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Autore Discussione: News dal PAESE che il PD deve fare MIGLIORE.  (Letto 26349 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 17, 2009, 10:39:00 pm »

Le domande di un partito forte

di Anna Serafini


Cosa significa l’espressione “partito forte”? C’è qualcuno nel dibattito congressuale che non vuole un partito forte o addirittura lo vuole “debole”? La domanda piuttosto è un’altra: cosa rende forte un partito? È bene chiarire un punto spesso sotteso. A partire dalla caduta del muro di Berlino c’è chi nella dialettica politica presenta la propria posizione come quella di maggiore attenzione al tema del partito. È come se alcune posizioni fossero depositarie, più di altre, del bene del partito. È accaduto che non pochi sostenitori di tale impostazione, siano usciti poi dal partito stesso. Quel modo di sviluppare il confronto tra posizioni diverse è stato un grande danno per tutti, in quanto ha impedito per lungo tempo una discussione serena intorno ai tratti di un moderno partito.

Oggi la situazione è molto diversa. Non si tratta di un confronto interno ad una cultura politica, bensì di una discussione intorno all’identità culturale, politica e organizzativa di un partito popolare e riformista, frutto dell’apporto di diverse culture interne ed esterne ai partiti che hanno dato luogo al Pd. Nei testi delle mozioni sono comuni due aspetti: il rifiuto del nuovismo e del plebiscitarismo. È un fatto importante questo e una base solida per costruire il Pd. C’è tuttavia una differenza tra le mozioni sul temadel partito. Nella mozione Franceschini è più netta la scelta di una forma partito più legata alla natura del Pd come partito a vocazione maggioritaria e partito di governo. Questo nesso costituisce un filo robusto nel pensare in modo più adeguato la questione della laicità, del rapporto tra iscritto ed elettore e la stessa questione delle alleanze. Unpartito a vocazione maggioritaria non è un partito che da solo prende oltre il 51%, né un partito indifferente alla propria forza organizzata: è un partito che fa i conti con il fatto che i cambiamenti intervenuti hanno bisogno di sintesi avanzate che raccolganoil massimo del consenso e di decisioni certe.

Il nuovo riformismo si può definire tale in quanto, dalle questioni etiche alle questioni economiche ed ambientali, investe sulla costruzione di sintesi tra i diritti e i bisogni sempre più complessi di individui e gruppi. Oggi non sarebbe possibile, come già è avvenuto nel passato, un governo autorevole e forte né a livello nazionale, né a livello locale, se prima non esiste questo lavoro.Eper questo è necessario il Pd.Nonè possibile sommare centro e sinistra a livello di governo, se nonesiste una cultura di centrosinistra, che va costruita. Essere unpartito a vocazione maggioritaria significa essere il punto di riferimento della maggioranza delle cittadine e dei cittadini. Il PD deve essere quel partito che rende possibile il cambiamento del Paese perché capace di avere il consenso al cambiamento da parte della maggioranza del Paese.

17 settembre 2009
da unita.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:50:40 am »

26/10/2009 (7:26)  - PERSONAGGIO/2 IL CAMPIONE DELLA LAICITA'

Marino: "Prometto, non farò correnti"

Il chirurgo candidato: «Non voglio posti e niente accordicchi.

La mia sarà una battaglia culturale»

JACOPO IACOBONI
ROMA


Alle dieci e mezzo lo scienziato sfoggia il massimo del razionalismo, «ma perché soffrire e aspettare ancora tutta la notte, vabbè che siamo il partito del cilicio, ma i dati veri li sapremo solo domattina… andiamo a mangiare, dài». E ancora, «43 sezioni su mille statisticamente non vogliono dire nulla. Nulla. Lasciatevelo dire da me, ho studiato statistica, e ho vinto le primarie a Cambridge».

Certo, d’accordo. Però tutti intorno al comitato quasi esultano, e tirano il maglione rosso di Ignazio Marino, si appendono al suo zainetto, e c’è già chi dichiara un 15 per cento, raddoppio dei voti del congresso, visto lo spoglio parzialissimo che arriva via via. Vittoria a Riace, a Capranica, nel Viterbese, a Tarquinia, molto bene Milano e nel Nord urbano, ma anche a Napoli e Palermo, o in paesini dove al congresso ne aveva presi pochissimi, di voti, per esempio Fiumicino. Il botto a Corviale, Roma, quartiere popolarissimo, segno che ha fatto anche breccia tra gli operai, non solo tra quelli col master al Mit. «Il risultato è straordinario», dirà a notte inoltrata salutando il suo quasi 14 per cento. «Se la gara è stata una gara vera è grazie a noi, se si parla di certi temi è grazie a noi», dice.

