LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 07:53:49 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Giovanni Bianconi. Anche il piccolo commercio ora si ribella al «pizzo»  (Letto 3474 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Settembre 15, 2008, 11:34:44 am »

La società civile contro la mafia

Anche il piccolo commercio ora si ribella al «pizzo»

Palermo, così si estende il «no» al racket

DAL NOSTRO INVIATO


PALERMO — Le testimonianze raccolte nell'aula-bunker dell'Ucciardone, con i taglieggiati che hanno riconosciuto e indicato al giudice i taglieggiatori, sono ormai agli atti. Ora si aspettano il rinvio a giudizio e il processo. Ma un primo risultato storico è stato già raggiunto. Per la prima volta, su 46 commercianti e imprenditori costretti a pagare il «pizzo» alla mafia palermitana, più della metà ha collaborato con investigatori e inquirenti, accusando boss e picciotti protagonisti del racket. Ventiquattro di loro, con nomi e cognomi pubblicati sui giornali dopo l'arresto del campomafia di Palermo ovest Salvatore Lo Piccolo e la scoperta dei suoi libri-mastri, hanno ammesso e raccontato come, quanto e a chi pagavano la tassa imposta da Cosa Nostra. Gli altri rischiano il rinvio a giudizio come favoreggiatori, insieme ai 48 estortori finiti in carcere negli ultimi mesi.

«E' un avvenimento senza precedenti », spiega l'avvocato Ugo Forello, che col collega Salvo Caradonna rappresenta le parti offese nei processi. Che poi aggiunge: «Non bisogna fermarsi. Oggi c'è una straordinaria coincidenza di condizioni favorevoli, dall'azione delle forze dell'ordine e della magistratura all'esistenza di efficaci strutture di supporto, fino al sostegno della società civile. E' un'occasione unica, e per questo dico: ora o mai più».

Ora o mai più è un riferimento alla possibilità di affondare la mano nel mondo del racket, facendo emergere il controllo mafioso sommerso (ma neanche tanto) su una città in cui sembra di respirare aria di liberazione. Gli aderenti ad Addiopizzo e i responsabili dell'Associazione Antiracket hanno riempito Palermo di adesivi con la scritta «Liberazione in corso - Continuiamo a denunciare il pizzo» nell'anniversario dell'omicidio di Libero Grassi, l'imprenditore assassinato il 29 agosto 1991 perché ritrovatosi solo contro i boss. E hanno indicato sulla piantina della città gli esercizi commerciali i cui proprietari hanno accusato gli estortori (circa 50 nell'ultimo anno) o dichiarato pubblicamente il proprio rifiuto di pagare, oltre 300. Ne è venuta fuori l'immagine plastica di un'estensione della rivolta civile inimmaginabile fino a poco tempo fa. Certo, chi si sottomette è ancora in maggioranza, ma quella carta mostra una macchia di libertà in via di espansione nella capitale della mafia. E chi vuole scrollarsi di dosso il giogo delle cosche lo sottolinea senza enfasi, perché la battaglia sarà ancora lunga, ma con la convinzione che qualcosa d'importante si sta realizzando.

«Chiediamo a tutte le associazioni di categoria di seguirci su questa strada — dice Enrico Colaianni, presidente dell'Associazione Antiracket palermitana —, e alla Confindustria regionale che ha annunciato la coraggiosa decisione di voler espellere chi paga il pizzo di non fermarsi alle cifre dichiarate, ma di produrre risultati maggiori e concreti. Senza limitarsi a operazioni di facciata. Anche perché nel mondo della grande impresa chi sceglie o accetta di denunciare rischia ancora di rimanere escluso da commesse e appalti importanti. Non potremo dire di aver vinto finché non ci saranno segnali tangibili e irreversibili di non voler più convivere con un fenomeno considerato finora come un costo aggiuntivo d'impresa. Adesso finalmente si sta diffondendo l'idea che sia un disvalore economico e sociale, e come tale va trattato e sanzionato ».

In una delle sue ultime uscite pubbliche, davanti al ministro dell'Interno, il presidente onorario delle Federazione Antiracket Tano Grasso ha ribadito la necessità di «stabilire per legge l'obbligo della denuncia», con tanto di procedure amministrative contro chi si sottrae. E se nel frattempo il Comune di Palermo guidato dal centrodestra decidesse di costituirsi parte civile nei processi contro gli estortori, come richiesto più volte dai legali di Addiopizzo e da una delibera del consiglio comunale, sarebbe un altro passo avanti. Nell'ultimo anno, nei dodici processi in cui al fianco della parti offese sedevano anche gli avvocati dell’Antiracket, sono stati condannati 93 dei 114 imputati, che si sono visti infliggere 815 anni emezzo di carcere e un ammontare di risarcimenti a favore della Federazione di 136.000 euro. Cifre in cui vanno considerati gli sconti di pena concesso grazie ai riti abbreviati e dei risarcimenti riconosciuti dai giudici ma non ancora quantificati. Ancora in corso sono altri 5 procedimenti contro 36 imputati e 9 inchieste su 131 indagati.

