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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 193842 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 30, 2010, 08:25:06 pm »

DOPO UNA CAMPAGNA DI ERRORI E VELENI

Il valore di un voto


Una campagna elettorale segnata dalla confus i o n e e d a un’inutile violenza verbale si chiude con torbide manovre eversive contro il premier, la Lega e il governatore di centrosinistra della Puglia. Si tratta dell’appendice coerente di uno spettacolo mediocre: uno scontro che avrà appassionato i militanti, lasciando però interdetti molte elettrici ed elettori.

Gli appelli unanimi a non disertare le urne appaiono dunque giustificati. Nascono dal timore di avere insinuato più di un dubbio in un Paese affezionato alle urne, nonostante tutto. Ad importare ulteriore incertezza è l’alto tasso di astensioni alle Regionali francesi di metà marzo. Ma l’Italia elettorale ha dimostrato ripetutamente di essere più concreta e smaliziata di quanto credesse la classe politica; ed assai poco suggestionabile sia da quello che avviene oltre i propri confini, sia da una conflittualità artificiosa. Per questo, qualunque esito andrà analizzato con il rispetto dovuto ad un responso popolare più prezioso, stavolta, perché è stato involontariamente scoraggiato.

La tentazione di restare a casa è stata alimentata dal pasticcio delle liste del Pdl escluse dalla magistratura; dalle inchieste giudiziarie deflagrate mentre erano in corso i comizi; e dalla sospensione delle trasmissioni politiche della Rai. La schiuma tossica delle polemiche, tuttavia, non può velare l’importanza del voto di oggi e domani in tredici regioni. A prima vista è soprattutto un maxi-sondaggio sul governo di Silvio Berlusconi a due anni da quel 2008 che gli ha dato una maggioranza indiscussa per governare. Registrerà quanto sta pesando sui suoi consensi la crisi economica. Misurerà i rapporti di forza nel centrodestra, dove la Lega sente il profumo di una vittoria che la renderebbe il baricentro degli equilibri del Nord: non solo politici ma economici.

E, in base al risultato del Pd e dell’Idv, ma anche di un’Udc a caccia di consensi a spese del bipolarismo, dirà con quale opposizione il governo avrà a che fare. Insomma, da lunedì si comincerà a capire meglio come andranno i prossimi tre anni di legislatura. Ma i riflessi nazionali non possono mettere in ombra le conseguenze del voto in ogni singola regione. Le spese degli enti locali e le competenze in materia di sanità, per citare un esempio eclatante, prefigurano una gestione che potrà essere fonte di scelte difficili, a Nord come al Centro e al Sud; e, purtroppo, come si è già visto, con scandali dai riflessi destabilizzanti. Ed il microcosmo del Lazio rischia di diventare l’imbuto degli errori, del caos e del nervosismo accumulati nell’ultimo mese dai due schieramenti.

Il controverso monito della Cei sull’aborto rimanda alla candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione per conto del centrosinistra: una prospettiva che, a torto o a ragione, il Vaticano non ha esitato a definire un pericolo. Ma si teme anche una coda avvelenata della rissa sulla lista del Pdl di Roma, esclusa perché è stata presentata fuori tempo massimo. Preoccupa la voce di una possibile «guerra delle schede» fra scrutatori al momento di contare i voti. Sarebbe l’ultimo insulto ad un elettorato che, dopo tanto chiasso, ha il diritto di andare ai seggi senza dover subire spettacoli gladiatori a porte chiuse, estranei alla democrazia.

Massimo Franco
28 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:58:54 pm »

DOPO LE REGIONALI

La strategia della Lega per i cattolici


Era prevedibile che uno degli effetti collaterali della vittoria leghista alle regionali fosse l’accentuazione della sua strategia cattolico-padana. I veti sulla pillola abortiva lanciati ieri da Roberto Cota e Luca Zaia, neogovernatori di Piemonte e Veneto, sorprendono solo in parte; e altrettanto prevedibile era la «benedizione» di monsignor Rino Fisichella. Si tratta di un asse impostato e rinsaldato da mesi, più o meno sotto traccia. Umberto Bossi e il suo partito l’hanno coltivato cancellando i ricordi di un paganesimo leghista che associava i papi e i vescovi a «Roma ladrona» e preferiva i riti celtici a quelli cristiani.

E la Chiesa cattolica da tempo osserva compiaciuta questa conversione, perché è a caccia di sponde politiche che sostengano la sua agenda. Basta pensare ai colloqui che il ministro e capo leghista aveva avuto nell’autunno scorso prima col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, e poi col segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone: mosse che il quotidiano la Padania aveva celebrato come l'ufficializzazione di un legame identitario. Allora, si indovinò la voglia di Bossi di entrare in competizione con Silvio Berlusconi su un terreno che era stato sempre monopolio del presidente del Consiglio; e di riempire lo spazio lasciato libero da Gianfranco Fini, un interlocutore dal quale la Santa Sede si è sentita trascurata, se non tradita. Ma l'iniziativa controversa di Cota e Zaia sembra aprire la seconda fase della strategia cristiana della Lega: una battaglia «sui valori» giocata di nuovo dentro il centrodestra, con il supplemento di potere dato al Carroccio dal voto regionale; ma rivolta anche ad insidiare le sacche cattoliche residue nell’opposizione.

È come se Bossi applicasse la tecnica del partito pigliatutto anche nei rapporti con il Vaticano. In fondo, Cota non si è lasciato sfuggire l'appoggio dell'Udc di Pier Ferdinando Casini e di Rocco Buttiglione alla candidata piemontese del centrosinistra, Mercedes Bresso: una delle bestie nere dei vescovi proprio sulla pillola Ru486. È stato un passo falso che ha finito per mettere l’Udc sulla difensiva soprattutto per il successo del Carroccio. Quanto ad Emma Bonino, sconfitta nel Lazio, il centrosinistra ha tentato un po’ goffamente di escludere l'esistenza di un caso fra l'esponente radicale e il Vaticano: anche dopo il monito duro e ai confini dell'ingerenza di Bagnasco alla vigilia delle elezioni. La stessa Bonino ha cercato di accreditare questa tesi, tranne poi spiegare di essere stata battuta perché nelle province laziali il peso della Chiesa cattolica è molto forte: una spiegazione che ha un po’ il sapore dell'alibi. C'è dunque un secondo vuoto che la Lega si ripropone di coprire nei rapporti con il mondo cattolico, ed è quello lasciato da alcune scelte contraddittorie del Pd. L'operazione, dunque, è a tutto campo. Bossi sfrutta le difficoltà attuali delle gerarchie ecclesiastiche.