E adesso? «Vogliamo un rinnovamento radicale del partito. Certo non farò mai una corrente, non voglio posti, non sono uomo da accordicchi; proporrò sei temi, e sosterrò chi ci sta. La nostra vittoria sarebbe dire basta con un partito di capibastone».
Una battaglia culturale, insomma, la battaglia dei diritti dei gay, della libertà di ricerca, delle staminali, della possibilità di adozione anche per donne single. Un Pd che non invecchia dibattendo della Binetti. Cita Le Monde, «hanno capito che siamo gli unici riformatori». Cita la mamma Valeria, ottantasettenne, che ha portato a votare in piazza Fiume, e alla fine lei dava più interviste di lui, «che bravo ragazzo, beh, sì, qualche volta discolo, ma come fa le punture lui…».

Ignazio le aveva appena fatto il vaccino antinfluenzale. Una scenetta tenera e buffa, la mamma che lo inseguiva per casa proprio al momento di uscire, il piccolo cane shitsu impazzito a correre di qua e di là, il figliolo paziente che prepara la siringa… Incarna una questione settentrionale, Marino, «siamo andati benissimo a Milano, Venezia, Torino», mentre al Sud poteva capitare, lo dicono nel suo staff, che agli incontri elettorali in qualche posto si facesse fatica a superare qualche decina di persone. Racconta Giuseppe Civati, in serata arrivato da Monza, che una vecchina durante uno dei suoi viaggi siciliani gli ha confidato «ma ‘stu Marino chi è, ‘nu democristiano? Io la Dc non la voto».

Insomma, non era conosciutissimo. Così la soddisfazione ora è doppia. Michele Meta: «Non siamo più una mozione a macchia di leopardo, siamo in tutta Italia!». Paola Concia: «Che strizza, che c’ho». Telefona Bettini. Fuma Scalfarotto. Filma Diego «Zoro» Bianchi. Anima Rosa Calipari. Ignazio: «In tv prima di questi ultimi giorni quasi non ci finivo», poi per finirci c’è voluta una lettera a Sergio Zavoli. Il resto l’ha fatto, con armi antiche, il terzo uomo, che ha perso 15 chili ma conserva una risata alla Fabrizi. Bersani e Francheschini oscuravano il confronto a tre sul semiclandestino Youdem? Marino andava a ripetere alla Garbatella le stesse cose che l’avevano visto, probabilmente, vincere in tv. I due sfidanti in testa sceglievano Piacenza e Castellammare per l’ultimo giorno? Ignazio se ne stava proprio nella contestatissima Roma, la città dello scandalo del governatore della Regione. Nanni Moretti preferisce Franceschini, Ignazio incarna l’Italia meno politichese di Paolo Virzì, il regista di «Ovosodo», che l’ha votato.

L’hanno sostenuto uomini imprevisti, Pietro Ichino, Moni Ovadia, assai deluso da Veltroni, l’industriale Pasquale Pistorio, sedotto dal comune no al nucleare.
L’ha irriso Massimo D’Alema, «Marino è un mio collaboratore che s’è preso la libertà di candidarsi». E’ notte quando, abbracciando gli sfidanti nella sede del Pd, Marino può ripetere «anche a me piace la vela, ma le barche piccole su cui ho imparato da piccolo a Genova, le derive».

