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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193926 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Dicembre 15, 2009, 03:55:20 pm »

LA NOTA


Superare la sindrome di Piazza Duomo

Più che uno spartiacque, rischia di diventare un muro divisorio: una barriera di odio che può accentuare, invece di ridurre la distanza fra ciò che è percepito come berlusconiano e tutto quello che gli si oppone. L’aggressione di domenica in Piazza Duomo al presidente del Consiglio non ha calmato gli animi. Per questo ieri Giorgio Napolitano ha deciso di ritornare sul ferimento di Berlusconi; e di restituirlo alle sue dimensioni gravi e allarmanti.

Il centrodestra sembra di colpo placato dopo le tensioni delle ultime settimane fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ma la rabbia e la voglia di puntare il dito contro gli avversari è prepotente. E l’opposizione deve fare i conti con se stessa.

Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, di­ce parole nette e coraggiose contro la vio­lenza e va a trovare il premier in ospedale.
Ma deve guardare in faccia la realtà di un pezzo del partito, che condanna il ferimen­to del premier fra mille distinguo; e di un’Idv,
l’alleato-concorrente, che rivendica il proprio diritto ad un antiberlusconismo senza solidarietà né pentimenti. È come se la «sindrome di Piazza Duomo» continuas­se a gravare su un Paese dominato dall’ipo­teca delle minoranze; e rallentasse la capa­cità di reazione contro un episodio «folle» che si sta rivelando il sintomo di una nor­malità avvelenata. Sembra si faccia fatica a comprendere fino in fondo quanto è acca­duto.

Le logiche conflittuali minacciano di raf­freddare l’emozione e l’allarme per qualco­sa che invece deve preoccupare. «È stato colpito e ferito il presidente del Consi­glio », avverte Napolitano in un’intervista al Tg2. «E anche se verrà verificato che si è trattato del gesto di uno sconsiderato, dob­biamo essere tutti egualmente allarmati. E quando dico tutti, intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convi­venza civile». Sono parole che chiedono chiarezza e coerenza di comportamenti; ed invitano ad assumere un atteggiamento di­verso dall’esasperazione pericolosa delle polemiche. È un’insistenza figlia di una grande preoccupazione.

Motivata, verrebbe da dire dopo la reazio­ne di Antonio Di Pietro, che finge di non essere uno dei principali destinatari dell’ap­pello; ed invita la maggioranza a seguire i consigli di Napolitano. In realtà, il capo del­lo Stato sembra indovinare le potenzialità ed insieme i pericoli che si presentano do­po l’aggressione a Berlusconi. Quando insi­ste sull’esigenza di non vedere «complot­ti », parla al governo. E quando avverte che c’è una maggioranza votata per guidare il Paese per cinque anni, e dunque non biso­gna inseguire «scorciatoie», si rivolge al­l’opposizione. L’impressione è che sia un’esortazione simmetrica a non accarezza­re l’idea di elezioni anticipate.

Segno che il pericolo di rotture è tutt’al­tro che scongiurato; e che per il momento è difficile calcolare i contraccolpi che l’ag­gressione in Piazza Duomo produrrà. L’idea di una manifestazione di solidarietà a Berlu­sconi organizzata dal Pdl a febbraio fa pen­sare ad un’onda lunga ed emotiva. E l’insi­stenza dell’Idv nell’attaccare il presidente del Consiglio evoca un progetto di esaspera­zione dei contrasti: un «tanto peggio, tanto meglio» che si salda con la voglia di vendet­ta di qualche minoranza esagitata del cen­trodestra. Napolitano addita dunque una ri­composizione difficile, eppure obbligata: l’unica in grado di esorcizzare il fantasma di violenze vecchie e nuove.

Massimo Franco

15 dicembre 2009
da corriere.it
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 22, 2009, 09:51:40 pm »

L'analisi

Il realismo necessario

Quell’approccio ispirato al realismo


Dire che Giorgio Napolitano osserva con ottimismo la situazione significherebbe travisarne il pensiero, oltre che le parole.
Il suo discorso di ieri alle autorità dello Stato riflette piuttosto la consapevolezza che l’Italia oggi vive una fase tormentata, dominata da molte incognite e quasi in bilico fra stabilità ed elezioni anticipate e fra coesione nazionale e derive violente. L’agguato subito da Silvio Berlusconi a Milano, il 13 dicembre scorso, è stato un «fatto assai grave». Il presidente della Repubblica lo considera come l’epilogo di un imbarbarimento che aveva intravisto e sottolineato più volte. La sua lungimiranza, tuttavia, è una soddisfazione amara.

Per questo Napolitano si sforza di riproporre una lettura che assecondi, se non un clima da riforme condivise, tuttora improbabile, almeno un atteggiamento più ragionevole; e che analizzi rischi e potenzialità, optando per le seconde. Soprattutto, il suo invito è a non aggiungere fattori di divisione artificiosi ad elementi già seri di preoccupazione. Il cuore del suo ragionamento parte dalla presa d’atto che siamo in una legislatura «ancora nella fase iniziale». Il governo farebbe torto a se stesso e alla Costituzione se temesse complotti impossibili quando si ha la fiducia della maggioranza del Parlamento. Non si tratta di esaltare la stabilità in quanto tale: in gioco c’è qualcosa di più.

È «quel fondo di tessuto unitario » che il capo dello Stato teme sia lacerato da una nuova rottura politica e istituzionale. In fondo, il timore espresso nelle scorse settimane di una spirale crescente di veleni ha finito per dare frutti avvelenati anche «con la brutale aggressione al presidente del Consiglio ». Ma quello è solo il punto di arrivo, la «degenerazione verso un clima di violenza» con radici più profonde e lontane. La scommessa di Napolitano è che proprio l’episodio di piazza Duomo diventi l’inizio di un «ripensamento collettivo». Per tutti: per una magistratura della quale critica eccessi di protagonismo e la tentazione di darsi missioni improprie, e per lo stesso governo.

Il capo dello Stato vede incrinato il rapporto fra il Parlamento e Palazzo Chigi. Ritiene che il modo in cui negli anni scorsi le maggioranze hanno imposto le proprie priorità abbia compresso il ruolo delle Camere e peggiorato la qualità delle leggi. La critica non si limita al centrodestra berlusconiano.