E cerca di piegare le posizioni della Cei alle priorità leghiste in materia di lotta alla diffusione dell'islamismo; all’immigrazione clandestina; e di competizione sia col Pdl che con la sinistra. Per raggiungere lo scopo non esita a bacchettare i cardinali che ritiene «fuori linea», come avvenne nel dicembre scorso contro l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, considerato dai leghisti troppo «filo-islamico». L'offensiva di Cota e Zaia riflette un leghismo popolare, cristiano e padano che offre i propri «crociati» alla Chiesa cattolica; ma in cambio pretende un collateralismo senza cedimenti sui temi che interessano al partito. Al Carroccio il Vaticano serve per accentuare il suo ruolo di perno del centrodestra e, in prospettiva, del sistema. E ai vescovi, in questa fase convulsa, l'appoggio astuto di Bossi è utile forse perfino di più per arginare la sensazione di una solitudine inedita.

Ma il «federalismo della pillola abortiva» è una di quelle iniziative destinate a dimostrare quanto sia complicato e discutibile bloccare una legge dello Stato; e come l’alleanza Lega-Vaticano abbia confini geografici e politici che finiscono per esaltarne non la forza ma i limiti e l’ambiguità.

Massimo Franco

02 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #92 inserito:: Aprile 11, 2010, 08:55:47 am »

L'ANALISI

La cabina c’è, la regia no


Il ricordo di quindici anni di frustrazioni istituzionali non sta portando consiglio; né l’«autostrada» di un triennio di legislatura sembra una garanzia sufficiente che le riforme si faranno. I primi passi di una maggioranza rilegittimata dal voto regionale di fine marzo tendono ad essere confusi e non sincronizzati. Anzi, si sarebbe tentati di dire che all’ombra dei disegni di cambiamento rischiano di riproporsi veti reciproci e competizioni fra alleati; e, come risultato non voluto, un nulla di fatto. L’invito pressante di Giorgio Napolitano a far tesoro dei fallimenti del passato sul presidenzialismo arriva in una giornata segnata dalla sensazione di un approccio poco meditato; e dalla conferma di una divergenza intatta fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini: con il Pd schierato accanto al presidente della Camera.
È il segno che la cosiddetta «cabina di regìa» risulta insieme affollata e caotica; e che ritenere di modificare la Costituzione senza discutere e magari dividersi almeno su alcune regole fondamentali, potrebbe dare corpo a progetti velleitari e ad aspettative ambigue.
La Lega fa capire che i primi risultati forse arriveranno già a fine anno, col Carroccio nel ruolo di «motore». Ma i messaggi contrastanti di ieri suggeriscono prudenza. Cogliendo l’occasione dell’incontro a Parigi col presidente francese Nicolas Sarkozy, Berlusconi ha abbracciato ed italianizzato il sistema francese: l’elezione del capo dello Stato e del Parlamento in un unico turno. Poche ore dopo, però, Fini ha voluto smontare l’impalcatura del premier. Ha usato parole dure sulla «differenza tra politica e propaganda»; e contro un «approccio di parte di questa o quella forza politica».

Nella maggioranza il distinguo è stato accolto come l’ennesimo scarto finiano contro Berlusconi: un atteggiamento ostile che si pensava archiviato col risultato elettorale. Ma le critiche del presidente della Camera si saldano non solo con la diffidenza di un centrosinistra incline al pessimismo. In qualche modo incrociano la determinazione di Umberto Bossi ad approdare ad una nuova Costituzione che legittimi un’Italia federalista, d’intesa con l’opposizione. Coinvolgere almeno il Pd, per la Lega è importante. Lo considera l’antidoto contro l’eventualità che le riforme siano cancellate con un referendum, se fra qualche anno vince un’altra maggioranza: è quanto successe dopo la legislatura dal 2001 al 2006 guidata dal centrodestra. Per questo Berlusconi teme che i suoi progetti siano ostacolati anche dall’interno della coalizione: nonostante la tenuta dell’asse di ferro con Bossi.

Su questo sfondo in movimento, si inseriscono i suggerimenti e gli inviti alla moderazione provenienti da Napolitano. La preoccupazione del Quirinale è che le riforme siano evocate come «una formula magica»: un vessillo sventolato nell’illusione che, da solo, basti a produrre risultati. Se la magìa non riesce, il contraccolpo sarebbe quello di terremotare il sistema, senza approdare a nulla. Per questo il capo dello Stato insiste sulla necessità di dare certezze e stabilità alle istituzioni. Ed inserisce fisco, sicurezza sociale e giustizia fra le riforme da approvare insieme a quelle sulla forma del governo. Senza ostentarlo, il presidente della Repubblica offre insomma la propria «regìa», nel tentativo di accompagnare un progetto scontato solo sulla carta. La affianca a quelle rivendicate dallo stesso Berlusconi e da Bossi, alleati e insieme concorrenti nella costruzione di una possibile «Terza Repubblica».

Si tratta di una sfida che richiede determinazione, volontà di collaborazione, pazienza. E tempo. Il primo e l’ultimo elemento ci sono; gli altri due, almeno per ora, esistono solo nelle intenzioni. Il presidente del Consiglio è quasi certo del rifiuto del centrosinistra a concedergli un’apertura di credito: lo vede diviso e condizionato da Antonio Di Pietro. Dunque, al di là delle offerte formali di tregua con l’opposizione, si prepara ad affrontare il Parlamento forte soprattutto dei voti della propria coalizione. Ma sa che anche nell’alleanza potrebbe spuntare un «partito della sponda» ai suoi avversari. D’altronde, è evidente che chiunque riuscirà ad avvicinare e cucire posizioni oggi conflittuali, oltre che diverse, si candiderà di fatto a perno del sistema. E potrà mettere un’ipoteca pesante sull’epilogo della legislatura e sulla successione al Quirinale, nel 2013.

Massimo Franco

10 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 11, 2010, 09:05:39 am »

LA NOTA

Nella confusione la Lega punta sul Quirinale

Aumenta l’incertezza sull’agenda e sulla fattibilità delle riforme

La Lega insiste a ritagliarsi il ruolo di «motore delle riforme»; e per puntellare le sue ambizioni giura che il presidente della Repubblica è dalla sua parte. È un modo eccessivo e un po’ affannoso di accreditare un asse privilegiato fra Carroccio e Quirinale. Sembra fatto per tenere il punto di fronte agli alleati del centrodestra, che contestano il primato del Carroccio. In realtà, il profilo delle riforme istituzionali rimane incerto e, se possibile, ancora più confuso di qualche giorno fa. Non si capisce chi sarà riconosciuto come regista di questa strategia; né se riuscirà a coinvolgere l’opposizione; e nemmeno quali risultati otterrà in concreto.