Tra le testimonianze raccolte per il processo agli estortori del clan Lo Piccolo, particolarmente significative sono quelle di chi ha denunciato per la prima volta i mafiosi - ammettendo così di pagare il «pizzo» - anche di fronte ai propri familiari. Il titolare di un bar-tabaccheria non aveva confidato nemmeno a sua moglie che quell’uomo che veniva ogni giorno a prendere il caffè, tanto gentile e affabile, era l’esattore di Cosa Nostra. Un imprenditore ha raccontato che chi riscuoteva la tassa mafiosa era un vecchio compagno di giochi, poi arrestato e condannato per omicidio, che dopo vent’anni di galera gli si è presentato a pretendere soldi. Impunemente, come niente fosse. Un commerciante ha rivelato di aver riallacciato i rapporti con la figlia proprio grazie alla scelta di denunciare («era raggiante», racconta l’avvocato Forello). E un altro, il quale si vergognava davanti al figlio studente di Giurisprudenza quando il suo nome comparve sul giornale nella lista di chi era sottomesso alla legge del racket, dopo la denuncia s’è sentito dire dal ragazzo: «Tranquillo papà, vai avanti. Anzi, avresti dovuto farlo prima». Sono i segni di un ricambio generazionale anche tra le vittime del «pizzo »: i giovani cresciuti all’indomani della stagione delle stragi e del terrorismo mafioso mostrano di aver acquisito una coscienza che li porta a rifiutare la convivenza e la connivenza con l’Antistato chiamato Cosa Nostra.

Nell’aula dell’Ucciardone, al difensore di un imputato che voleva sapere quali minacce concrete il suo cliente gli avesse fatto per taglieggiarlo, un imprenditore che scuciva qualche migliaio di euro all’anno ha risposto: «Nessuna promessa esplicita di violenze, avvocato. Ma se con questo lei vuole intendere che quindi io pagavo di mia volontà, allora le dico che non ha capito niente. Non mi hanno mai puntato la pistola in faccia, ma la minaccia era implicita in chi mi chiedeva i soldi, e nel fatto stesso che lo faceva senza averne alcun titolo». E’ il famoso «contesto» mafioso, tanto più forte in zone e borgate come quelle di San Lorenzo, Partanna Mondello, Tommaso Natale e Sferracavallo, dove era noto il controllo dei Lo Piccolo e dove tutti conoscono tutti. Un «contesto» che forse, adesso, comincia a incrinarsi. E che fa insistere l’avvocato Forello sul tasto che adesso non bisogna fermarsi: «Perché potremo dire di avere sconfitto il pizzo non quando non ci sarà più nessuno a pretenderlo, ma quando non ci sarà più nessuno disposto a pagarlo».

Giovanni Bianconi
15 settembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Novembre 24, 2008, 04:31:50 pm »

Il faccia a faccia 30 anni dopo il sequestro e il delitto

Andreotti, stretta di mano e dialogo con Morucci

Il presidente: «Era una guerra, sbagliata l'analisi».

L'uomo che rapì Moro: «Troppo indulgente con noi»
 

ROMA — Alla fine si stringono la mano; il rapitore di Aldo Moro dice «Lietissimo» e Giulio Andreotti risponde con un conviviale «Ciao». La serata è terminata, Valerio Morucci se ne va mentre il nemico d'un tempo consuma le ultime chiacchiere con gli altri ospiti. I quali hanno assistito alla stretta di mano e — prima — a un dibattito inimmaginabile nel 1978, nell'Italia del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro, dell'attacco brigatista al «cuore dello Stato». Trent'anni dopo i due rappresentanti delle Br e dello Stato di allora s'incontrano per la prima volta nel salotto borghese di un professionista romano, che periodicamente organizza appuntamenti letterari per una ristretta cerchia di conoscenti.