Napolitano risale più indietro nel tempo, coinvolgendo in questo giudizio negativo anche altre coalizioni. Ma certamente fra 2008 e 2009 il fenomeno ha assunto contorni nitidi, al punto da evocare l’esistenza di un «sistema parallelo» a quello parlamentare di formazione delle leggi: una distorsione ormai così consolidata che per spezzarla non basta più il galateo istituzionale. Al capitolo delle riforme, tuttavia, il presidente della Repubblica si avvicina con decisione e insieme circospezione: nel senso che l’unico approccio possibile gli sembra quello magari non proprio minimalista ma certamente dettato da un sano realismo. Napolitano torna a suggerire poche proposte, e ben mirate: le uniche che, forse, potrebbero produrre risultati e non ulteriori frustrazioni nell’attuale legislatura. Ed aggiunge il proprio atto di fedeltà al sistema parlamentare, proclamando la sua contrarietà all’idea che esistano riforme costituzionali «di fatto e dunque operanti». Una Costituzione non cambia perché è mutato il sistema politico o è stata modificata la legge elettorale, secondo il capo dello Stato. Si tratta di un ammonimento chiaro: chiunque pensasse di forzare gli equilibri fra i poteri, di cercare scorciatoie magari per tornare alle urne, dovrà fare i conti con passaggi che la Carta prevede come obbligati e inviolabili. Ma se si arrivasse a quel punto, significherebbe che nessuno è stato in grado di governare i conflitti; e che invece del Paese più unito di quanto appaia, raffigurato da Napolitano, ha prevalso una strategia della lacerazione tale da evocare altri strappi: una specie di follia di piazza Duomo come normalità.

Massimo Franco

22 dicembre 2009
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 24, 2009, 09:57:58 am »

LA NOTA

Professione incendiario

La letterina natalizia consegnata da Antonio Di Pietro al suo Gesù Bambino via Internet è il frutto un po’ andato a male dell’antiberlusconismo. Forse è anche frutto del timore che il confronto fra governo e centrosinistra faccia davvero qualche passo avanti.

La raffigurazione del Cavaliere come «il diavolo» non è nuova. Rilanciarla alla vigilia di Natale, però, inaugura un nuovo filone: quello della «teologia della demonizzazione». Il capo dell’Italia dei valori si candida ad esserne il capofila, maneggiando con scaltrezza, verrebbe da dire diabolica, lo strumento dell’innocenza infantile per antonomasia. Di solito si scrive a Gesù per promettere di essere buoni, ed avere in cambio buona salute per sé ed i propri cari, e piccoli grandi regali. Di Pietro usa invece il Bambinello come fantoccio per parlare in realtà a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd; per accusarlo di «fare inciuci » col Satana nostrano, nella persona del presidente del Consiglio; e per dare legittimità quasi religiosa, in modo che vorrebbe essere faceto, alla propria opposizione.
«Caro Gesù bambino, tu lo sai bene com’è fatto il diavolo, e che non ci si può fidare di lui», scrive sul suo blog. «Con alcune persone, soprattutto con il diavolo, non si può dialogare ».

È un’operazione astuta e disinvolta fino al cinismo, non fosse altro per il modo col quale Di Pietro strumentalizza certe tradizioni: viene da chiedersi che cosa avrebbe detto lui, se Berlusconi avesse fatto una cosa del genere. Ma politicamente, il pensierino è ben congegnato. Si tratta di un panettone al cianuro posato sotto l’albero di quelli che formalmente rimangono i suoi alleati. D’altronde, Di Pietro ha un bisogno assoluto dell’inferno berlusconiano. Per paradosso, deve additarlo ed evocarlo soprattutto in una fase nella quale il premier riemerge dall’aggressione del 13 dicembre a Milano con un alone di compassione e di solidarietà che avversari come lui non possono tollerare. Fra l’altro Berlusconi ha cominciato a parlare di perdono, e scritto al Papa per ringraziarlo e promettere pace sociale: come se il ferimento di piazza Duomo lo avesse spinto a presentarsi con un volto incerottato ma più ecumenico, meno «bipolarista» e lacerante di quanto sia stato storicamente. Ha pure ricucito i rapporti con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, col quale erano scesi due mesi di gelo dopo il no della Corte costituzionale al «lodo Alfano» sui processi alle alte cariche dello Stato. Insomma, troppi indizi preoccupanti di tregua, troppa crisi di astinenza da veleno per non suggerire un immediato riequilibrio.

La mossa dipietrista usa il Natale per inviare un messaggio non di pace, ma di conflitto. Chiama a raccolta l’estremismo che non solo non crede alle tregue, ma non le vuole perché significano mettersi in discussione, misurare i propri limiti oltre che le diavolerie altrui; di fatto, assumersi la responsabilità di non chiudersi nel proprio recinto autoreferenziale. Confrontarsi dovrebbe essere l’abc di qualunque formazione politica che aspiri a diventare, prima o poi, forza di governo. Dire che l’avversario è «il diavolo» equivale, al contrario, a presumersi angeli; e dunque a mettersi pregiudizialmente dalla parte di una ragione morale, assoluta. E astratta. Di Pietro sembra avere fretta, e svela la speranza che nel 2010 si rompa tutto e si torni a votare. Il centrosinistra magari perderebbe, ma lui crescerebbe nei rapporti di forza di un’opposizione sempre più minoritaria. Avere come nemico «il diavolo» offre posizioni di rendita rassicuranti.

Permette perfino di poter aspettare un decennio nel quale «per motivi anagrafici» il comico- predicatore Beppe Grillo prevede di togliersi dalle scatole «Andreotti, Cossiga, Berlusconi, Napolitano e Gianni Letta ». È questa, l’illusione collettiva che un certo radicalismo coltiva: senza rendersi conto che demonizzare gli avversari, soprattutto in politica, contribuisce a rafforzarli, se non a renderli eterni.

Massimo Franco

24 dicembre 2009
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« Risposta #78 inserito:: Gennaio 02, 2010, 12:26:21 am »

LA NOTA

Professione incendiario

La letterina natalizia consegnata da Antonio Di Pietro al suo Gesù Bambino via Internet è il frutto un po’ andato a male dell’antiberlusconismo. Forse è anche frutto del timore che il confronto fra governo e centrosinistra faccia davvero qualche passo avanti. La raffigurazione del Cavaliere come «il diavolo» non è nuova. Rilanciarla alla vigilia di Natale, però, inaugura un nuovo filone: quello della «teologia della demonizzazione». Il capo dell’Italia dei valori si candida ad esserne il capofila, maneggiando con scaltrezza, verrebbe da dire diabolica, lo strumento dell’innocenza infantile per antonomasia. Di solito si scrive a Gesù per promettere di essere buoni, ed avere in cambio buona salute per sé ed i propri cari, e piccoli grandi regali. Di Pietro usa invece il Bambinello come fantoccio per parlare in realtà a Pier Luigi Bersani, segretario del Pd; per accusarlo di «fare inciuci » col Satana nostrano, nella persona del presidente del Consiglio; e per dare legittimità quasi religiosa, in modo che vorrebbe essere faceto, alla propria opposizione. «Caro Gesù bambino, tu lo sai bene com’è fatto il diavolo, e che non ci si può fidare di lui», scrive sul suo blog. «Con alcune persone, soprattutto con il diavolo, non si può dialogare ».