C’è soltanto una parola d’ordine, dietro la quale si affollano i vincitori delle regionali del 28 e 29 marzo. Pdl e Lega tendono ad utilizzare la nuova priorità della maggioranza per misurare la forza raggiunta nelle urne. Ma gli obiettivi e gli strumenti appaiono tuttora non coincidenti. Le stesse aperture all’opposizione, fatte sia da Silvio Berlusconi che dai vertici dei lumbard, sembrano dettate dall’esigenza di ridisegnare i rapporti interni. Diventare interlocutori del Pd è uno dei modi per dimostrare la propria centralità. Umberto Bossi afferma: «Con l’opposizione trattiamo noi». Ed il ministro dell’Interno Roberto Maroni avverte che il contributo del partito di Pier Luigi Bersani è «indispensabile».

Una ragione non dissimile spinge il neo-governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, ad accogliere il capo dello Stato in visita a Verona e poi a dichiarare che «il presidente è dalla nostra parte. Mi ha confermato come il federalismo sia l’unica via per uscire dall’impasse della crisi. Per noi significa vedere il sole». In realtà, il Quirinale osserva il fermento nella coalizione governativa con una miscela di interesse e di cautela. Il timore di assistere ad un dibattito inconcludente o, peggio, rissoso, è più diffuso di quanto non appaia in questa prima fase di ostentato entusiasmo. Bisogna conciliare federalismo, presidenzialismo, riforme della giustizia; e convincere l’opinione pubblica.

Non solo. L’idea di arrivare ad una decisione rapida senza passare attraverso un dibattito indolore all’interno e fra i due schieramenti, rischia di rivelarsi illusoria. Nelle poche parole dette ieri in proposito da Napolitano si indovinano la speranza ed insieme una prudenza di fondo. «La fine di questa legislatura coinciderà con la fine del mio mandato al Quirinale», ha ricordato il presidente della Repubblica. «Facciamo che non sia una legislatura sprecata per le riforme. Discutiamo quali sono effettivamente necessarie e realizziamole». È un invito alla concretezza, a non inseguire modelli e formule che storicamente non hanno portato a nulla se non ad una crescente frustrazione.

Gianfranco Fini ha messo in guardia dal rischio della superficialità: soprattutto in materia di presidenzialismo. L’ipotesi peggiore è che affastellando le proposte si arrivi alla constatazione di un sistema irriformabile; e di una classe politica incapace di accordarsi sui valori fondamentali. Per quanto un po’ sterilizzato dalla legge sul «legittimo impedimento», sullo sfondo rimane il conflitto fra politica e magistratura; spuntano prospettive, subito smentite, di nuove tasse. E si intravede un’opposizione più debole dopo il voto regionale; ostaggio delle pregiudiziali «dipietriste » contro Berlusconi; e per questo ancora più esitante a sbilanciarsi: almeno fino a che dalla maggioranza arriverà una proposta in grado di aprire qualche varco.

Massimo Franco

09 aprile 2010
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« Risposta #94 inserito:: Aprile 16, 2010, 03:59:24 pm »

LA NOTA

Ormai il Leader ha scelto Bossi


Il premier ritiene che se il Pdl ha perso qualcosa al Nord, è soprattutto per le tesi di Fini sull’immigrazione

La crisi fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è ancora virtuale. Ma difficilmente potrà essere smaltita, dopo il pranzo di ieri che doveva ritentare una tregua. È una conseguenza delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo, che hanno cementato il rapporto fra il premier e Umberto Bossi.

Era lo scenario che Fini sperava più o meno segretamente di vedere sconfitto dalle urne. L’asse è diventato così vistoso da dare corpo ad una diarchìa nella quale la Lega rivendica il ruolo di vincitore; ed il centrodestra sembra indifferente al pungolo del presidente della Camera. Il suo scarto appare dunque come il tentativo estremo, e probabilmente fuori tempo massimo, di spezzare una dinamica non creata ma certificata dal voto. Il riserbo iniziale ostentato dai due commensali aveva già alimentato molti sospetti; la dichiarazione ufficiale resa nel pomeriggio da Fini li ha rafforzati. Quando ricorda che il Pdl deve avere «piena coscienza di essere un grande partito nazionale», l’ex capo di An polemizza con i «diarchi»: in particolare con i cedimenti che a suo avviso Berlusconi colleziona per placare il protagonismo del «padano» Bossi. Le sue parole lasciano intuire una richiesta di ruolo e di spazio nel Pdl, che un anno di partito unico ha brutalmente ridimensionato. E rilanciano l’idea dell’«altro centrodestra», coltivato in modo sempre più solitario da Fini; e reso evanescente dall’esito delle regionali. Il progetto viene riproposto adesso con un forte carica polemica; e con un’analisi del voto che accredita un Pdl perdente a vantaggio della Lega, e dunque indebolito: un’impostazione agli antipodi con quella di Berlusconi che invece rivendica comunque un netto successo del governo. Il premier ritiene che se il partito ha perso qualcosa nel Nord, è soprattutto per le tesi di Fini in materia di immigrazione. Pensare dunque che il recupero possa partire da una competizione con Bossi su quei temi viene considerato velleitario, se non suicida. Il presidente della Camera dice di «attendere serenamente» le valutazioni berlusconiane: gli ha consegnato una sorta di penultimatum di 48 ore. Ma si tratta di una serenità contraddetta dalla minaccia finiana di dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo. La sola evocazione di un’iniziativa del genere costituisce uno strappo, almeno psicologico. Berlusconi avverte che se Fini abbandona, di fatto, la maggioranza, dovrebbe lasciare anche la presidenza della Camera. Siamo ancora ai «se». Ed i tempi che i capi del Pdl si sono concessi per decidere lascia in teoria qualche margine. Ma se davvero si dovesse arrivare alla rottura, non si possono escludere contraccolpi traumatici: il presidente del Senato Renato Schifani parla di elezioni anticipate. Sarebbe il paradosso di un centrodestra che vince e poi implode, scaricando i suoi conflitti interni sul Paese.

Massimo Franco

16 aprile 2010
da corriere.it
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 23, 2010, 12:03:39 pm »

I costi della guerriglia

E’ finita un’epoca: non solo per il Pdl ma per il centrodestra. L’immagine di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini che si accusano in pubblico, sotto gli occhi dei dirigenti del partito e del Paese, è a suo modo storica. Archivia sedici anni di sodalizio politico, perché quello personale si era guastato da tempo. E getta un’ombra sul futuro della maggioranza, del governo e della stessa legislatura.
Da oggi comincia un rapporto che chiamare coabitazione è eufemistico: siamo alla vigilia di una guerriglia quotidiana, anche in Parlamento, capace di destabilizzare il Paese.