Non il Pd alla deriva che hanno costruito gli altri.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 26, 2009, 11:02:49 am »

Gli assetti

La prima esigenza di Bersani è tenere unito il partito

L'ex ministro pensa alla squadra

L'ipotesi della Bindi presidente

Il capogruppo alla Camera può restare ai franceschiniani

   
ROMA — Alle nove e mezzo di sera Pier Luigi Bersani è segretario del Pd con il 53 per cento dei voti. Ma sono proiezioni, le prime, e per questa ragione l'ex ministro del governo Prodi invita tutti i suoi sostenitori alla «cautela»: «Non sta andando male, ma prudenza». Se non altro perché i numeri sono ancora ballerini: c'è una forbice del 4 per cento, il che significa che quel 53 potrebbe diventare 57 ma anche 49. Rientrato da Piacenza, dove ha votato, Bersani si è asserragliato insieme ai suoi nella sede del suo comitato elettorale a Roma: preferisce aspettar lì i primi risultati, insieme ad alcuni dirigenti della sua mozione. Solo alle 23, entrando nella sede del Nazareno, finalmente può dire: «Dentro la vittoria di tutti c'è anche la mia».

Anche Massimo D'Alema comincia a commentare: «È stata una scelta chiara: si è visto che gli iscritti non sono marziani». Prima, nel quartier generale di santi Apostoli, l'ex premier aveva invitato tutti alla prudenza: niente dichiarazioni anzitempo. C'erano comunque già voti confortanti: quelli della Lombardia e del Piemonte con una certa celerità e promettono bene. Ma è ancora troppo presto. L'attesa del risultato definitivo è snervante, anche perché a seconda del margine di vantaggio l'ex ministro del governo Prodi potrà usufruire di uno spazio di manovra che gli consenta di metter mano agli organigrammi di partito con una certa disinvoltura, senza la preoccupazione di possibili scissioni. Per la presidenza del Pd Bersani ha già in mente un nome. Quello di Rosy Bindi. Anche perché le donne che sostengono l'ex ministro ritengono che sia lei la persona giusta, come diceva qualche giorno fa Livia Turco: «Ci vuole assolutamente una donna come presidente, di questo siamo convinte tutte, e ci sono solo due nomi possibili, quello di Bindi e Finocchiaro, ma Anna è già capogruppo al Senato».

E a proposito di capigruppo, è assai probabile che almeno quello della Camera cambi. E' difficile che il franceschiniano Antonello Soro mantenga quella poltrona. E non è solo una questione di spartizioni tra correnti. In molti si sono lamentati per la mancanza di polso dell'attuale presidente dei deputati. Un esempio per tutti, la vicenda degli assenti del Pd nella votazione sullo scudo fiscale. Quella volta non erano stati lanciati i soliti messaggi insistenti in cui si chiede l'obbligo di presenza, come si fa nelle occasioni particolari. Chi potrebbe prendere il posto di Soro? L'avrebbe voluto volentieri Piero Fassino quando credeva che vincesse Franceschini. Così non è stato.
In questi giorni si era fatto anche il nome di Enrico Letta. Ma non è detto che la poltronissima della presidenza del gruppo a Montecitorio finisca a un esponente della mozione Bersani. Quel posto potrebbe diventare oggetto di trattativa con l'area che fa capo a Franceschini. Non è un mistero per nessuno, infatti, che dentro il Pd gli ex popolari come Franco Marini e Beppe Fioroni abbiano già lanciato un'offensiva diplomatica nei confronti di Bersani e di D'Alema.

L'altro giorno, in Transatlantico, Fioroni diceva sorridendo: «Io comunque vada vinco». Una battuta, ma fino a un certo punto. Del resto, è nell'interesse di Bersani tenere il partito il più possibile «unito»: l'ex ministro di Prodi lo ha ripetuto molte volte e lo ha ribadito anche ieri sera con i suoi. Sembra invece tramontata l'ipotesi che, pure era circolata, di un'offerta della presidenza del gruppo della Camera a Franceschini. Lui non accetterebbe mai: piuttosto l'ex segretario sembra intenzionato, almeno per ora, a capeggiare l'opposizione interna. con gran piacere di Bersani, il quale è convinto che assumendo quel ruolo Franceschini arginerà l'emorragia dei veltroniani, quasi tutti assai poco propensi alla trattativa, alcuni intenzionati a defilarsi se non ad andarsene. Da segretario Bersani dovrà giocare un'altra partita tutta interna.
Quella con i "suoi" alleati. In particolare con Massimo D'Alema. Quanti dirigenti vicini al presidente della Fondazione Italianieuropei verranno piazzati nei posti-chiave del partito? Si parla già di Gianni Cuperlo all'informazione, il ruolo ricoperto finora da Paolo Gentiloni. E l'importanza che avranno i dalemiani nel nuovo organigramma sarà un fattore nient'affatto trascurabile per il futuro del Pd.