È un’operazione astuta e disinvolta fino al cinismo, non fosse altro per il modo col quale Di Pietro strumentalizza certe tradizioni: viene da chiedersi che cosa avrebbe detto lui, se Berlusconi avesse fatto una cosa del genere. Ma politicamente, il pensierino è ben congegnato. Si tratta di un panettone al cianuro posato sotto l’albero di quelli che formalmente rimangono i suoi alleati. D’altronde, Di Pietro ha un bisogno assoluto dell’inferno berlusconiano. Per paradosso, deve additarlo ed evocarlo soprattutto in una fase nella quale il premier riemerge dall’aggressione del 13 dicembre a Milano con un alone di compassione e di solidarietà che avversari come lui non possono tollerare. Fra l’altro Berlusconi ha cominciato a parlare di perdono, e scritto al Papa per ringraziarlo e promettere pace sociale: come se il ferimento di piazza Duomo lo avesse spinto a presentarsi con un volto incerottato ma più ecumenico, meno «bipolarista» e lacerante di quanto sia stato storicamente. Ha pure ricucito i rapporti con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, col quale erano scesi due mesi di gelo dopo il no della Corte costituzionale al «lodo Alfano» sui processi alle alte cariche dello Stato. Insomma, troppi indizi preoccupanti di tregua, troppa crisi di astinenza da veleno per non suggerire un immediato riequilibrio.

La mossa dipietrista usa il Natale per inviare un messaggio non di pace, ma di conflitto. Chiama a raccolta l’estremismo che non solo non crede alle tregue, ma non le vuole perché significano mettersi in discussione, misurare i propri limiti oltre che le diavolerie altrui; di fatto, assumersi la responsabilità di non chiudersi nel proprio recinto autoreferenziale. Confrontarsi dovrebbe essere l’abc di qualunque formazione politica che aspiri a diventare, prima o poi, forza di governo. Dire che l’avversario è «il diavolo» equivale, al contrario, a presumersi angeli; e dunque a mettersi pregiudizialmente dalla parte di una ragione morale, assoluta. E astratta. Di Pietro sembra avere fretta, e svela la speranza che nel 2010 si rompa tutto e si torni a votare. Il centrosinistra magari perderebbe, ma lui crescerebbe nei rapporti di forza di un’opposizione sempre più minoritaria. Avere come nemico «il diavolo» offre posizioni di rendita rassicuranti. Permette perfino di poter aspettare un decennio nel quale «per motivi anagrafici» il comico- predicatore Beppe Grillo prevede di togliersi dalle scatole «Andreotti, Cossiga, Berlusconi, Napolitano e Gianni Letta ». È questa, l’illusione collettiva che un certo radicalismo coltiva: senza rendersi conto che demonizzare gli avversari, soprattutto in politica, contribuisce a rafforzarli, se non a renderli eterni.

Massimo Franco

24 dicembre 2009
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« Risposta #79 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:52:07 pm »

Riforme sì ma vere

Per la coralità con la quale è stato discusso e presentato, il programma emerso ieri dal vertice del centrodestra a palazzo Grazioli ha
l’ambizione di un piano per il resto della legislatura. Ma se non decollasse, non è escluso che alla fine possa rivelarsi anche una buona piattaforma elettorale. L’apertura ostentata all’opposizione in materia di giustizia è, almeno nelle intenzioni, un tentativo di disarmare le resistenze sul «processo breve» ed il legittimo impedimento: le misure che riguardano il presidente del Consiglio, sulle quali in realtà le divergenze rimangono, sottolineate dal centrosinistra con toni più o meno immutati.

Ma la maggioranza che ritrova Silvio Berlusconi dopo l’aggressione subita il 13 dicembre scorso in piazza Duomo, a Milano, ha avuto
l’accortezza di allargare i propri orizzonti. L’abbinamento con le riforme costituzionali e gli accenni ad una riforma del fisco entro il 2010 hanno l’obiettivo di dare spessore all’iniziativa; e in parallelo di diluire l’impatto dei provvedimenti che peseranno sulla sorte processuale del presidente del Consiglio. La novità è che dopo le tensioni interne dei mesi scorsi, il centrodestra mostra o almeno accredita una nuova compattezza.

Si tratta di una tregua che dovrebbe avere effetti a cascata: gli ultimi accordi per le candidature alle regionali; l’incontro, rinviato da tempo, fra Berlusconi ed il presidente della Camera, Gianfranco Fini; e un rapporto meno rissoso con la minoranza. Il Guardasigilli, Angelo Alfano, rilancia la riforma costituzionale sulla giustizia parlando di «consueta coesione» della coalizione. E indica tempi rapidi per proporla al Parlamento. In realtà, al di là delle ottime intenzioni, le incognite non sono del tutto scomparse.
La situazione, pacificata in apparenza, rimane in bilico.

La reazione di Fini all’ipotesi di una riforma delle tasse, fatta dallo stesso Berlusconi, è agrodolce.
Sottolineando che senza una copertura finanziaria l’idea si riduce a propaganda, il presidente della Camera offre l’ennesima sponda alle critiche dell’opposizione; e proietta un alone di suspense sul suo vertice con il premier. Ma l’ostacolo-principe rimane la giustizia.
Le modifiche offerte da Pdl e Lega sono ritenute dagli avversari inaccettabili. Il fatto che siano state ratificate a palazzo Grazioli e la volontà del governo di approvarle presto, acuiscono le diffidenze.

Il duello in latino fra il Pd che denuncia le «leggi ad personam» e Berlusconi che le definisce «ad libertatem » marca le distanze.
L’intenzione del governo di procedere comunque di fronte ad una «melina» parlamentare, è anche un invito a superare i veti di una parte dell’opposizione. Difficile non temere la continuazione delle convulsioni del 2009. L’incontro di ieri al Quirinale fra Berlusconi e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, fa pensare che rispetto al recente passato esista un margine di mediazione. Il problema è riuscire a conciliare l’esigenza della stabilità con quella di approvare riforme vere che valgano per tutti; che non solo siano di interesse generale, ma vengano percepite come tali.

Massimo Franco

12 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 15, 2010, 07:03:53 pm »

LA NOTA

Una pace di interesse pensando alle regionali e alle inchieste del premier

Una colazione tesa che però segna il tramonto della «guerra civile» nel Pdl

Definire positivo l’incontro di ieri perché Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno stipulato una sorta di patto di consultazione sa di paradosso. Rischia di fotografare più le distanze che la ripresa della collaborazione, per quanto guardinga e da consolidare, tra fondatore e cofondatore del Pdl. L’idea che esponenti di vertice di una stessa coalizione debbano promettere di vedersi più spesso dice quanto i percorsi del presidente del Consiglio e della Camera si fossero allontanati; e quanto in parte lo siano ancora. L’accenno ai «danni del fuoco amico», fatto dagli esponenti del centrodestra presenti alle due ore di colloquio, confermano le ferite provocate dalla guerra civile di carta alimentata dai giornali vicini al Pdl.