Quella a cui si è assistito ieri a Roma, durante la direzione del Pdl, è stata una rottura esasperata, viscerale fino a sfiorare lo scontro fisico. È la conseguenza di un dialogo impossibile fra due visioni e due personalità ormai agli antipodi, non più complementari. E produce una frattura che Berlusconi vuole certificare, perché rifiuta l’idea di un Pdl lacerato dalle correnti; e che Fini cerca di tamponare, per non farsi spingere fuori dal partito e dalla presidenza della Camera: forse anche per dimostrare che il Cavaliere non è più così onnipotente.

Può darsi che l’ex leader di An ottenga almeno questo risultato: a carissimo prezzo, però. Ieri mattina, le sue parole sono calate su una direzione del Pdl insieme nervosa e ostile: umori che si riflettevano fedelmente nei gesti impazienti del premier. Per il modo polemico col quale sono state allineate, le critiche finiane hanno mostrato non tanto le sue ragioni, ma la distanza ormai siderale da un partito nel quale dopo le Regionali di marzo si sono creati equilibri dai quali è escluso. Il Pdl ha ascoltato e osservato Fini con una diffidenza e un pregiudizio radicati, perché ormai viene percepito dal centrodestra come un apolide.

Il suo scarto sembra soprattutto la reazione a un’alleanza con la Lega che lui subisce, e alla quale reagisce con uno smarcamento plateale ed esagerato: quello che in gergo calcistico si chiama fallo di frustrazione. L’irritazione berlusconiana fa capire che si tratta di un colpo doloroso, anche per le allusioni pesanti sulla giustizia. Quando il premier accusa i finiani di esporre il Pdl al ludibrio pubblico, dà voce a una preoccupazione diffusa. Dopo una vittoria elettorale netta, è difficile spiegare la rissa nello schieramento vincente mentre c’è una crisi economica grave: suona come un comportamento irrazionale e irresponsabile.

Ma la minoranza sembra seguire una logica che ignora l’accusa di puntare al «tanto peggio tanto meglio ». Fini certifica col suo s t r a p p o l a p r o p r i a marginalità nel Pdl, pur di lesionare l’immagine del Cavaliere come amalgama della maggioranza: anche se per paradosso rafforzerà la Lega che vorrebbe arginare. Sono i frutti di un antiberlusconismo di destra che per ora rimane annidato nelle pieghe del Pdl; ma che difficilmente può sopravvivere in un contesto che logora tutti. A questo punto, Fini non ha nulla da perdere; Berlusconi e il Paese, molto di più.

Massimo Franco

23 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #96 inserito:: Aprile 24, 2010, 10:34:25 am »

LA NOTA

Bossi attacca e media temendo che la rissa affossi il federalismo

Il Pdl teme la guerriglia della squadra finiana in Parlamento


La voglia prepotente è di mettere in pratica da subito la «strategia della terra bruciata» intorno a Gianfranco Fini ed al suo piccolo drappello di dissidenti. Ma le scadenze parlamentari suggeriscono di aspettare e vedere quale sarà il comportamento del presidente della Camera. Non c’è, però, nessuna quiete dopo la tempesta della direzione del Pdl di giovedì. I rapporti fra Silvio Berlusconi ed il cofondatore rimangono tesissimi, sebbene si cerchi un modo per non far precipitare la situazione del governo. La durezza con la quale Umberto Bossi ha attaccato lo strappo finiano sulla Padania di ieri conferma che sulla legislatura si può allungare l’ombra delle elezioni anticipate. Formalmente, la Lega ha dichiarato guerra all’ex leader di An: un «gattopardo democristiano », nelle parole di Bossi, ostile al Nord ed al federalismo.

Ci sarebbe «un crollo verticale del governo e probabilmente della fine di un’alleanza». E Berlusconi avrebbe dovuto «sbattere fuori Fini subito», secondo il gran capo leghista. Ma l’attacco non è al presidente del Consiglio, né tende ad accelerare una crisi. Anzi, si ha l’impressione che l’avvertimento del Carroccio sia destinato per il momento a puntellare Berlusconi; a coprire le sue prossime mosse; ed a spingere affinché si vada avanti con le riforme. Solo se si fermano quelle, spiega Bossi, c’è il rischio che la legislatura non duri. Non a caso Bossi aggiunge che se si dovesse andare alle urne «Berlusconi diventerà l’unico baluardo anticomunista. E prevedo che raccoglierà molti consensi».

Si tratta di una preoccupazione espressa ed estremizzata per aiutare la stabilità, almeno nell’immediato. I lumbard vogliono evitare che la rottura provocata da Fini affossi il federalismo, oltre alle altre riforme. Per questo, si tenta di capire se il gruppetto antiberlusconiano di An voglia iniziare una guerriglia parlamentare contro i provvedimenti del governo; oppure se esistano margini per avere garanzie che la maggioranza non sarà affossata o comunque insidiata ad ogni votazione importante. Misure come il legittimo impedimento o, appunto, la «carta delle autonomie» cara alla Lega, sono a rischio. E qualche contraccolpo della guerra interna del Pdl si avverte nella stessa formazione di giunte di centrodestra come il Lazio, crocevia delle tensioni di vertice. Ogni parola della coalizione berlusconiana gronda diffidenza nei confronti di Fini.

Bossi ripete, moderandole, le perplessità di Palazzo Chigi sulla sua permanenza alla presidenza della Camera, dicendo che «è un problema». Ed il capogruppo al Senato, Maurizio Gasparri, avverte che se «qualcuno del Pdl boicottasse l'azione del governo, tradirebbe non solo il partito ma gli elettori». Sono messaggi minacciosi ed insieme segnali di temporeggiamento: perché è difficile cercare la spallata nell’immediato. Le riunioni di minoranza che Fini sta tenendo e programmando prefigurano un piano per costringere Berlusconi ad accettare il fatto compiuto della corrente: una situazione che il premier fatica ad ammettere anche solo in linea di principio. E le apparizioni in tv del presidente della Camera servono a bilanciare l’immagine di isolamento offerta durante la Direzione; a spiegare un gesto di rottura che l’elettorato di centrodestra sembra non avere capito né approvato; ed a rilegittimare il profilo politico di Fini: sebbene a scapito di quello istituzionale, un po’ sgualcito.

Massimo Franco

24 aprile 2010
da corriere.it
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« Risposta #97 inserito:: Maggio 04, 2010, 10:29:38 am »

Chiarire subito

Non si possono ancora dare per scontate le dimissioni del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Ma i tempi per decidere la sua sorte si stanno brutalmente accelerando. A pesare non è solo la saldatura delle opposizioni che con qualche ragione pretendono le sue spiegazioni di fronte al Parlamento. Il ministro appare sempre più in bilico all’interno della propria maggioranza. Il fatto che ieri sera sia tornato precipitosamente dalla Tunisia, dove doveva rimanere in missione per due giorni, segnala l’aggravamento della sua posizione.