Maria Teresa Meli

26 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 27, 2009, 06:57:33 pm »

Il segretario del Pd in una intervista a Vespa per il suo nuovo libro "Donne di cuori"

Domattina l'ex ministro vede il leader dell'Idv Antonio Di Pietro

Bersani recupera la Canzone popolare

"Pretendo un rapporto civile con Berlusconi"


ROMA - Alleanze e rapporti con la maggioranza. Pierluigi Bersani non perde tempo. Domattina il neosegretario del Pd vedrà Antonio Di Pietro per cominciare quel dialogo per gettare le basi di un accordo politico in vista delle prossime elezioni regionali. E, nel frattempo, lancia un messaggio a Berlusconi: "Con lui pretendo un rapporto civile".

Colonna sonora. Bersani cambia colonna sonora. Durante la campagna voti delle primarie si era affidato a Vasco Rossi dicendo, a proposito dello stesso linguaggio da usare al Nord come al Sud, "siamo solo noi che possiamo farlo". Da segretario, invece, rispolvera la "Canzone popolare" di Ivano Fossati, che fu la colonna sonora della stagione dell'Ulivo, "perchè allora c'era un movimento di riscossa civica che va recuperato". Su queste note affronta, in una intervista a Bruno Vespa per il suo nuovo libro "Donne di cuori", il rapporto con Silvio Berlusconi.

Rapporti con premier. "Un rapporto civile con il presidente del Consiglio? Non solo sono disposto a cercarlo - dice a Vespa -, ma lo pretendo. In un Paese normale, il fatto che il capo del governo e un suo predecessore come D'Alema s'incontrino a una cerimonia pubblica e si stringano la mano non può essere una notizia. Ma Berlusconi ci metta un pò di suo. Non può essere aggressivo, non può ridurre al mutismo il Parlamento. Con 25 voti di fiducia e 38 decreti legge omnibus in un anno e mezzo, l'opposizione è frustrata".

No al proporzionale. Nella stessa intervista Bersani si dice contrario al ritorno al proporzionale: "Va bene il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la compensazione tra i maggiori poteri al presidente del Consiglio e i maggiori poteri di controllo del Parlamento. Su questi temi ci siamo, come sul federalismo. Ma ogni progetto diventa più credibile se partiamo da una costola che si chiama riforma della legge elettorale". "Non bisogna consentire ai partiti di nominare i parlamentari - dice ancora il segretario Pd - perché adesso il governo ha il comando della sua maggioranza. La deformazione del sistema nasce da qui. Tutti i partiti interessati a una discussione di questo genere sono i benvenuti. Sono contrario a un ritorno al sistema proporzionale - precisa Bersani -. Credo che si debba dare spazio ai collegi territoriali, in modo da avvicinare i candidati al cittadino, e discutere poi su un buon equilibrio tra maggioritario e proporzionale". Quanto all'elezione diretta del Presidente della Repubblica o del primo ministro, Bersani risponde: "Nelle democrazie del mondo, sistemi parlamentari e sistemi presidenziali hanno la stessa dignità. Ma il nostro problema è di arrestare una degenerazione che ci porta a un sistema padronale. Noi dobbiamo partire, perciò, da un parlamentarismo rafforzato".

(27 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 11, 2009, 04:37:05 pm »

VENT'ANNI

di Arturo Parisi


A venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, con la elezione di Pierluigi Bersani alla guida del Pd e la ricomposizione unitaria della dirigenza del partito attorno alla sua segreteria, si conclude una fase di ridefinizione del nostro sistema politico.

Anche se il contesto istituzionale e sociale e' ancora lontano da una stabile definizione, ritengo che la presenza del Partito democratico sulla scena politica sia ormai un dato stabile con il quale tutti dovranno fare stabilmente i conti.

Cosa sia il Pd e' una domanda che non ha ancora ricevuto una compiuta risposta. In particolare non sappiamo se esso possa essere considerato veramente un partito nuovo, o invece un nome nuovo per la continuazione e combinazione di storie passate. E neppure sappiamo come l'eventuale ritorno alla legge elettorale proporzionale sostenuta da una parte qualificata del partito influira' sulla rappresentanza e sulla rappresentazione e quindi sulla natura e sulla azione del Pd.