Ma la sensazione è che nonostante le tossine accumulate in questi mesi, e riemerse nel pranzo aMontecitorio, Berlusconi e Fini sappiano di dover tentare una tregua; e non soltanto perché c’è la campagna elettorale per le regionali. Anche l’allusione al «fuoco amico» è un modo indiretto per concordare l’archiviazione dello scontro fra palazzo Chigi e terza carica dello Stato. Con uno snodo delicato e fondamentale, nella strategia berlusconiana: l’esito parlamentare della legge sul «processo breve». Per il capo del governo, la disponibilità di Fini a non intralciarla, seppure fra qualche dubbio residuo, sarebbe la prova che i distinguo e le critiche seminati da mesi nei confronti del governo non erano atti di sabotaggio.

Su questo punto, sembra che alla fine le preoccupazioni dei due interlocutori, scortati dal sottosegretario Gianni Letta e da Ignazio La Russa e Italo Bocchino, si siano avvicinate più del previsto. La tesi secondo la quale Fini ha sempre e solo voluto rivendicare l’autonomia della Camera davanti al governo, è stata accettata dal premier anche perché preluderebbe ad un compromesso sul «processo breve». In realtà, commenti sull’esito del colloquio variano leggermente fra gli ex di An ed i berlusconiani. I primi appaiono cauti, non vogliono dare l’impressione che dopo settimane di scontri sia esplosa una pace sospetta: quella che fa parlare di «inciucio» ad Antonio Di Pietro.

Gli altri, invece, concordano sulla versione di una colazione interlocutoria ma non esitano a definirla positiva. «Si è ripresa una strada comune», sostiene il ministro Sandro Bondi, «anche se è giusto non dare tutto per risolto». È una prudenza obbligata, viste le polemiche che accompagnano il percorso parlamentare della riforma della giustizia; le tensioni con la magistratura, che col Consiglio superiore ha aperto un fascicolo dopo le accuse di Berlusconi ai pubblici ministeri che lo processano; e qualche differenza di vedute sull’alleanza con l’Udc. Il premier è irritato dalla «strategia dei due forni» dei centristi. «Quelli mi hanno stufato», avrebbe detto al presidente della Camera. «Pensano di allearsi con noi solo dove si vince? Allora basta intese con loro». Fini, invece, appare più attento a non rompere con il partito di Pier Ferdinando Casini in vista delle regionali. Nel Lazio, ritiene che la candidata del Pdl, la sindacalista Renata Polverini, possa vincere se rimane alleata dell’Udc.

Nelle file berlusconiane, tuttavia, c’è qualche malumore non solo su Casini, ma sulla scelta della stessa Polverini, sebbene Fini condivida le perplessità del premier sulla politica dei «due forni». Non è chiaro se la tregua dei vertici del Pdl reggerà. Ma l’incontro potrebbe implicare qualcosa di più di una riconciliazione forzata fra Berlusconi e Fini: magari il tramonto di una lunga offensiva partita dall’interno della maggioranza oltre che dal centrosinistra, che a tratti ha mostrato il governo in bilico. Il pranzo con Fini, percepito dall’opposizione come sponda contro Berlusconi, simboleggia la crisi di questa strategia. In realtà, la manovra si era bloccata già il 13 dicembre a Milano, appena la statuetta del Duomo lanciata da uno squilibrato ha colpito in faccia il premier. Non significa che nel Pdl le polemiche scompariranno. Ma cambia lo sfondo nel quale si inseriscono.

Massimo Franco

15 gennaio 2010
da corriere.it
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« Risposta #81 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:29:24 am »

LA NOTA

L’intesa premier-Fini salda un’opposizione costretta alla durezza

Un fronte che va da Pd e Idv alla Cgil e all’Anm Ma Bossi dice: non ci fermiamo


Si è compattata anche l’opposizione. Con una risposta senza sbavature alla legge sul «processo breve» approvata mercoledì in Senato.
Non si avvertono più grandi distinzioni fra il Pd di Pier Luigi Bersani e l’Idv di Di Pietro e De Magistris. Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, schiera anche il suo sindacato contro il provvedimento. E l’Anm e le altre magistrature insistono sulle conseguenze «gravemente dannose e negative» su migliaia di procedimenti in corso.

Eppure, lo scontro non sembra scalfire la determinazione del governo. A certificarla è Umberto Bossi, capo della Lega: «Sulla giustizia il percorso è avviato, non ci fermeranno». Sono parole che formalizzano la tregua fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; e riducono le probabilità di una frattura quando la legge sul «processo a data certa», come preferisce definirlo il Guardasigilli, Angelo Alfano, approderà alla Camera. Palazzo Chigi si sente più forte, in primo luogo nella propria coalizione. Per questo non intende forzare i tempi a Montecitorio. Si limita a sottolineare con Fabrizio Cicchitto la subalternità del Pd a Di Pietro. D’altronde, il compattamento del centrodestra ottiene di rimbalzo quello avversario.

E la sollevazione dei magistrati non lascia al Pd margini di manovra: le Regionali di primavera sono un ostacolo al confronto. La sinistra politica deve fare i conti con quella sindacale e giudiziaria; e con quella parte dell’opinione pubblica convinta che sia stata approvata l’ennesima legge ad personam destinata ad affossare la giustizia. «Sarà il trionfo della tecnica di Erode», profetizza il procuratore di Torino, Caselli. La sua tesi è che si «farà strage di una massa di processi innocenti», come effetto collaterale dell’estinzione di quelli che riguardano il premier o i «colletti bianchi».

È l’accusa che ripetono Epifani, Pd, e un’Idv che con De Magistris paragona il «processo breve» a un’«amnistia veloce». Ma nella foga delle critiche, l’Anm ieri è stata costretta a una correzione di rotta. Dopo che il suo segretario aveva parlato di «resa dello Stato alla criminalità», il presidente, Luca Palamara, ha precisato che le valutazioni dell’Anm sono soltanto «di carattere tecnico». La puntualizzazione è stata apprezzata dal governo, che aveva chiesto maggiore serenità e distacco. Ma il braccio di ferro è in pieno svolgimento. Le parole berlusconiane contro le procure «plotoni d’esecuzione» hanno avuto l’effetto di ingrossare il fascicolo del Csm che raccoglie gli attacchi del premier. Come dice Bossi, il percorso è tracciato. Ma potrebbe riservare altre sorprese. E sullo sfondo rimangono i fantasmi dell’incostituzionalità e di un referendum.