Per paradosso, finora il governo di Silvio Berlusconi lo ha appoggiato più o meno tacitamente perché quasi non voleva credere alle accuse nei confronti di Scajola. Se confermate, dimostrerebbero infatti un comportamento non solo illecito ma così imprudente e maldestro da lasciare allibiti. L’unica spiegazione plausibile sarebbe quella di un senso di impunità tale da far dimenticare al ministro, al di là di ogni altra considerazione, qualunque cautela; e da trascinarlo ad acquistare un appartamento con aiuti finanziari al di sotto di ogni sospetto.

Si tratta di una questione che presenta profili politici insidiosi, per il centrodestra. Mette in pericolo non la sua tenuta ma la sua popolarità: bene assai più prezioso in un momento di incertezza economica e di tensioni vistose fra il premier e l’ex alleato Gianfranco Fini. Sembrava che la difesa ad oltranza di Scajola potesse servire a puntellare la tesi del complotto antiberlusconiano. La nettezza e la foga con le quali il ministro continua a respingere le accuse sembravano legittimare una doverosa presunzione di innocenza (confortata anche dal fatto che il ministro finora non è indagato); ed hanno spiegato l’esitazione di Palazzo Chigi, almeno fino a ieri.

Ma nelle ultime ore qualcosa deve avere incrinato la certezza della coalizione di trovarsi di fronte ad un «processo mediatico » senza fondamento. E soprattutto, ha fatto capire che i tempi scelti da Scajola per andare dal magistrato come «persona informata dei fatti» il 14 maggio, e poi in Parlamento, risultano biblici: troppo lunghi rispetto allo stillicidio di notizie che filtrano quotidianamente; e capaci di rivelarsi controproducenti per la credibilità di un governo reduce dalla vittoria alle regionali di fine marzo ma in balìa delle tensioni interne.

C’è da sperare che, oltre alle minacce di querele, il ministro offra una versione convincente e decisiva del suo operato: ai propri alleati, in primo luogo. Sta diventando sempre più chiaro che qualche dubbio corposo ormai si è insinuato nello stesso centrodestra. Il destino politico di Scajola dipende dalla sua residua credibilità nel governo.

C’è solo da augurarsi che un suo eventuale passo indietro, spontaneo o forzato, aiuti la verità: senza violare il garantismo, ma anche senza sgualcirlo, usandolo come alibi per coprire un errore individuale e per non guardare in faccia la realtà.

Massimo Franco

04 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #98 inserito:: Maggio 05, 2010, 04:29:08 pm »

LA NOTA

Dietro le dimissioni altri focolai di tensioni nel Pdl

Le ombre del G8 e la paura di una saldatura tra finiani e opposizione


Le parole di stima di Silvio Berlusconi addolciscono un po’ l’uscita di scena del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Anche se le dimissioni annunciate ieri mattina in una conferenza stampa che non contemplava domande, hanno finito per sottolineare l’imbarazzo. E l’ammissione di Scajola sull’inopportunità per un ministro di abitare in una casa che si sospetta pagata da altri, ha dato all’epilogo della vicenda aspetti un po’ surreali. La sensazione è che il governo voglia voltare pagina. Si rende l’onore delle armi a quelli che il premier definisce «sensibilità istituzionale ed alto senso dello Stato»; e si evoca la «gogna mediatico- giudiziaria».

Berlusconi arriva a dire che in Italia ci sarebbe «troppa libertà di stampa». Dietro si intravede il timore che il caso Scajola non sia una brutta parentesi isolata. Se pure si riuscisse a dimostrare «la totale estraneità ai fatti» del ministro, come sostiene Palazzo Chigi, il futuro è nebuloso. L’incognita è lo scandalo per i lavori del G8 alla Maddalena. Le ramificazioni dei favori elargiti ai beneficiari degli appalti governativi allungano ombre che rappresentano un fattore di incertezza. Il presidente del Consiglio non nasconde di essere preoccupato. E torna a puntare il dito contro la magistratura che si «accanirebbe» contro il suo governo. E teme un tentativo della minoranza del Pdl di cavalcare la «questione morale», convergendo con spezzoni dell’opposizione. I finiani criticano il fatto che i vertici del partito non abbiano accelerato la discussione della legge contro la corruzione. E la frantumazione degli ex di An fra seguaci del presidente della Camera e di Ignazio La Russa, alleato del premier, accentua la confusione.

Per bilanciare la corrente di Fini, il ministro della Difesa ha dato vita a circoli che indirettamente legittimano l’altra iniziativa. E la saldatura in Sicilia fra il governatore Lombardo e il Pdl ostile al capo del governo apre un altro fronte: col «sudismo» come reazione di Fini e dei suoi contro il presunto «nordismo» dell’asse Berlusconi- Tremonti-Bossi. Sono indizi di uno scollamento che la vittoria alle regionali di marzo, paradossalmente, accentua. L’assenza di un’alternativa sembra incoraggiare gli alleati ad una conflittualità perpetua, perché il governo «non può» cadere. Perfino sulla gestione del dopo-terremoto all’Aquila, considerata a lungo un fiore all’occhiello del governo, riaffiora la polemica. L’occasione è il rapporto dell’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa), che riconosce il valore della Protezione civile italiana, affidata al sottosegretario Guido Bertolaso. Berlusconi ringrazia. E respinge le critiche piovute sul governo per la lentezza nella rimozione delle macerie all’Aquila. Era il Comune che pensava di guadagnarci, dice, e ci aveva chiesto di non occuparcene. A tre mesi e mezzo di distanza, il presidente del Consiglio riapre anche il capitolo dell’intervento Usa dopo il terremoto ad Haiti, nelle Antille. Le perplessità che Bertolaso aveva espresso erano «assolutamente fondate », secondo Berlusconi: allora, crearono un mezzo incidente diplomatico con la Casa Bianca.