E' tuttavia indiscutibile che, dopo un percorso al quale gli ulivisti hanno partecipato da protagonisti, il Pd si trova oggi ad incorporare nel simbolo e nel nome il progetto che ha guidato i nostri passi lungo il ventennio che oggi si conclude: i quasi sedici anni che ci separano dal 2 febbraio del 1995 quando per la prima volta irruppe sulla scena politica il segno dell'Ulivo, e, prima ancora, ad immediato ridosso dalla caduta del Muro, gli anni della battaglia referendaria per le riforme istituzionali.

Il successo, per la terza volta, delle primarie, un altro istituto imposto nella politica italiana dalla nostra battaglia, documenta inoltre l'esistenza di una consistente domanda che al Pd stabilmente si rivolge. Come dicemmo la sera delle primarie, i 3 milioni di cittadini, che, dalla Lombardia alla Campania, dalla Puglia al Lazio, si sono recati ai seggi hanno dato la misura della quantita' della domanda, non quella della qualita' della risposta, il segno rinnovato di una attesa, non la condivisione di una pretesa.

Resta comunque difficilmente discutibile che la elezione del Segretario del Pd, a conclusione delle prime primarie realmente competitive, metta fine ad una fase.
Per molti questo e' l'approdo cercato, per altri l'approdo possibile, per alcuni la realizzazione dell'Ulivo per altri il suo fallimento.

Dentro questa vicenda gli ulivisti hanno partecipato da protagonisti, mescolandosi ogni volta tra gli altri e investendo la loro liberta' a partire dal giudizio sul presente e dalla scommessa sul futuro, mai come semplice riproduzione del passato.
Dopo venti anni ci troviamo su questo traguardo, accomunati dal ricordo delle battaglie passate, di quelle perse non meno che di quelle vinte, non accomunati invece dal giudizio su che fare nel futuro. Non pochi sono quelli che si sono separati dallo stesso partito ritenendo vana ogni scommessa. Alcuni pensano di aver vinto la propria scommessa, altri sanno di averla persa, altri infine l'hanno persa e non lo sanno.

Una fase, ripeto, si e' comunque conclusa. Sia che il Pd sancisca il compimento, sia che il Pd decreti il fallimento del progetto dell'Ulivo, la continuazione di ogni azione distinta di ulivisti in quanto ulivisti finirebbe per essere praticata e letta con gli occhi della nostalgia. Questo si' sarebbe un fallimento. La nostalgia e' infatti il sentimento di certo piu' incompatibile con un progetto come il nostro che e' stato pensato da sempre al futuro.

Se l'azione degli ulivisti e' superata, superata e' percio' la funzione che questo sito ha finora svolto in riferimento alla quotidianita' della poltica,

Se il tempo dell'Ulivo come annuncio e' concluso e superata una azione distinta degli ulivisti, resta tuttavia che una stagione che si e' chiamata Ulivo e' esistita, una stagione nella quale sono esistiti gli ulivisti.

Sarebbe un peccato che di questa stagione si perdesse memoria: una grave mancanza verso chi in questi anni per questo progetto si e' speso, ma soprattutto la perdita di un riferimento per valutare e indirizzare la azione presente.

Per questo motivo, penso che Ulivisti.it, potrebbe dare un suo ulteriore contributo se si mettesse al servizio di questo obiettivo dismettendo la funzione finora svolta. Riconvertito come archivio, esso potrebbe custodire la memoria, dei fatti, delle idee, delle azioni che hanno riempito e animato quelli che sono stati gli anni dell'Ulivo, gli anni degli ulivisti.



11 novembre 2009

Newsletter ulivisti.it
 
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 17, 2009, 10:43:35 am »

17/11/2009 - VERTICE FAO

Una tragedia che riguarda anche noi
   
FRANCO BRUNI


Al vertice Fao il Papa ha tenuto a sottolineare che la fame nel mondo non deriva, né deriverà in futuro, dall’eccesso della popolazione rispetto alle risorse alimentari potenzialmente disponibili. Il problema è come le risorse vengono organizzate e distribuite. Vanno ripensate le sovvenzioni distorsive a chi produce il superfluo, limitate le speculazioni, favorito l'accesso ai mercati mondiali delle produzioni dei paesi più poveri.

