strategia della Lega determinata ad accompagnare la coalizione ancora un po’, in attesa che i fattori di incertezza si rivelino motivi o pretesti per una rottura. Dire che o la maggioranza dimostra di essere davvero autosufficiente, o è meglio andare alle elezioni, rappresenta una constatazione perfino banale nella sua ragionevolezza. Ma ripeterlo quasi ogni giorno indica il percorso che il Carroccio sta seguendo mentalmente. Umberto Bossi è sicuro che Berlusconi sappia fare bene i conti. Presto, tuttavia, potrebbe emergere uno scontro fra chi sostiene che andare alle urne è un lusso troppo costoso per il Paese e per il centrodestra; e chi, Lega in testa, considera il logoramento come la vera iattura. Il contorno di tossine che si stanno sprigionando rischia di rafforzare pericolosamente la seconda tesi: nonostante il sollievo comprensibile del governo.

Massimo Franco

23 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_23/Tra-sollievo-e-veleni-massimo-franco_29de919c-c6d1-11df-ad8a-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Settembre 30, 2010, 05:21:44 pm »

Il commento

Un sì avvelenato

Aveva chiesto «un sì o un no» ed ha ottenuto una risposta formalmente, solo formalmente, positiva. In realtà, il governo ha ricevuto un viatico gonfio di insidie. Silvio Berlusconi non ha più una maggioranza autonoma. Dipende dall'appoggio degli odiati finiani e dalla pattuglia di Raffaele Lombardo, che risponde a logiche siciliane, slegate da quelle del Pdl. E Umberto Bossi già addita le elezioni anticipate come «la strada maestra». La cautela meritoria usata da Berlusconi nel suo discorso dimostra che il presidente del Consiglio non solo non le vuole ma le teme. I 342 «sì» a favore del governo, però, avvicinano pericolosamente la fine della legislatura.

Viene sancita la sconfitta della linea muscolare perseguita negli ultimi mesi da Palazzo Chigi; e la rivincita, almeno in Parlamento, dei «ribelli» di Gianfranco Fini. L'ombra pesante del contrasto col presidente della Camera era stata rimossa da Berlusconi, con un fugace accenno al «passo indietro» provocato dalla creazione della corrente Futuro e Libertà. Ma l'annuncio in tempo reale della nascita del partito di Fini, e soprattutto il responso del voto di fiducia, l'hanno riallungata su tutta la coalizione. L'atteggiamento della Lega chiude il cerchio. Conferma il profilo del Carroccio come vero azionista di riferimento della maggioranza; ed avanguardia del «partito delle elezioni».

È il paradosso di un Fini che pensando di contrastare l'«asse del Nord» ha rafforzato i lumbard. Era prevedibile. Le cose sono andate così avanti, che l'istinto autolesionistico del Pdl rischia di sovrastare la lucidità politica e gli interessi del Paese. I rancori viscerali fra il premier e il presidente della Camera, e le pressioni per far dimettere il cofondatore del Pdl dal vertice di Montecitorio sono stati tappe di una guerriglia sfibrante. E in Parlamento la stanchezza e le tensioni represse a fatica erano palpabili.

Non è da escludersi che presto Fini si dimetta davvero: ma anche in quel caso sarà non tanto per motivi istituzionali, quanto per guidare meglio lo scontro contro il suo ex partito. Si tratta di uno sfondo di macerie, per il centrodestra. E non può bastare come consolazione un'opposizione percorsa da un malessere parallelo. A colpire, ed anche a sorprendere sono il tentativo apprezzabile di prendere coscienza dei pericoli di una situazione esasperata; e il difetto di autocritica per il brutto spettacolo offerto ultimamente. Ora la maggioranza vuole accreditare il momento della maturità e della consapevolezza; e la volontà di fermare una spirale capace di portare governo e legislatura sull'orlo del precipizio, senza offrire altro se non il vuoto. Aggrapparsi a questa eventualità è quasi obbligatorio: per il momento non esistono alternative alla coalizione berlusconiana. Ma senza rendersene conto, proprio il centrodestra negli ultimi tempi l'ha picconata: al punto che il premier ha ammesso una «lesione» fra gli alleati. Si capirà presto se esistono volontà e forza per curarla; oppure se sono scattate dinamiche tese ad aggravarla ed a renderla irreversibile.