Massimo Franco

22 gennaio 2010
da corriere.it
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« Risposta #82 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:33:05 am »

LA NOTA

Nel centrodestra ora si profila una resa dei conti

Il pasticcio delle liste accentua le distanze tra Fini, premier e Lega


Non si sa ancora se il Pdl avrà una lista alle regionali nella provincia di Roma: l’ufficio elettorale dirà oggi se verrà riammessa dopo che sabato scorso era stata presentata fuori tempo massimo. È chiaro, invece, che il centrodestra si prepara a reagire ad una seconda bocciatura parlando di «grave vulnus politico»: tesi sostenuta dai tre coordinatori nazionali Bondi, Verdini e La Russa. Definisce i radicali «agenti provocatori».

E adombra un complotto politico-giudiziario per impedire la presentazione delle liste del Pdl in Lazio e Lombardia. Eppure proprio La Russa aveva parlato di «grave leggerezza». E ieri Umberto Bossi ha ironizzato sui «dilettanti allo sbaraglio». Un innalzamento dei toni così brusco, al quale tra l’altro ha fatto da sponda il presidente del Senato, Renato Schifani, suggerisce qualche domanda. Più si procede verso il voto del 28 e 29 marzo, più cresce la sensazione che quegli episodi non siano la sola causa dell’inquietudine nella coalizione berlusconiana.

C’è una fragilità vistosa del corpo del partito nato dalla fusione tra FI e An; e viene accentuata dalla marcia in ordine sparso dei leader della maggioranza. Silvio Berlusconi fa del suo meglio per accreditare un Pdl unito. Annuncia una campagna nella quale «la scelta di campo» dovrebbe surrogare candidature non sempre felici. Ma intorno non ha né alleati, né generali docili. Ad appena quattro settimane dal voto, proprio ieri Gianfranco Fini ha dichiarato in pubblico che «così com’è adesso il Pdl non mi piace». E il ministro dell’Interno Roberto Maroni, numero due della Lega, ha esaltato l’esperienza del Carroccio rispetto al pressappochismo dimostrato dal Pdl.

La bocciatura nel Lazio, che per il momento coinvolge anche la lista della candidata Renata Polverini, catalizza ironie e contrasti. Quando Maroni taglia la strada ad una «leggina» per rimediare agli errori del Pdl laziale, parla come responsabile del Viminale; ma è guardato da alcuni berlusconiani come il leghista che si rifiuta di circoscrivere il pasticcio. Sono indizi di un nervosismo crescente; e del timore che il riequilibrio dei governi regionali nei confronti del centrosinistra non sia più così scontato. Ieri la Polverini, data finora per sicura vincente, ha dovuto ribadire in un comizio: «Io rimango candidata, smentisco chi dice che non lo sono più». Inquieta la prospettiva di uno smottamento dei consensi sull’onda della delusione.

Antonio Di Pietro alimenta questa guerra dei nervi, evocando il fantasma che Berlusconi teme di più: la vittoria «del partito di maggioranza relativa dell’astensionismo». Berlusconi teme che il Pdl, considerato dal premier «un punto di forza» a dispetto di Fini, stia diventando di nuovo un bersaglio intermedio per destabilizzare il governo. È un gioco autolesionista del quale l’incidente delle liste finisce per diventare il simbolo involontario: la prova che le cose non funzionano. Ma c’è qualcosa di peggio che fa capolino in queste ore convulse. È come se alcuni settori del centrodestra ormai fossero proiettati oltre le regionali, oltre la vittoria e la sconfitta: tutti concentrati sulla resa dei conti che sembrano sicuri ne seguirà.

Massimo Franco

03 marzo 2010
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« Risposta #83 inserito:: Marzo 07, 2010, 11:40:06 pm »

IL DECRETO PER LE ELEZIONI REGIONALI

Quella soluzione «all’italiana»


Il governo ha optato per una soluzione molto «all’italiana»: un decreto che dice di interpretare la legge elettorale, senza cambiarla.
Ma ottiene comunque l’effetto desiderato: far rientrare le liste del Pdl per le regionali in Lazio e Lombardia, bocciate dalla magistratura. È l’unico modo col quale il centrodestra può sperare di ottenere non il «placet» impossibile dell’opposizione, ma la non ostilità del Quirinale; e riemergere comunque ammaccato, senza però perdere due regioni-chiave. È il risultato di una mediazione affannosa e difficile, per la quale Silvio Berlusconi e la sua maggioranza sanno di dover ringraziare Giorgio Napolitano.

Senza le obiezioni di un presidente della Repubblica comprensivo e insieme irremovibile su alcuni punti, a pastrocchio si sarebbe aggiunto pastrocchio; e la scelta del decreto sarebbe apparsa ancora più grave e inaccettabile di quanto già non sia. La soluzione che sembra a portata di mano si lascia dietro comunque una scia di polemiche, proteste e quasi certi ricorsi, perché è «tagliata» per riammettere la lista di Roberto Formigoni e quella del Pdl in provincia di Roma. Il fatto che non modifichi la legge, limitandosi a «leggerla» a favore della maggioranza, rende il testo meno indigesto al Quirinale solo sotto il profilo costituzionale. Insomma, il provvedimento cerca di somigliare a quel «male minore» che rappresenta l’unico sbocco plausibile di una vicenda figlia del pressappochismo dei dirigenti del Pdl.
D’altronde, le alternative promettono di risultare più traumatiche. Il rischio è quello di una forzatura da parte di palazzo Chigi, che tenderebbe i rapporti con l’opposizione e con Napolitano, costringendo il capo dello Stato a non firmare il decreto: una prospettiva tale da aprire un conflitto istituzionale in piena campagna elettorale. Oppure si arriverebbe all’esclusione definitiva del centrodestra in due regioni- chiave: un esito formalmente ineccepibile, ma che dal punto di vista politico falserebbe il voto del 28 e 29 marzo.

Si tratta di un salvataggio in extremis per il quale la coalizione berlusconiana paga un prezzo politico e d’immagine alto. E questo nonostante sia un contributo ad evitare una delegittimazione delle elezioni; e lacerazioni peggiori in Parlamento e nel Paese.

Il Pd e l’Udc denunciano, e non gli si può dare torto, «il precedente gravissimo che si crea». Non è scontato che sia un annuncio di barricate, pure evocate dall’Idv di Antonio Di Pietro e dai radicali. L’impressione è che serva a ribadire che del pasticcio e della sua soluzione rabberciata è responsabile solo lo schieramento berlusconiano. Ad altri tocca il compito ingrato di limitare i danni, per quanto è possibile.