Massimo Franco

05 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_05/nota_f0485700-5804-11df-b44b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Maggio 14, 2010, 06:09:18 pm »

LA NOTA

Il Cavaliere tenta di gestire i contraccolpi delle indagini

L’approccio sta diventando più guardingo, e aperto a tutti gli scenari: anche i più insidiosi per il governo. Il modo in cui Silvio Berlusconi parla delle inchieste giudiziarie, almeno in privato, tende a non escludere nulla. La parola d’ordine ufficiale è che l’Esecutivo va avanti; e che lo scandalo del G8 non somiglia a Tangentopoli, l’indagine che terremotò la classe politica all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Ma il presidente del Consiglio sembra consapevole che una nuova fase si è comunque aperta. E tenta di pilotarla, non soltanto di subirla. Per questo avrebbe ammesso durante una cena che «se qualcuno ha sbagliato pagherà le conseguenze». È il segno di un momento di attesa. Il premier non esclude che possano arrivare altre rivelazioni o provvedimenti riguardanti esponenti del centrodestra o addirittura membri del governo. Anche per questo non ha ancora sostituito il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, costretto alle dimissioni per alcuni favori ricevuti nell’acquisto di una casa. Ma il solo fatto che Berlusconi lasci filtrare l’irritazione per il modo in cui si è mosso Scajola, costituisce una novità. È come se Palazzo Chigi si aspettasse e quasi sperasse di vedere emergere i nomi di chi «ha sbagliato»: per capire se può andare avanti con gli equilibri odierni, o se deve voltare pagina. Si tratta di una preoccupazione che il presidente del Consiglio condivide con Umberto Bossi. Anche il capo della Lega osserva con sospetto quanto accade. L’inchiesta gli appare «un po’ strana, un po’ preparata».

Non ci sarà crisi, a meno che non «si portino via tutti i ministri ». Ribadisce che il governo non rischia «fin quando ci siamo io, la Lega e Tremonti». Ma concede che «la situazione è brutta». Quanto brutta lo diranno i prossimi giorni. Rispetto alla tesi del «complotto», però, il linguaggio è cambiato. È verosimile che i rapporti con Gianfranco Fini, tuttora pessimi, si evolveranno con lo sviluppo delle inchieste. Il presidente della Camera giura di non pensare ad imboscate parlamentari. Ma la diffidenza reciproca rimane intatta, anzi aumenta per l'assestamento progressivo della corrente finiana. L’eventualità di una rottura irrimediabile ora viene ammessa apertamente. Con quali contraccolpi, tuttavia, non è chiaro. Fini ieri ha confermato che, pur essendo «pro tempore», comunque non rinuncerà al ruolo di terza carica dello Stato. Se però davvero Berlusconi sta pensando ad un appello a Pier Ferdinando Casini, qualcosa potrebbe muoversi. Il Pdl cerca un nuovo baricentro, e arriva a definire l’Udc «una costola separata del centrodestra» con il ministro Ignazio La Russa, ex di An. Ma è difficile che l’Udc accetti di entrare nella maggioranza in questa logica. Solo se Berlusconi prendesse atto che la crisi economica richiede un coinvolgimento di tutti, Casini sarebbe pronto a spingere per una collaborazione delle opposizioni col governo. Ma l’«asse del Nord» non la pensa così: alle Regionali il partito di Bossi e quello di Casini si sono azzuffati. È vero che le Regionali sembrano lontane. Ma finora più che una soluzione si intravede solo tanta confusione.

Massimo Franco

14 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_14/nota_a5bb1f86-5f18-11df-8c6e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Maggio 23, 2010, 05:28:26 pm »

LA NOTA
Con l’«incidente americano» il caso oltrepassa i confini

Il governo deciso a ricorrere alla fiducia ma l’opposizione farà ostruzionismo


E’comprensibile che la maggioranza minimizzi le critiche fatte ieri a Roma alla legge sulle intercettazioni in Italia dal sottosegretario Usa alla Giustizia. La stessa ambasciata statunitense, d’altronde, le ha ridimensionate con una nota ufficiale, per evitare un incidente diplomatico. In una conferenza stampa il sottosegretario Lanny Breuer aveva detto che «le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini»; e che la magistratura deve continuare «l’ottimo lavoro svolto finora. Avete ottimi magistrati e ottimi investigatori. La legislazione in vigore è stata molto efficace ».

E le sue parole avevano giustamente creato imbarazzo nel governo e reazioni entusiaste nell’opposizione.

Per questo, poco dopo è arrivata la marcia indietro. «Non conosco i provvedimenti legislativi», ha precisato Breuer. «Non spetta a me entrare nel merito ». È significativo che nella stessa mattinata di ieri fosse arrivato anche il «no comment» della Commissione Ue.
Il governo europeo aveva fatto sapere che non dirà nulla: almeno fino a quando il provvedimento non sarà approvato da Senato e Camera, ma i due segnali, pur nella loro diversità, confermano che la questione difficilmente potrà essere liquidata come un problema interno italiano. Avrà, sta già avendo un’eco internazionale. Rappresenta uno dei test sui quali non tanto l’opposizione e le imprese editoriali, ma l’opinione pubblica riterrà di misurare, a torto o a ragione, il livello della democrazia in Italia. Insomma, per quanto inopportune, le parole di Breuer sottolineano il rischio dei contraccolpi negativi che la legge promette di avere, al di là del suo reale contenuto.
Il centrosinistra ha rilanciato le critiche dell’esponente dell’Amministrazione di Barack Obama come una sorta di spot anti-governativo, in grado di alimentare una polemica già rovente.

È chiaro che la preoccupazione non riguarda le sanzioni che il disegno di legge del governo prevede per i giornali: almeno nella forma in cui si presenta finora. Il sospetto è che le norme finiscano per avere conseguenze più allarmanti: ad esempio sulle indagini che riguardano mafia e terrorismo. A Palazzo Chigi liquidano l’incidente come l’uscita di un «signore che passava per Roma e non conosce i problemi.
Anche perché altrimenti la cosa sarebbe grave». E il ministro della Giustizia, Angelo Alfano, riafferma che la collaborazione Italia-Usa contro la criminalità è «eccellente ». Ed ha voluto precisare che «non è stata prevista alcuna restrizione per i reati di mafia e terrorismo». La sovrapposizione fra tensioni italiane e malintesi internazionali complica però la possibilità di trovare un compromesso. Alfano ripete che il disegno di legge garantirà i tre diritti previsti dalla Costituzione: privacy, libertà di espressione, obbligo dell’azione penale da parte del pubblico ministero. E la sensazione è che il Guardasigilli si rivolga, a nome del governo, anche ad un Quirinale perplesso dai contorni che il provvedimento ha assunto: al punto che Giorgio Napolitano non avrebbe ancora deciso se firmarlo o no.

