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Autore Discussione: Robert Solow: "Ci salverà l'economia reale"  (Letto 2774 volte)
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« inserito:: Settembre 16, 2008, 05:43:47 pm »

16/9/2008
 
Robert Solow: "Ci salverà l'economia reale"
 
Il premio Nobel: la migliore risposta alla crisi è rilanciare produzione e occupazione
 

 
Per superare questa grave crisi finanziaria bisogna rafforzare l’economia reale, che è fatta di produzione e occupazione». È questa la ricetta che Robert Solow, premio Nobel dell’Economia per gli studi sulla crescita, suggerisce a Usa ed Europa.

Perché due delle più importanti banche d’affari americane sono cadute? «Ciò è avvenuto a causa degli eccessi di rischio che i rispettivi leader si sono assunti qualche tempo fa, quando la situazione era molto florida, segnata da un forte ottimismo. Fecero allora scelte poco sagge, non solo nel settore dei subprime, perché mirate solo a fare molti soldi in fretta. Ma alla lunga tanta imprudenza non ha pagato».

Cambierà il modello delle banche d’affari? «Diventeranno più prudenti, ma sopravviveranno. A fallire non è il modello della banca d’affari in sé, che resta valido, quanto quello di una gestione spericolata, incurante dei rischi. Avremo sempre le banche d’affari, ma più piccole e caute».

Perché la Federal Reserve non ha salvato Lehman Brothers come fatto con Bear Stearn? «Questo tipo di interventi pubblici si trovano sempre a bilanciare due necessità: da un lato preservare la stabilità del sistema finanziario e dall’altro evitare di incentivare in futuro l’assunzione di maggiori rischi. In questo caso la Federal Reserve è arrivata alla conclusione che salvando Lehman avrebbe non ridotto ma aumentato la possibilità di rischi futuri usando denaro dei contribuenti per salvare chi se ne era assunti davvero troppi».

Dunque il tallone d’Achille del sistema finanziario americano è l’eccesso di propensione al rischio? «Direi che è la disponibilità ad assumersi rischi eccessivi in tempi di ottimismo al fine di moltiplicare all’eccesso la ricchezza».

Il risultato di questa crisi è un indebolimento dell’economia degli Stati Uniti? «Vi è già stato un indebolimento dell’economia americana. Vi abbiamo assistito negli ultimi tempi, ma non ha portato ad un brusco arresto né tantomeno a una vistosa recessione. Non dobbiamo confondere le carenze del sistema finanziario con l’economia reale».

Teme una recessione globale? «Di fronte a quanto sta avvenendo gli Stati Uniti e l’Europa hanno ragione ad avere timore, ma la soluzione è a portata di mano».

Qual è la ricetta da seguire? «Serve più impegno per consolidare i tradizionali elementi della crescita: produzione e occupazione. I nostri leader devono lavorare in questa direzione. I fondamenti dell’economia in America restano solidi, e questo vale anche per gran parte dell’Europa. I nostri sistemi produttivi non sono alle prese con problemi molto seri, ma chi li guida deve concentrare tempo e risorse sul loro rafforzamento. È questa la migliore risposta alla crisi finanziaria che sta creando ondate di instabilità sui mercati».

E come ripristinare fiducia nella finanza? «Con nuove norme che, soprattutto qui negli Stati Uniti, siano capaci di aumentare il controllo sulle operazioni, sulla gestione sui singoli meccanismi del sistema finanziario per scongiurarne gli eccessi».

Ma non avrebbe dovuto essere la legislazione approvata dal Congresso dopo gli scandali finanziari del 2002 a farlo? «Dopo il collasso di Enron il Congresso di Washington ha varato leggi che hanno aumentato il controllo sulla contabilità delle aziende. È stato un passaggio importante che ha rafforzato la stabilità. Quelle leggi, come la Sarbanes-Oxley, non erano però mirate al sistema finanziario. Il prossimo Congresso dovrà occuparsi proprio di questo. Servono più trasparenza e controllo nella finanza».

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:45:10 pm »

Origini e vie di uscita, anatomia di una crisi


di Roberta Amoruso


ROMA (16 settembre) - E’ la più grave crisi da un secolo a questa parte». Alan Greenspan, ex timoniere della Fed, sa bene di che cosa parla. C’era lui nel 2001 alla guida della banca centrale Usa, a predicare una politica monetaria espansiva che doveva servire ad attutire l’impatto recessivo causato dallo scoppio della bolla dot.com. E’ lì l’inizio della storia. Ora sarà la storia, appunto, a dire se davvero questo tsunami è il più forte degli ultimi 100 anni. Una cosa è certa, però: l’«imprevedibilità» di questa crisi è senza precedenti. Nessuno sa valutare ancora oggi, a un anno di distanza, quanto sarà lunga e profonda.
 