Massimo Franco

06 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #84 inserito:: Marzo 09, 2010, 02:27:56 pm »

Pasticcio (parte seconda)


La sensazione sconfortante è che il decreto sulle liste elettorali alla fine rischi di non servire a nulla. Finora non ha salvato quella del Pdl in provincia di Roma; e le altre due, di Roberto Formigoni in Lombardia e di Renata Polverini nel Lazio, sono state riammesse comunque dalla magistratura dopo i ricorsi. Insomma, la forzatura voluta dal centrodestra si è scontrata con il primato della legge regionale. La decisione presa ieri dal Tribunale amministrativo del Lazio complica la strategia di palazzo Chigi. Non è da escludersi per oggi un colpo di scena all’Ufficio elettorale di Roma, in attesa del Consiglio di Stato. Ma rimane la somma di pasticci giuridici e politici che la maggioranza è riuscita ad accumulare nella sua fretta di rimediare agli errori. L'obiettivo di far votare tutti era e rimane giusto. Il modo in cui Silvio Berlusconi e la sua coalizione hanno cercato di perseguirlo si è rivelato subito così segnato dall'affanno da diventare scomposto. Il provvedimento è stato chiesto e ottenuto dal Quirinale dopo un duro braccio di ferro, scartando soluzioni condivise arrivate anche su queste colonne. Il risultato accresce confusione e tensioni; e rispedisce intatta la questione ai mittenti. Le conseguenze più gravi, però, probabilmente sono altre. Intanto, il centrodestra non è riuscito ancora a garantire che ognuno possa esercitare il proprio diritto di voto: sebbene si tratti in primo luogo di sostenitori del Pdl. In più, questa vicenda a metà strada fra disprezzo delle regole e farsa ha l'effetto di dilatare l'immagine di una nomenklatura a dir poco pasticciona: incapace di dare soluzioni accettabili anche a problemi che dovrebbero essere i «fondamentali » delle sue competenze. Ormai non si tratta più soltanto delle liste respinte per irregolarità e ritardi. C'è anche il decreto legge fortemente voluto da Berlusconi e controfirmato dopo molte resistenze e limature dal presidente della Repubblica. Quando esponenti del governo rivelano con un candore sconcertante che non si aspettavano la decisione presa dal Tar, aggiungono perplessità a perplessità sulla strategia adottata dalla maggioranza. E questo mentre cominciano a circolare voci su un possibile rinvio delle elezioni regionali nel Lazio: indizi di una situazione che si cerca di riportare sotto controllo. Ma a dover preoccupare non è tanto l'eccesso di potere sfoggiato dal governo: il «golpe» inesistente evocato da un'opposizione rapida solo a imboccare la scorciatoia della «piazza» rivela in realtà un'imprevista fragilità del centrodestra. A colpire, semmai, è il vuoto che accomuna gli schieramenti; e la difficoltà a ritrovare un baricentro che rassicuri l'opinione pubblica. Il disorientamento nasce dalla sproporzione fra il problema tutto sommato minore delle liste e l'enormità del caos che ne è scaturito. Nessun nemico della Seconda Repubblica sarebbe riuscito ad inventare un piano per delegittimarla più perfetto di questa manifestazione involontaria di dilettantismo.

Massimo Franco

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« Risposta #85 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:24:50 pm »

LA NOTA

E adesso il Cavaliere vuole a tutti costi la «sua» manifestazione

Regge la tregua Pd-Idv sul Quirinale, ma in piazza il leader è Di Pietro


Almeno per un giorno il centrosinistra è riuscito a non dividersi su Giorgio Napolitano. Per l’opposizione è una buona notizia.
Forse perfino migliore della panoramica di piazza del Popolo, a Roma, gremita e sovrastata dalla doppia leadership di Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro; ma circondata da una folla che ricordava troppo il reducismo dell’Unione di Romano Prodi. Gli organizzatori parlano di duecentomila persone, la questura di venticinquemila. In qualche misura, sembra già scattato il confronto con la manifestazione voluta da Silvio Berlusconi per sabato prossimo, sempre nella capitale, a piazza San Giovanni: anche se alleati come la Lega ancora ieri speravano in un annullamento.

Umberto Bossi contava su una risposta positiva del Consiglio di Stato alla richiesta del Pdl di riammettere la lista esclusa nella provincia di Roma. Se fosse accaduto, il capo del Carroccio avrebbe suggerito al presidente del Consiglio di ripensarci. Il Consiglio di Stato, invece, si è pronunciato per il «no». Ha ritenuto di non potere neanche procedere all’appello presentato dal centrodestra. È la conferma di una bocciatura provocata dagli errori dei presentatori, più che da una congiura.

Ma questo non può far sottovalutare le conseguenze negative che l’assenza avrà sul voto regionale a Roma. Il Pdl accoglie il verdetto come ulteriore conferma di un’ingiustizia. «Il secco no pronunciato dal Consiglio di Stato significa soltanto una cosa: che in Italia le regole variano da regione a regione», fa sapere il partito di Berlusconi. L’allusione è al «nulla osta» ricevuto nella stessa giornata dalla lista di Roberto Formigoni. Ma questa disparità smentisce la tesi di una manovra dei magistrati.

Eppure, nonostante le critiche dell’Udc e le ironie del resto dell’opposizione, sarà la protesta contro i giudici a dettare le parole d’ordine di sabato prossimo a piazza San Giovanni. D’altronde, il premier deve additare una congiura contro il suo movimento. Se il calcolo è quello di scuotere gli indifferenti, il complotto politico e giudiziario dovrebbe mobilitare; e la vicenda oscura dell’inchiesta su Berlusconi a Trani può dargli una mano. Per questo il presidente del Consiglio sottolinea insieme quelle che ritiene le sbavature della giustizia, e l’antiberlusconismo che domina il centrosinistra.

È «grottesco che si manifesti per la perdita di libertà quando è a noi che si cerca di togliere libertà di voto», protesta il capo del governo. Ma, tanto più nel momento in cui Pd e Idv si sono accordati per non attaccare il Quirinale, Berlusconi è il bersaglio naturale e unificante. Alternativa e unità delle sinistre hanno come premessa la guerra totale al Cavaliere. Ed il radicalismo dipietrista diventa protagonista, sebbene Massimo D’Alema cerchi di sminuirlo, ricordando con malizia che il Pd veleggia verso il 30 per cento, l’Idv sarebbe intorno al 6.

Massimo Franco

14 marzo 2010
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« Risposta #86 inserito:: Marzo 21, 2010, 04:26:33 pm »

LA NOTA

Così nasce la diarchia verde-azzurra

Così tratterà da posizioni di forza con Fini e l’opposizione

Sul palco di piazza San Giovanni, a Roma, ieri è spuntata una coalizione che almeno fino alle regionali prefigura una diarchia fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Gianfranco Fini non c’è più. La sua assenza per «motivi istituzionali» è diventata qualcosa di diverso.

