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« Risposta #1 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:45:10 pm » |
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Origini e vie di uscita, anatomia di una crisi
di Roberta Amoruso
ROMA (16 settembre) - E’ la più grave crisi da un secolo a questa parte». Alan Greenspan, ex timoniere della Fed, sa bene di che cosa parla. C’era lui nel 2001 alla guida della banca centrale Usa, a predicare una politica monetaria espansiva che doveva servire ad attutire l’impatto recessivo causato dallo scoppio della bolla dot.com. E’ lì l’inizio della storia. Ora sarà la storia, appunto, a dire se davvero questo tsunami è il più forte degli ultimi 100 anni. Una cosa è certa, però: l’«imprevedibilità» di questa crisi è senza precedenti. Nessuno sa valutare ancora oggi, a un anno di distanza, quanto sarà lunga e profonda. Genesi di una crisi. La storia inizia tra il 2001 e il 2003, quando i tassi di interesse passano in in colpo dal 6 all’1%. E la corsa ai mutui a tasso variabile incoraggia le famiglie statunitensi ad indebitarsi sempre di più per l’acquisto di una casa. Finché i prezzi delle abitazioni aumentano il gioco funziona. L’incremento del valore degli immobili consente di ottenere sempre più credito. E le banche riducono drammaticamente gli standard di solvibilità richiesti alle famiglie. E’ allora che si moltiplicano i cosiddetti “mutui subprime” (concessi alle categorie meno abbienti e quindi con un elevato indice di rischio). E quando questi finanziamenti vengono impacchettati più volte in prodotti derivati finiti nei portafogli delle principali banche americane (molto meno in quelle europee) ci sono già tutti gli ingredienti per una miscela esplosiva. Così, basta lo scoppio della bolla immobiliare e il rialzo dei tassi di interesse a far scoppiare la bomba: per il sistema Usa scatta una crisi di liquidità che ha fatto sentire i sui effetti anche in Europa. Che pure con i mutui subprime ha avuto a che fare poco o niente.
Mille miliardi di dollari: il sistema conta i danni. In molti avevano previsto una crisi che avrebbe finito per toccare il cuore dell’economia. Ma praticamente nessuno era arrivato un anno fa a mettere in conto l’evaporazione di alcuni dei più importanti colossi finanziari. «La crisi potrebbe aver toccato il suo picco, ma le cose potrebbero anche peggiorare», ha avvertito pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Molto dipenderà ancora dal mercato immobiliare. Ma nel frattempo il bilancio della crisi è diventato sempre più pesante. Costerà mille miliardi, aveva previsto il Fondo monetario internazionale ad aprile scorso. Ora questo traguardo potrebbe già essere vicino. Sono le ultime stime a dirlo. Per Draghi il sistema creditizio globale ha già annunciato perdite per 500 miliardi di dollari, a fronte di una raccolta di nuovo capitale per 350 miliardi. Ma non basta. Ora sarebbero necessari nuovi fondi per almeno altri 350 miliardi di dollari. E il conto si fa più salato se si considera il salvataggio dei due colossi del mercato americano dei mutui "prime": Freddie Mac e Fannie Mae. Le due agenzie semigovernative hanno in mano metà dei mutui americani. E per loro scatta la nazionalizzazione. Questa volta al prezzo di 200 miliardi di dollari.
Il conto pagato dall'economia. In campo Fed e Tesoro. Chi credeva un anno fa che l’onda lunga della crisi finanziaria del sistema non sarebbe arrivata all’economia reale, oggi deve fare un passo indietro. Quello che doveva essere solo uno schock finanziario si è trasformato in un mix tossico: una combinazione di aumento di inflazione, calo della crescita, restrizioni delle condizioni del credito e tensioni di liquidità nell’industria dei servizi finanziari mondiale. Ingredienti che si aggiungono a una corsa folle dei prezzi delle materie prime. L’epicentro della crisi, si sa, è negli Stati Uniti. Si parla di recessione conclamata. Ma gli effetti si fanno sentire anche in Europa, costretta a ridimensionare le previsioni di crescita dell’economia. Intanto, le banche centrali fanno le loro mosse. La Fed più che dimezza il costo del denaro senza esitazioni. La Bce più cauta, sembra invece più preoccupata dalla corsa dell’inflazione. Non basta. Al di là e al di qua dell’Oceano, scattano i primi salvataggi. L’ estate scorsa la tedesca Ikb, poi l’ inglese Northern Rock, alla fine nazionalizzata. Negli ultimi mesi, negli Usa, il salvataggio di una grande banca d’investimenti, come Bear Stearns e poi dei giganti semipubblici dei mutui, Freddie Mac e Fannie Mae. Sono 700 le banche americane che traballano. E nelle simulazioni matematiche dei modelli del Fmi: la restrizione del credito in atto, dicono, taglierà 2 punti alla crescita del Pil americano, entro la metà del 2009.
