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Autore Discussione: Loretta Napoleoni. La bancarotta resta dietro l’angolo  (Letto 2420 volte)
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« inserito:: Settembre 12, 2008, 10:32:19 pm »

La fine dell´illusione neoliberista

Loretta Napoleoni


La parola nazionalizzazione non fa parte del lessico del libero mercato, è una parola in disuso dalla caduta del Muro di Berlino, appartiene al gergo del socialismo reale. Da qualche mese, però, spunta spesso nelle prime pagine dei giornali color rosa, quelli dove si parla di economia e finanza. A usarla è proprio la generazione di politici che, ideologicamente ispirata dal padre del neo-liberismo, Milton Freedman, l´aveva cancellata dal vocabolario della globalizzazione.

Il primo a pronunciarla è il premier britannico, Gordon Brown, ex cancelliere dello scacchiere di Blair ed agguerrito oppositore delle politiche di nazionalizzazione del vecchio partito laburista. Di fronte all´assalto delle agenzie della Northern Rock, inciampata sulla buccia di banana dei muti subprime, New Labour tenta una serie di operazioni che non vanno in porto, tra cui l´intervento massiccio del tesoro. Alla fine Brown getta la spugna e nazionalizza la banca. A pagare i debiti saranno i contribuenti britannici, già vessati dalla crisi economica. Anche la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, i giganti dei muti americani, ricade sulle spalle della classe media americana ed avviene dopo il fallimento del Tesoro e della Riserva Federale di rivitalizzarle. È una decisone difficile ma Il pericolo all´orizzonte è un replay della crisi del 1929, riassunto in una singola parola: panico. Solo l´intervento massiccio dello stato lo può evitare. È paradossale, ma i maghi della globalizzazione, gli inventori della finanza creativa, i predicatori del non intervento statale in economia oggi sono come bambini viziati che hanno paura del buio e pretendono da quello stesso stato un tipo d´intervento di stampo socialista.

Il mondo cambia e noi con esso e le trasformazioni in atto oggi sono epocali al punto da gettare luce sui ruoli che istituzioni pubbliche e private devono ricoprire nella società civile. Nel modello socialista le prime non esistono e il mercato è sempre in balia dello stato che decide cosa, come e quando produrre. Il modello neo-liberista è esattamente l´opposto: ogni interferenza di quest´ultimo deve essere evitata. Quando applicati all´economia reale, nessuno dei due paradigmi funziona: nei paesi comunisti c´è carestia di merci e in quelli neo-liberisti eccessivo indebitamento. Socialismo e neo-liberismo sono modelli economici estremisti, che poggiano sull´ideologia, sono mere illusioni, ecco perché falliscono.

La crisi attuale sembra confermare quanto scritto da Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni, che la mano magica del mercato funziona solo se si muove all´interno di un sistema economico e finanziario ben regolato. La libertà non è licenza.

Ne sa qualcosa il fisco dei paesi dell´Unione Europea, la finanza creativa sottrae alle economie del vecchio continente decine e decine di miliardi di euro parcheggiati nei paradisi fiscali dell´Europa del nord. Il neo-liberismo non dà diritto all´evasione fiscale, questo il messaggio della Menkel quando inizia la crociata per il recupero di quei soldi e lo fa con una decisione che rimette lo stato al centro della società civile: minaccia il Lichtenstein dove sono nascosti 8 miliardi di euro sfuggiti al fisco tedesco.

Lo stato sembra quindi rialzare la testa per proteggere la nazione dal pericolo dell´olocausto economico, ma siamo lontanissimi dalla nascita di un nuovo modello. Con la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac il debito pubblico statunitense sale al 40% del PIL, si tratta di cifre da capogiro, ben più alte di quelle che trascinarono l´esperimento neo-liberista argentino nella voragine della bancarotta. Gli azionisti maggiormente penalizzati, quelli che perderanno tutto, sono le piccole banche regionali e provinciali e le società di assicurazione americane: il cuore economico della nazione. Chi invece ne esce bene sono le banche centrali e quelle private straniere che da mesi non comprano più «carta americana». E Washington firma in bianco cambiali per 5.000 miliardi di dollari per evitare che questi investitori volgano del tutto le spalle al dollaro e riducano Wall Street ad una piazza affari di provincia. A monte non c´è la volontà di salvare la classe media americana dalla povertà. Ed ecco la prova: entro la fine dell´anno il numero degli americani senza tetto che mangiano grazie ai buoni alimentari salirà da 30 a 35 milioni, pari all´11% delle famiglie. Per sfamarli ci vuole uno stanziamento di 280 miliardi di dollari che il parlamento da mesi non approva.

La manovra socialista, dunque, vuole salvare chi tiene le redini di un sistema economico agonizzante. Cosi gli Italiani si ritrovano a dover ripagare i debiti accumulati dalla gestione del carrozzone Alitalia. Anche qui lo stato interviene, de facto ne nazionalizza la parte scadente e poi vende quella buona alla cordata industriale che ha messo insieme. Il contribuente è doppiamente penalizzato: perché per anni ha usufruito di un servizio scadente di cui ora deve pagare i debiti.