Il Pdl la vive quasi alla stregua di una diserzione. Il premier non ha mai citato il presidente della Camera: come se ormai toccasse a Fini chiarire se si sente ancora parte di quella piazza, e cofondatore del partito. Il successo numerico ed il segnale di vitalità offerti dalla manifestazione sono indiscutibili; ma per gli effetti politici occorrerà aspettare le elezioni del 28 e 29 marzo. Gli organizzatori parlano di un milione di persone: 150 mila per la Questura. Se però l’obiettivo era quello di correggere l’immagine sfuocata della maggioranza negli ultimi mesi, l'operazione sembrerebbe riuscita. Rimane un margine di ambiguità inevitabile. Nella decisione di dare una prova di forza è sempre insito il pericolo di rivelare una debolezza inconsapevole. Né basta la volontà di «reagire a due mesi di attacchi della sinistra e dei suoi giudici», come ha detto Silvio Berlusconi nel suo discorso, per compensare il paradosso di un governo in piazza: una scelta che l’opposizione definisce contraddittoria, additando un populismo del premier. Ma si tratta di un populismo studiato.

Il capo del governo ha presentato Bossi come «uomo del popolo». E Pdl e Carroccio sono presentati come simboli di un potere che vuole dimostrare di essere ancora intatto. Si tratta di un’alleanza fra uguali, perché Bossi ha rivendicato la propria indipendenza da Berlusconi: al punto da ricordare alla piazza di essere «l’unico a non avere mai chiesto una lira» al Cavaliere. Non solo. Mentre Berlusconi attaccava «la sinistra ammanettata a Di Pietro», da Vedano Olona, vicino Varese, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha confermato la strategia della Lega: essere «la forza di riferimento di tutte le regioni del nord». La divisione dei compiti è abbozzata, dunque.

Se i risultati di domenica e lunedì prossimi daranno davvero un’ulteriore spinta ai «lumbard», il premier dovrà tenere ancora più conto dell’«asse del Nord»; ed in parallelo cercare di non perdere il consenso nel resto del Paese. Insomma, la sensazione è che i rapporti nel centrodestra si stiano ridisegnando perfino in anticipo rispetto alle elezioni. Si tratta di un processo in apparenza inesorabile. Eppure, saranno le regioni vinte o perse fra una settimana ed il computo nazionale dei voti a confermare o modificare non tanto l’istantanea della folla in piazza San Giovanni, ma l’uso che Berlusconi ne potrà fare; e probabilmente la stessa configurazione del centrodestra emersa ieri pomeriggio. Solo un responso delle urne pari alle ambizioni espresse ieri dal centrodestra dimostrerà l’efficacia dell’iniezione di energia tentata dal premier.

E gli permetterà di trattare da posizioni di forza con Fini, con l’opposizione, e con quanti pensano o si illudono che la sua stella sia declinante.

Altrimenti, le ambizioni di riforma presidenziale e della giustizia possono diventare frustrazioni; e complicare il «mandato pieno» chiesto per i prossimi tre anni. La «piazza dei moderati» finirebbe per apparire il palcoscenico di una prova muscolare possente ma politicamente sterile. L’ultimo «no» del Consiglio di Stato alla lista del Pdl a Roma, e la conferma che anche nel Lazio si voterà il 28, in fondo è un richiamo agli errori commessi.

Massimo Franco

21 marzo 2010
da corriere.it
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« Risposta #87 inserito:: Marzo 23, 2010, 06:02:10 pm »

LA NOTA

Una mossa obbligata rivolta ai cattolici tentati dai radicali

Ma nel discorso del presidente Cei Bagnasco le critiche sono a 360 gradi


È difficile leggere le parole del cardinale Angelo Bagnasco ignorando la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio. L’appello del capo dei vescovi italiani alla cittadinanza perché «inquadri con molta attenzione il proprio voto» appare un po’ irrituale: se non altro perché avviene a meno di una settimana dalle elezioni regionali di domenica e lunedì prossimi. E rimanda in modo trasparente alla possibilità che l’esponente radicale scelta dal Pd prevalga su Renata Polverini. Riproporre difesa della vita e no all’aborto come «temi non eludibili», è un segnale di allarme. E forse va letto anche come un altolà a qualche cattolico disorientato. È una conferma implicita dell’eventualità di una vittoria della Bonino. La Cei sembra ritenerla plausibile e la teme: al punto da adombrare un’indicazione di voto che può creare polemiche ed avere contraccolpi imprevedibili.

È possibile che aiuti la candidata del centrodestra; ma non si può escludere, per paradosso, l’effetto opposto. Forse Bagnasco l’ha messo nel conto. E vuole ribadire fin d’ora che la Conferenza episcopale vedrebbe la Bonino al vertice del Lazio come un governatore ostile ai principi ed ai valori cattolici. D’altronde, lo stesso Silvio Berlusconi sabato scorso a piazza San Giovanni aveva accennato all’argomento. Adesso, alla sua inquietudine si somma quella dei vescovi: anche perché, per motivi diversi, sia il Pdl che il Vaticano temono un effetto-domino nello spazio di tre anni. Una vittoria della Bonino potrebbe anticipare la perdita del Campidoglio. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani lo dice. A suo avviso il risultato del Lazio sarebbe «il fatto politico più rilevante. Qui c’è il primo piatto che aspetta poi il secondo. Non si può lasciare Roma in mano al sindaco Giorgio Alemanno».

Ma se per il Pdl il problema è politico, per Bagnasco riguarda l’approccio culturale delle giunte locali. Quando il presidente della Cei chiede alle Regioni di tutelare «le strutture sanitarie di ispirazione cristiana», tocca uno dei nervi più delicati. Il timore è che un governatore radicale ingaggi un braccio di ferro con gli ospedali cattolici. La Bonino liquida il discorso come una non-novità. Bersani mostra più attenzione, perché contiene critiche a tutto campo, richiamando la politica alla moralità e non delegittimando le inchieste della magistratura. In questo senso, esiste un problema anche per il Pdl, che tende a presentarsi come garante dei valori cristiani. Ma la presa di posizione è un’incognita soprattutto per la Cei. Il rischio è che l’elettorato si pronunci in modo tale da trasformare una sconfitta del centrodestra in Lazio in qualcosa di diverso: magari dia la sensazione che i vescovi abbiano sempre meno voce in capitolo sugli orientamenti dell’opinione pubblica. Probabilmente non è proprio così; né si dovrebbe pensare il contrario qualora la Bonino fosse sconfitta. Di certo, da ieri il Lazio assume, suo malgrado, una rilevanza che non gli aveva dato neppure il pasticcio delle liste del Pdl bocciate dalla magistratura.