Massimo Franco

30 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_30/20100930NAZ11_NAZ01_49_af5fb45c-cc50-11df-b9cd-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Ottobre 23, 2010, 06:33:08 pm »


Effetti a Catena

L'inquietudine istituzionale di Giorgio Napolitano è più che comprensibile ma a doppio taglio. Il presidente della Repubblica vede nel «Lodo Alfano» una torsione del proprio ruolo: di fatto, un colpo alla sua autonomia perché sottopone al giudizio del Parlamento la sospensione di un eventuale processo al capo dello Stato; e per di più a maggioranza semplice e su reati non previsti dalla Costituzione. Ma esprimendo le sue «profonde perplessità» su questo punto finisce per sottolineare che la legge riguarda solo il presidente del Consiglio. Di più, fa capire che sarebbe tagliata su misura per Silvio Berlusconi.

La reazione del premier che annuncia di voler ritirare la legge sostenendo di non averla voluta lui è una risposta in tempo reale al Quirinale; e probabilmente la presa d'atto che da ieri il Lodo è in un vicolo cieco. L'impressione, d'altronde, è che Napolitano abbia toccato in modo esplicito un aspetto; ma forse sia silenziosamente preoccupato dalla possibilità che il «lodo» preparato dal ministro della Giustizia, Angelo Alfano, sia reiterabile: e cioè sospenda i processi a carico del premier anche nel caso in cui passasse in futuro da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica. Insomma, sembrano intrecciarsi riserve giuridiche e strategie quirinalizie. Proprio per questo, però, il contrasto finisce per apparire soprattutto politico. E costringe a valutare l'irritualità della mossa presidenziale ed i suoi potenziali contraccolpi.

La sensazione è che l'iniziativa di Napolitano abbia colpito al cuore un provvedimento sul quale il centrodestra sta faticosamente costruendo un'intesa con la minoranza di Gianfranco Fini. Ed arriva a sorpresa, con la lettera al presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini: missiva nella quale il capo dello Stato ribadisce che non vuole occuparsi di leggi costituzionali o di iniziativa parlamentare. Il fatto che però dica di sentirsi costretto a farlo drammatizza lo scontro fra il governo e l'opposizione. E, dopo la reazione di Berlusconi, mantiene la trattativa in materia di giustizia sul binario della precarietà e dell'incertezza.

Ritorna il rischio di proiettare nuove ombre sul tentativo di evitare una crisi di governo ed elezioni anticipate. Fini si ritrova esposto alle critiche del suo movimento, già irritato per le concessioni al premier; ed il Quirinale viene applaudito dalle opposizioni. Dalla freddezza del centrodestra e dallo scarto berlusconiano si indovina un'irritazione profonda. Si parla di modifiche affidate al Parlamento, accogliendo formalmente le obiezioni presidenziali. Ma la risposta vela un'indiretta accusa di sconfinamento nei confronti di Napolitano.

Proprio ieri il leader dei centristi, Pier Ferdinando Casini, ha evocato un governo politico in caso di caduta di Berlusconi, senza peraltro escludere il voto anticipato. Significa che la stabilità resta in bilico nonostante i tentativi di puntellarla. Nessuno è in grado di prevedere e di controllare l'esito di un'eventuale rottura. Si può solo registrare l'altalena sfibrante alla quale è sottoposto il governo. Per il momento, ha come unica conseguenza certa il suo ulteriore logoramento. Forse, con la disponibilità a ritirare il Lodo, Berlusconi pensa di arginarlo.

Massimo Franco

23 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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