Genesi di una crisi. La storia inizia tra il 2001 e il 2003, quando i tassi di interesse passano in in colpo dal 6 all’1%. E la corsa ai mutui a tasso variabile incoraggia le famiglie statunitensi ad indebitarsi sempre di più per l’acquisto di una casa. Finché i prezzi delle abitazioni aumentano il gioco funziona. L’incremento del valore degli immobili consente di ottenere sempre più credito. E le banche riducono drammaticamente gli standard di solvibilità richiesti alle famiglie. E’ allora che si moltiplicano i cosiddetti “mutui subprime” (concessi alle categorie meno abbienti e quindi con un elevato indice di rischio). E quando questi finanziamenti vengono impacchettati più volte in prodotti derivati finiti nei portafogli delle principali banche americane (molto meno in quelle europee) ci sono già tutti gli ingredienti per una miscela esplosiva. Così, basta lo scoppio della bolla immobiliare e il rialzo dei tassi di interesse a far scoppiare la bomba: per il sistema Usa scatta una crisi di liquidità che ha fatto sentire i sui effetti anche in Europa. Che pure con i mutui subprime ha avuto a che fare poco o niente.

Mille miliardi di dollari: il sistema conta i danni.  In molti avevano previsto una crisi che avrebbe finito per toccare il cuore dell’economia. Ma praticamente nessuno era arrivato un anno fa a mettere in conto l’evaporazione di alcuni dei più importanti colossi finanziari. «La crisi potrebbe aver toccato il suo picco, ma le cose potrebbero anche peggiorare», ha avvertito pochi giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Molto dipenderà ancora dal mercato immobiliare. Ma nel frattempo il bilancio della crisi è diventato sempre più pesante. Costerà mille miliardi, aveva previsto il Fondo monetario internazionale ad aprile scorso. Ora questo traguardo potrebbe già essere vicino. Sono le ultime stime a dirlo. Per Draghi il sistema creditizio globale ha già annunciato perdite per 500 miliardi di dollari, a fronte di una raccolta di nuovo capitale per 350 miliardi. Ma non basta. Ora sarebbero necessari nuovi fondi per almeno altri 350 miliardi di dollari. E il conto si fa più salato se si considera il salvataggio dei due colossi del mercato americano dei mutui "prime": Freddie Mac e Fannie Mae. Le due agenzie semigovernative hanno in mano metà dei mutui americani. E per loro scatta la nazionalizzazione. Questa volta al prezzo di 200 miliardi di dollari.

Il conto pagato dall'economia. In campo Fed e Tesoro. Chi credeva un anno fa che l’onda lunga della crisi finanziaria del sistema non sarebbe arrivata all’economia reale, oggi deve fare un passo indietro. Quello che doveva essere solo uno schock finanziario si è trasformato in un mix tossico: una combinazione di aumento di inflazione, calo della crescita, restrizioni delle condizioni del credito e tensioni di liquidità nell’industria dei servizi finanziari mondiale. Ingredienti che si aggiungono a una corsa folle dei prezzi delle materie prime. L’epicentro della crisi, si sa, è negli Stati Uniti. Si parla di recessione conclamata. Ma gli effetti si fanno sentire anche in Europa, costretta a ridimensionare le previsioni di crescita dell’economia. Intanto, le banche centrali fanno le loro mosse. La Fed più che dimezza il costo del denaro senza esitazioni. La Bce più cauta, sembra invece più preoccupata dalla corsa dell’inflazione. Non basta. Al di là e al di qua dell’Oceano, scattano i primi salvataggi. L’ estate scorsa la tedesca Ikb, poi l’ inglese Northern Rock, alla fine nazionalizzata. Negli ultimi mesi, negli Usa, il salvataggio di una grande banca d’investimenti, come Bear Stearns e poi dei giganti semipubblici dei mutui, Freddie Mac e Fannie Mae. Sono 700 le banche americane che traballano. E nelle simulazioni matematiche dei modelli del Fmi: la restrizione del credito in atto, dicono, taglierà 2 punti alla crescita del Pil americano, entro la metà del 2009.