Massimo Franco

23 marzo 2010
da corriere.it
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« Risposta #88 inserito:: Marzo 25, 2010, 11:06:06 am »

LA NOTA

Una Lega spavalda promette stabilità e ignora il non-voto

L’attenzione è ad una percentuale ormai quasi dimenticata: quel 71,4 per cento degli elettori che votarono alle regionali del 2005. E la scommessa è di non scendere troppo sotto il 70 per cento; insomma, di smentire un’Italia avviata a replicare nelle urne di domenica e lunedì quella «sindrome francese» che ha appena portato la Francia a minimi storici di partecipazione. Il martellamento del centrodestra, e quello meno vistoso del Pd, cerca di invertire se non una tendenza inesorabile, una grande paura. L’ipotesi di un astensionismo patologico significherebbe non solo decidere il risultato delle regioni in bilico: delegittimerebbe la classe politica, associando il crollo a scandali e irregolarità. Silvio Berlusconi sta alzando i toni in modo esagerato per trasmettere al proprio elettorato la consapevolezza di un voto politico gravido di conseguenze. La cosa singolare è che negli ultimi giorni il premier è affiancato in questa «strategia dell’allarme» da Umberto Bossi, mentre Gianfranco Fini si tiene a distanza. Anche il capo leghista adesso ribadisce che il 28 e 29 marzo si esprimerà un giudizio destinato a pesare sulle sorti del governo. Dà ragione a Berlusconi sul «no» al faccia a faccia col segretario del Pd, Pierluigi Bersani; lo definisce l’uomo che ha salvato il Paese «dai matrimoni fra omosessuali»; lo loda per la «sensibilità popolare ». Insomma, santifica l’asse Pdl-Lega.

Ma con un’ulteriore novità: la maggioranza sembra sempre più convinta, o forse vuole credere che sia in atto un’inversione di tendenza. Le regionali sono diventate elezioni di metà legislatura, e l’astensionismo sarebbe un fantasma meno spaventoso di un paio di settimane fa. È ancora Bossi a spargere parole alla camomilla, sostenendo che il fenomeno del non voto «è destinato a pesare meno rispetto a quanto sembrava» all’inizio. E di «francese» non ci sarebbe neppure la vittoria della sinistra che ha umiliato il presidente di centrodestra Nicolas Sarkozy. «Il vento di sinistra non arriverà, si fermerà sul Moncenisio, contro le Alpi», proclama Bossi. Non si azzarda ad andare oltre, e a dire chi sarà colpito maggiormente dall’astensione, se la destra o la sinistra. Gli basta sognare ad occhi aperti un nord leghizzato con la conquista del Piemonte, dando per scontata la vittoria in Lombardia e Veneto. Fiutando percentuali sopra il 10 per cento nazionale per il Carroccio, è più facile sottolineare l’abbraccio e l’intesa con Berlusconi. Oltre tutto, la sensazione è che ai vertici della coalizione governativa stia circolando l’idea di una qualche ripresa della partecipazione, confortata cautamente dai sondaggi. Si dà per scontato un calo dei votanti, collocandolo però fra un 4 e un 5 per cento.

Se le cifre fossero confermate domenica e lunedì, si potrebbe sostenere che è una disaffezione quasi fisiologica, dopo i pasticci delle liste del Pdl bocciate, ripescate e, nel Lazio, escluse definitivamente dalla magistratura; le inchieste giudiziarie sul premier e sulla giunta di centrosinistra in Puglia; il black out televisivo nel servizio pubblico; e la violenza verbale che ha accompagnato tutta la campagna elettorale. Resta da capire se il governo potrebbe tirare il fiato. Il modo in cui la Lega si muove lascia intuire che conta su una continuità blindata dalla propria ascesa. Sostenere, come fa Bossi, che il sorpasso sul Pdl nel nord è naturale; di più, che a Berlusconi non dispiace perché i lumbard sono un fattore di stabilità, significa prefigurare equilibri di governomodificati a favore del «partito padano»; ed un’agenda del governo sempre più concordata fra Pdl e Lega, con un Fini relegato e quasi imprigionato nel suo ruolo istituzionale di presidente della Camera. Dopo il 29 marzo «non cambia niente», dice Bossi, «i patti li abbiamo già fatti anni fa». È il linguaggio di un vincitore «in pectore», pronto a puntellare il centrodestra con un travaso di voti a proprio favore. E in fondo, convinto che, comunque vada agli alleati, la Lega potrà giocare un ruolo strategico nel cuore del nord.

Massimo Franco

25 marzo 2010
da corriere.it
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« Risposta #89 inserito:: Marzo 30, 2010, 08:21:00 pm »

Tre anni senza alibi


La diarchia fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi esce consacrata dalle urne regionali. Il timore dell’astensionismo si è rivelato almeno in parte fondato. Il 7 per cento in meno di elettori rispetto al 2005 rappresenta un avvertimento da non sottovalutare. Ma l’«imparzialità » con la quale il fenomeno ha colpito maggioranza e opposizione dice che si tratta di una disillusione verso entrambi gli schieramenti.

Da questo punto di vista, per il governo i risultati sono un successo; e per la Lega addirittura un trionfo. Per il premier il pericolo scampato non nasce soltanto dal fatto che il centrodestra è passato a guidare sei regioni su tredici, da due che ne aveva: si tratta di realtà che «pesano» in termini di popolazione. La vittoria in Campania, e soprattutto in Lazio e Piemonte dove l’incertezza era totale, ribalta gli equilibri. A rendere più netto il responso sono una consultazione insidiosa per la maggioranza; l’esclusione della lista del Pdl a Roma; e la crisi economica del Paese, simile al resto dell’Ue.

Il governo riemerge dunque indenne da una fase confusa anche per sua responsabilità. Forse è esagerato parlare del «mandato pieno» chiesto da Berlusconi; ma certamente la maggioranza ha avuto una nuova legittimazione, e non la sconfessione che gli avversari speravano di veder spuntare fra scandali e inchieste giudiziarie. Il trionfo del Carroccio e la sua penetrazione nelle regioni «rosse» è compensato da quello del Pdl a sud. Per la coalizione, insomma, non si scorgono problemi immediati. L’asse fra Bossi e Berlusconi stabilizza l’alleanza; e semmai limita gli spazi di manovra degli oppositori interni: a cominciare da Gianfranco Fini.

Il sorpasso netto dei lumbard nel Veneto anticipa una trattativa nel governo. E i commenti di Bossi sono scevri da trionfalismi verso gli alleati, puntando solo sul cannibalismo leghista ai danni della sinistra. L’approccio conferma la linea astuta del Carroccio, ma non reprime il malumore del Pdl. Inoltre, i tre anni che il governo ha davanti non offrono più alibi da accampare per l’incapacità di fare le riforme o per le decisioni non prese: il centrodestra deve governare davvero. Eppure, per paradosso è l’opposizione a gestire una fase difficile, nonostante la prevalenza numerica.

Le regioni appenniniche somigliano a una ridotta delle giunte rosse assediate a nord dal leghismo e al sud dal berlusconismo. Il Pd non ha ancora trovato un equilibrio fra Udc e Idv. E sembra costretto a guardare a una sinistra estrema che clona spezzoni radicali, come le liste del comico Grillo. È l’opposizione che Berlusconi sogna e che contribuisce a plasmare, con la collaborazione involontaria degli avversari e delle loro pulsioni di retroguardia.

Massimo Franco

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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