Anche se entrata nel lessico neo-liberista, la nazionalizzazione è un atto disperato. Per salvare l´economia mondiale ci vuole un atto di grande umiltà: ammettere di aver sbagliato. Solo allora ci sarà spazio per una nuova teoria economica.

Pubblicato il: 12.09.08
Modificato il: 12.09.08 alle ore 11.01   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:52:49 pm »

La bancarotta resta dietro l’angolo

di Loretta Napoleoni

Olanda e Germania sono tra i pochi Paesi di Eurolandia che questa settimana non hanno dovuto presentare in fretta a furia misure d’austerità. A differenza dell’Italia, sulla quale sta per cadere la scure di Tremonti, queste nazioni sono solide e per ora non corrono il rischio di essere trascinate nel gorgo dell’insolvenza. Le altre, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna, da settimane lottano per la sopravvivenza.

La situazione è gravissima: come un de-ja-vu della crisi dei mutui spazzatura americani, solo che questa volta alla radice c’è il debito sovrano. Due anni e abbiamo raggiunto l’ultimo anello della catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata: a chi passare il debito? Alla Banca Centrale Europea (Bce)? Improbabile. Secondo uno studio della Royal Bank of Scotland, quello accumulato da Grecia, Spagna e Portogallo ammonta a circa duemila miliardi di euro, di cui almeno un miliardo si trova nei forzieri di Eurolandia. Economisti e analisti finanziari concordano che neppure la partecipazione attiva della Germania potrebbe sanarlo. Non ci sono abbastanza soldi. Ciò significa che per evitare il crollo del sistema bancario qualcuno dovrà fallire.

La prima in lizza è la Grecia. Sui mercati ormai tutti la danno per spacciata, solo la Bce le presta i soldi. I mille miliardi di euro messi a disposizione da Eurolandia non hanno convinto i mercati e senza di loro non si può procedere alla ristrutturazione del debito greco per ridurlo a cifre “pagabili”. Non rimane che la bancarotta e la successiva ristrutturazione come è successo per Argentina e Islanda. Nell’attesa che si arrivi a questa decisione e per attutire al massimo il colpo, la Bce rastrella sul mercato le obbligazioni greche, naturalmente utilizzando i soldi di noi i europei. Salverà questo sacrificio il sistema bancario? Non è facile dirlo. Come avvenne nel 2008, i prestiti interbancari all’interno e verso Eurolandia si stanno atrofizzando, segno che i mercati temono il peggio.

Il Libor, il London Interbank Offered Rate, quello al quale le banche si approvvigionano a vicenda, è risalito ai massimi del 2009, quando si temeva un congelamento totale dei prestiti interbancari. Allora intervenne la Riserva Federale, ma la Bce non ha i muscoli monetari per farlo. Fa paura pensare di essere tornati a quei momenti tragici del dopo Lehman e ancora più si teme il parallelo con la grande depressione del 1929 quando ci trovammo di fronte ad una crisi con due picchi, il secondo, quello micidiale, coincise con il crollo delle banche. A tenere le redini del destino di Eurolandia non sono i ministri delle Finanze ma il mercato.

Ed è per accattivarsi le sue simpatie che si è lanciata l’austerità, parola impronunciabile fino a poche settimane fa. Eppure da anni gli indicatori economici sono fuori dei paletti imposti dal trattato di Maastricht, solo mesi fa si sarebbero potute introdurre misure meno drastiche e improvvisate senza avere il fiato del mercato sul collo. Ma ormai lo sappiamo bene, questa classe politica lavora solo quando c’è la crisi e in gioco c’è la sua sopravvivenza, non quella del Paese che rappresenta, il resto del tempo fa spettacolo e campagna elettorale.

Le misure varate rispecchiano questa triste verità. Fatta eccezione della Gran Bretagna, dove un nuovo governo di coalizione è stato da poco eletto sulla piattaforma di austerità, tutti gli altri Paesi hanno raffazzonato una serie di tagli che colpiscono quella fetta sempre più piccola della popolazione che paga le tasse e che invece bisognerebbe sostenere nei momenti recessivi. Chi negli ultimi vent’anni ha intascato più del 60% della crescita del Pil, dagli Hedge Funds al crimine organizzato, non viene toccato perché ha imboscato i guadagni, ha evaso il fisco o semplicemente opera nel mondo dell’illegalità. Ecco uno dei motivi per cui i cittadini europei questa austerità non la vogliono.

In Italia si cerca di addolcire la pillola con l’usuale propaganda: si abbattono i salari nominali e quelli sociali, ma ci si vanta di non aver aumentato le tasse. Viene spontaneo pensare che il motivo sia solo lo scarso numero di chi le paga. Si condanna l’ennesimo obbrobrio edilizio per poterlo accatastare invece di far pagare una penale salatissima a chi lo ha commesso e costringere costoro anche ad abbattere queste costruzioni come avviene in Inghilterra e nella maggior parte dei Paesi civili. Propaganda, demagogia, austerità, neppure il bavaglio alla stampa salveranno la nostra classe politica e i loro tirapiedi dalla crisi economica. Che si tratti della tanto attesa resa dei conti?

26 maggio 2010
http://www.unita.it/news/economia/99198/la_bancarotta_resta_dietro_langolo
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