Il settore agricolo-alimentare, come e più di altri, mette alla prova la capacità del mondo di godere i benefici dell’economia di mercato globale, governandola con regole opportune. Non si può andare «contro i mercati» senza finire nella giungla di un litigio protezionista il cui costo grava soprattutto sui più deboli. Né si può lasciare i mercati senza regole e interventi di coordinamento, che li aiutino a svilupparsi conformemente alle diverse esigenze di paesi che hanno differenti gradi di sviluppo, modelli di consumo e possibilità produttive.

E’ triste che il vertice non abbia visto un aumento impegnativo degli stanziamenti contro la fame. Eppure, almeno nel lungo periodo, il problema non è tanto quello della quantità di fondi stanziati dai Paesi ricchi, quanto quello della qualità della cooperazione globale. Questo è vero, più in generale, per gli aiuti allo sviluppo che, come suggerisce il terzo dei «Cinque principi di Roma», devono curare la fame anche indirettamente, eliminando le «cause di fondo della povertà». Gli aiuti allo sviluppo, pur crescendo, non raggiungono ancora un terzo dell'1% del Pil dei Paesi donatori. Da parte di alcuni Paesi, fra i quali il nostro e gli Usa, sono nettamente inferiori. In un periodo di tumultuosa trasformazione dell’economia mondiale occorrerebbe di più. Perché la trasformazione significa, inevitabilmente, rapidi arricchimenti e, insieme, rapidi impoverimenti, di regioni, Paesi e, al loro interno, gruppi sociali. Gli aiuti sono un modo per ridistribuire il reddito a livello internazionale. È probabile che, anche a livello nazionale, e anche all'interno dei Paesi ricchi, vada riscoperta l'importanza degli interventi ridistributivi, che oggi godono di cattiva fama per i modi nefasti con cui sono spesso stati realizzati.

Tutto ciò richiede cooperazione e un certo grado di concordia politica. Richiede regole globali e istituzioni internazionali forti e indipendenti dalle contingenze delle politiche nazionali e delle mutevoli relazioni internazionali. D’altra parte il «buon governo», del mondo e dei Paesi che lo compongono, è una condizione non solo per re-distribuire bene ma anche per produrre di più. Se è vero, come ha detto Benedetto XVI, che ci sarebbe da mangiare per tutti, non dobbiamo scordare, andando oltre lo specifico del problema alimentare, che per assicurare redditi pro capite adeguati in tutto il mondo, in decenni in cui ancora la popolazione cresce rapidamente, la produttività deve continuare a crescere: la re-distribuzione non funziona in un mondo dove rallenta la produzione.

Ma per assicurare un livello elevato e sostenibile di crescita economica globale serve lo stesso tipo di cooperazione e lo stesso dominio delle buone regole che sono indispensabili per re-distribuire il reddito e aiutare i più deboli. Oggi, per esempio, serve un coordinamento mondiale che favorisca, per qualche tempo, il contenimento della spesa e della crescita delle economie più avanzate insieme a un'accelerazione dei Paesi emergenti, che eviti l'ingolfamento dei mercati delle principali materie prime, che regoli il consumo di energia, che contenga la propensione di alcuni a consumare e quella di altri a risparmiare, pur convogliando in modo fluido e sicuro, tramite mercati finanziari efficienti e stabili, i fondi di chi spende meno del suo prodotto verso chi, temporaneamente, fa il contrario.

La fame è un aspetto tremendo del disordine di un mondo che non sa governarsi e cresce in modo diseguale e instabile. La crisi che stiamo attraversando rischia di peggiorare le cose se riduce il grado di integrazione dell’economia globale, se suscita gli egoismi e incoraggia ciascuno a chiudersi nei suoi confini oscillando fra protezionismo e concorrenza furbesca. Ma la crisi è anche l'occasione per fare il contrario: rinsaldare la cooperazione fra chi ha capito meglio che stiamo tutti sulla stessa barca, darsi regole comuni e rispettate per i grandi mercati globali, rafforzare le agenzie e le istituzioni internazionali. Far funzionare forme di «autorità sopranazionale» è insieme un'utopia, un segno di profondo realismo e il modo per tentare davvero di sradicare la fame.

franco.bruni@unibocconi.it
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