La determinazione di Palazzo Chigi ad approvarlo così com’è, perfino ricorrendo alla fiducia, acuisce il confitto con il centrosinistra, con i mass media e con la magistratura . La prospettiva è quella di un braccio di ferro prolungato dal ricorso all’ostruzionismo, considerato inevitabile dal Pd di fronte all’atteggiamento di Palazzo Chigi. L’Idv di Antonio Di Pietro minaccia addirittura di leggere in aula le intercettazioni vietate: una sorta di «disubbidienza civile» contro quella che viene definita «legge bavaglio». Ma l’ipotesi della fiducia non nasce dalla paura delle resistenze dell’opposizione. A suggerirla sembra soprattutto la tensione permanente fra il presidente del Consiglio e quello della Camera, Gianfranco Fini, che sarebbe tentato da un’esplicita presa di distanze dalla legge. «Quando la ragione cede, prevale la forza», commenta il capo dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro. L’impulso a radicalizzare lo scontro, tuttavia, è simmetrico. L’unica speranza è che veli una trattativa destinata a svelenire non solo il clima, ma un provvedimento che l’opposizione chiama «legge bavaglio».

Massimo Franco

22 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Maggio 26, 2010, 08:37:24 am »

LA NOTA

Una trattativa tormentata che indica il peso di misure impopolari

I contrasti nel governo sulla strada per ridurre il debito pubblico


La citazione in latino di Giulio Tremonti, «Primum vivere, deinde philosophari», prima si deve vivere, poi fare filosofia, è la stessa che regalò ai suoi l’allora segretario del Psi Bettino Craxi nel 1976, quando il loro partito rischiava di scomparire. Averla dissepolta ieri incontrando sindacati e imprenditori, lascia capire quanto il ministro dell’Economia consideri in bilico la situazione; e con quale fastidio ascolti le proteste che la sua manovra sta provocando: sebbene sia considerata obbligata dalla crisi europea, e non sia scontato che basti ad arginare la speculazione finanziaria.

L’ostilità viene dalle opposizioni, ma sembra affiorare nella stessa maggioranza. Si è parlato di un Silvio Berlusconi inquieto di fronte a sacrifici che Tremonti considera irrinunciabili; ma ridimensionano settori dell’amministrazione intoccabili per palazzo Chigi.
Le voci sono diventate così fitte che Bossi si è candidato a mediare i contrasti. «Li incontrerò e getterò acqua sul fuoco» ha assicurato senza avvertire il paradosso.

Il colloquio di ieri a palazzo Chigi fra Berlusconi, il suo ministro ed il sottosegretario Gianni Letta prima del Consiglio dei ministri dà il senso di una trattativa serrata. E fotografa la preoccupazione di offrire all’opinione pubblica un piano che non alimenti tensioni sociali. Ma per quanto annacquata, la manovra approvata in serata scontenta comunque qualcuno. Si è già avuto un assaggio con l’annuncio del taglio di un miliardo e mezzo di euro agli enti locali: Tremonti ha avvertito che altrimenti l’Ue ridurrà comunque i contributi.

Ma per il Pd l’unico risultato sarà un aumento delle tasse locali. L’accusa che esponenti dell’opposizione rivolgono al governo è di farsi schermo dei vincoli europei per colpire «i soliti noti». Tremonti ha invitato i propri interlocutori a «gestire insieme quella che non è una finanziaria qualsiasi». Ma l’ipotesi di un «sì» del centrosinistra rimane improbabile. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha chiesto senso di responsabilità di fronte a «sacrifici equi». Il contorno, tuttavia, rimane confuso.

Non è chiaro se manchi la consapevolezza della gravità della situazione; oppure se, pur intuendola, prevalga la diffidenza verso un ministro dell’Economia stimato a livello europeo ma ritenuto da alcuni alleati troppo «rigorista». Il sospetto più forte è che il centrodestra berlusconiano abbia difficoltà a chiedere al Paese di tirare la cinghia, ed a sfidare l’impopolarità. La discussione a dir poco animata di ieri sera in Consiglio dei ministri forse è lo specchio di un limite culturale, prima ancora che politico.

Massimo Franco

26 maggio 2010
http://www.corriere.it/politica/nota/10_maggio_26/nota_33fe7850-6884-11df-9742-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Maggio 31, 2010, 10:03:41 am »

La mossa preventiva


La tentazione di parlare di scontro fra Quirinale e Palazzo Chigi è comprensibile. Il fatto che Giorgio Napolitano abbia rinviato a oggi la firma sul decreto legge con la manovra finanziaria è una notizia. Ma analizzando con attenzione il linguaggio usato per consigliare alcune modifiche, si ricava un'impressione diversa, quasi opposta. La nota diffusa ieri lascia capire che i rilievi del capo dello Stato servono ad evitare contrasti col governo; e soprattutto a scongiurare che, per colpa di «delimitati aspetti» di tipo giuridico e istituzionale, la legge possa correre pericoli.

Il presidente della Repubblica è attento a non dare adito a qualunque accusa di invasione di campo. Per questo sottolinea di non volere entrare nel merito di scelte che appartengono all'«esclusiva responsabilità» dell'Esecutivo. E la rapidità con la quale Palazzo Chigi ha risposto fin da ieri sera conferma un'interpretazione corretta dell'iniziativa. Il governo sceglie di esaminare separatamente le misure che non rispondono ai criteri in assenza dei quali Napolitano avrebbe difficoltà a firmare. In quel caso il rischio che decada la manovra da 24 miliardi di euro per ridurre la spesa pubblica in due anni diventerebbe concreto. Sarebbe già un contraccolpo grave la certificazione di un conflitto istituzionale al vertice dello Stato. Ma la conseguenza più inquietante che si vuole evitare è di rimettere in forse un'operazione finanziaria difficile ed inevitabilmente impopolare; e concordata dal ministro dell' Economia, Giulio Tremonti, con gli altri governi europei: almeno negli obiettivi di fondo.

In più, il contrasto si sarebbe sovrapposto alle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, attese per oggi. Per questo il capo dello Stato ha consigliato di prevenire qualunque sbavatura che potesse assumere un rilievo costituzionale.
Lo ha fatto sapendo che le sue «osservazioni », termine volutamente discreto e neutro, non sono vincolanti.
Il governo era libero di accettarle o meno: sulla strategia «politica, finanziaria, sociale ed economica», nell'elenco puntiglioso del Quirinale, il potere di decidere è soltanto di Palazzo Chigi.

Inutile nascondersi, però, che questi suggerimenti hanno assunto i contorni di un monito. D'altronde, le frizioni in materia non sono nuove. Anche di recente Napolitano ha espresso la sua contrarietà al modo in cui il governo ingrossa il contenuto dei decreti senza andare per il sottile: metodo ritenuto discutibile per ragioni costituzionali e politiche. Il tentativo è di evitare malintesi e perdite di tempo; e di scoraggiare chi può cercare di usare le «osservazioni» presidenziali sulla manovra finanziaria per accreditare un braccio di ferro fra Palazzo Chigi e Quirinale: senza intendere che non è il momento delle prove di forza, ma della ragionevolezza.

Pericolo scampato, sembra di capire.