La difesa dell'Europa. Si stringe il cerchio. «Le banche italiane finora non sono particolarmente esposte alle crisi finanziaria e ad oggi non si registra nessuna significativa contrazione del credito». Ancora pochi giorni fa il governatore di Bankitalia Mario Draghi salvava l’Italia dalla tempesta finanziaria che arriva dagli Usa. Del resto, i numeri dicono che «il livello di capitale è ancora molto superiore ai minimi regolamentari». Ma non per questo si può abbassare la guardia. Bisogna tener conto del rallentamento del ciclo economico nei prossimi mesi e delle banche che affronteranno questa fase “con bilanci più deboli”. Lo scenario più ottimistico? “Serviranno almeno altri 350 miliardi di dollari“ di capitali freschi e saranno ancora molte le banche in difficoltà. Lo scenario non è dei più rassicuranti. Ma per il governatore di Bakitalia, ”la situazione non sembra così stressata all’interno della zona euro ”: al momento non c’é una contrazione creditizia. “Ma se la crisi diventasse estesa, sistemica - avverte - cosa che non è ancora, il rischio per le nostre banche e quelle europee è un rischio di controparte”. Di questo dovrà tenere conto anche la Banca centrale europea, che finora ha mantenuto invariato il costo del denaro. Ma dopo il fallimento di Lehman Brothers, Jean Claude Trichet è pronto a mantenere un’allerta «straordinaria».

Si salvano Fannie e Freddie Lehman Brothers no. Fino all’ultimo il mercato ha incrociato le dita sperando che il Tesoro Usa scendesse in campo anche per salvare le sorti di Lehman Brothers, visti i precedenti con Freddie e Fannie. O almeno sperava in un sostegno al possibile acquirente, come di fatto è accaduto in occasione dell’acquisto di Bear Stearns da parte di Jp Morgan. Ma così non è stato. E la ragione è anche abbastanza evidente. Le due agenzie semigovernative Usa in crisi controllano i tre quarti della nuova erogazione dei mutui immobiliari in America. Un loro fallimento avrebbe messo a dura prova il mercato dei mutui immobiliari nel suo insieme, calcolato in circa 11.000 miliardi di dollari. Le ramificazioni della crisi, poi, sarebbero state senza precedenti: una gran parte dei titoli emessi da Fannie Mae e Freddie Mac, circa 5.000 miliardi di dollari, sono in possesso di grandi internazionali e di molte banche centrali. Insomma, un default di una delle due o di entrambe, avrebbe prodotto la temuta crisi sistemica internazionale, con il rischio di fallimenti a catena di istituzioni finanziarie e di una successiva paralisi dell’economia. Per Lehman Brothers il discorso è diverso: si tratta di una banca d’affari internazionale. In altre parole non ha a che fare con il mercato cosiddetto retail, quello dei risparmiatori.

Il ruolo delle banche. E' l'ultimo atto dell'uragano. Ora che Lehman Brothers è finita in amministrazione controllata, il mercato si sta già attrezzando per evitare un effetto a catena. E come al solito sono le banche chiamate ad avere un ruolo centrale. Il Tesoro americano e la Federal Reserve sono pronte ad essere più generose nel programma di finanziamenti alle banche commerciali e di investimento. E anche la Bce, come la Fed, si è già mossa per iniettare ulteriore liquidità al sistema. Ma c’è dell’altro in cantiere. Un consorzio formato da dieci banche darà vita a un fondo da 70 miliardi di dollari per assicurare liquidità al sistema ed evitare il collasso. Del consorzio fanno parte Bank of America, Ubs, Barclays, Citibank, Merrill Lynch (appena acquistata da Bank of America), Jp Morgan, Goldman Sachs e Deutsche Bank, Morgan Stanley e Credit Suisse. Ogni banca verserà nel fondo 7 miliardi di dollari e le risorse saranno a disposizione delle 10 banche del consorzio in caso di richiesta di liquidità.
E le banche italiane? Continuano a essere tra quelle meno esposte allo tsunami finanziario. E non a caso, finora, non sono mai scese in campo per salvare altri istituti di credito. Ma Bankitalia rimane cauta: «Non sappiamo se il peggio è passato». E’ in queste parole il Dna di questa crisi finanziaria.
La profondità di questo shock non è prevedibile.

da ilmessaggero.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 17, 2008, 08:46:36 am »

L'intervista

Rubin: «Mai così dal '29 La crisi durerà mesi»

È stato capo del Tesoro con Clinton e oggi è consigliere di Obama: «Difficoltà fino al 2009»

DAL NOSTRO INVIATO


LONDRA — «Subito un secondo pacchetto di stimolo fiscale per ridare fiato all'economia americana e poi nuove regole per riportare fiducia sui mercati finanziari», sostiene Bob Rubin, 70 anni, ex segretario del Tesoro nelle due amministrazioni di Bill Clinton e oggi consigliere di Citigroup, che nel dicembre 2007 ha guidato per un breve periodo dopo le dimissioni di Chuck Prince. Rubin ha appena terminato una conference call con Larry Summers, suo vice e poi successore al Tesoro, e con il candidato democratico alla presidenza Usa, Barack Obama. Ma prima della riunione del board di Citigroup, nella sede londinese di Canary Wharf, spiega al Corriere, in un'ora di conversazione, come uscire da quella che definisce «la più grande crisi dal '29».