La difesa dell'Europa. Si stringe il cerchio. «Le banche italiane finora non sono particolarmente esposte alle crisi finanziaria e ad oggi non si registra nessuna significativa contrazione del credito». Ancora pochi giorni fa il governatore di Bankitalia Mario Draghi salvava l’Italia dalla tempesta finanziaria che arriva dagli Usa. Del resto, i numeri dicono che «il livello di capitale è ancora molto superiore ai minimi regolamentari». Ma non per questo si può abbassare la guardia. Bisogna tener conto del rallentamento del ciclo economico nei prossimi mesi e delle banche che affronteranno questa fase “con bilanci più deboli”. Lo scenario più ottimistico? “Serviranno almeno altri 350 miliardi di dollari“ di capitali freschi e saranno ancora molte le banche in difficoltà. Lo scenario non è dei più rassicuranti. Ma per il governatore di Bakitalia, ”la situazione non sembra così stressata all’interno della zona euro ”: al momento non c’é una contrazione creditizia. “Ma se la crisi diventasse estesa, sistemica - avverte - cosa che non è ancora, il rischio per le nostre banche e quelle europee è un rischio di controparte”. Di questo dovrà tenere conto anche la Banca centrale europea, che finora ha mantenuto invariato il costo del denaro. Ma dopo il fallimento di Lehman Brothers, Jean Claude Trichet è pronto a mantenere un’allerta «straordinaria».
Si salvano Fannie e Freddie Lehman Brothers no. Fino all’ultimo il mercato ha incrociato le dita sperando che il Tesoro Usa scendesse in campo anche per salvare le sorti di Lehman Brothers, visti i precedenti con Freddie e Fannie. O almeno sperava in un sostegno al possibile acquirente, come di fatto è accaduto in occasione dell’acquisto di Bear Stearns da parte di Jp Morgan. Ma così non è stato. E la ragione è anche abbastanza evidente. Le due agenzie semigovernative Usa in crisi controllano i tre quarti della nuova erogazione dei mutui immobiliari in America. Un loro fallimento avrebbe messo a dura prova il mercato dei mutui immobiliari nel suo insieme, calcolato in circa 11.000 miliardi di dollari. Le ramificazioni della crisi, poi, sarebbero state senza precedenti: una gran parte dei titoli emessi da Fannie Mae e Freddie Mac, circa 5.000 miliardi di dollari, sono in possesso di grandi internazionali e di molte banche centrali. Insomma, un default di una delle due o di entrambe, avrebbe prodotto la temuta crisi sistemica internazionale, con il rischio di fallimenti a catena di istituzioni finanziarie e di una successiva paralisi dell’economia. Per Lehman Brothers il discorso è diverso: si tratta di una banca d’affari internazionale. In altre parole non ha a che fare con il mercato cosiddetto retail, quello dei risparmiatori.
Il ruolo delle banche. E' l'ultimo atto dell'uragano. Ora che Lehman Brothers è finita in amministrazione controllata, il mercato si sta già attrezzando per evitare un effetto a catena. E come al solito sono le banche chiamate ad avere un ruolo centrale. Il Tesoro americano e la Federal Reserve sono pronte ad essere più generose nel programma di finanziamenti alle banche commerciali e di investimento. E anche la Bce, come la Fed, si è già mossa per iniettare ulteriore liquidità al sistema. Ma c’è dell’altro in cantiere. Un consorzio formato da dieci banche darà vita a un fondo da 70 miliardi di dollari per assicurare liquidità al sistema ed evitare il collasso. Del consorzio fanno parte Bank of America, Ubs, Barclays, Citibank, Merrill Lynch (appena acquistata da Bank of America), Jp Morgan, Goldman Sachs e Deutsche Bank, Morgan Stanley e Credit Suisse. Ogni banca verserà nel fondo 7 miliardi di dollari e le risorse saranno a disposizione delle 10 banche del consorzio in caso di richiesta di liquidità. E le banche italiane? Continuano a essere tra quelle meno esposte allo tsunami finanziario. E non a caso, finora, non sono mai scese in campo per salvare altri istituti di credito. Ma Bankitalia rimane cauta: «Non sappiamo se il peggio è passato». E’ in queste parole il Dna di questa crisi finanziaria. La profondità di questo shock non è prevedibile.
da ilmessaggero.it
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