Massimo Franco

31 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_31/franco_611a9be2-6c72-11df-b7b4-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Giugno 07, 2010, 06:04:27 pm »

La sindrome dei panda


L’assassinio di monsignor Luigi Padovese in Turchia e l’attacco di Israele alla nave di aiuti che faceva rotta su Gaza hanno avuto la conseguenza imprevista di svelare una rimozione collettiva dell’Occidente: il destino delle minoranze cristiane nel Medio Oriente. Si tratta di comunità ormai minuscole, asserragliate nei loro quartieri, se non nelle loro case: si tratti di Turchia, Iraq, Egitto o Siria. Sono i capri espiatori degli errori di Usa ed Europa e dei problemi irrisolti fra israeliani e palestinesi.

Rischiano a tal punto l’estinzione che per loro si parla di «sindrome dei panda»: quegli orsetti bianchi e neri, innocui e vegetariani, che ormai riescono a riprodursi solo in ambienti iperprotetti. Benedetto XVI ha detto a Cipro che quelle minoranze debbono continuare a poter vivere nei Paesi dove abitano da due millenni. Eppure, il Vaticano sa che chi resta è in pericolo. L’omicidio di Padovese, che segue quello di quattro anni fa di don Andrea Santoro sempre in Turchia, non va sottovalutato.

Conferma che l’habitat cristiano si è progressivamente inaridito fino a circondare le comunità mediorientali con un deserto ostile. Ancora qualche anno fa la perdita di fedeli non sembrava irreversibile. Poi è diventata quasi inarrestabile, con la guerra angloamericana in Iraq come acceleratore di persecuzioni ed esodo. L’identificazione spesso strumentale fra cristianesimo e Occidente ha finito per favorire la propaganda del fondamentalismo musulmano e le sue violenze. Ma il fondamentalismo è solo un aspetto. È vero che anche le chiese di mezza Europa, soprattutto cattoliche, stanno perdendo fedeli. Le istituzioni religiose additano l’infezione della secolarizzazione, alimentata dal declino dei valori spirituali e delle strutture sociali tradizionali; con l’aggiunta recente dello scandalo dei preti pedofili, che compromette la credibilità del Vaticano. In Medio Oriente, però, la situazione è diversa. L’effetto panda non è figlio di un difetto ma di un eccesso di religiosità: la presenza pervasiva e sottilmente discriminante dell’Islam.
Esiste un problema di libertà religiosa, segnalato da tempo senza grandi successi. Eppure, il pericolo del «bagno di sangue» che minaccia di sancire la deriva dell'occupazione dei territori palestinesi in Terra Santa, evocato ieri dal Papa, non sembra allarmare più di tanto l’Occidente. Il risultato è che in una regione, già destabilizzata, l’alternativa è fra martirio, assimilazione musulmana o emigrazione: soprattutto in Iraq, dove l’idea di creare «ghetti cristiani» protetti dagli Usa incontra resistenze.

Sarebbe l’ammissione dell’isolamento di comunità per lo più arabe, che sono state un ponte culturale storico fra Oriente e Occidente. La convocazione di un Sinodo per il Medio Oriente a ottobre con l'assistenza del gesuita egiziano Samir Khalil Samir, suona come il tentativo estremo di contrastare una situazione disperata.

Si cerca di evitare che in quei Paesi i santuari del cristianesimo si riducano, come ha predetto nel 1994 un diplomatico europeo pessimista o forse solo profetico, a «Disneyland spirituali».

Massimo Franco

07 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_07/franco_9e4ed1be-71f3-11df-9357-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:01:58 pm »

LA NOTA

Nel centrodestra voglia di archiviare il braccio di ferro


Il primo ostacolo è stato superato, secondo le previsioni. E adesso si intuisce una gran fretta di archiviare la legge sulle intercettazioni. Il governo la difende come miracolo di equilibrio. Il Pd, che al momento della votazione di ieri mattina al Senato ha lasciato l’aula per protesta, rinvia lo scontro al prossimo mese, quando approderà alla Camera. E l’Idv insiste nell’appello alla «resistenza» e chiama in causa il Quirinale, ricevendo una risposta abrasiva. «I professionisti della richiesta al presidente della Repubblica di non firmare spesso parlano a vanvera», risponde Giorgio Napolitano al partito di Antonio Di Pietro, che gli replica con parole stizzite. Ma le proteste più dure arrivano dalla magistratura, dagli editori e dai giornalisti che pensano ad una «giornata del silenzio» il 9 luglio. Per il centrodestra, tuttavia, i problemi sono altri. A preoccupare è la manovra finanziaria, sulla quale piovono altolà e distinguo. È quella la vera fonte dei contrasti nella maggioranza. Anche i colloqui come quelli di mercoledì tra il presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro dell’economia Tremonti ed il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, riguardavano la manovra.

La minoranza finiana del Pdl sa di non poter rompere con Berlusconi; e non vuole offrire pretesti al grosso del partito per arrivare alla resa dei conti. Non solo. Se Fini vuole arginare il principale alleato di Umberto Bossi nel governo, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non può prescindere dal Cavaliere. Si spiega anche così il «sì» alla legge sulle intercettazioni, che l’opposizione rimprovera a Fini come un cedimento. D’altronde, qualunque manovra per destabilizzare il governo sa di velleità, in questa fase. I vincoli europei impongono misure possibili in una cornice di stabilità. Il timore non è quello di un complotto ordito dagli avversari interni del Cavaliere. Si tratta semmai di recuperare il controllo di una situazione confusa; e che moltiplica le incognite sui provvedimenti economici. Tra Fini e Tremonti, in filigrana si intravedono più che giochi di sponda uno scontro di potere. Il presidente della Camera che chiede la vigilanza sulle fondazioni bancarie affidate al Parlamento oltre che al ministero dell’Economia, invade una riserva tremontiana. Ed invocando certezza sui costi del federalismo, incalza e punzecchia una Lega già nervosa per il destino incerto della riforma: i malumori di leghisti e Pdl nei confronti di Tremonti per i tagli di spesa negli enti locali ieri sono apparsi vistosamente.

Fini confida nella voglia di Palazzo Chigi di circoscrivere il ruolo del superministro dell’Economia. Su questo sfondo, le intercettazioni sono qualcosa che appartiene ai rapporti «esterni » della maggioranza: un aspetto che, a torto o a ragione, Berlusconi e la stessa Lega considerano meno insidioso della manovra. Il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, ritiene che alla Camera esistano «margini perché il governo venga battuto» quando arriverà il disegno di legge approvato ieri dal Senato. Ma la discussione comincerà fra un mese e più: un tempo assai breve, che con le accelerazioni possibili nei prossimi giorni potrebbe però rivelarsi lunghissimo.

Massimo Franco

11 giugno 2010
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