Lehman ha chiesto la protezione dal fallimento, Bank of America ha accettato di comprare Merrill Lynch. Adesso si aspetta il fallimento di altre banche, come ha suggerito l'ex presidente della Fed, Alan Greenspan?
«Per quanto ne so io, le principali banche hanno la forza finanziaria per reagire. Parlo per gli Stati Uniti, non conosco la situazione in Europa ».
Quanto è grave la crisi? Dove arriverà?
«Questa è la peggiore crisi dopo gli anni '30, ma allora la situazione era molto più drammatica. Che cosa succederà adesso? Se guardiamo alle condizioni del credito, ai consumi, all'indebolimento delle economie all'estero, è probabile che le cose peggiorino ancora per un certo periodo. Ma non mi aspetto un grandissimo peggioramento».
Quando finirà?
«Nessuno è in grado di prevederlo, ma credo che le difficoltà economiche si estenderanno probabilmente fino a 2009 inoltrato».
Quando era segretario del Tesoro ha affrontato la crisi del peso messicano nel '95, la crisi valutaria asiatica nel '97 e la crisi russa nel '98. Questa nuova crisi finanziaria, scoppiata nel cuore degli Stati Uniti, le fa paura?
«Non sono uno che si spaventa facilmente. La crisi finanziaria asiatica poteva realmente trasformarsi in una crisi globale, quando nel dicembre '97 la Corea stava per fallire, ma il nuovo programma del Fmi ha funzionato. E dopo la Russia abbiamo avuto la crisi del Ltcm, che ha rischiato di diventare un problema globale. Una grande differenza fra quelle crisi e quella di oggi è che allora l'economia americana era robusta per reagire».
Quali sono le misure più urgenti per ridare fiducia all'America, alle prese tra l'altro con un tasso di disoccupazione al 6,1%, il più alto degli ultimi 5 anni?
«La misura più importante è varare subito un secondo pacchetto di stimolo fiscale condizionato, accompagnato da una pianificazione di contingenza per far fronte a crisi finanziarie potenziali. Quanto al futuro, dovremmo fare una profonda riflessione e apportare le correzioni necessarie nel nostro sistema finanziario».
Di quali riforme c'è bisogno?
«Bernanke ha ragione quando dice che il regime regolatorio delle banche dovrebbe avere un'applicazione molto più ampia ed essere esteso a tutto le istituzioni che potrebbero provocare un rischio sistemico in caso di fallimento. Poi bisognerebbe incrementare sostanzialmente i requisiti di margine e di capitale, anche se non in questo momento, altrimenti peggioreremmo le cose. I requisiti dovrebbero valere sia a New York che a Londra, anche se varrebbe la pena arrivare a un accordo globale. Inoltre, servono linee guida chiare per il finanziamento fuori bilancio. Infine andrebbe ripensato il sistema di contabilità mark to market: anche se è una questione molto controversa, sarebbe meglio adottare un sistema analogo a quello della contabilizzazione delle riserve per i prestiti bancari».
L'eccesso di liquidità, la sopravvalutazione degli asset, la bolla immobiliare erano segnali di pericolo: perché nessuno ha visto arrivare il disastro?
«Un mio amico, un importante investitore inglese, 4 anni fa mi disse che il rischio era l'unico asset sottovalutato. Una visione condivisa da molti, ma quasi nessuno si è reso conto della concomitanza di così tanti fattori che hanno formato la tempesta perfetta».
Come valuta l'intervento dei fondi sovrani nel capitale delle banche in difficoltà?
«Sono investitori come altri, con la complicazione che, potendo avere una certa influenza politica, potrebbero sollevare qualche problema di sicurezza nazionale di cui si dovrebbe tenere conto».
Anche Citi è stata coinvolta nella crisi. Qual è la sua lezione?
«Citi ha risposto rapidamente con cambiamenti sulle persone, sul capitale e sul risk management ».
Oggi preferirebbe essere nei pani del presidente della Fed Ben Bernanke o in quelli del segretario del Tesoro Hank Paulson? Chi ha il compito più difficile?
«E' dura per entrambi. Nel nostro sistema, il presidente e della Fed e il segretario del Tesoro dovrebbero lavorare insieme, non sempre succede ».
Se Barack Obama diventa presidente degli Stati Uniti e la richiama al Tesoro, accetta?
«No. Penso che Obama sia una persona eccezionale e se viene eletto ha tutti gli attributi per essere uno straordinario presidente. Lavorare con lui sarebbe una grande esperienza: è riflessivo, brillante, equilibrato. Ma io sono già stato al Tesoro per 6 anni e mezzo e preferisco fare altre cose. Però posso sempre dare consigli»


Giuliana Ferraino
17 settembre 2008

da corriere.it
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