Venerdì scorso l'occasione è data dall'ultimo libro di Luigi Manconi, sociologo ed ex sottosegretario alla Giustizia (trent'anni fa militante di Lotta continua), intitolato Terroristi italiani. Le Br e la guerra totale, 1970-2008. Presentatori d'eccezione (per l'eccezionalità del faccia a faccia) Andreotti e Morucci, che prima di Moro aveva pedinato proprio l'ex capo del governo, obiettivo alternativo del rapimento di un esponente democristiano. Ma Andreotti, come ha svelato lo stesso ex terrorista, si rivelò obiettivo troppo complicato, perché abitava in pieno centro e aveva l'auto blindata. Il dibattito comincia da qui: che effetto fa al senatore a vita incontrare un brigatista che sparò sulla scorta di Moro e sequestrò il presidente della Dc? Andreotti si rifugia in una delle sue battute: «E' una fortuna esserci arrivati», ma nessuno dei presenti ride. L'aria è tesa, tutti fissano il senatore e l'ex br seduto due poltrone più in là. «C'era l'idea — continua Andreotti tornando al '78 — che il giusto fosse tutto dalla propria parte, e che dall'altra fosse tutto sbagliato. Ma distinzioni così nette non aiutano a capire. Sul terrorismo, ad esempio, pensavamo a un fortissimo influsso straniero, che non era così rilevante. E' possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell'analisi globale».

Quando tocca a Morucci ci sono dei lunghi secondi di silenzio, finché dice: «Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le Brigate rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire diversamente da come fece». L'ex terrorista tenta di spiegare il percorso che lo portò in via Mario Fani, dove partecipò alla strage dei cinque uomini di scorta e al «prelevamento» di Moro, ucciso dopo 55 giorni di prigionia: «L'ideologia comunista prevedeva l'uso della violenza per la presa del potere, e passo dopo passo arrivi a giustificare la morte del nemico. La Dc era lo Stato che noi identificavamo con l'imperialismo delle multinazionali, e con Moro in mano pensavamo di poter dare la scossa finale a quel sistema». Andreotti lo interrompe: «Ma prendere Moro è un controsenso, perché lui aveva idee diverse...», e Morucci: «Avremmo dovuto comprendere la complessità del sistema, mentre la visione ideologica porta a semplificare tutto». Le lettere di Moro prigioniero, che Morucci distribuiva durante il sequestro, portarono l'ex br a cambiare posizione e a schierarsi (senza successo) per la liberazione dell'ostaggio: «Ma io porto il peso della morte di Aldo Moro, al di là delle condanne che ho avuto». E Andreotti, che guidava il «fronte della fermezza» inutilmente contrastato dallo stesso Moro e dalla sua famiglia, sente anche lui una parte di quel peso? «No — risponde senza tradire emozioni — C'era una guerra, che altro potevamo fare? Qualcuno sosteneva che le lettere di Moro non fossero autentiche...». Manconi interviene: «Non qualcuno, senatore. Lei e il suo governo!». Andreotti taglia corto: «Sì, beh... C'era grande confusione. Fu un momento di grandissima sconfitta. Eravamo in guerra. C'erano i morti di via Fani, le loro vedove che minacciavano di bruciarsi in piazza se avessimo trattato con le Br».

Questo è un dettaglio che Andreotti racconta da trent'anni, e da trent'anni smentito dalle due vedove degli uomini della scorta, nonché da un'intercettazione telefonica di quei giorni, quando la moglie del maresciallo Leonardi chiamò la signora Moro per negare la stessa notizia riportata da quotidiano. Qualcuno lo ricorda il senatore, che però insiste: «Venne da me a dirlo, non credo fosse un'altra persona che si spacciava per lei». Alla visione andreottiana della «guerra», Luigi Manconi contrappone l'immagine di una «guerra civile simulata» dai terroristi, nonché «agevolata» da tanti fattori, tra cui le stragi impunite e i depistaggi degli apparati istituzionali. Andreotti risponde: «E' difficile fare chiarezza su personaggi ambigui... Il generale De Lorenzo (a capo del Sifar e dei carabinieri negli anni Sessanta, ndr) in punto di morte mi mandò il suo confessore a scusarsi per avermi dato qualche amarezza. Per fortuna oggi non mi sembra che ci sia un clima che possa far tornare a quei tempi». Morucci replica: «Non per merito della classe politica», e sostiene che la fine delle Br ha anticipato la fine del comunismo. Andreotti ascolta attento e chiede: «Avevate la sensazione di un grande influsso americano?». Morucci: «Certo, enorme». Perché, non era così senatore? «Insomma. Bisognerebbe distinguere periodo per periodo». Il dibattito finisce e gli ospiti si accomodano a mangiare qualcosa, chiacchierando fra loro più che con i due protagonisti della serata. Morucci regala ad Andreotti un suo libro, con tanto di dedica, il senatore ringrazia. Poi il commiato: «Lietissimo», «ciao».

Giovanni Bianconi
24 novembre 2008

da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!